Il grande vuoto
Maghreb: il lungo braccio di Al Qaeda
Il Sahara è sempre stato il «paese di nessuno». Oggi vi fioriscono traffici illegali di armi, droga e migranti. I gruppi terroristi legati ad Al Qaeda hanno iniziato ad essere attivi tre anni fa. Rapiscono gli stranieri creando il «vuoto». Le cancellerie occidentali abbassano la «linea rossa» di sicurezza, i turisti cambiano destinazioni e le Ong si ritirano. Le popolazioni sono abbandonate. Intanto i tuareg, vogliono prendere le armi, per cacciare questa minaccia dai loro territori.
A Gao, città del nord del Mali, conobbi un doganiere, approdato da poco alla pensione, che per gran parte della sua vita aveva prestato servizio nelle zone di frontiera tra Mali, Niger e Algeria. Affascinato dalla personalità di quell’uomo, gli chiesi quante fossero, a suo avviso, le persone che ogni giorno perdono la vita nel tentativo di attraversare il re dei deserti, il Sahara, abbandonate da qualche passeur senza scrupoli, che li avrebbe dovuti condurre verso le sponde del Mediterraneo. Il doganiere mi disse in modo perentorio: «Figlio mio, solo gli avvoltorni ti possono rispondere». Questa affermazione ci permette di capire l’impotenza di uno Stato come il Mali nell’amministrare, controllare e difendere un territorio desertico così vasto: solo il Nord del paese copre una superficie grande quasi tre volte l’Italia.
Il Sahara dell’Africa Occidentale è un’area di circa 4.000.000 di chilometri quadrati e comprende la Mauritania, il Nord del Mali e del Burkina Faso, il Niger ed il Sud dell’Algeria. Terra ancestrale di popolazioni nomadi come i tuareg e i peulh, suddivisa geometricamente a tavolino dai coloni, oggi questa immensa fascia desertica, più che al fascino delle carovane del sale, si presta a traffici illeciti come quello della droga, delle armi, dell’emigrazione clandestina e al dilagare del terrorismo.
È in questa terra di nessuno, lontano da ogni forma di controllo possibile che Al Qaeda per il Maghreb Islamico (Aqmi), da ormai quasi tre anni, sta seminando il terrore nelle popolazioni locali e nelle comunità di stranieri, per lo più cooperanti e impiegati di società minerarie, che abitano e frequentano quelle zone.
Ma chi è Aqmi?
Qualche esperto di geopolitica, come Jeremy Keenan, sostiene che Aqmi sia stata creata ad arte dai servizi segreti americani e algerini ai fini di destabilizzare una zona ancora tutto sommato stabile, come l’Africa Occidentale. L’obiettivo sarebbe potee giustificare la militarizzazione e di conseguenza il controllo totale (risorse del sottosuolo comprese). Altri sostengono che si tratti di cellule terroristiche salafiste, formate alla guerriglia in Afghanistan o in alcune aree dell’Africa, come in Somalia. Queste vogliono estendere il raggio d’azione di Al Qaeda in zone in cui ci sono forti interessi occidentali, approfittando del fatto che questi si scontrano spesso con quelli delle popolazioni.
Alcuni leader locali si dichiarano «confusi» e affermano che oggi all’interno di queste zone «vedono installarsi dei predicatori, alcuni originari del Pakistan, venuti per insegnare il salafismo (corrente nell’Islam che promuove il ritorno alle origini, alla purezza della religione, senza contaminazioni, ndr.). Le prediche sono seguite da costruzioni di pozzi, aiuti alle popolazioni e naturalmente dall’edificazione di moschee». Mentre altri pensano: «Non sono terroristi, ma leggono e strumentalizzano l’Islam a fini politici».
Se pochi anni fa i combattenti di Aqmi erano circa un centinaio, oggi le stime parlano di oltre mille unità, mentre nuove cellule nascono ovunque.
I governi dei paesi del Sahara ostentano coesione e dichiarano al mondo di volersi unire nella lotta contro il terrorismo, che non fa che peggiorare le già precarie condizioni di vita delle loro popolazioni.
Il 30 settembre scorso ad Algeri, i responsabili degli eserciti di Niger, Mauritania, Mali e Algeria hanno creato un centro unificato di servizi segreti, allo scopo di contrastare il terrorismo nel Sahel. Costituito da alti ufficiali dei quattro paesi, il centro servirà per lo scambio di informazioni «sulle attività dei gruppi terroristi nella regione, la loro creazione e gli spostamenti». Il centro sarà il braccio operativo del Consiglio dello stato maggiore regionale che già collega gli eserciti e la sua direzione verrà assegnata a rotazione.
La strategia di Aqmi
Intanto alcuni rappresentanti della società civile iniziano a denunciare con forza la presunta collusione tra poteri centrali, in particolare forze armate e polizia, con i terroristi. I militanti di Aqmi mirano infatti ad esercitare il controllo in stile mafioso, basato sulla complicità e sul racket, su queste zone in cui i traffici illegali generano interessi colossali per tutti, tranne che per le popolazioni, che pagano a duro prezzo la destabilizzazione socio-politica delle regioni in cui abitano.
I gruppi di Aqmi minacciano gli stranieri nelle aree dell’immediato Sud del Sahara, il Sahel, che siano essi operatori delle Ong o impiegati delle multinazionali minerarie. Cercano così di scoraggiae la presenza, per isolare la regione e trasformarla nella nuova roccaforte del terrorismo islamico. Nel momento in cui scriviamo sono sette gli ostaggi (cinque occidentali e due africani) in mano al movimento terrorista, imprigionati in qualche anfratto delle colline rocciose del Nord del Mali. Rapiti a metà settembre nei pressi di Arlit (Nord Niger), sono dipendenti di Areva, il gigante francese del nucleare civile. Areva ha grossi interessi nelle miniere di uranio in Niger.
Intanto le Ong, che per deontologia devono essere vicine alle popolazioni più bisognose, si trovano di fronte a scelte difficili. Da una parte lasciare sole le comunità di queste zone, tra le più povere e depresse del mondo, significa condannarle alla miseria assoluta. D’altra parte non possono esporre fisicamente il loro personale, straniero o locale, ai rischi dell’insicurezza.
Anche i finanziatori principali dei progetti di cooperazione stanno riducendo gli investimenti in quelle zone, poiché non sussistono le condizioni minime necessarie per le realizzazioni. E mentre i turisti non si vedono più da tempo e le Ong abbandonano quelle aree, le forze militari francesi e americane s’installano, in barba alla sovranità dei paesi ospiti. Il pretesto è garantire l’incolumità degli europei che continuano a lavorare nel campo dell’estrazione delle materie prime (petrolio, uranio, oro, ecc.), attività che non hanno subito nessun rallentamento.
L’economia locale a picco
Le condizioni d’insicurezza, gli allarmismi delle ambasciate europee in Africa e la grande enfasi mediatica data agli atti di terrorismo, hanno fatto crollare il già precario turismo nei paesi dell’Africa Occidentale. La drastica riduzione dei viaggiatori in Mali, una delle mete preferite del continente africano per la sua varietà paesaggistica e culturale, ha piegato l’economia di intere comunità che avevano investito nel turismo integrato su scala famigliare (guide, autisti, albergatori, artigiani). Stessa sorte per Niger e Mauritania. Quest’ultima ha investito negli ultimi anni denaro pubblico e privato nella promozione del turismo d’avventura. Point Afrique, la storica compagnia aerea che effettua voli charter nella zona saheliana, ha annullato sei destinazioni su sette, licenziando l’80% del personale africano con evidenti ulteriori ricadute sull’economia locale legata all’indotto del turismo.
Una crisi economica che non fa altro che giovare ad Aqmi, pronta a radicarsi in contesti nei quali la povertà diventa disperazione.
Cosa ancora più grave: i gruppi di Al Qaeda hanno una strategia subdola, quella di reclutare persone, soprattutto giovani, che per un motivo o per l’altro hanno fallito il loro percorso di emigrazione verso l’Europa. Questi, oltre ad essere senza lavoro nutrono un senso di rancore nei confronti del mondo occidentale. Spinti dalla disperazione ed arenati in qualche città del Sahel, si vendono per pochi dollari ad Aqmi, per compiere atti di manovalanza criminale nei confronti degli occidentali: dal furto di auto, alle rapine armate, fino ad arrivare al sostegno logistico alle incursioni finalizzate al sequestro di persone.
Cosa dicono i popoli del deserto
L’attivismo terroristico delle cellule di Aqmi nel Sahara, ha portato in secondo piano la questione dei tuareg, minorità etnica che da anni lotta per l’autodeterminazione, cercando di preservare il proprio stile di vita ancestrale nomade. Popolo che gli Stati «modei» vorrebbero rendere sedentario per poterlo meglio amministrare. I capi tribù e rappresentanti della società civile tuareg del Mali si stanno organizzando per incontrare i responsabili di alcuni gruppi di salafisti di Aqmi, allo scopo di chiedere loro di tornare al Nord del Sahara e lasciarli abitare liberamente la terra dei loro antenati.
Se la maggior parte della popolazione tuareg non ha nessuna complicità con i terroristi e neppure attrazione ideologica per il fanatismo religioso, è pur vero che alcuni giovani si sono venduti ad Al Qaeda. Durante il recente attacco che l’esercito mauritano ha perpetrato nel Nord del Mali contro gruppi armati (19 settembre), sono stati uccisi quattro uomini tuareg che ne facevano parte. Ed è proprio verso i giovani di questa etnia che si rivolgono i terroristi. Partecipare ad un’azione di banditismo e contribuire al sequestro di una persona fornisce loro in qualche giorno un guadagno pari a 10 anni di stipendio.
Per questo motivo Ibrahim Ag Bahanga (ex leader della ribellione tuareg) e altri responsabili, da diverse settimane hanno lanciato una sensibilizzazione dei giovani della loro etnia, affinché non si integrino nelle bande di Aqmi. Ma vanno oltre e vogliono dare una risposta armata ai terroristi e ai trafficanti di droga, per riprendere il controllo del loro territorio ancestrale.
Questione delicata, se si pensa che fino a due anni fa i tuareg del Mali e del Niger erano in ribellione contro i rispettivi governi.
La destabilizzazione del Sahel ad opera dei gruppi armati legati ad Al Qaeda facilita la presenza militare occidentale in zone ad elevata concentrazione di materie prime. Al contrario, la popolazione si vede privata del turismo e degli investimenti delle Ong, le uniche due risorse utili ad alimentare un’economia già molto fragile.
Marco Alban e Marco Bello