L’oggi
Daris e Berito sono leader u’wa conosciuti anche all’estero. La nostra collaboratrice, ospite del resguardo, racconta la sua coinvolgente esperienza con la comunità. Una comunità in cui la Terra è la madre che dà tutto. Per questo essa va rispettata e difesa, soprattutto quando il nemico è quell’«uomo bianco» che non sa e non capisce. La distruzione del territorio significherebbe la morte certa del popolo u’wa, ma anche una nuova ipoteca sul futuro dell’umanità tutta.
«L’hortigo è la nostra carne», dice Daris, mentre strappa con sapienza una pianta simile alle nostre ortiche, ma con le foglie molto più larghe e caose. La scova in mezzo ad un groviglio di tante altre: «Gli u’wa che vivono vicino alle montagne sono quasi vegetariani e cacciano poco. Kakina è lo spirito degli animali e si arrabbia. Per questo, bisogna digiunare per tre giorni prima di cacciare».
Probabilmente i lettori non avranno idea di quale intrinseca soddisfazione possa provare una riowa, una bianca, straniera e vegetariana, nel trovare un posto (almeno uno in America Latina), dove invece di ridere o guardarti con stupore quando spieghi che «no, la carne no», ti dicono: «Capiamo perché non mangi carne. Con tutta la violenza che i vostri poveri animali devono subire in Europa. È come mangiare la loro sofferenza», e te lo dicono allungandoti una tazza di zuppa con piante e tuberi sconosciuti, calda e gustosa e, a quanto pare, molto nutriente.
Daris Cristancho è della comunità u’wa di Bachira, una delle più integre perché meno contaminate dal mondo esterno. Quando va a trovare i suoi, Daris cammina quattro giorni da Cubarà, attraverso vallate e risalendo montagne, fino ad arrivare a 4.000 metri, dove le pendici del ghiacciaio Cocuy cominciano ad essere imbiancate dalle nevi perenni lasciandosi indietro i paramos1 gonfi d’acqua e di leggende. Là vive la sua famiglia. Daris è quella che si dice una leader: impegnata per il suo popolo e per i diritti delle donne indigene. Assieme a Berito Kuwaria, il viso inteazionalmente riconosciuto della lotta degli u’wa e premio Goldman2 nel ’98, cura i rapporti inteazionali. Gira il mondo, partecipa a conferenze, ma poi torna sempre qui, nel Resguardo unido, nella sua terra e dai suoi cinque figli, e nella scuola indigena dove è insegnante.
«Mia nonna quando ero piccola mi ha detto che avrei difeso il mio popolo – ci racconta – e questo è stato e sarà il mio destino». Camminiamo lungo il sentirnero che ci porta verso la comunità di Fatima, una delle prime comunità u’wa che s’incontrano all’interno del territorio ancestrale. La gente si sta preparando ad un rituale che durerà tutta la notte e mentre camminiamo chiacchierando, frotte di bimbi eccitati ci superano correndo.
Con Daris era qualche anno che non ci si vedeva. Abbiamo deciso di metterci in viaggio per el Planeta Azul (il pianeta azzurro, altro nome del territorio ancestrale), rispondendo ad una chiamata delle autorità u’wa: il popolo è pronto ad un nuovo levantamiento. Ovvero, si sta preparando per altre battaglie. L’appello era arrivato a gennaio 2010. In maggio siamo partiti.
Finalmente… la foresta
La pressione della politica estrattivista dell’ex presidente Alvaro Uribe – raccolta e portata avanti nel segno della continuità dal nuovo primer mandatario, Manuel Santos – si è fatta insostenibile. E la tensione militare che alberga in ogni angolo del Paese, qui è doppia. La scia del quasi decennale programma di «sicurezza democratica» di Uribe, che ha sdoganato eserciti paramilitari come le Autodefensas Unidas de Colombia; la militarizzazione dei territori sotto l’egida del Plan Colombia3 statunitense: le condizioni favorevoli alle multinazionali che mirano al saccheggio dei sottosuoli più ricchi del mondo. «Come volpi – ci dice Ramiro, un giovane u’wa che fa parte del cabildo mayor – hanno atteso che l’attenzione internazionale sulla vicenda del mio popolo scemasse. Ora si preparano ad azzannare».
Per incontrare l’antico popolo u’wa bisogna aspettare il responso dei werjayà, i saggi che vivono sulle montagne. E poi quello del cabildo mayor, la massima autorità politica. Entrare nel territorio sagrado (sacro), vuol dire contaminarlo, e ci sono delle procedure da seguire. Prima di entrare nel territorio u’wa, per qualche giorno ci dobbiamo fermare a Cubarà, una cittadina appena fuori dal resguardo. Pattuglie di militari la percorrono ininterrottamente, e ad ogni ora del giorno e della notte. A Cubarà non veniamo mai lasciati soli. I werkajà hanno raccomandato prudenza e i nostri amici u’wa non prendono sottogamba simili avvertimenti e ci accompagnano in ogni nostro minimo spostamento. Gli eserciti guerriglieri – le fitte foreste che ci circondano sono habitat ideale per l’Esercito di liberazione nazionale (Eln) e per le Forze armate rivoluzionarie colombiane (Farc) – pattugliano i dintorni. È ancora fresco il ricordo dei 3 volontari ammazzati dalle Farc nel ‘99, fra cui Terence Freitas, cornordinatore della campagna «La cultura con principios no tiene precio» in difesa del popolo u’wa. Cubarà è inoltre un punto strategico per l’esercito colombiano. Ovunque, nella cittadina polverosa che nulla offre se non una piccola scuola e l’essere un crocevia di merci, ci sono occhi che, per una ragione o l’altra, non ci perdono di vista.
Quando finalmente riusciamo ad entrare nel Resguardo unido u’wa, tiriamo un respiro di sollievo. Benché sia solo calma apparente quella che si vive nelle foreste, stare a contatto con questo popolo regala immediata serenità.
Daris è come sempre sicura di sé e sorridente. In 10 anni – tanti sono passati da quando, con la figlia più piccola fra le braccia, affrontava l’inferno che il suo governo aveva scagliato contro il suo popolo per l’occupazione del pozzo Gibraltar 1 – non è cambiata: noi l’avevamo conosciuta qualche anno dopo . È sempre bella. E riflette la spontanea meraviglia della sua stessa terra, che mescola fiori e foreste impenetrabili, montagne innevate e piante pluviali. E la sensazione di essere ai primordi del mondo, assieme alla consapevolezza di essere in un avamposto di resistenza.
Qui la natura è potente perché libera ed incontaminata. Le scimmie araguaro urlano d’amore fra gli alberi mentre noi camminiamo all’imbrunire lungo i torrenti che scendono dalla Cordillera andina. Se è vero che il Kajka Ika è per gli u’wa il cuore del mondo, questo cuore pulsa forte. Mai ci siamo trovati in una terra così bella e intatta. Ad oggi, il resguardo è poco meno del 20% di quello che una volta fu il territorio ancestrale u’wa. Si estende per 225.000 ettari circa, e comprende quattro fasce climatiche. Questi pisos termici, così come qui vengono chiamati (letteralmente, piani termici) sono fondamentali per la vita e la cosmogonia della popolazione, che sigla ogni momento della vita comunitaria con rituali e digiuni che devono essere ripetuti in ogni fascia climatica.
STORIA DI DARIS, LA DONNA CHE SA PARLARE A TUTTI
La storia di Daris è delicata e complessa. Lei è figlia di un abuso subito dalla madre ad opera di un bianco. Suo padre era uno dei tanti che, durante la guerra civile colombiana, negli anni ’50, si nascosero nei territori degli u’wa, creando scompiglio e seminando violenza. Daris è dunque una «meticcia». Per questo – perché «contaminata» – fu allontanata come un pericolo dalla sua comunità d’origine quando era molto piccola. Verso i 7 anni, venne però richiamata per ordine delle autorità religiose, che la sognano defensora del pueblo. Quando ritorna fra la sua gente, non sa una parola di u’wa. Ha paura di tutto. Ma la madre e la nonna – una curandera molto capace – le danno la forza che le serve per farsi accettare. Daris cresce con una certezza: lei si sarebbe dovuta battere per la salvezza dei suoi. Studia, si laurea, elabora quella capacità istintiva che ha di parlare alla gente. E il suo essere «meticcia» la predispone al dialogo con gli riowa.
Chissà se è per la forza che le donne della sua famiglia le hanno trasmesso. Ma Daris capisce bene che la salvezza del suo popolo passa per il rafforzamento delle donne u’wa. Crea una fondazione al femminile che si chiama Ambaya (le api). Vuole fornire gli strumenti alle donne u’wa per diventare «leaders», per poter studiare. E per poter continuare a vivere come loro vogliono: nel territorio sacro, in pace, con una natura che proteggono, cantano e amano come una madre. E continuando a sviluppare il proprio artigianato – connesso anch’esso al mondo cosmogonico. «Il popolo indigeno u’wa gestisce il proprio territorio attraverso politiche fondate su principi ancestrali», racconta, mentre mi porta ad incontrare le rappresentanti delle donne delle 17 comunità che compongono il popolo u’wa. Spiega come valori di rispetto e di armonia con la natura compenetrano i differenti settori del tessuto sociale: il territorio, l’autonomia, la salute, l’educazione, i nuclei abitativi, l’educazione ambientale. Identità culturale che si riflette nell’elaborazione e nella realizzazione dei prodotti artigianali. A causa degli invasivi processi di colonizzazione ed evangelizzazione che ha sofferto il popolo u’wa, gran parte delle pratiche culturali e artigianali rischiano di scomparire nella maggior parte delle comunità che compongono il territorio u’wa. La fondazione Ambaya vuole da una parte rafforzare il ruolo delle donne e dall’altra, difendere i valori, i principi e i significati ancestrali della cultura u’wa trasmettendoli alle nuove generazioni. «Per noi i bambini sono un dono e il nostro futuro: noi donne abbiamo il ruolo fondamentale di trasmettere i saperi, le conoscenze che fino ad oggi ci hanno permesso di difendere il nostro mundo–centro (centro del mondo, il territorio u’wa) e difenderlo», dice ancora Daris, dimostrando, col suo progetto e la sua determinazione, il grande coraggio che possiede.
Le donne u’wa riunite nella Casa de la sabiduria («Casa dei saperi») sono almeno un centinaio, alcune venute a piedi da comunità lontane tre giorni di cammino. Si distinguono fra loro le differenti tribù: kuwar’uwa, tigria’s, aguablanca come nuclei principali. La grande capanna che ci riunisce è fresca ed accogliente, e negli angoli, intimiditi, i bambini filano il fique per fare le chacaras4 con la testa bassa, lanciandoci ogni tanto uno sguardo divertito.
Daris ci illustra le attività e ci fa vedere la piccola sartoria che permette ad alcune donne u’wa di farsi dei vestiti per poter andare al mercato a barattare oggetti artigianali per qualche alimento, sale e frutta per lo più.
La «MADRE TERRA» E LA LUNGIMIRANZA DEGLi u’wa
«Se voi siete qui fate parte del nostro pensiero – ci dice -. Sono più di sessant’anni che noi u’wa combattiamo per difendere la nostra cultura e più di 500 per la nostra sopravvivenza. La Madre Terra ci dà tutto, ci dà da mangiare, ci dà la vita. E noi dobbiamo difenderla. Noi siamo i “guardiani della Terra”». Il discorso che Daris fa davanti alle sue compagne è appassionato. Bisogna tradurlo tre volte, in spagnolo e nei due principali dialetti u’wa. «Vi chiedo: cosa stiamo pensando di lasciare ai nostri figli? Io non vivo fuori dal mondo, so che il denaro serve. Ma quando la terra non darà più frutti, l’acqua sarà troppo contaminata, le sementi troppo stanche per crescere, che pensiamo di fare? Qual è il nostro progetto? Questa è la grande tristezza che noi proviamo. Per questo noi cantiamo molto per la Madre Terra, per cercare di lenire il suo dolore, che in questo tempo è grande. Noi u’wa siamo stati incaricati di proteggere la terra, l’aria, l’acqua. Per questo, siamo in un processo di lotta e resistenza».
Ecco dunque che il «progetto» u’wa si mostra in tutta la sua lungimiranza. Viene descritto con il loro linguaggio, che è colori ed immagini. Ma la proposta politica è molto chiara: bisogna smetterla di alimentare questo sistema economico irrazionale ed iniquo. Bisogna smetterla di martoriare la Terra.
Il discorso di Daris spinge le donne ad aprirsi e a perdere la naturale timidezza che le contraddistingue. Ci chiedono di visitare le loro abitazioni nascoste nella fitta foresta pluviale, le case dove fanno i digiuni – capanne basse con il tetto spiovente fatto di foglie dove per almeno cinque volte l’anno si intraprendono lunghi ayunos (digiuni) purificatori; i piccoli campi coltivati a fagioli, yucca, patate.
Andiamo con loro ed andiamo in un paradiso. Ogni microclima dei quattro che caratterizzano il territorio ancestrale u’wa, ha le proprie piantagioni utili all’alimentazione e per le cerimonie religiose. I rituali hanno una funzione stabilizzatrice, nella ricerca di un costante equilibrio. Gli u’wa coltivano poco e a rotazione. Non vogliono stancare la terra. Per trovare i loro campi, dobbiamo seguire la fila colorata di donne coi bambini legati dietro la schiena con una fettuccia fissata sulla testa. «Quest’acqua si può bere, questa no», e indicano questo o quel ruscello. «Qui ci sono i pesci!» grida Claudia, una giovane con gli occhi grandi e le collane azzurre che vogliono augurare fertilità. Con l’acqua alle ginocchia e un po’ di pazienza ci dimostra come si prendono i pesci con le mani. Ogni piccolo pesce che prende, lo mette in bocca dalla parte della testa. Poi l’infila uno con l’altro con una pagliuzza e se li mette al collo per trasportarli. Ingrid – ognuna ha anche un nome u’wa, ma il primo è per forza in lingua spagnola – ci fa vedere più avanti il campetto di piante di coca che usano per i riti. Jolanda ci mostra come col machete e la corteccia di un albero si fanno le pentole. Ascoltiamo gli uccelli, perché portano messaggi. Stiamo in silenzio quando attraversiamo certi luoghi. In altri, cantiamo.
Ridono, le donne u’wa, con la frangetta e gli occhi asiatici. Camminano a piedi scalzi con tale leggerezza che paiono non piegare l’erba. «Hai visto? Questi sono i nostri dollares!». Compare nel fogliame lo sciamano Berito: «Questi sono i nostri soldi: i bambini, gli alberi. E l’allegria». Tira fuori la maracas dei suoi canti, e racconta: l’universo era diviso in due, un mondo di sopra, luminoso e secco, e un mondo di sotto, buio ed umido, il primo bianco, il secondo rosso. Dopo «il grande movimento» si formò un mondo di mezzo, e assieme ad esso, il giallo e l’azzurro. «Noi siamo i guardiani che curano questo mondo. Se il mundo– centro degli u’wa sparisce, muore l’universo». Per gli u’wa, la magia ed il soprannaturale non sono realtà distinte dalla vita quotidiana e sociale. Le malattie, la morte, i conflitti, irrompono quando l’equilibrio è alterato. Gli alimenti devono essere puri e consumati nei giusti momenti dell’anno. I digiuni e le purificazioni sono parte fondamentale della vita rituale.
Può questo paradiso perfetto resistere? Può sopportare una mentalità guerrafondaia, violenta e distruttrice? Eppure qui ci si sente tranquilli e forti. E sinceramente, proprio non viene da rispondere di no.
LA DISTRUZIONE AVANZA:
GASDOTTI, AUTOSTRADE, FUNIVIE
«Nuove battaglie ci aspettano. Guarda le montagne, non si vedono: questa nebbia perenne le copre. È el micero del gas che brucia notte e giorno. E il cielo da mesi non è più lo stesso». Daris è preoccupata, e molto. «Ecco perché il cabildo mayor è sul piede di guerra: il gasdotto brucia la nostra aria. Cambia il nostro clima. Non piove più».
Con una grande marcia – una minga – lo scorso anno in ottobre oltre 2.000 u’wa hanno manifestato contro lo sfruttamento delle risorse naturali nel loro territorio. Sotto un sole cocente hanno percorso la lunga strada che da Arauca arriva fino alle province di Santander e Norte di Santander cantando: «Gli u’wa davanti a Dio e al Mondo marciano per la vita. Gli indigeni d’America di fronte all’invasione: resistenza, resistenza, resistenza!».
I megaprogetti che minacciano immediatamente la sopravvivenza di questa popolazione, che con i suoi 6.000 abitanti è una delle decine a rischio d’estinzione della Colombia, sono principalmente tre, ed in cima a tutto, ancora, c’è il petrolio.
La statale Ecopetrol – che dal 27 agosto del 2007 ha cominciato ad essere venduta ai privati, e di «statale» è rimasto ben poco – non ha mai interrotto le attività estrattive in territorio u’wa. La Oxy ritirandosi ha ceduto le azioni alla compagnia colombiana, che ha continuato – con argomenti inaccettabili – a promuovere attività estrattive intense. Uno di questi argomenti era che le aree di perforazione non fossero «territorio abituale degli u’wa». Pur sfiorando il resguardo – a 400 metri vive un nucleo di famiglie indigene – vi entra di sbieco sotterraneamente. D’altronde, è la stessa Agenzia nazionale degli idrocarburi che afferma come questi pozzi siano «di interesse nazionale». Dopo i Gibraltar 1, in barba alla stessa legge statale sono stati scavati il 2 e il 3, senza che la comunità fosse mai consultata. Il «Gibraltar 3» si è portato dietro un miniplotone di militari, che stazionano stabilmente nel territorio. La Ecopetrol manda regolarmente emissari che cercano di dividere con regali e promesse, le piccole comunità più esposte e ricattabili. La giostra ha ricominciato a girare. In verità non si era mai fermata.
Il secondo progetto è la costruzione di un’autostrada che dovrebbe segare in due il territorio u’wa: è la carretera binacional fra Venezuela e Colombia, che passerebbe esattamente sopra tutti i luoghi per i rituali. Infine, il Parco nazionale del Cucuy. La montagna sacra, il punto più intoccabile, il ghiacciaio che è il mundo-blanco: un progetto di «ecoturismo» prevede un ampliamento del Parco nazionale del Cocuy nel territorio u’wa. Secondo il governo, ci si dovrà costruire una funivia. La «Unidad de Parques nacionales naturales», assieme al ministero degli Intei e a quello di Giustizia, da tre anni cerca di portare avanti il processo della consulta per modificare il decreto 622/77. Ma gli u’wa hanno sempre rifiutato un incontro che per loro è basato fin dalle fondamenta sulla menzogna: «Durante la Settimana santa passano nel Parco nazionale oltre 1.000 turisti a settimana. Sotto il Cocuy è poi nota la presenza di una riserva immensa di oro, rame, ed acqua. Ma a chi la vogliono raccontare? E ci vengono a dire che è per il bene della montagna, perché noi non la sapremmo tenere bene. Il Cocuy è la nostra montagna. E noi la proteggeremo», raccontano quelli dell’AsoUwa, associazione che rappresenta politicamente la maggioranza delle comunità u’wa.
«IL PROGRESSO È vivere in armonia
con la terra»
«Con la scusa di questi progetti, ci militarizzano. Uomini armati attraversano continuamente il nostro territorio con i loro pensieri di morte» spiega Daris. «Ma noi andiamo avanti sicuri del nostro compito nel mondo, anche se loro ci danno già per scomparsi, per finiti. Solo perché vogliamo andare avanti seguendo i dettami e la filosofia che da sempre ci ha contraddistinto: vivere in armonia con la Terra, con gli elementi della natura, rispettandoli. Questo per noi è il progresso. So che per voi è difficile pensare che esistano persone, popolazioni, che vivono come migliaia di anni fa. Tra di noi u’wa c’è chi non ha mai visto un’automobile e non sa cosa sia una lampadina. Ma è una nostra consapevole scelta. Io sono la prima donna u’wa ad uscire dal territorio e viaggiare. Ma vivo gran parte della mia esistenza nelle comunità u’wa, perché la memoria del proprio popolo va protetta e mai dimenticata. Il mio sogno è che ogni donna u’wa possa pensare di poter essere una leader, e parlare, lottare, viaggiare, partecipare ad incontri inteazionali in appoggio al nostro popolo. Dieci anni fa ci scontrammo con una grande multinazionale del petrolio, la statunitense Occidental Petroleum Inc. Le donne marciarono e si opposero con forza a tanta violenza. Da allora, io lotto perché la forza di quelle donne sia riconosciuta e valorizzata all’interno del “popolo che sa parlare”». Ci fissa con i suoi occhi neri e ci assicura: «Anche per questo so che sopravviveremo. Gli u’wa camminano lenti, ma sicuri».
Fa impressione pensare che il mondo degli u’wa potrebbe venire distrutto per dare quattro mesi in più di petrolio agli Usa (tanto è quantificato il giacimento individuato sotto il mundo–centro). Secondo quanto diffuso dal ministero dell’Energia, in Colombia hanno non più di tre anni di rifoimenti petroliferi. Poi dovranno importare. La politica petrolifera colombiana si sta così rendendo flessibile per creare uno scenario proficuo agli investimenti stranieri. Questo, fra le altre cose, vuol dire incentivare le perforazioni «per l’interesse nazionale». Con le buone o con le cattive. Poco importa se gli u’wa continuano a dare lezioni di vita, insegnando che la loro lotta non è contro la Oxy o la Ecopetrol, ma contro un modello economico che vuole la loro morte e quella dell’equilibrio naturale. Poco importa se gli u’wa sanno che essere «guardiani della Terra» non significa difendere il territorio per se stessi, ma per l’umanità intera, che ha nelle popolazioni indigene la sua ultima speranza. E non per folklore. Ma perché davvero, la loro lucida proposta politica – è necessario vivere tutti e con meno, nel rispetto dello stesso mondo che ci dà i suoi frutti, appunto «cambiando il modello, non il clima» – è l’unica percorribile.
Noi siamo già con loro. Siamo nel mundo-centro. Con Daris, le donne, Berito che canta, i suoi dollares – i bambini -, che ci corrono attorno. Ci avviamo verso la grande capanna di legno per il rito atavico che durerà tutta la notte. Noi saremo battezzati come nuovi u’wa, io riceverò il nome di Abouswia, «madre delle acque». Il rito serve per ringraziare la Madre Terra dopo la semina. Il nome, per sentirci u’wa anche noi. Ed avere speranza.
NOTE
(1) Paramo: ecosistema tipico delle Ande. Di fondamentale importanza per la conservazione dei meccanismi idrogeologici. Si sviluppa alla fine dei boschi e all’inizio delle nevi perenni.
(2) Premio internazionale concesso ai difensori dell’ambiente: www.goldmanprize.org.
(3) Nel 2000 viene varato il Plan Colombia. Ufficialmente un accordo tra Stati Uniti (amministrazione Clinton) e Colombia che prevede l’invio di consulenti civili, militari e finanziamenti per combattere la produzione di droga nel paese. Per molti, la longa manu militare degli Usa in Colombia.
(4) Tipica borsa tessuta con i filamenti della pianta del fique intrecciati. Serve per trasportare ciò che serve per i riti. È un lavoro destinato ai bambini maschi.
Francesca Caprini