HUSSAIN E KARAMULLAH

Reportage

Due fratelli afghani, di professione commercianti, emigrati a Peshawar, in Pakistan, parlano del loro paese e dei talebani.

Peshawar (frontiera nord-ovest). Soltanto il Khyber Pass separa Peshawar dal confine afghano. La città, che sotto un’apparenza trascurata nasconde le vestigia di un tempo, è abitata quasi totalmente da gente pashtun, etnia cui appartengono anche i talebani. Stringo in mano un bigliettino datomi da Munir, un ragazzo di Gilgit. «A Peshawar va’ a trovare i miei familiari. Sono commercianti di tappeti», mi aveva detto. Sulla carta è scritto «Khyber bazar, Kamran market». Sembra facile, finché non vedi il palazzo: ogni stanza è una bottega di tappeti e ogni venditore vuole trascinarti a vedere la sua mercanzia. Farsi capire, inoltre, non è impresa delle più semplici.
Finalmente trovo la porta dell’«Afghan Carpets House». Ogni lato della stanza è occupato da alte pile di tappeti, che sono mercanzia e arredamento a un tempo.
Un uomo dalla folta capigliatura nera e barba ben curata sta spostando alcuni tappeti; un altro è seduto per terra intento nella lettura del Corano, mentre in un angolo due ragazzi e un uomo armeggiano con alcuni quadei.
Appena spiego di essere lì su suggerimento di Munir, l’atteggiamento diventa molto amichevole. Si fanno le presentazioni: Muhammad Hussain e Karamullah sono fratelli e gestiscono il negozio del padre. Dall’angolo mi salutano anche i due ragazzi e l’uomo che è con loro: «I nostri fratelli minori stanno studiando l’inglese con un maestro».
Muhammad Hussain è il fratello più vecchio. «La mia famiglia – racconta – lasciò l’Afghanistan ai tempi del governo comunista. Ora viviamo in Pakistan lavorando come commercianti. Al mio paese too una volta al mese per comprare tappeti per i nostri negozi». Per voi musulmani io sono un «infedele»: che significa? «Sta scritto che l’ultimo profeta chiamerà la gente all’islam. Quelli che accetteranno l’invito avranno successo nel mondo e dopo il mondo; quelli che non saranno musulmani saranno messi all’inferno. Nel sacro Corano Allah onnipotente dice: “Io sono contento con l’islam come tua religione”. In un altro passo del libro sacro Allah afferma: “Io ho completato la tua religione: essa è una religione perfetta. È la migliore delle religioni. Una religione diversa dall’islam non è accettabile”». Allora, obietto, gli islamici non possono tollerare la presenza di religioni diverse dalla loro? «In accordo con quanto scritto nel sacro Corano, nessuna religione è accettabile al di fuori dell’islam. Tuttavia, in Pakistan musulmani e cristiani vivono in pace».
Karamullah, il fratello più giovane, è sposato e ha due bambini. Non porta la barba, ma soltanto un paio di baffetti che non dissimulano la giovane età. Il profugo afghano non nasconde la propria simpatia per i talebani (…) (*).
I due giovani studenti, ormai distratti dalla mia presenza, si avvicinano portando bicchieri fumanti, colmi di un thé che riempie la stanza di profumi speziati.
Tra un sorso e l’altro, chiedo di spiegarmi la condizione delle donne nei paesi islamici: «I diritti delle donne – dice Karamullah sforzandosi di trovare le parole inglesi più adatte – non sono quelli che vengono esaltati nei paesi occidentali. L’islam ha attribuito diritti sufficienti alle donne, perché Allah misericordioso, creatore di tutti gli uomini, conosce bene ciò che è giusto fare. La donna ha una grande dignità nella società islamica. I figli crescono nelle braccia delle madri e ricevono molto amore. Tra le mura di casa la donna agisce come un capo assoluto. Il marito invece lavora all’esterno in condizioni diverse. Tutto ciò che guadagna lo porta in famiglia. In molte società non musulmane le donne sono considerate come animali da utilizzare per la felicità sessuale degli uomini. Il flagello dell’Aids non è altro che un castigo divino per questi comportamenti».
Alle cinque in punto Karamullah si interrompe e mi chiede qualche minuto di pausa. Prende  il suo personale tappetino, lo distende, si inginocchia e inizia il rituale della preghiera. Terminato il suo dovere di buon musulmano, torna a conversare con me.
Non ti sembra – gli chiedo – che la sharia sia uno strumento disumano che rende la punizione molto simile alla vendetta? «No, la sharia è giusta! Quando ad un ladro viene tagliata una mano, non è solo una punizione, ma anche un esempio per far comprendere agli altri che rubare è male».
Obietto che il male è anche altrove: per esempio, nella corsa alle armi nucleari intrapresa da Pakistan e India. «I paesi poveri non costruirebbero armi distruttive, se i paesi coloniali non li incoraggiassero».
Mi accorgo che il tempo è volato: sono passate più di due ore dal mio arrivo nella bottega di Hussain e Karamullah. Fuori è sceso il buio e il grande bazar si è quasi svuotato. Prima di andarmene, ci abbracciamo come vecchi amici. A dispetto delle nostre grandi diversità.

Paolo Moiola

(*) Il viaggio raccontato in questo reportage è avvenuto anni fa, quando i talebani  erano al governo dell’Afghanistan. Lo riproponiamo, pur tagliato in alcune sue parti (cfr. Missioni Consolata, dicembre 2001), perché rimane significativo ed attuale.

AHMAD EJAZ, GIORNALISTA PAKISTANO

PREGIUDIZI E VERITÀ

Condanna la pratica e la violenza dei «matrimoni combinati». Chiede che si dia più spazio al «giornalismo etnico». Difende il suo paese, ma ne condanna i dittatori e i fondamentalisti. Sulla questione della convivenza ha un’idea precisa, anche perché lui, Ahmad Ejaz, ha sposato una donna italiana.

Ahmad Ejaz  è un pakistano da molti anni in Italia. Gioalista, è caporedattore di Azad (Libertà), rivista mensile in lingua urdu distribuita in 5.000 copie nei phone centers e nei negozi pakistani. Abbiamo sentito Ejaz subito dopo un tragico fatto di cronaca.

Ejaz, come spiegare agli italiani – spesso impreparati, prevenuti, aizzati o usati – l’omicidio della donna pakistana di Novi Modena (3 ottobre) e quello, quasi identico, di Hina Sallem a Brescia nel 2006?
«La donna di Novi è stata uccisa da un uomo ignorante di nazionalità pakistana. Lui fa parte di una cultura limitata e crudele che non ha niente a che fare con la cultura millenaria pakistana. Padre e figlio  non hanno ucciso soltanto la propria moglie o madre, ma hanno tolto la vita ad una persona. Mentre la figlia, la povera Nosheen, sta in coma. Nel gennaio 2005, a Bologna, un pakistano di nome Hafiz aveva ucciso Silvia de Paolis; nel 2006 Hina Saleem e adesso Shahnaz Begum. Pochi sanno che questi tre uomini vengono dalla stessa regione del Pakistan».

Come comportarsi davanti a questi fatti? E soprattutto cosa fare?
«Bisogna aprire un dibattito all’interno della comunità pakistana. Lo so che anche gli italiani uccidono le proprie donne, ma io vorrei salvare altre possibili vittime dei maschi pakistani confusi che hanno scelto di vivere in Italia.
Per questo, bisogna creare  nuove figure tra gli immigrati: persone che facciano da leader o mediatori per spiegare la cultura italiana e per capire la propria.
Occorrerebbe anche cambiare la legge sulla cittadinanza: lo straniero che nasce in Italia deve essere cittadino italiano. Così le seconde generazioni potrebbero avere un po’  più di libertà nelle loro scelte. Inoltre, dovremmo dare più importanza al giornalismo etnico, per parlare con le prime generazioni. In Italia, tra l’altro, ancora non esiste un numero verde per salvare le ragazze costrette ai matrimoni combinati e non esiste un ufficio internazionale che tuteli i loro diritti».

Le inondazioni hanno devastato il tuo paese. Ma gli italiani non sono stati generosi come in altre occasioni…
«Hai ragione: è stato tempestivo ed intenso l’aiuto dell’Italia per Haiti, mentre non è stato così per il mio paese. Ci sono diversi pregiudizi verso il Pakistan. Dopo l’11 settembre, il Pakistan è stato sempre protagonista per il suo ruolo, sia positivo che negativo, nella guerra al terrorismo. Si pensa pregiudizialmente che noi aiutiamo i talebani, ma allo stesso tempo siamo i più grandi alleati degli Usa. In realtà, le nostre frontiere sono calde e il nostro esercito non le controlla tutte. Al Nord vigono le leggi tribali: questo significa che in alcune zone del Pakistan ci sono stati liberi come San Marino in Italia. Nel Nord del paese il problema non sono i talebani, ma è il “talibanismo”, che è abbastanza radicato(1). Voglio ricordare che noi siamo musulmani, ma non siamo arabi e non parliamo arabo; noi preghiamo in arabo come lingua sacra, senza capire il suo significato. L’islam è la nostra religione, ma la nostra cultura è del subcontinente indiano. I fondamentalisti cercano di arabizzare la nostra cultura, ma non riusciranno mai».

D’accordo, ma i talebani sono pashtun e non arabi…
«È vero che i taliban sono pashtun, ma il modello che propongono è il modello delle società arabe. Per esempio, la sharia, la sunnah. Nel subcontinente abbiamo un islam indiano: il matrimonio, la morte, il modo di pensare, i vestiti, la credenza nelle tombe dei santi popolari che portano alla rincarnazione, tutte queste sono abitudini indiane. Il problema è che la nostra società di oggi è diventata talmente insicura di sé che alcuni pensano e vedono nell’islam fondamentalista una soluzione».

A parte il fondamentalismo, alcuni comportamenti del tuo paese certamente non favoriscono il dialogo. Ad esempio, le discriminazioni verso i non-musulmani.
«Il Pakistan nasce nel 1947. Subito dopo si sviluppa il fenomeno della discriminazione linguistica contro i bengalesi. Così, nel 1971, il Pakistan dell’Est (oggi Bangladesh) si stacca dal Pakistan dell’Ovest. Poi , per più di 40 anni, i generali dell’esercito comandano il paese, schiacciando ogni speranza di democrazia.
Ma il vero dittatore è stato il  generale Zia Ul- Haq, avendo alimentato le discriminazioni razziali, etniche e religiose. Sono sue le leggi contro i non musulmani soprattutto contro i Qadiani(2). Il fondamentalismo statale ha eliminato tutto il lavoro interculturale fatto nei secoli precedenti. Oggi in Pakistan la guerra tra sciiti e sunniti è spaventosa. Anche i cristiani hanno sofferto molto a causa della legge sulla blasfemia(3), fatta sempre dal generale Zia Ul- Haq. Quando un paese sceglie di essere monoculturale significa che ha scelto il suicidio».

In Occidente è quasi un’equazione matematica: islamici=terroristi. Ad intervalli regolari, si dice che Osama Bin Laden, Ayaman al-Zawahiri e il Mullah Omar vivano tranquillamente in Pakistan. Che ne pensi?
«In tutti i paesi islamici negli anni ‘60 e ‘70 era fallito il progetto della identità nazionale, perché – dopo il colonialismo – questa ricetta era superficiale: i popoli di questi paesi non avevano mai praticato il nazionalismo. Al contrario, l’identità religiosa per loro era molto più facile e vicina. Purtroppo, dopo la crescita dell’identità religiosa, è subentrato anche il fondamentalismo politico per dare una risposta ai nostri dittatori di stile occidentale e corrotti fino al collo. Chiaro che, dove cresce il fondamentalismo, si sviluppa anche il  terrorismo».

Ejaz, il Pakistan ha gravi problemi di sottosviluppo, eppure è una potenza nucleare…
«Si chiama “bomba dei poveri”. Una buona parte del budget nazionale va speso per sostenere l’esercito più forte nel mondo islamico, ma allo stesso tempo un popolo di 180 milioni di persone soffre di povertà, malattie e carestia. Questa bomba serve per rispondere al nemico India, ma l’India cresce economicamente, mentre il Pakistan è sempre più povero e pericoloso per il mondo».
Toiamo all’Italia. Secondo te, è possibile una convivenza civile e rispettosa tra pakistani ed italiani?
«Ci sono tanti pregiudizi da combattere. Pakistan e Italia sono due paesi che possono costruire ponti di amicizia per salvare i milioni di poveri in Pakistan. Noi 100 mila pakistani stiamo lavorando in Italia come braccia per sollevare la economia di questo nostro secondo paese. Non ci sono ponti culturali tra due paesi. Dobbiamo e possiamo costruire la amicizia mettendo da parte i nostri stereotipi, preconcetti e egocentrismi».

Tu hai sposato un’italiana. Ci puoi raccontare qualcosa?
«Mia moglie e io siamo persone appartenenti a due culture diverse. A casa nostra, la Bibbia e il Corano stanno nello stesso scaffale della libreria. Abbiamo due figli di 9 e 5 anni. Valentina è stata 9 volte in Pakistan e io rispetto molto la famiglia e la cultura di mia moglie. Siamo insieme da 20 anni. Problemi ce ne sono, ma quelli quotidiani. I nostri figli hanno nomi italiani e cognomi pakistani. Sono bambini di due culture».
Paolo Moiola

1 – Sui talebani si legga: Jonathan Steele, La terra dei taliban, Internazionale n. 865, 24 settembre 2010. Inoltre, secondo il New York Times del 19 ottobre 2010, si stanno svolgendo trattative di alto livello tra governo afghano, Nato e talebani per arrivare ad un accordo di pace nel paese.
2 – Corrente dell’islam, condannata come eretica e costituzionalmente non-musulmana (1973), poi perseguitata sotto i governi del generale Zia.
3 – Introdotta nel 1986, commina la morte a coloro che sono accusati di offesa al profeta Maometto. Nel 1998, il vescovo cattolico John Joseph si uccise per contestare la norma.


Paolo Moiola

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