Kibiti: dove musulmani e cristiani lavorano insieme
Nata una ventina di anni fa, fatta crescere dalle missionarie della Consolata e fecondata dalla vita spesa da padre Adalberto Galassi, l’«Unione di musulmani e cristiani del Rufiji» (Uwawaru) sta realizzando progetti di sviluppo finanziati da varie entità della Regione Marche. La solidarietà tra Nord e Sud rende possibile anche la convivenza pacifica e produttiva di cristiani
e musulmani.
Durante il mio primo viaggio in Tanzania, nel 2007, parlando con suor Zita Amanzia Danzero, missionaria della Consolata, nota studiosa ed esperta di islam e del mondo musulmano in generale, sentii per la prima volta parlare di UWAWARU (Umoja wa Waislamu na Wakristu Rufiji, Unione di musulmani e cristiani del Rufiji). L’esperienza di un’associazione di musulmani e cristiani, nata nel 1998 con lo scopo di impegnarsi insieme nello sviluppo, nell’aiuto e nel progresso della propria comunità, mi interessava proprio.
Dopo aver respirato polvere rossa per chilometri e chilometri, lungo la strada che va a sud, in Mozambico, arrivammo «rosse» a Kibiti, un villaggio in pieno bush, dove le missionarie della Consolata sono presenti nella missione dal 1991 con dispensario, mateità e scuola matea per le famiglie dei villaggi vicini.
uniti tutto è possibile
Quest’area, attraversata dal fiume Rufiji, è una delle più depresse del Tanzania, completamente abbandonata dal governo. I villaggi sono di case di fango e la gente è visibilmente provata dalla povertà. Acqua e luce sono un miraggio.
La popolazione di questi villaggi è costituita in prevalenza da musulmani tanzaniani; ma ci sono anche alcuni arabi, arrivati diversi secoli fa da Zanzibar e Arabia Saudita; tra di loro sono molti i fondamentalisti.
Sono riuscita a incontrare tre dei rappresentanti dell’Uwawaru, due musulmani e uno cristiano cattolico. Risposero a tuo alle mie domande, ma con una voce unica. Tutti e tre ripetevano la parola insieme. «Insieme ci siamo resi conto che era fondamentale trovare una soluzione per il futuro dei nostri figli, delle nostre famiglie. Insieme abbiamo parlato e deciso di unirci per dar vita a un’associazione che operasse adesso e in futuro non secondo gli esclusivi dettami religiosi degli uni o degli altri, ma per il progresso di questa zona e per il bene del villaggio, della comunità».
Avevo di fronte tre semplici uomini la cui saggezza e perspicacia erano disarmanti per me che venivo da un mondo dove il terrorismo islamico aveva creato un’islamofobia dilagante tanto da non concepire possibile il dialogo interreligioso. E a 9.000 km di distanza dal mio mondo, in una zona di povertà estrema ho capito davvero le parole di amici e saggisti che insistevano sull’esistenza di vari tipi di islam. E l’islam africano di questi vecchi capi, non ancora contagiato dal fondamentalismo che pur iniziava già a farsi strada, era tutt’altra cosa da quello da me temuto.
l’identità etnica prevale su quella religiosa
Le popolazioni della zona del Rufiji sono musulmane, ma si rifanno a secoli di tradizioni, insite nel dna africano, di accoglienza, solidarietà, altruismo e rispetto.
Piena dei miei pregiudizi su fondamentalismo e guerra santa, continuai a interrogare i tre capi dell’Uwawaru, chiedendo loro come fossero così certi che le future generazioni potessero continuare a portare avanti i principi di questa associazione insieme.
Mi ero già imbattuta in altri villaggi alla periferia di Dar es Salaam in gruppi di giovani fondamentalisti, indottrinati dai sauditi che da anni avevano scelto la costa dell’Est Africa per una campagna di proselitismo. Ma i due musulmani mi spiegarono con estrema semplicità la loro realtà. «Noi siamo nati e cresciuti insieme. Noi siamo africani e tanzaniani prima ancora che musulmani e cristiani. Noi siamo fratelli, nonostante i nostri avi vengano da posti diversi. Per noi esiste un unico Dio che noi musulmani chiamiamo Allah, i cristiani invece Gesù. Il rispetto vissuto nella povertà e nelle difficoltà di questa zona non porterà mai uno di noi a far del male a un fratello tanzaniano solo perché non musulmano.
E anche in futuro, i nostri figli conserveranno la memoria e le esperienze dei loro padri e non succederà nulla. Sicuramente ci saranno in Tanzania anche gruppi influenzati da fondamentalisti, ma il nostro popolo è stato forgiato dall’esempio di vita e dagli insegnamenti del Mwalimu Nyerere (presidente del Tanzania dal 1964 al 1985) che ha saputo istruire le menti e i cuori dei tanzaniani, dimostrando come la pace e la collaborazione siano alla base della civiltà di un popolo. Sono certo che i nostri figli sapranno cosa fare della loro vita», conclude Iddi Rashidi.
Dalla convivenza alla
cooperazione
Uno dei momenti fondamentali di apertura al dialogo con i musulmani di Kibiti, racconta suor Ida Luisa Costamagna, è stato la partecipazione a un funerale insieme al cappuccino padre Alfeo. «Saputo della morte di un importante capo musulmano del villaggio, andammo a dare il pole, le condoglianze. Furono sorpresi e apprezzarono il gesto di vicinanza e condivisione nel lutto. Ricordo che ci togliemmo le scarpe e pregammo con loro. Certamente quel gesto ci aprì le porte non solo delle loro capanne, ma di una convivenza tranquilla e rispettosa, che continua ad andare avanti benissimo. Fu allora che iniziammo seminari, momenti di scambio e di preghiera insieme che continuano ancora oggi».
«Ricordo la profonda gioia – continua suor Zita – e il nuovo senso di missione sperimentati durante il mio primo incontro con un gruppo di musulmani e cristiani in questa zona. Narrai loro semplicemente il mio percorso verso la comprensione della loro fede e recitai in arabo la prima sura del Corano. I musulmani si mostrarono sorpresi e felici allo stesso tempo. Era infatti la prima volta che sentivano una suora cattolica parlare la lingua della loro fede. Si susseguirono altri incontri e crebbe anche un rapporto di stima reciproca. Dapprima riflettemmo insieme sui molti problemi presenti nella società odiea. Questo ci convinse dell’importanza di incontrarci, musulmani e cristiani, per ulteriori riflessioni e formazione. Fu programmata una serie di seminars su temi sociali come: Aids, aborto, spaccio e uso di droga, diritti umani di donne e bambini».
Dopo numerosi incontri nacque l’associazione Uwawaru. Gli inizi si devono all’opera del padre cappuccino e di alcune missionarie della Consolata; ma la nascita ufficiale risale al 1998. Non fu un cammino facile, dato che in quest’area c’è una forte presenza di musulmani integralisti che spesso minacciavano i musulmani di buona volontà che lavoravano alla formazione di tale Unione. Arrivarono al punto di rivolgersi al governo centrale, dicendo che l’Unione era haram -proibita- secondo il Corano.
Ma l’iniziativa riuscì ad affermarsi grazie alla tenacia di un altro missionario, padre Adalberto Galassi, maceratese, scomparso precocemente a 61 anni, nel 2002. Da quel momento suo fratello Vittorio ha continuato a portare avanti le opere avviate dal missionario scomparso e continua ancora oggi, con attività di sensibilizzazione a sostenere i progetti dell’Uwawaru e altre opere della parrocchia di Kibiti (vedi M.C. maggio 2008).
All’inizio del 2003, tre mesi dopo la morte del missionario, l’Unione ottenne il riconoscimento ufficiale del governo tanzaniano. L’anno seguente, nel mese di novembre fu organizzato un incontro per riflettere insieme su un’iniziativa comune a beneficio dei membri dell’Unione e della popolazione locale. Così fu deciso un progetto per lo sviluppo dell’agricoltura; progetto avviato e continuato grazie al sostegno degli amici marchigiani che hanno coinvolto anche l’Iscos Marche (Istituto sindacale per la cooperazione e lo sviluppo).
Sicurezza Alimentare
e lotta alla malaria
Nel 2009 mi trovavo proprio a Kibiti, e là incontrai Vincenzo Russo, un esponente dell’Iscos Marche, e Ilaria Bracchetti, incaricata di accompagnare l’Uwawaru e lo svolgimento del progetto di agricoltura. Mi entusiasmò da subito il progetto che l’Iscos Marche aveva pensato di realizzare per lo sviluppo agricolo e la lotta alla malaria nel distretto del Rufiji. È un’opera grandiosa che mira a costituire una vera e propria cornoperativa agricola. La somma stanziata è di 360 mila euro, co-finanziata dalla Regione Marche, Provincia di Macerata, Pensionati Cisl Marche e Iscos Marche.
«Il progetto – mi spiegò Vincenzo Russo – si concentra all’interno dei due sottodistretti di Kibiti, con 78.384 abitanti, e di Ikwiriri, con 25.339 abitanti. È una zona dove non ci sono infrastrutture, è difficile trovare acqua potabile e la situazione sanitaria è allarmante. Gli obiettivi del progetto sono essenzialmente due: il primo è la riduzione della povertà, attraverso lo sviluppo della produttività agricola della zona, la commercializzazione delle produzioni locali e l’aumento dei redditi delle famiglie dei due sottodistretti; il secondo, altrettanto fondamentale, è il miglioramento dello stato di salute della popolazione, contrastando l’incidenza della malaria».
I partner del progetto sono i membri dell’Uwawaru, con le relative famiglie. è l’associazione che gestisce in prima persona gran parte delle attività; il distretto del Rufiji assicura il supporto istituzionale al progetto, tramite agronomi, uffici sanitari, locali e amministrativi; la diocesi di Dar es Salaam, che già gestisce i due dispensari della zona, garantisce credibilità e fiducia nell’intervento.
Vincenzo continuò a snocciolare le principali attività legate al progetto: realizzazione di una campagna formativa finalizzata a migliorare le conoscenze agronomiche e gestionali degli agricoltori dei due sottodistretti; formazione e supporto di un’associazione promuovente l’agricoltura meccanizzata; creazione di punti d’accesso alla foitura di materiali e strumenti agricoli a prezzo agevolato anche conpagamenti “in natura”; costruzione della sede dell’Uwawaru, con magazzino e rimessa per gli attrezzi; acquisto e messa in funzione dei macchinari agricoli e di trasporto (trattore, carro agricolo, erpice, camion, etc.); sperimentazioni di nuove colture e pratiche agronomiche; messa in produzione di 40 ettari di terreno; studio sulla commercializzazione dei prodotti dei due sottodistretti, per accorciare e migliorare la filiera e ottenere un giusto guadagno dalla produzione.
«I beneficiari del progetto agricolo non sono solo i membri dell’Uwawaru con le relative famiglie (4 mila persone circa), ma anche altri 400 e più agricoltori di Kibiti e Ikwiriri, oltre i 600 neonati e loro mamme e più di mille persone che beneficeranno della profilassi contro la malaria. Speriamo di realizzare il tutto in tre anni», concluse Vincenzo.
entusiasmo contagioso
L’entusiasmo di Vincenzo e di altri membri dell’Iscos Marche che si sono alternati era contagioso. Ancora una volta ebbi la prova che i progetti efficaci, i cui finanziamenti vanno totalmente a destinazione, non sono fatti dalle organizzazioni inteazionali di cooperazione, ma da Ong senza potere di acceso ai famosi fondi mondiali e generalmente sconosciute alla massa, benché operino da tempo in numerosi paesi del mondo.
Non mi stupì il fatto che dietro a un progetto del genere ci fosse la Regione Marche, la Provincia di Macerata, i pensionati marchigiani della Cisl e l’Iscos Marche. Li avevo conosciuti bene i marchigiani durante i miei anni di studio a Macerata: gente onesta, brillante e soprattutto buona.
Tanto di cappello ai marchigiani: di fronte a un progetto di tal valore sociale ed economico, lasciatemi dire che possiamo sfatare il mito del marchigiano «tirchio»!
Eppur si muove
A distanza di un anno chiamai Ilaria Bracchetti, che rappresenta l’Iscos Marche nella gestione del progetto direttamente sul terreno in Tanzania. Ho sempre apprezzato la volontà e la determinazione di Ilaria, che è la sola mzungu non missionaria in quella zona difficile. «Sono arrivata a Ikwiriri nel settembre 2009 – mi scrisse Ilaria -. In quell’anno sono state avviate le attività di campo vere e proprie. Il mio impegno si è focalizzato nel cornordinamento e appoggio al partner locale, l’Uwawaru, per coinvolgere la popolazione nella organizzazione di una cornoperativa agricola, nella campagna per la lotta alla malaria e nella costruzione dei locali necessari, terminati all’inizio dello scorso settembre».
Le fotografie inviate da Ilaria alla Iscos Marche descrivono con chiarezza la nuova sede della Uwawaru: essa è costituita di un magazzino, tre uffici, una sala riunioni, con un computer in funzione, e relativi annessi (bagni, casetta del guardiano, cistee per l’acqua e fognature) per un totale di 193 mq. Il metodo adottato, cioè la partecipazione della gente, l’utilizzo di manodopera e materiali reperibili in loco, ha rallentato i tempi per l’ultimazione dell’edificio, ma hanno contribuito ad aumentare il senso di appartenenza del progetto al gruppo coinvolto.
«Nella scorsa stagione agricola, che va da novembre a marzo, si è sperimentata la coltivazione dei primi 10 acri di terreno. Per la ristrettezza nei tempi di pianificazione, non si sono avuti i risultati sperati», continua Ilaria. «In compenso l’esperienza è stata un buon tavolo di prova per capire sia le potenzialità tecniche dell’associazione che per testae le capacità di cornordinamento».
«Benché fin dalla sua nascita si sia sempre dimostrata volonterosa, l’Uwawaru ha mostrato scarsa capacità manageriale, non avendo l’esperienza necessaria. Perciò, l’anno passato è servito, soprattutto, per iniziare ad allenare l’Associazione in campo organizzativo, per affrontare e programmare il carico di lavoro e le fasi inerenti alla realizzazione del progetto».
«La base volontaria su cui opera l’Uwawaru – continua Ilaria – mi ha obbligato ad aggiustare le mie aspettative circa tempi e modalità di lavoro. Sicuramente anche la mia estraneità alla comunità, la mia presenza come “specialista” del tutto scollegata dal contesto missionario con cui in precedenza l’associazione si era rapportata, ha destato timori e riserve che solo il martellante e quotidiano lavoro ha un po’ dissolto, rendendo così possibile instaurare un rapporto di fiducia.
Inoltre, il contesto di vita in un villaggio nel bush tanzaniano è stato sicuramente difficile per me stessa e non privo di momenti di sconforto o di paura di non farcela. Ma la convinzione che con la tenacia si possano vincere le difficoltà e le resistenze, mi ha portato comunque a continuare ed affrontare questo secondo anno con nuove idee e la speranza che il lavoro svolto fin qui possa cominciare a dare frutti concreti».
crescere insieme
Anche Vincenzo Russo, responsabile del progetto Iscos Marche, ribadisce le difficoltà iniziali nell’accompagnare un gruppo di persone nella formazione di un’associazione economicamente sostenibile e indipendente. «Il processo di costruzione della sede di lavoro ha rappresentato non solo la realizzazione pratica, ma una crescita “didattica” e tecnica dell’associazione. La componente agricola non ha avuto le rese sperate. Purtroppo abbiamo iniziato tardi, a settembre, e non è stato possibile impostare il lavoro come avremmo desiderato, ma siamo fiduciosi».
Vincenzo conclude la chiacchierata con la prospettiva e l’auspicio che in futuro l’Uwawaru diventi un’entità che si autosostiene e autonoma. Da parte mia, auguro soprattutto che l’«Unione dei musulmani e cristiani del Rufiji» diventi un esempio contagioso. Nata e cresciuta indubbiamente con il sostegno dei missionari, che hanno ascoltato, consigliato e pungolato nel cammino di unione per un fine di sviluppo comune a prescindere dalla differenze di fede, l’Uwawaru dimostra che la convivenza civile, pacifica e produttiva tra cristiani e musulmani è possibile.
Romina Remigio