Inervista a Michael Van Heerden
Sedici anni dopo le prime elezioni democratiche, il Sudafrica fa il punto della situazione.
Il paese si sente finalmente libero, ma molti restano soffocati nelle spire della miseria: un nuovo ruolo profetico per la chiesa cattolica post-apartheid.
Dottorato in filosofia all’Università di Lovanio e un lavoro di responsabilità come preside del Saint Augustine College di Johannesburg, l’università cattolica sudafricana, padre Michael Van Heerden, è oggi una delle voci cattoliche più ascoltate. Ci parla delle contraddizioni e delle speranze di un paese che si sforza di lasciarsi alle spalle le grigie ombre del passato per costruire un futuro arcobaleno in cui regnino giustizia e pace… per tutti.
Che cosa significa essere un cattolico, oggi, in Sudafrica?
La grande sfida consiste nel dare una nuova immagine alle relazioni inter-etniche: lavorare e vivere insieme. Nel corso degli anni la chiesa è sempre stata interpellata a questo riguardo; è sovente accorsa in aiuto di altre realtà e ha saputo conquistarsi il rispetto di molti gruppi sociali. È stata capace di dimostrare, attraverso l’esempio, che cosa significa superare un conflitto culturale o conflitti tra gruppi linguistici ed economici differenti.
È un impegno nuovo e stimolante, se si pensa che, in passato, la chiesa cattolica era vista come un corpo estraneo, un prodotto d’importazione. Durante l’apartheid eravamo definiti il «pericolo romano» (romse gevaar), un nemico da temere insieme al pericolo rosso (comunista) e nero (etnico).
Trovarsi ora al centro dell’attenzione sapendo che ciò che si dice viene finalmente preso in considerazione è francamente confortante. Siamo pienamente accettati e visti come un esempio di ciò che il paese vorrebbe o dovrebbe essere; mi riferisco, ovviamente, al carattere universale e inclusivo della chiesa.
In passato, l’esistenza di un nemico comune, l’apartheid, era servito come fattore di unificazione fra le chiese di varia denominazione. Questa unione ha segnato l’inizio di un dialogo ecumenico fra le chiese? È progredito con il tempo? Come?
Certo, durante l’apartheid ci fu molta cooperazione fra le chiese. In quei giorni era facile trovare un terreno d’intesa, perché la realtà stessa presentava moltissimi spunti e temi su cui confrontarsi. Uno dei segnali più importanti fu la pubblicazione del Kairos Document (nel 1985, in pieno stato di emergenza), un testo fondamentale, una lettura teologica e politica e una chiara denuncia nei confronti del governo. Prodotto da teologi cattolici insieme a rappresentanti del Consiglio delle chiese sudafricane, il testo definiva senza mezzi termini l’apartheid come un peccato.
La fine dell’apartheid ha segnato un punto di svolta; le chiese in Sudafrica hanno dovuto ri-pensarsi e cercare di definire il loro ruolo in una nazione che sta velocemente cambiando. Un sentimento diffuso è che nel paese, oggi, si stia affermando un profondo individualismo. Uno degli aspetti negativi della nuova Costituzione, tra le più liberali al mondo, sta, per esempio, nel suo eccessivo liberalismo e in una delle sue conseguenze più deleterie che è l’ormai imperante relativismo.
Le chiese hanno capito che è il momento di riunirsi nuovamente e incentrare il loro dialogo su come fronteggiare il relativismo che si sta diffondendo a macchia d’olio nel paese. Dobbiamo dare il nostro contributo a livello morale: come stabilire dei valori in una società secolarizzata? Come dare significato a questi valori? Come vivere in una società relativistica?
Tale tema sta diventando materia di dialogo non più soltanto ecumenico, ma interreligioso. Esiste una piccola percentuale della popolazione musulmana e hindu che sostiene insieme a noi il bisogno di dialogare sui valori. La libertà, tanto agognata prima e sbandierata dopo il 1994, corre il rischio di rivelarsi un boomerang per la popolazione, perché molti la intendono come il diritto del singolo di fare finalmente ciò che gli pare.
Se si vuole creare una nazione basata sull’unità nella diversità, c’è bisogno di adottare dei valori comuni. Alcuni affermano che tali valori sono già contenuti nella Costituzione, cosa che sotto alcuni aspetti è vera. Sappiamo, però, che la Costituzione è in fondo un documento e il modo di leggere documenti del genere dipende dalla visione del mondo che uno ha: si può leggere lo stesso testo in molti modi diversi e alcune di queste letture o interpretazioni possono risultare distruttive per i valori che si vogliono proporre.
Nel recente passato la chiesa cattolica ha offerto svariate figure profetiche, veri e propri esempi di testimonianza per il paese e per l’intera cristianità; penso, per esempio a mons. Denis Hurley, la cui statura non è inferiore a quella del più famoso arcivescovo anglicano Desmond Tutu. In che cosa consiste la profezia cristiana in Sudafrica oggi?
Per certi versi Tutu è stata una figura più conosciuta e spesso più «vocale», ma mons. Hurley ha lavorato molto di più alla radice dei problemi, per cercare di cambiare le cose. Sebbene anche Hurley denunciasse apertamente la discriminazione razziale, il suo impegno principale era rivolto a stravolgere i fondamenti reali dell’apartheid. È questa l’eredità che gli sopravvive e che ci coinvolge oggi.
Non molto tempo fa ho avuto modo di parlare con mons. Kevin Dawling, vescovo di Restenburg, che fu incaricato del dipartimento di Giustizia e pace della Conferenza episcopale negli anni della transizione verso la democrazia. Mi commentava come, già all’inizio del cammino democratico del paese, i vescovi avessero individuato la giustizia economica come obbiettivo centrale verso cui indirizzare la voce profetica della chiesa.
Già allora risultava chiaro come gran parte della trasformazione vissuta dal paese non fosse in realtà una vera trasformazione. Bianchi ricchi sono stati sostituiti o affiancati da neri ricchi, ma non si è prodotto nessun cambiamento economico radicale che toccasse la grande maggioranza nera e povera del paese. È aumentata significativamente la classe media, e una buona percentuale di essa è composta oggi da neri, ma esiste ancora una larghissima fascia di popolazione nera che non ha visto cambiare minimamente il proprio stato. C’è bisogno di giustizia economica per i più poveri: e questo deve essere il tema centrale del nostro annuncio profetico.
Chiaramente, insieme alla giustizia economica vanno associati temi come corruzione, disoccupazione, Hiv-Aids. La maggior parte delle persone resta intrappolata in una situazione da cui non riesce a liberarsi. Parlo di miseria, difficoltà estrema ad accedere a un livello educativo anche minimo, a un servizio sanitario decente, a costruire strutture familiari adeguate. È povertà che si auto-riproduce e che va contrastata.
Il Sudafrica ha rappresentato un esempio per il modo pacifico in cui è stata vissuta la transizione dal regime dell’apartheid alla democrazia. Come spiega le manifestazioni di estremismo razzista, tanto bianco che nero, e le recenti violenze xenofobe?
Una delle frasi più care a Mandela è quella che, descrivendoci, parla del Sudafrica come di una «nazione arcobaleno». Lo siamo; e non solo, io credo, per la grande differenza di razze, nazioni e lingue, ma anche per la particolare geografia politica sudafricana. La forza del Sudafrica sta nella cosiddetta maggioranza dei gruppi minoritari. Mi spiego: sebbene i due gruppi etnici più numerosi del paese, gli Zulu e gli Xosa, insieme formano la maggioranza relativa, rappresentano comunque soltanto il 40% della popolazione. Esiste un significativo 60% composto dall’insieme degli altri gruppi minori. Questa, in un certo senso, è una situazione salutare per la democrazia, una garanzia di stabilità, che obbliga i gruppi a lavorare insieme.
Detto questo, bisogna però ricordare come nel periodo di transizione verso un governo democratico le aspettative di tutti erano aumentate enormemente. Alcune di esse erano giustificate, realizzabili e sono state in parte soddisfatte; altre aspettative erano invece irrealistiche, ma invece di essere scoraggiate sono state fatte oggetto di promesse, creando nella gente un’insoddisfazione di fondo.
Inoltre, oggi, assistiamo al fenomeno di persone provenienti da altri paesi africani che entrano nel nostro territorio e, sebbene non sia necessariamente vero, si insinua la percezione che la loro presenza possa privare i sudafricani di opportunità di lavoro. Del resto, occorre ricordare che molta della violenza scatenatasi verso gli stranieri avviene presso comunità molto povere in cui, quotidianamente, c’è già una continua battaglia per la sopravvivenza. In questi mesi assistiamo a una continua protesta nei confronti delle autorità, incapaci di garantire servizi basilari alle fasce più povere della popolazione.
Ecco che si ritorna al fattore della giustizia economica; molte comunità, soprattutto le più povere, stanno dicendo al paese: «Non abbiamo combattuto per la democrazia per non avere nulla in cambio. Pretendiamo di avere anche noi una parte nell’intero arricchimento del paese e nella distribuzione delle risorse». È una protesta legittima e, sebbene questi rigurgiti di xenofobia siano una pessima espressione di questa protesta, sono parte di un malcontento generalizzato di gente che è stufa e rifiuta di stare seduta ad accettare passivamente tutto, corruzione compresa.
Aspettano una presa di posizione e un’assunzione di responsabilità da parte del governo. Chiedono servizi: elettricità, condotte fognarie, contributo per la casa… tutte cose promesse e mai garantite. Nel momento in cui non degenera in una violenza xenofoba, ingiustificata e da condannare, questo conflitto in atto potrebbe persino essere visto come un segno che la democrazia sta prendendo piede nel paese.
Questa situazione di forte contrasto non potrebbe però dare vita a estremismi mai sopiti?
Penso che lo stesso fenomeno si verifichi praticamente in tutto il mondo: i due gruppi estremi, la destra e la sinistra, sono normalmente rappresentativi di persone che si sentono deprivate del potere. Il vecchio governo mantenne artificialmente una larga fetta della popolazione bianca a un livello privilegiato. Ora che questi privilegi sono di fatto decaduti se ne possono vedere immediatamente le conseguenze: per la prima volta nella mia vita vedo dei bianchi chiedere l’elemosina per le strade. Questa situazione dà forza a un estremismo bianco.
La stessa cosa succede con l’estremismo «nero»; prendiamo il caso del giovane politico Julius Malema (leader dell’African National Congress Youth League, Ancyl, la sezione giovanile del partito di governo); sebbene a livello personale egli sia più che benestante, trova buon gioco nell’insistere sul senso di insoddisfazione delle classi nere più povere. Essere populista è un modo facile per diventare popolare.
Credo comunque che lo «zoccolo» di centro sia sufficientemente ampio da mantenersi compatto e resistere alla pressione di entrambi gli estremismi. La maggior parte della popolazione lo ha dimostrato chiaramente anche prima della fine dell’apartheid, quando venne indetto un referendum (17 marzo 1992) e gli stessi bianchi votarono per avere un cambiamento, una nuova Costituzione. Ci si rese conto che non si poteva proseguire in quel modo: bisognava cambiare per il bene del paese e per evitare la guerra civile.
La gente continua a nutrire e vivere gli stessi sentimenti, nonostante che il bullismo estremista cerchi ogni tanto di appannare i sogni democratici della popolazione. La parte migliore di noi emerge in momenti come quello della Coppa del Mondo. Lì si è potuto toccare con mano come la maggioranza, bianca o nera che sia, creda in un nuovo Sudafrica e voglia contribuire a costruire la nazione.
Come vede il Sudafrica del futuro e come dovrebbero affrontare, oggi, il fenomeno giovanile lo stato e la chiesa?
Quando ci si occupa di educazione superiore, una delle domande più assillanti riguarda il come educare i giovani e dar loro un futuro. È un problema vissuto dall’intero continente africano. In Sudafrica viviamo oggi il grosso problema di studenti che abbandonano la scuola superiore. Oggi, nel paese solo il 16% dei giovani accede all’università, laddove la media europea si aggira intorno al 45% e la percentuale del continente africano è del 6%; questi sono i nostri due parametri di riferimento.
Il problema è questo: quando si preparano giovani accademicamente, occorre anche garantire loro adeguate opportunità di lavoro. Lo stiamo facendo? Una delle cose che il paese ha appreso dalla Coppa del Mondo è stata proprio la necessità di procurare impieghi per il settore giovanile. Oggi, però, la Coppa del Mondo è finita… e allora?
Non guasterebbe, forse, se alcune delle imprese sudafricane fossero ancora di proprietà dello stato; anche a costo di lavorare in perdita. Quel disavanzo sarebbe in realtà un investimento per il futuro.
Penso, ad esempio, alle ferrovie. Nel «vecchio» Sudafrica, quando il National Party prese il controllo del paese togliendolo ai britannici, buona parte della popolazione afrikaners viveva in situazioni di grande povertà e uno dei mezzi usati dal governo per sollevae le condizioni economiche fu l’impiegae un gran numero nel servizio ferroviario. Non solo la gente riceveva un lavoro, ma anche una formazione professionale. Sebbene le ferrovie chiudessero i loro bilanci in rosso, contribuivano a offrire innanzitutto un servizio efficiente di trasporto al paese e, in secondo luogo, la possibilità per molte persone di affrancarsi dalla povertà.
Come le ferrovie anche altre imprese, oggi private o semi private, potrebbero essere potenziali bacini di impiego per molti giovani. Viste anche le condizioni sociali, l’aumento della criminalità, ecc., a lungo termine potrebbe essere conveniente per lo stato mantenere alcune imprese che non danno reddito, invece di pagare un costo sociale due volte più elevato in termini di lotta alla criminalità e mantenimento del servizio carcerario.
Infine, ho appena finito di leggere un libro che analizzava la famiglia come capitale sociale. Dare sostegno e stabilità alla famiglia è senza dubbio una forma di investimento che aiuterebbe a tagliare i costi di prevenzione e lotta contro l’illegalità e il crimine. Oggi, la causa che sta alla radice dell’aumento di criminalità in questo paese è il crollo della famiglia.
Che cosa può dire della Campagna contro il traffico di persone organizzata in occasione dei campionati del mondo?
La Coppa del Mondo è stata un’importante cassa di risonanza per quello che era ed è un problema del paese. Ho letto che il Brasile si sta preparando a sfruttare l’evento dei prossimi campionati, che si giocheranno lì fra quattro anni, associandovi una campagna per contrastare il fenomeno della prostituzione minorile. Oggi, molte strade del traffico passano attraverso il Sudafrica. Il paese sta diventando un crocevia per il traffico delle persone, smistando «merce umana» fra i mercati asiatici e Sud/Nord americani.
Sappiamo bene che la Coppa del Mondo ha solo gettato luce su questa realtà, ma i problemi restano da risolvere. Posti come Citta del Capo stanno diventando mete di turismo sessuale. È un problema che dobbiamo affrontare seriamente come nazione e deve diventare una priorità del governo.
Una domanda finale rivolta al filosofo. Che cosa può oggi offrire il Sudafrica al continente africano in fatto di pensiero? E la chiesa cattolica che parte può avere in questo processo?
Una cosa che il Sudafrica può certamente offrire al resto del continente è una riflessione matura sui pro e contro del fenomeno «industrializzazione», fattore in cui il paese vanta una grande esperienza, soprattutto nel settore minerario. Penso, per esempio, ad alcuni scritti di Heidegger che vertono sulla strumentalizzazione delle relazioni e su come questo fatto svilisca la dignità del lavoratore e dello stesso datore di lavoro.
Anche una riflessione sulla diversità interculturale; su questo tema si sono sviluppati vari esperimenti di pensiero, su quali potevano essere i migliori modelli, capaci di facilitare il dialogo fra le differenze. In questo ambito, la chiesa è vista come un interlocutore importante proprio per la sua esperienza in merito.
In effetti, il Sudafrica non è soltanto un crogiuolo di culture, ma anche di filosofie. Per esempio, molte università statali, di fondazione britannica, seguono una tradizione analitica; la chiesa, invece, segue una tradizione continentale, cosa che rende possibile un buon dialogo e produce ricchezza di pensiero.
Un altro passo importante che si sta cercando di dare consiste nel far dialogare il pensiero originale sudafricano con il resto della filosofia del continente. Direi che questa è una delle priorità filosofiche del momento. Sicuramente possiamo imparare tutti dall’esperienza dell’altro. Prima vivevamo come chiusi, intrappolati in un sistema che non ci permetteva un’apertura verso l’esterno. Oggi possiamo trarre beneficio da tutta una riflessione africana che è venuta via via maturando nei campi della filosofia e della teologia.
In Sudafrica certamente qualcosa si sta facendo; uno dei temi emergenti nei circoli filosofici sudafricani è l’esplorazione del concetto di «ubuntu»: che significato ha il concetto di comunità oggi, a confronto con la modeità, davanti al fenomeno dell’urbanizzazione, in un contesto prettamente africano? Cosa significa e che senso ha, oggi, condividere e preoccuparsi per il bene comune? Mi sembrano temi importanti con i quali il Sudafrica di oggi deve assolutamente confrontarsi.
Ugo Pozzoli
Ugo Pozzoli