Regala la vita

La salute matea e infantile, chiave di volta degli obiettivi del  millennio

La salute matea e infantile, quinto Obiettivo del Millennio, è di importanza cruciale per raggiungere anche gli altri obiettivi in ambito sanitario e socio – economico. Ma i risultati ottenuti finora sono ancora lontani dall’essere soddisfacenti.
Lo stato dell’arte della salute matea
«Fra gli obiettivi del Millennio, la salute matea è quello più lontano dall’essere raggiunto. Eppure, questo obiettivo è fondamentale per raggiungere tutti gli altri». Con queste parole il Segretario Generale delle Nazioni Unite, Ban Ki Moon, ha aperto la conferenza durante la quale è stata lanciata, lo scorso 22 settembre, la nuova Strategia globale per la salute matea e infantile dell’ONU. «Se in alcuni Paesi ci sono stati segni di miglioramento», ha proseguito il Segretario Generale, «le donne che muoiono per malattie legate alla gravidanza e al parto sono ancora centinaia di migliaia. Una disgrazia che non possiamo più tollerare», ha concluso Ban Ki Moon. Per questo, con la nuova strategia saranno stanziati quaranta miliardi di dollari per salvare la vita di sedici milioni di donne e bambini.
Secondo i dati ONU, delle oltre 350 mila donne che muoiono annualmente durante la gravidanza o il parto, il 99% vive nei Paesi in via di sviluppo. In Africa sub-sahariana una donna incinta su trenta perde la vita, a fronte di un rischio pari a uno su 5.600 nei Paesi sviluppati. Ogni anno, un milione di bambini resta senza madre; la loro probabilità di morire prematuramente è dieci volte più alta rispetto agli altri bambini. I dati sono indubbiamente allarmanti e lo diventano ancora di più se si considera che l’80% dei decessi di donne incinte sono causati da emorragie, infezioni, travaglio complicato, interruzioni di gravidanza praticate con metodi non sicuri e malattie ipertensive. Si tratta, cioè, di patologie che potrebbero essere contenute semplicemente mettendo a disposizione delle madri e dei loro bambini dei servizi sanitari adeguati, gestiti da personale qualificato e in strutture dotate dell’attrezzatura necessaria per intervenire tempestivamente. Nel caso della trasmissione del virus HIV da madre a figlio, inoltre, un’assistenza sanitaria adeguata è fondamentale per ridurre il rischio di contagio, che aumenta durante il travaglio,  il parto e con l’allattamento al seno.
Gli interventi che, nel corso di questi anni di impegno per il raggiungimento degli obiettivi del millennio, hanno dimostrato maggior efficacia sono quelli che hanno saputo tenere in considerazione le specificità delle singole realtà alle quali si applicavano. Nel caso della salute matea e infantile, infatti, ad avere maggiore successo non sono stati progetti mastodontici che prevedevano grandi investimenti e trasferimenti di tecnologie, bensì iniziative più limitate che però valorizzavano le risorse locali e superavano difficoltà apparentemente non collegate all’ambito sanitario, come quelle relative ai trasporti. Ad esempio, nelle zone rurali e isolate si sono rivelati decisivi la formazione di levatrici tradizionali, la creazione di comitati sanitari di villaggio a livello di comunità di base e la costruzione di reti di piccoli centri sanitari in grado di assistere le pazienti quando la situazione delle strade e delle vie di comunicazione rende difficoltosi gli spostamenti delle donne incinte all’ospedale di riferimento.

l’esempio di Neisu
«è proprio per innestare il servizio di salute matea nel contesto socio–culturale del Paese», conferma il personale dell’ospedale Nostra Signora della Consolata di Neisu, in Repubblica Democratica del Congo, «che abbiamo scelto di investire sulla formazione delle levatrici tradizionali, figure di importanza fondamentale in un contesto rurale isolato come quello di un villaggio della provincia prientale congolese».
La popolazione locale, infatti, si affida da tempo immemore ai servizi di queste donne quando si tratta di assistere una donna incinta nella gravidanza e nel parto. Le donne incinte e le loro famiglie ripongono completa fiducia nella figura della levatrice tradizionale, che conosce le tecniche, radicate nella cultura locale, per favorire il parto. Tuttavia, ci sono numerosi casi in cui l’assistenza delle levatrici, nonostante la loro competenza, non è sufficiente per evitare l’insorgere di complicazioni che possono mettere a rischio la vita di partorienti e neonati. Per questo, reclutare e formare queste donne perché possano arricchire le loro conoscenze tradizionali con nozioni tipiche della medicina modea ha significato dotarle, nel rispetto della cultura locale, degli strumenti necessari a riconoscere una situazione potenzialmente rischiosa e orientare in tempo le future mamme verso i servizi della rete sanitaria dell’ospedale di Neisu.
Questa rete, con il suo ospedale di riferimento e gli undici centri sanitari periferici, è in grado di fornire alle donne con gravidanze difficoltose l’assistenza e le terapie necessarie a limitare in modo decisivo i rischi di decesso della madre o del neonato.

Clinica di Modjo e
dispensario di Alendu
In occasione della campagna di Natale 2010 Regala la vita, Missioni Consolata Onlus ha deciso di concentrare i suoi sforzi su progetti che, come quelli finora coronati da successo, privilegiano strutture relativamente piccole e molto radicate nel tessuto socio-culturale locale. In particolare, quest’anno la campagna sarà incentrata sulla Catholic Clinic di Modjo, in Etiopia, e sul Saint Luke Dispensary di Alendu, in Kenya. Si tratta di due strutture sanitarie collocate in una posizione strategica che permette loro, nonostante le dimensioni limitate, di fare la differenza nelle zone di competenza poiché vanno a inserirsi in contesti nei quali i servizi sanitari di buona qualità sono praticamente assenti o non riescono a fare fronte a una richiesta di assistenza troppo elevata.
Modjo è una cittadina di circa quarantamila abitanti che si trova 75 chilometri a sud-est di Addis Abeba, la capitale etiope. È una realtà in rapida espansione poiché si trova al crocevia di diverse strade che collegano le regioni dell’Etiopia tra loro e con il Kenya. Questo rapido sviluppo comporta problemi di gestione tra i quali quello sanitario è uno dei principali: il passaggio di merci e persone, infatti, induce scompensi che creano, tra l’altro, malnutrizione, disoccupazione, carenza di abitazioni e di igiene, in un contesto dove le strutture sanitarie pubbliche sono per il momento inadeguate a far fronte alla richiesta di assistenza crescente legata all’espansione della città.
La Catholic Clinic, gestita dai missionari della Consolata in collaborazione con le Suore della Carità, cerca di raccogliere queste sfide in ambito sanitario e di rispondere alle esigenze della popolazione locale. Il progetto relativo alla salute matea, in particolare, mira a rendere pienamente operativa la mateità per permettere alle 1.300 donne che si rivolgono annualmente alla clinica di godere dell’assistenza sanitaria pre- e post-natale e ai neonati di ricevere fin da subito le cure necessarie per evitare malnutrizione e malattie che potrebbero pregiudicare seriamente la crescita dei bambini.
Alendu è un villaggio vicino a Kisumu, sulle rive del lago Vittoria. Nonostante le ingenti risorse ittiche del lago e la possibilità, almeno in alcune aree, di trovare terreno fertile, la zona di Kisumu non ha beneficiato finora di uno sviluppo sufficiente a migliorare significativamente la condizione dei suoi abitanti: mancano le infrastrutture, l’agricoltura è quasi solo di sussistenza, la carenza di acqua potabile e i regolari allagamenti durante le piogge favoriscono la diffusione di malattie conseguenti alla mancanza di strutture d’igiene adeguate (vedi MC gennaio 2010 pag. 55).
Il dispensario Saint Luke è stato aperto dai missionari della Consolata nel 2009 e sta ampliando le sue attività anche di conseguenza all’aumento delle richieste di assistenza ricevute dal vicino ospedale di Chiga, che ora fatica a soddisfare tutti i pazienti che si rivolgono annualmente alle sue strutture. In particolare, nell’ambito della salute matea, il dispensario di Saint Luke ha appena lanciato un progetto di assistenza alle madri affette da HIV e alle madri single, inserendole in un programma di prevenzione della trasmissione da madre a figlio. Alle donne coinvolte nel progetto verrà foita assistenza sanitaria, terapia anti-retrovirale ove necessario e formazione su come evitare il contagio.

Chiara Giovetti

Chiara Giovetti




Neghelli parla romagnolo

Gambo: l’opera di padre Tarcisio Rossi continuata da un compaesano

Il sogno di p. Tarcisio Rossi (+ 2005), stroncato dalla morte, è continuato e portato a termine da un compaesano: ecco la storia di un silenzioso volontario di Cesena, Bruno Fusconi, che da oltre 20 anni coinvolge amici e benefattori romagnoli nella missione di Gambo, in Etiopia.

È la 19° volta che il signor Bruno Fusconi torna a Gambo. Da quando ha stretto una solida amicizia con il compaesano di Cesena, padre Tarcisio Rossi, ogni anno ha speso 3-4 mesi in Etiopia, prima per aiutare il suo concittadino, poi per continuae l’opera.
Nel 2004, padre Tarcisio progettò la costruzione di un nuovo centro missionario a Neghelli, a 40 km da Gambo, ma non ne vide  che gli inizi, essendo deceduto all’inizio di settembre del 2005. Il signor Bruno, come promesso all’amicoe conterraneo, continuò quel progetto, che si può considerare ormai realizzato con l’inaugurazione della chiesa, avvenuta l’estate scorsa.
Ma l’opera principale è stato l’asilo, aperto nel 2008 con una sessantina di alunni; oggi sono 130 e c’è posto per altri 70. «Gli scolaretti di 4 e 5 anni – racconta Bruno – sono seguiti da personale qualificato; vestono una divisa azzurra con camicia rosa: per molti di essi sono i primi indumenti di qualità ed è la prima volta che possono giocare in un luogo sicuro e pulito. Tra insegnanti, assistenti e personale vario, l’asilo dà lavoro a 13 persone, il che significa sostegno per 13 famiglie: è stato adottato per intero dalla ditta Origel di Cesena, che si è impegnata a sostenee le spese».
È infatti bussando alla porta di ditte, banche, club, associazioni e amici cesenati e romagnoli che il signor Fusconi è riuscito a costruire le varie strutture di Neghelli: case per le suore, abitazioni per i missionari e personale di servizio, salone polivalente e la chiesa. Ma sono molte le opere di utilità pubblica che portano la sua firma in questi 20 anni di volontariato nella missione di Gambo: linee elettriche, pozzi per l’acqua, strade, scuole elementari e medie, cappelle e sostegno a varie iniziative dei missionari e missionarie della Consolata, come borse di studio, corsi di formazione per la promozione della donna, progetti di microcredito.

«Dopo due ore e mezza di cammino su una pista fangosa, suor Eudoxia e io siamo saliti fino a 2.600 metri di altitudine, per raggiungere la frazione di Alamgana, dove i cattolici costituiscono il 90 per cento della popolazione. Essi ci attendevano nel salone parrocchiale per la chiusura dell’anno di formazione di un gruppo di donne, pronte per avviare attività di microcredito», racconta Bruno. Le iniziative di emancipazione femminile sono portate avanti con successo dalle suore e il signor Fusconi dà il suo valido supporto, con  l’aiuto dei benefattori.
«Abbiamo consegnato a una trentina di donne un prestito in denaro con cui iniziare un’attività in proprio – continua -. Più che un esercizio di microcredito, mi sembrava di partecipare alla creazione di una vera e propria Cassa Rurale, con documenti da compilare, firme del beneficiario e controfirma del rispettivo marito o da un conoscente».
Tale procedura rafforza l’importanza dell’atto sottoscritto. Prima di ricevere il prestito la donna deve frequentare i corsi di formazione in cui impara a leggere e scrivere e riceve istruzioni su come gestire la propria attività. Inoltre, porre la firma in un documento conferisce alle donne il senso di autostima, d’importanza e di autorità in seno alla propria famiglia.
Le attività intraprese da queste donne sono varie: acquisto di una mucca da latte, una pecora già gravida (per avere subito agnellino e latte), galline per la produzione di uova, sementi varie per le coltivazioni, esercizio di piccoli commerci… tutto per rispondere almeno in parte alle necessità della famiglia.
Attualmente i corsi di formazione sono stati organizzati in sette comunità della missione, con la partecipazione di 560 donne, delle quali 218 hanno avuto accesso al microcredito. Molte di esse hanno già restituito il prestito.
Mentre aumentano i partecipanti ai gruppi già costituiti, altre comunità chiedono di poter godere di tale iniziativa: le donne hanno capito che l’alfabetizzazione e l’esercizio di una microattività è l’unica strada per uscire dall’emarginazione, diventare protagoniste della gestione familiare e reclamare la parità con gli uomini in seno alla famiglia e alla società.

Benedetto Bellesi

Benedetto Bellesi




Il crogiuolo delle religioni

Dove la religione è chiave per capire un paese

Con sei italiani dell’associazione Impegnarsi Serve in Corea per cercare di capire qualcosa di un paese che non è solo uno dei giganti economici del mondo o quello con il confine più militarizzato del mondo, ma anche quello in cui diverse religioni coesistono in armonia.

Siamo partiti con i vestiti leggeri per la Corea, dove ad agosto fa caldo. Eravamo in sei dell’associazione Impegnarsi serve, una onlus da tempo fiancheggiatrice dei Missionari della Consolata con cui ha fatto molti progetti. Alcuni di noi erano già stati in Kenya, Tanzania e Roraima (Brasile) per seguire i progetti che l’associazione aveva là iniziato. Ma perché andare in Corea? Già dallo scorso anno avevamo sentito il bisogno di aprire i nostri orizzonti sul dialogo interreligioso come dimensione nuova della missione senza fermarci solo ai problemi di sviluppo e promozione umana. Così, quest’anno 2010, il nostro gruppetto, tre uomini e tre donne, si è recato in Corea, mentre un altro nostro gruppo è andato in Costa d’Avorio con il medesimo obiettivo. L’approccio è stato di tipo esperienziale: attraverso i viaggi di conoscenza vogliamo promuovere qui in Italia una visione della solidarietà che non sia semplicemente l’aiuto portato a persone lontane in situazioni di bisogno, ma conoscenza e dialogo con culture e situazioni differenti che possono portare a un reciproco arricchimento. P. Giordano Rigamonti, l’anima della nostra associazione, ci aveva preparato con poche raccomandazioni: umiltà – grande, rispetto – molto, umanità – tanta, curiosità – discreta.
Corea, passando dalla porta del ju e del li
Dopo 24 ore di viaggio siamo sbarcati a Seoul e subito abbiamo assaggiato il caldo/umido della Corea che ci ha accompagnato per tutti e venti i giorni della nostra permanenza. Non conoscevamo l’Asia e il primo impatto con una cultura e un popolo così diversi non è stato semplice. Abbiamo viaggiato tanto, ma mai ci era capitato di essere così smarriti di fronte a una lingua tanto diversa e quindi impossibile da decifrare per noi. Per nostra fortuna p. Diego Cazzolato, superiore dei missionari della Consolata in Corea, ci ha accompagnato sempre. La sua guida è stata preziosa non solo come indispensabile traduttore, ma soprattutto perché piano piano ci ha spiegato le radici storiche e culturali del popolo coreano e ci ha dato le chiavi di lettura che ci hanno permesso di avvicinarci ad un mondo così diverso.
Per capire veramente una cultura bisogna conoscee la religione. Forti di questa certezza, ci siamo messi di buona volontà ad approfondire e studiare, ma p. Diego ci ha subito spiegato che in Corea le religioni sono molte e quindi il problema diventa difficile. Non a caso i missionari della Consolata hanno scelto il dialogo interreligioso come una delle vie specifiche della loro presenza missionaria in quella nazione.
Ci siamo accostati per primo al Buddismo, la religione più diffusa oggi in Corea, abbiamo poi incontrato rappresentanti del Ch’on-do-kyo (la via del cielo, una religione nazionale e nazionalista coreana), del Buddismo Won, del Confucianesimo e per finire abbiamo conosciuto una sciamano. Così, quasi con un percorso a ritroso nel tempo dalla religione più recente a quella più antica, abbiamo tentato di conoscere le varie religioni e vedere come nel tempo si siano sovrapposte e siano diventate, in alcuni casi con evidenti fenomeni di sincretismo, il fondamento su cui è costruita l’identità della Corea di oggi.
Da subito ci siamo chiesti come sia possibile che tante religioni convivano in Corea senza scontrarsi. Speravamo di scoprie in fretta il segreto per portarlo da noi (Lombardia), dove la convivenza tra cristiani e musulmani sembra diventare ogni giorno più difficile. Così p. Diego ci ha spiegato che i coreani hanno un forte senso di appartenenza e che il fatto stesso di essere coreani supera qualsiasi altra differenza, anche religiosa. Probabilmente un così forte senso di appartenenza è frutto della loro storia. Il confuciano principio del ju, rispetto e reciprocità, e quello del li, lealtà, permeano ancora oggi le relazioni nella società coreana, mentre un forte nazionalismo è la conseguenza della ribellione al colonialismo giapponese fortemente appoggiata dal Ch’on-do-kyo. La cosa certa è che tutto questo non è trasportabile qui da noi.
Superata la prima delusione di non trovare una risposta facile, non ci è rimasto che continuare il nostro viaggio di conoscenza nella speranza di trovare altre strade. Subito abbiamo capito che il percorso non era facile. Con la sua umanità p. Diego ci ha guidato, spiegandoci innanzi tutto che cosa non è il dialogo interreligioso per portarci poi a comprenderne il vero significato.
Dialogo interreligioso
Dialogo interreligioso non è studio delle altre religioni, non è ecumenismo, non è il tentativo di raggiungere l’unità tra le varie religioni, non è uno sforzo per convertire gli altri.
Ma allora cosa è?
C’è stata una discussione tra di noi. Il punto in questione era il come porci nell’incontro con persone di una religione diversa: è giusto dichiarare da subito la propria religione o è una forma di rispetto e di vera volontà di dialogo il non dichiarare da subito la propria appartenenza?
P. Diego ci ha suggerito di iniziare ogni mattina con la preghiera e la messa. Dopo un po’ abbiamo capito che un dialogo interreligioso deve necessariamente partire da una forte identità e da una grande conoscenza e consapevolezza della propria religione. è stato bello trovarsi giorno dopo giorno più uniti intorno al caratteristico altare basso che si usa in Corea. Dopo la messa c’era tutto il tempo per le nostre esplorazioni.
Fatto un giro nella città di Seoul, abbiamo visitato per primo il centro del dialogo interreligioso di Okkil inaugurato dai missionari nel 1999. Subito siamo stati colpiti dalla mancanza di simboli della nostra religione, solo una Madonna in granito immersa nella quiete del giardino circostante che, ci hanno spiegato, vuole rappresentare la madre che accoglie tutti. Spesso i simboli laici o religiosi di appartenenze rischiano di costituire un ostacolo e anche un motivo di offesa reciproca. Per questo è importante trovarsi in uno spazio aperto favorevole all’incontro, al confronto, al dialogo nel rispetto dell’altro.
Il dialogo interreligioso è un cammino tutt’altro che semplice. «Il dialogo interreligioso è l’incontro di persone appartenenti a diverse religioni, che avviene in un’atmosfera di libertà e di apertura, con il fine di ascoltare l’altro, cercando di capire la sua religione, nella speranza di trovare possibilità di collaborazione» (card. Arinze).
In virtù delle relazioni che da anni tiene con le varie religioni, partecipando anche a incontri ufficiali, p. Diego ci ha fatto incontrare alcune persone appartenenti alle 5 religioni più importanti nel paese e ci ha anche guidato a conoscere la storia della Chiesa Cattolica sudcoreana con i suoi tanti martiri. La storia del cattolicesimo in Corea è relativamente recente (fine del XVIII secolo) ed è segnata da due grandi persecuzioni: 1866 e 1901 (vedi box pag. 56). I protestanti, oggi la maggioranza dei cristiani coreani, ebbero via libera nel 1882 grazie ad un trattato con gli Stati Uniti.
Incontri
Alcuni incontri sono stati più formali, altri ci hanno toccato di più. Due sono state le esperienze che più ci hanno aiutato a capire: il soggiorno (chiamato temple stay) nel tempio Hwa-gye-sa del buddismo zen e l’incontro con la mudang Choung-Sun-Deo, una sciamano (vedi box a destra).
Non è stato facile alzarsi alle 3 del mattino e pregare per 7 ore in posizione zen, ma provare a condividere il serio impegno religioso e le belle forme di spiritualità dei monaci buddisti ci ha affascinato e fatto riscoprire la bellezza e la serenità della preghiera. Canti, preghiere e suoni lenti e ritmati aiutano a entrare in relazione con il divino; riscoprire alcuni di questi metodi può essere importante per tutti.
L’ultimo incontro, quello con la sciamano è stato senza dubbio il più sfidante. Parlare con lei, scoprire la storia della sua chiamata e conoscere l’impegno con cui porta avanti la sua missione è stata per noi una vera sorpresa. Il nostro naturale scetticismo nei confronti di ogni forma di religiosità diversa, ha dovuto cedere alla precisa sensazione che qualcosa di soprannaturale fa parte dell’esperienza di Choung-Sun-Deo. Sicuramente è la sua personale consapevolezza di essere in contatto con gli spiriti che la spinge a farsi carico di coloro che soffrono e le chiedono aiuto.
Le sciamano donne sono considerate quasi come le nostre streghe di un tempo, emarginate dalla società, ma cercate poi di nascosto quando c’è la necessità di risolvere qualche problema. Abbiamo avuto la possibilità di assistere a un kud, il rito in cui la sciamano entra in contatto con lo spirito di un morto, nel nostro caso con quello del marito di una signora che aveva chiesto di essere aiutata a rappacificarlo perché suicida. È stata un’esperienza forte che ha suscitato molti interrogativi.
INTERROGATIVI E SPERANZE
Abbiamo avuto solo un piccolo assaggio delle varie religioni, ma nell’esperienza al tempio, così come durante la preghiera con i monaci e le monache del Buddismo Won, abbiamo sentito che qualcosa di misterioso e spirituale stava accadendo.
Questo comune sentire tra noi  partecipanti al viaggio ci ha fatto riflettere molto. Se è vero che anche queste sono religioni e come tali sono alla ricerca di Dio o comunque dell’assoluto, come dobbiamo porci noi nei loro confronti? P. Diego ci ha rassicurato: «Che lo Spirito di Dio è presente anche in esse; che contengono i Semi della Parola; che c’è in esse molto di buono e santo che merita il rispetto e l’attenzione della Chiesa; che è possibile un dialogo vero, fatto anche di scambio di esperienze spirituali, con le persone di altre religioni; che possiamo aiutarci a vicenda nel cammino verso Dio; che possiamo lavorare insieme per il bene dell’umanità e per la costruzione del Regno».
Sicuramente questa nostra breve esperienza ha di molto aumentato il nostro rispetto verso le altre religioni. Ma la domanda «perché esistono tante religioni (se una sola è vera)?» si è insinuata dentro di noi. Questa è la sintesi di p. Diego. «Certamente Dio ha i suoi cammini, molte volte sconosciuti a noi, per farsi presente a tutti gli uomini, e per parlare al loro cuore. Le stesse religioni non cristiane credo che costituiscano alcuni di questi cammini. Mi sembra di poter affermare che il Signore Risorto attira a Sé le altre religioni, in una maniera misteriosa che io non conosco e che i teologi si affannano di chiarire e capire, e ciò le rende, per i loro fedeli, un mezzo concreto per fornire qualche risposta ai quesiti fondamentali dell’essere umano, e per offrire un cammino concreto di ricerca e comunione con il Mistero di Dio».

Laura Poretti

Laura Poretti




Il deserto è rifiorito

Primi battesimi ad Arvaiheer

Dopo quattro anni di studio della lingua e cultura del paese, nel 2007 i Missionari della Consolata hanno aperto la missione di Arvaiheer, a 340 km dalla capitale. Il giorno di Pentecoste di quest’anno hanno raccolto i primi frutti: sei donne hanno ricevuto il battesimo.

L’inverno è stato particolarmente rigido in tutta la Mongolia, causando la morte di alcuni milioni di capi di bestiame. E ad Arvaiheer, ai margini del deserto dei Gobi, neve e gelo hanno provocato un autentico disastro. Grazie alla solidarietà ricevuta attraverso la campagna «Mongolia: emergenza gelo», abbiamo potuto aiutare le famiglie più bisognose, provvedendo loro cibi, abiti, carbone, farina e fieno per gli animali.
Con la fine dell’inverno, la steppa e il deserto hanno ricominciato ad inverdire. Anche in questi angoli sperduti dell’Asia la vita vince sempre sulle difficoltà e sulle disperazioni e sulla morte. E non solo in senso materiale.
Lo scorso 23 maggio, domenica di Pentecoste, è stato un giorno di festa tutta speciale per la missione di Arvaiheer: 6 donne del paese hanno infatti ricevuto il battesimo. Dal nostro arrivo in Mongolia nel 2003, a parte la breve esperienza nella capitale, nel quartiere dell’aeroporto di Ulaanbaatar, sono questi i frutti visibili della nostra presenza di evangelizzazione in questo paese.
Sappiamo che quanto rimane nascosto nel cuore delle persone, senza riscontri estei, ha un valore immenso, che sfugge alla logica del computo e delle statistiche; non sono queste le cose che ci interessano. Nondimeno desideriamo ringraziare il Signore per queste scelte di vita sulle quali si costruisce la comunità cristiana.
Le sei nuove sorelle in Cristo hanno fatto una scelta di vita radicale, se si pensa al contesto in cui vivono e alla novità del messaggio cristiano per tutta questa popolazione. Battogoo (Lucia) è la più giovane (23 anni) e la più timida: cresce con tanta cura il suo figlioletto Byambadorj, senza la presenza del marito, e non è la sola in questa situazione; Perlimaa (Rita) e Diimaa (Elisabetta) sono due sorelle di una numerosa famiglia, la prima ex-operaia al tempo del comunismo e la seconda insegnante d’asilo in pensione; Narantuya (Caterina) e Otgonbayr (Maddalena) abitano nello stesso terreno, ma una vive di espedienti con figli e nipoti a carico, mentre l’altra ha marito e due figli; infine Deejit (Anna) si è stabilita da tre anni ad Arvaiheer, dopo aver perso il bestiame in aperta campagna, e vive con madre, figlia e nipoti in una piccola ger regalatale dalle sorelle.
Con noi hanno percorso un cammino di scoperta della fede e poi di preparazione ai sacramenti per più di due anni. In questo tempo di condivisione e di scambio ci hanno aperto spiragli veri sulle loro famiglie, spesso in situazioni difficili, a volte affaticate dalla povertà e dalle prove di una vita non facile, dove il contatto con il limite e le fragilità (la morte soprattutto) non è ancora stato esorcizzato dalla tecnologia e dalle illusioni del consumismo.
Per noi è stata una grazia vedere come queste vite erano già segnate misteriosamente dalla presenza di Dio che le ha guidate a questo incontro personale con Gesù.
La decisione di chiedere il battesimo l’hanno presa lo scorso autunno e passo dopo passo è cresciuto in loro il desiderio di entrare in questa vita nuova di perdono, misericordia e comunione intima con Dio. L’unione fra di loro è andata via via aumentando, soprattutto negli ultimi mesi, in cui hanno anche avuto la possibilità di incontrare altri mongoli cattolici in un viaggio ad Ulaanbaatar, accompagnate dai loro catechisti, suor Lucia e padre Eesto.
Il giorno in cui abbiamo chiesto loro un colloquio personale di verifica erano emozionate e un po’ impaurite dal dubbio di non ricordarsi qualche punto della catechesi; invece hanno dimostrato di aver recepito almeno i punti essenziali della dottrina cristiana e soprattutto hanno manifestato spontaneamente un vero desiderio di abbracciare la vita dello Spirito.
Una di loro l’avevamo vista recarsi al monastero buddista per riconsegnare l’altarino tradizionale, di cui conserva il rispetto dovuto alla tradizione, ma che non si sente più di tenere nella ger come oggetto di culto.
Tale evento è stato per noi un momento anche di intensa preghiera, che ha coronato un lungo periodo di preparazione e segnato l’inizio di un cammino altrettanto lungo, anzi per sua natura destinato a non finire.

La vita della grazia, infatti, si innesta in noi con potenza, ma necessita di continue riprese e risurrezioni quotidiane. Come quella che abbiamo sperimentato la vigilia di Pentecoste. Sapevamo di certi dissapori che erano venuti a crearsi nel gruppo, per via di malintesi, pettegolezzi e ferite di questo genere. Secondo la tradizione buddista il diffamare gli altri attraverso mezze verità e giudizi calunniosi è uno dei 10 «peccati» più gravi e ne abbiamo toccato con mano gli effetti nefasti: persone in lite tra di loro, che si discreditano a vicenda presso gli altri col raccontare i peccati altrui e così «rovinare il nome» di quella famiglia.
Non potevamo arrivare al battesimo senza una riconciliazione vera: così abbiamo organizzato un momento di chiarimento, dopo la condivisione della Parola di Dio del sabato pomeriggio. In presenza delle interessate, abbiamo esposto il problema e dichiarato che per chi abbraccia la vita cristiana non ci può essere spazio per falsità e inganni; quindi abbiamo invocato lo Spirito e invitato le presenti a dirsi una volta per tutte la verità.
C’è stata tensione, ma poi le lacrime hanno rotto gli argini e si sono dette quello che si dovevano dire; il passo successivo è stato quello di alzarsi dal proprio posto e tendere la mano a ciascuna delle altre, chiedendo scusa e offrendo il proprio perdono. Infine padre Eesto ha letto il brano della lettera di Giacomo sulla necessità di controllare la propria lingua: «Vedete un piccolo fuoco quale grande foresta può incendiare!» (Gc 3,5).
Il seguito è stato un sospiro di sollievo e un ritorno del sorriso su volti bagnati dal pianto; è stato così bello vedere di nuovo la vita negli occhi di quelle donne, mentre bevevano un tè a casa nostra per festeggiare la riconciliazione!

Poi il gran giorno di Pentecoste: la luce entra dal tondo centrale della ger-cappella proprio a illuminare le camicie bianche, cucite in stile mongolo che le neo-battezzate adesso indossano ogni domenica.
Grande partecipazione di tutta la comunità, occhi incuriositi di bambini e adulti mentre l’acqua gocciola dalla testa nel fonte battesimale. L’atmosfera raccolta ha facilitato la liturgia, con i suoi segni sobri ed essenziali, ben preparati da tutti.
Dopo la messa un momento di festa organizzato dalle altre donne della comunità: sembrava di essere a un banchetto tradizionale, non tanto per cibi raffinati (che non c’erano), ma per la solennità semplice delle tradizioni mongole, con bambini che recitano poesie interminabili, giovani che mettono in scena atti di commediole e adulti che cantano le lodi della madre, compresa la madrina, suor Lucia, che si è vista regalare una camicia tradizionale di colore azzurro, come il cielo.
Desideriamo ringraziare con voi il Signore per questo momento di celebrazione delle sue lodi; lo facciamo insieme alla Consolata, madre nostra e di tutti i figli e figlie di Dio di ogni popolo e nazione. Evviva!

Daniele Giolitti

Daniele Giolitti




La felicità non si trova per strada

«Chicas y chicos de la calle» a Buenos Aires

Hanno dormito per le strade. Hanno conosciuto la violenza. Hanno rubato ed assunto droghe. Hanno vissuto come adulti pur non essendo adulti. Abbiamo visitato due strutture familiari che accolgono bambine e bambini di strada. Strutture piccole, ma che raggiungono lo scopo: dare ai ragazzi un tetto per la notte e quel po’ di affetto e attenzione, che non hanno trovato nelle loro famiglie.

Buenos Aires. Il lavandino è nel cortile, davanti alla porta della piccola abitazione. I ragazzi pelano le patate, tagliano le carote, lavano i pomodori. 
Altri ragazzi sono in strada, una strada non trafficata di Barracas, a preparare la legna, recuperata da cassette e vecchi mobili.  Il fuoco per l’asado sarà acceso lì fuori, senza troppe formalità.
Gli invitati sono ragazzi e ragazze in apparenza normali. Normali nell’indossare maglie extralarge, normali nel modo di portare i jeans o la tuta, normali negli atteggiamenti spavaldi, normali nei gesti e nel modo di scherzare, di ascoltare musica o di abbordare l’altro sesso. In apparenza, abbiamo detto. Perché nella realtà questi giovani – l’età varia dagli 8 ai 16 anni – hanno già sperimentato troppo nella loro ancora breve esistenza. Una vita in strada, senza famiglia, a contatto con la droga, la polizia, il sesso a pagamento, i furti, il carcere, le botte, gli abusi sessuali.
Ecco, arrivano il vassoio con la carne da cuocere e la salsa di pomodoro, di cui Mario va tanto fiero. Mario Sotero è il padrone di casa e l’organizzatore della festa. Da ex ragazzo di strada, nel suo piccolo, da anni Mario si dedica al recupero di giovani e giovanissimi, che si sono persi ma che sono ancora recuperabili. Ci siamo conosciuti alcuni anni fa al Santa, una struttura di recupero dei salesiani di Buenos Aires dove Mario fa l’istruttore di arti marziali.
Mario è amato dai ragazzi. Uno di loro, cappellino calato sulla fronte, dice:  «Tutti i ragazzi vogliono bene a Mario. Perché lui è sempre molto buono con noi». 
Anche se non sempre la sua bontà viene premiata. Nella sua voglia di fare e di aiutare, Mario ha infatti subito – un po’ per ingenuità, un po’ per sfortuna – anche un rovescio, costoso per il portafogli e per l’autostima. Le autorità locali gli hanno demolito una casetta, costruita con i soldi risparmiati e il lavoro suo e dei ragazzi, che avrebbe dovuto fungere da rifugio per la notte.  Si è ripreso e ha reiniziato a darsi da fare per aiutare i ragazzi di strada di Buenos Aires.
Leo sta controllando il fuoco sotto la griglia delle cai. Ha 17 anni, ma sembra più giovane. È stato sulle strade dall’età di 11 fino a 15. «In casa mi picchiavano. La vita di strada è dura. Non ti puoi lavare. Gira droga».
Come vivevi?, gli chiediamo. «Rubando alle vecchie nel centro di Buenos Aires: la borsa, la catenina, gli anelli. Ora, con l’aiuto di Mario, sono uscito. Ho un lavoro in nero, ma è un lavoro. Per il futuro mi piacerebbe studiare, formare una famiglia e lavorare con i bambini di strada».
Leo porta con sé un fratello più piccolo, Juan. Juan ha occhi grandi e una faccia pulita da bambino spaurito. «Sono andato via di casa perché mio papà mi picchiava. Sono andato con Leo, mio fratello. Sono stato in strada per un anno. Ora vivo nel parador di Tina». Juan non è mai andato a scuola e, dalle sue risposte, pare un bambino molto fragile. «Da grande vorrei insegnare karate come Mario», spiega.
Alejandro Daniel ha 14 anni, capelli neri ed un fisico robusto:  «La mia mamma aveva un fidanzato. Un giorno lui venne e mi disse che dovevo andarmene di casa perché voleva stare con mia madre. Risposi che andava bene. Presi il mio zainetto e me ne andai. Allora avevo 13 anni. Adesso vivo nel parador di Tina, una casa per i ragazzi di strada».
Nell’anno passato in strada hai fatto cose cattive? «Sì, molte – risponde Alejandro con tono grave -. Non avevo da mangiare e dunque rubavo alle persone, soprattutto nel centro di Buenos Aires. Con un amico che guidava la moto rubavo le borse alle persone. Per fortuna, la polizia non mi ha mai preso. Ora non rubo più». Hai mai conosciuto tuo padre? «Mio papà lavora in Paraguay, ma non lo vedo da quando avevo 11 anni. È triste. Ma ora spero che la mia vita migliori. Da grande, mi piacerebbe fare il tecnico dei computer».

Famiglie normali cercasi
Alcuni dei ragazzi presenti da Mario dormono al Parador Tina, una casa d’accoglienza che prende il nome dalla sua fondatrice ed animatrice, la signora Tina.
Andiamo a visitarla, approfittando ancora una volta di un asado, una delle principali attività ricreative degli argentini, indipendentemente dallo stato sociale, dall’età, dalla stagione.
La casa è in mattoncini rossi. E non si distingue dalle altre della via, se non per quella sobria insegna accanto alla porta d’entrata: Fundación «Ayudemos a crecer».
Tina Romero Ortiz (intervista a pag.46) è più manager di Mario Sotero e all’ingresso della casa di Pasaje Doctor Madera 1558 ha affisso sulla parete tutte le autorizzazioni rilasciate dalle autorità preposte, nonché alcuni diplomi e riconoscimenti per l’attività svolta.
Passato il corridoio d’entrata, oltre la parete delle autorizzazioni, a sinistra c’è una prima stanza adibita ad ufficio della Fondazione e a destra una camera dove trovano posto 5 letti.  Si passa poi ad una sala comune e alla cucina.  Un piccolo patio porta ad altre due stanze con letti a castello.  Il parador di Tina è piccolo e spartano, ma è molto accogliente e soprattutto ricrea tutti gli ambienti tipici di una casa familiare. Ovvero il contrario di quello che potrebbe essere un istituto per minori in difficoltà.
Una scala in ferro porta al piano superiore, dove c’è una saletta con un televisore e una bella terrazza, oltre ad un angolo attrezzato con le griglie per cuocere la carne. La festa sarà qui. Il tavolo è già imbandito con piatti di empanadas e bevande, mentre la carne sta ancora cuocendo sulla parilla. Mancano del tutto sia il vino che la birra, «per non dare il cattivo esempio ai ragazzi», spiega Tina. Un gruppetto di ragazzi è seduto attorno ad un tavolino a giocare a carte, mentre una radio portatile funziona ad alto volume. La musica è forte ma, alzando un po’ la voce, si riesce ancora a comunicare. 
Lucas, orecchino sul lobo destro, racconta senza remore: «Sono andato in strada perché avevo problemi con mia mamma che mi picchiava molto. Mio papà non l’ho mai conosciuto. Sono stato in strada per 2 mesi e mezzo. Adesso sono qui da Tina». Lucas è un tipo sveglio e chiede la telecamera per filmare la serata. Impara subito, anche a fare le interviste.
Jorge, minuto, capelli biondi, parla così rapidamente che si fa fatica a seguirlo: «La mia mamma se ne andava con il suo fidanzato e mi lasciava a casa con il mio fratello più piccolo. Poi io ho cominciato ad andare e tornare da casa, ma lei non mi voleva più. In strada ho iniziato a prendere droghe: paco, porro, merca, pastiglie. Il paco è la più pericolosa: ti uccide».

Una vita diversa
Joaquin ha 17 anni ed è stato in strada un anno: «Non è facile perché la polizia ti mena». Che facevi?, chiediamo. Joaquin si scheisce e ride di gusto. «Rubava», suggerisce un compagno. Nazareno di anni ne ha 12: «La strada ti insegna cose brutte. A rubare, a prendere droga. Io consumavo porro e merca». Parlando con i ragazzi, una cosa risalta subito: tutti sono felici di aver lasciato la strada e di aver iniziato un percorso di vita diverso. 
Le ragazze presenti sono soltanto due. Una, giovanissima, è agli ultimi mesi di gravidanza. L’altra si chiama Antonella, 12 anni, capelli lunghi, occhi molto belli ma tristi. Vita dura quella di Antonella, che non ha conosciuto né la mamma né il papà. Dice di avere due fratelli, ma più piccoli di lei. «Quando stavo per strada, mi drogavo con il paco, ma non ho mai rubato. Per mangiare, la sera andavo a recuperare gli scarti del McDonalds».  Chiediamo ad Antonella se le farebbe piacere conoscere i suoi genitori. «No», risponde senza tentennamenti.  E per il futuro, cosa vorresti? Scuote la testa, senza rispondere, ma quando le suggeriamo se le piacerebbe andare a scuola e poi trovare un lavoro, fa un cenno di assenso.
Paula lavora come assistente sociale nel parador. È entusiasta e positiva. «Mi piace molto lavorare qui – dice con un ampio sorriso -. I ragazzi mi danno molto. Io sono cresciuta in una famiglia umile, ma – al contrario dei nostri ospiti – ho avuto un’infanzia felice. Questa per me è come la continuazione della mia famiglia».
È trascorsa la mezzonotte. Tina, Mario, Paula avvertono i ragazzi che è ora di chiudere la festa. Al parador di Tina ci sono regole precise. E tutti le rispettano.

Paolo Moiola

A colloquio con Tina Ortiz
PARADOR TINA

Robustiana Romero de Ortiz detta Tina è una signora che parla con il tono pacato di una nonna,  ma che ha il grande pregio di essere chiara e di sapere ciò che vuole.

Tina, come ha cominciato ad occuparsi di ragazzi di strada?
«Ho cominciato a lavorare con loro nel 1998 in una chiesa giudeo-messianica guidata da un pastore giudeo. Cominciammo servendo ai ragazzi due pasti al giorno. Oggi ne serviamo 250».

Alla settimana?
«No! 250 al giorno… Poi è successo che i ragazzi iniziarono a domandare ogni giorno di più, ma nella chiesa era impossibile lavorare con tutta quella gente. Così, con molti sacrifici e con i soldi dei miei due nipoti, decidemmo di comprare una casa. Nel 2000 ne trovammo una nel quartiere San Cristobal. Poi, per questioni di norme legali, nel 2001 ci siamo trasformati in fondazione, la Fondazione “Ayudemos a crecer”. Ma a causa di una nuova legge, quella casa non era più adeguata e quindi abbiamo comprato questa, nel barrio di Barracas. Abbiamo impiegato 4 mesi per ristrutturarla e altri 8 per ottenere l’abilitazione».

Quanti ragazzi accogliete qui dentro?
«La notte dormono qui 16 bambini. Mentre d’inverno, durante il giorno, possiamo arrivare a 30. Vengono a fare una doccia, a mangiare, a guardare un attimo la televisione o a seguire qualche corso».

Dunque, se i ragazzi transitano di qui, a cosa serve esattamente un parador?
«Il parador è una struttura intermedia, tra la strada e una struttura consolidata come l’hogar. Se il ragazzo riesce a rimanere nel parador per 2 o 3 mesi, significa che può essere pronto per un hogar».
Chi sono i frequentatori di questo parador?
«Qui arrivano bambini della strada, che consumano droghe. Paco o qualsiasi altra».

E qui, com’è fatta una loro giornata?
«Durante l’estate, si alzano, fanno colazione e vanno alla colonia. Arrivano verso le cinque del pomeriggio. Fanno merenda. Poi c’è qualche attività. O vanno a giocare a pallone: il calcio è la cosa che più piace. Qui vicino ci sono campi e giardini pubblici. Per fortuna, perché se giocassero qui dentro, con la palla romperebbero tutto!».

Ricevete degli aiuti pubblici per lavorare con i ragazzi?
«Per il comedor riceviamo aiuti dal governo di Buenos Aires che ci dà gli alimenti. All’inizio ricevevamo aiuti da qualche chiesa, ma oggi questo è diventato difficile perché ciascuna chiesa ha le proprie necessità. Ognuna ha costituito una propria fondazione che si occupa della gente del barrio dove opera. La realtà è che, giorno dopo giorno, crescono i bisogni. Per parte mia, posso dire che avevo dei risparmi raccolti in 45 anni di lavoro, risparmi che ora non ci sono più, dato che sono stati investiti nella ristrutturazione di questa casa».

Tina, perché ha scelto di seguire i ragazzi di strada?
«Noi – intendo io, i miei fratelli, mamma e papà – eravamo molto poveri, ma Dio ci aiutò molto. Abbiamo potuto studiare. Dunque, abbiamo sentito l’obbligo di ringraziarlo per ciò che ci aveva dato. Non so se molto o poco però abbiamo ricevuto. Questo vogliamo insegnare ai ragazzi: che possono uscire dalla loro situazione e che un domani loro stessi potranno aiutare altri».

Paolo Moiola

Paolo Moiola




Alla ricerca di un perché

Reportage da Trabzon

Siamo andati a Trebisonda (Trabzon) per vedere com’è la situazione dopo l’omicidio di don Andrea Santoro cui è seguita – in altra zona del paese –  l’uccisione di mons. Luigi Padovese. Nella Turchia che si dice tollerante come si spiegano due omicidi di preti cattolici in meno di 4 anni? Chi è contro il dialogo interreligioso?

La piazza centrale di Trebisonda, Trabzon in turco, pullula di uomini impegnati a godersi i piaceri del dolce far nulla. È una visione comune della Turchia, e racconta stili di vita meno ossessivi di quello occidentale.
Così un gruppetto radunato intorno a tazze di tè non si lascia scappare l’occasione per attaccare bottone: mi chiamano al loro tavolino. Un giro di bicchierini bollenti è gentilmente offerto e subito si instaura un simpatico scambio di battute in lingue inesistenti composte soprattutto da gesti. Ma i discorsi velocemente passano dal solito schema «calcio-Berlusconi» ad argomenti decisamente più pesanti: i guerriglieri del Pkk ed il rapporto tra cristianesimo e islam in questa città.

TRABZON, porta sul mar nero
e sul kurdistan turco

Il primo è il vero piatto forte della regione che da anni si dibatte dentro drammi che costellano la vita di milioni di persone. Una guerra civile infinita (sebbene nessuno utilizzi queste parole), che recentemente sembra aver perso cruenza, anche se talvolta erompe in maniera violenta. Il Kurdistan è la zona est della Turchia e Trebisonda è la porta che si affaccia su questo territorio. Un tempo città strategica per i traffici marittimi sul Mar Nero (da qui il detto italiano «perdere la Trebisonda»), oggi è una città industriale e trafficata.
Gli abitanti (qui la comunità kurda è una minoranza) sostengono che avventurarsi per la zona est della Turchia è pericoloso. I piazzisti di una compagnia di trasporti, che battono la stazione degli autobus, ripetono ai viaggiatori che gli spostamenti diui sono soggetti ad attacchi a colpi di mitragliatrice da parte dei guerriglieri kurdi. La notte invece sarebbe tutto più tranquillo.
Una volta in viaggio nel Kurdistan turco la situazione invece apparirà molto tranquilla. Le esagerazioni sono molto amate dai turchi, anche se affettivamente le zone montane non sono scevre da combattimenti, di norma taciuti dai media principali.
Città come Van, Erzrum, Diyarbakir sono centri vitali e pacifici, popolati da Kurdi che non ne vogliono più sapere né della repressione militare né dei metodi violenti degli insorti.
Così, una volta terminata la discussione sui «terroristi kurdi», trascinatasi in maniera abbastanza stanca per mancanza di argomenti, è tempo di
discutere dei rapporti interreligiosi in città e nel paese. E qui i toni si fanno seri. Perché a differenza delle chiacchiere sul Pkk, dominate da eccessi verbali e fragorose risate, quelle relative alle recenti tragedie che hanno riguardato questa ed altre
zone, sono percepite più pesantemente.
Dopo poco un ragazzo ci chiede se vogliamo visitare l’unica chiesa ancora «operativa» di Trebisonda. È la chiesa tristemente famosa per l’omicidio di un prete italiano, don Andrea Santoro,  avvenuto nel febbraio del 2006. Il sacerdote ucciso era un missionario della congregazione di Charles de Foucauld. Apparteneva alla diocesi di Roma ed era un sacerdote fidei donum missionario in Turchia da qualche anno. Il suo lavoro (grazie anche all’aiuto di alcuni laici) era centrato sul mantenimento in vita della presenza cristiana, esigua al tempo dell’omicidio ed ora a rischio estinzione. Chi lo conosceva racconta che era un acceso sostenitore del dialogo islamo-cristiano e forse è esattamente questa la ragione che ha armato la mano di chi poi lo ha ucciso proprio dentro la chiesa dove stiamo per entrare.
Sono passati quattro anni da allora, ma il ricordo è ancora molto vivo. Il nostro amico accompagnatore, musulmano praticante, ricorda bene quel prete: «Era una presenza molto discreta e chi l’ha colpito a mio avviso l’ha fatto perché mosso dalla pazzia e non da odio religioso».
Probabile, anche se poi le indagini hanno portato in carcere un giovane di appena diciassette anni che, al momento di sparare, pare abbia pronunciato la frase «Allah è il più grande».

NICOLAE, il diacono (rumeno)
che lavora da prete

Ci arrampichiamo per le vie del centro seguendo i passi del nostro amico. Trebisonda è una città che ha perso i fasti del passato e si aggrappa ad uno sviluppo caotico, dominato dal cemento e dai traffici un po’ loschi che vanno e vengono dalla vicina Russia.
Da soli difficilmente saremmo riusciti a trovare la chiesa, perché non segnalata. L’esterno è arioso ed un cartello invita i cristiani e gli stranieri ad entrare dentro, perché tutti sono benvenuti. È scritto in inglese ed in turco (vedere foto). Suoniamo il campanello.
La chiesa sembra deserta. Dopo pochi minuti siamo però accolti da un uomo di circa trent’anni a cui siamo introdotti, in turco, dalla nostra guida. È gentile, ma sospettoso. Si rivolge a noi in francese ma, dopo poche frasi di circostanza, passa all’italiano. È rumeno e non è il prete della chiesa. È un diacono che manda avanti tutta la baracca tra sforzi immensi. È solo da tre anni, perché un nuovo sacerdote, dopo l’omicidio di Andrea Santoro, non è mai stato nominato. Racconta del clima che si respira nella città che maggiori problemi di convivenza dà alla Turchia.
Nicolae, così si chiama il padrone di casa, racconta di paura, ma anche di speranza. La paura è dovuta al secondo omicidio:  monsignor Luigi Padovese, dal 2004 vicario apostolico dell’Anatolia, è stato assassinato il 3 giugno 2010 nel giardino della sua casa sul mare a Karagaac, vicino a Iskenderun, sulla costa del Mediterraneo. Il suo autista Murat Altun, probabilmente a causa dei gravi scompensi psichici di cui soffre, l’ha colpito con diversi fendenti, uccidendolo.
Le voci di odio religioso, figlio del fanatismo islamico, si sono allargate a macchia d’olio, ma nessuno osa confermarle. Anzi, gli uomini della piazza di Trebisonda, come i pochi cattolici che si incontrano, negano che il clima sia questo.
La speranza è comunque viva: «Noi siamo una comunità molto piccola, poche centinaia di persone – spiega Nicolae – . La nostra chiesa è sempre aperta. E questa mattina è accaduta una cosa che mi ha dato fiducia ed aperto il cuore. Ho visto entrare quattro ragazze islamiche. Giravano e commentavano. Le ho sentito dire frasi sulla bellezza della chiesa e soprattutto sulla follia del conflitto religioso…». A pochi metri da dove chiacchieriamo c’è ancora il foro di uno dei proiettili.
Nicolae è un diacono che svolge un po’ tutti i servizi fra mille difficoltà, economiche e non. È sposato e vive con la moglie a pochi passi dalla chiesa.
«Il problema – racconta – sono le ostie consacrate. La mancanza di un prete le rende difficilmente disponibili. Così capita che, quando un sacerdote passa da queste parti, io ne approfitto per fae consacrare un po’ e poi le custodisco. Ma non è facile, dato che trascorrono mesi e mesi senza che passi alcuno. La soluzione migliore sarebbe la nomina di un prete ma, dopo la uccisione del vescovo Padovese, sarà ancora più difficile».
La chiesa è deserta, pulita, sembra quasi un museo.
«Questi sono gli aspetti più difficili della situazione. In compenso è molto bello portare la parola di Dio in un posto difficile come Trebisonda. È vero che gli esaltati non mancano, ma la Turchia rimane un paese laico in cui la libertà di culto è preservata. Comunque, questi sono discorsi politici che interessano relativamente chi si trova in trincea come me. Qui io mi occupo di tutto: dallo spazzare il pavimento alla celebrazione delle messe. E lo faccio per due soldi. I vertici della Chiesa dovrebbero ricordarsi maggiormente di chi porta la parola di Dio in posti di frontiera come questo».
Sono solo un centinaio i cattolici che vivono a Trebisonda. Altri sessanta circa sono presenti a Mardin, bella città che ricorda un po’ Gerusalemme, nel centro del Kurdistan.  Il resto è deserto. In ogni senso.

Maurizio Pagliassotti

Maurizio Pagliassotti




Parola di sufi

L’intervista

Elvio Arancio, artista e ceramista torinese, nato nella medina di Tunisi, è un musulmano sufi. Sposato, con tre figli, impegnato nel dialogo interreligioso, in questa intervista ci spiega cos’è il sufismo e le ragioni della sua conversione all’islam, in particolare, alla sua corrente mistica.

Elvio Arancio, come descriverebbe il sufismo?
«Il sufismo, tasawwuf, in arabo, è la pratica di ricerca mistica specifica della cultura islamica.
È la scienza della conoscenza diretta di Dio; le sue dottrine e i suoi metodi sono derivati dal Corano, e anche se ingloba in sé influssi ellenici, induisti e buddisti, l’essenza del sufismo è prettamente islamica.
Potremmo definirlo un metodo islamico di perfezionamento interiore, di ricerca dell’equilibrio, di fervore profondamente vissuto e che gradualmente vuole ascendere all’oggetto d’amore: Dio.
Possiamo affermare che le componenti della dottrina sufi sono l’amore totale per Dio; la gnosi, che superando la conoscenza intellettuale imperfetta e incompleta unisce direttamente il sufi al divino, certi della Sua esistenza e consapevoli dell’impossibilità di capirLo con le sole forze umane; il raggiungimento della conoscenza intuitiva; l’ascesa mistica attraverso una serie di stati spirituali e stazioni del percorso evolutivo, integrati dalla recitazione, o ricordo, dei nomi di Dio (dikhr, in arabo), e dall’estasi».

Che differenza c’è tra asceta, adoratore e sufi?
«L’asceta è colui che si allontana dai beni del mondo e dalle sue cose piacevoli; il sufi non rifugge dall’esperienza matrimoniale e quindi dalla sessualità.
L’adoratore è colui che pone attenzione nell’osservare gli atti di adorazione – alzarsi di notte per pregare, compiere le preghiere canoniche (as-salat), e così via. Il sufi, dunque, è sia un asceta che un adoratore. Niente può distrarlo da Dio. Egli è anche un adoratore per il suo costante rivolgersi a Dio e il suo legame d’amore con Lui. Adoriamo Dio perché Dio è “adorabile”, non per desiderio, né per paura.
La santa sufi Rabi’ah al-‘Adawiya diceva: “Oh Dio, se io Ti adoro per paura del Tuo fuoco infeale, gettami dentro. E se Ti adoro per il desiderio del Tuo paradiso, impediscimi di entrarvi. E se Ti adoro per amore del Tuo nobile volto, non proibirmi di vederTi”».

Quando è diventato musulmano e sufi?
«Appartengo all’ordine sufi della Jerrahi-Halveti d’Istanbul dal 1999. Poiché il nostro maestro Tugrul Inancer Efendi è anche un maestro della Mevleviya (in Occidente sono chiamati “Dervisci roteanti”), i nostri rapporti con questa importante confrateita, fondata dal grande poeta mistico Jalal al-Din Rumi, sono intensi e frequenti.
Sono sempre stato interessato alla letteratura mistica, da quella cristiana a quella dell’Oriente Zen, finché sono arrivato ai libri sufi.
Un giorno, leggendo un testo del grande teologo Ibn Arabi mi colpirono questi versi:
“Il mio cuore è divenuto capace di accogliere ogni forma / è un pascolo per le gazzelle, / un convento per i monaci cristiani / è un tempio per gli idoli,
è la Ka’ba del pellegrino / è le tavole della Torah,
è il libro del Sacro Corano. / Io seguo la Religione dell’amore, / quale mai sia la strada/ che prende la sua carovana: / questo è il mio credo e la mia fede”.
È stata una folgorazione: ho cominciato ad approfondire la conoscenza del sufismo e a cercare i sufi, e… sono arrivato in Turchia».

Che organizzazioni sufi ci sono in Turchia e cosa fanno?
«Il sufismo permea profondamente il mondo turco e mi riferisco non solo allo Stato, ma a tutta la vastissima area asiatica turcofona che va dall’Anatolia alla Cina occidentale. Infatti, le confrateite sufi, sin dall’800 d.C., praticamente dai primi secoli della diffusione dell’Islam, hanno diffuso la fede musulmana alle tribù nomadi e ai clan guerrieri delle steppe asiatiche.
Furono le confrateite sufi ad integrare poi nel grande Impero ottomano, che si espandeva per tutta l’Eurasia, le tante etnie e le diverse provenienze religiose dei popoli che ne facevano parte. Ad esempio, i corpi militari furono quasi tutti affiliati all’ordine sufi Bekhtashiya, gli intellettuali e gli studiosi in genere alla Mevleviya e alla Jerrahi-Halveti, altri alla Naqshbandiya, e questo solo per citare gli esempi più conosciuti.
È negli ordini sufi che nasce la letteratura turca; è sulle pagine dei maestri delle confrateite che si forgia la sensibilità di questo popolo/nazione».

Perché adesso ai sufi è vietato di dichiararsi tali in pubblico?
«Nel 1925, Atatürk soppresse gli ordini religiosi sufi. Da allora essi sono vietati, o meglio, non autorizzati, ma non per questo sono meno presenti e attivi.
Tuttavia, mi sembra che sia in corso un cambiamento e auspico una riapertura imminente ufficiale degli Ordini: un ritorno alla luce del sole.
È infatti difficile conoscere la Turchia senza conoscere le confrateite religiose che ne hanno formato e alimentato il tessuto sociale, e alle cui fonti ancora si rivolgono intellettuali, donne e uomini di ogni ceto sociale».

Cosa pensa della Turchia attuale e del presidente Erdogan?
«Ritengo che il governo guidato da Erdog˘an sia una delle realtà più interessanti del panorama internazionale, e questo per varie ragioni: il Paese è passato da una rovinosa crisi economica all’attuale fase di sviluppo; è in atto un confronto tra il partito di governo, l’Akp, e il potere militare, sul tema della laicità dello Stato; lo spostamento delle alleanze nel Vicino e Medio Oriente: sostegno alla causa palestinese e presa di distanza dalle politiche d’Israele.
Vale la pena ricordare la nomina del nuovo Ambasciatore turco Kenan Gürsoy presso la Santa Sede: si tratta di un personaggio di notevole cultura, un grande accademico e profondo conoscitore del sufismo, ed egli stesso discendente di una famiglia di tradizione sufi. Ritengo che la scelta del governo turco di assegnargli l’importante carica sia espressione di un desiderio di dialogo aperto e costruttivo nei confronti della Chiesa cattolica, anche in considerazione dell’amicizia che legava da molti anni il neo-ambasciatore a monsignor Padovese, il prelato ucciso a giugno in Turchia».
Cosa pensa del referendum costituzionale che si è svolto il 12 settembre?
«Sono profondamente convinto che il peso dei militari in Turchia andasse ridimensionato: un esercito che non dipende dal governo, da un ministero della Difesa, che con la scusa della tutela della laicità dello Stato condiziona la vita democratica della nazione, è inaccettabile. La nascita della repubblica turca di Kemal Atatürk comportò l’emergere di due miti: in primo luogo, quello dello stesso “laicissimo” presidente, nei cui confronti si espresse una dogmatica e incondizionata devozione che potremmo assimilare, paradossalmente, ad un vero e proprio culto religioso, e poi, quello dell’esercito. Da allora, fino ad oggi, l’apparato militare è sempre stato visto come “un’istituzione sacra che protegge i sacri valori dei Turchi”. Tale legittimazione ha permesso ad esso di intervenire ripetutamente nelle vicende politiche del Paese.
Credo che la scelta del popolo turco rappresenti una svolta democratica, importante quanto necessaria.
Inoltre, Erdog˘an esce dalla consultazione referendaria estremamente rafforzato, soprattutto in vista delle elezioni politiche del luglio 2011, alle quali, non dimentichiamoci, faranno seguito, l’anno successivo, le prime elezioni presidenziali dirette nella storia turca».

Angela Lano

Angela Lano




Anima orientale, ambizioni europee

NON SOLO ORGOGLIO 

Guidata da un partito islamico moderato, la Turchia è un paese in pieno fermento, come dimostra anche il referendum del 12 settembre 2010. Pur aspirando a diventare la nuova guida del mondo islamico, i governanti di Ankara vorrebbero avere rapporti privilegiati con la vicina Europa. Ma le distanze culturali e le diffidenze europee per ora sembrano prevalere.

L’aereo volteggia sul Mare di Marmara. Davanti a noi s’apre una distesa di luci sparse su un lembo di terra tagliata dal Bosforo. Al di là, si estendono le acque del Mar Nero. È Istanbul, la bella. La città dalle splendide moschee e dai mille minareti svettanti contro il cielo. La Bisanzio dei greci, la Costantinopoli dell’Impero Romano d’Oriente e la Istanbul ottomana: antica capitale ricca di storia e di cultura e da sempre ponte tra Occidente e Oriente.
Aggirarsi per le sue vecchie strade e per le sue piazze affollatissime, osservare le sue case di legno, le sue facciate decadenti ma piene di fascino è come fare un tuffo nel passato, stando, paradossalmente, ben ancorati al futuro.
La città e il resto della Turchia, infatti, sono in pieno fermento culturale, politico, sociale ed economico. Una condizione che le distingue molto dagli altri stati della stanca e asfittica Europa, a crescita zero o sottozero e soffocata da un malessere generalizzato.
Qui si respira un’aria di freschezza: sarà per la presenza di tanti bambini e giovani; sarà per la voglia di cambiamento e la speranza nel futuro, ma una cosa è certa, questa regione del pianeta qualcosa di nuovo ha in serbo per i suoi 76 milioni di abitanti.
Quartieri modeissimi e antichissimi si contendono il vasto territorio su cui è costruita Istanbul: la convivenza di passato e futuro è tra gli aspetti più appariscenti di questa metropoli mediterranea.
Dell’antica grandezza bizantina, e poi ottomana, si scorgono tracce dovunque, anche nella fierezza del popolo che, in questi anni, sta ritrovando il perduto orgoglio di «guida» del vasto mondo islamico, e arabo, dominato da dittatori e monarchi invisi ai propri stessi popoli.
La Turchia è infatti balzata alla ribalta per le posizioni «terzomondiste» e mediorientali, per il sostegno al popolo palestinese, per l’amicizia con l’Iran, con le repubbliche latino-americane, e per aver sottratto il ruolo di mediatore nei conflitti del Vicino e Medio Oriente all’Egitto, Stato arabo la cui immagine è andata ormai distrutta dall’ostentata sudditanza agli Usa e a Israele e dalla trentennale dittatura del clan Mubarak.

L’atipicitÀ DEGLI ISLAMICI turchi E LE PAURE DEGLI EUROPEI
La Turchia musulmana, ben espressa attraverso il partito al potere, Akp  (vedi box), è diventata uno dei punti di riferimento per tutta la vasta regione islamica, in particolare quella sunnita.
Proiezione verso Oriente e slancio verso l’Europa sono aspetti che caratterizzano storicamente il Paese, e non sono solo una novità di questi anni. Già verso la fine dell’Ottocento, gli intellettuali turchi erano scissi interiormente, e politicamente, tra due tendenze, quando non appartenevano proprio alle due fazioni opposte: filo-occidentalismo e filo-islamismo ottomano.
L’ascesa dirompente del secolarismo ebbe inizio nell’ultima fase dell’Impero Ottomano e culminò con le riforme del fondatore della Turchia modea, Mustafa Kemal Atatürk, negli anni Venti.
Religiosità e laicismo, riformismo e conservatorismo rappresentano ancora oggi le tante facce di questa nazione. Aspetti contraddittori e, allo stesso tempo, complementari, in una società sempre in gran fermento.
Nel bel romanzo, La figlia di Istanbul, di Halide Edip Adivar (vedi box), ambientato negli anni che precedettero la rivoluzione dei Giovani Turchi e la fine dell’Impero, questa «doppia anima» turca emerge in modo chiaro, evidenziandone tutta la potenzialità sia conflittuale sia dialettica.
Il laicismo, che ha i tratti fondamentalisti dei kemalisti, i seguaci delle dottrine del padre della Patria, Atatürk, ancora molto presenti in diversi apparati statali, si scontra con le esigenze di maggiori libertà politiche, religiose, culturali e sindacali di una parte sempre più consistente di popolazione, che si sente più vicina agli ideali e ai progetti dell’Akp. Seppur di «ispirazione islamica», infatti, il partito al governo rappresenta le istanze più innovatrici e riformiste della società turca. E certamente più democratiche e dialettiche rispetto a quelle veicolate per circa ottanta anni dal kemalismo, i cui principi si sono basati su una fedeltà all’esercito e ad un laicismo opprimenti e anti-popolari.
Abbiamo avuto modo di visitare il Paese diverse volte, dal 2007 al 2010. Ebbene, rispetto a tre anni fa, le differenze sono ormai visibili. La presenza massiccia dei militari, per le strade, sembra essersi ridotta. Scene da «regime dittatoriale», come quelle cui assistemmo – ragazzi fermati soltanto perché ostruivano il passaggio di una squadra militare, nelle vie di Taksim, uno dei quartieri più eleganti ed «europei» di Istanbul – probabilmente rimarranno solo un brutto ricordo.
In questo quadro mutato si inseriscono le relazioni tra la Turchia e l’Unione Europea. Esse sono iniziate negli anni Sessanta, quando la Cee (Comunità economica europea) siglò l’Accordo di Ankara. Recentemente, al fine di rendere possibile l’ingresso della Turchia nella Ue, il primo ministro Recep Tayyip Erdog˘an ha introdotto diverse riforme, tra cui l’abolizione della pena di morte. Ciò che spaventa tanti europei è l’anima islamica della nuova Turchia: temono che l’ingresso del Paese nell’Unione Europea sbilanci a favore dei musulmani l’equilibrio demografico del Vecchio Continente. Inoltre, l’irrisolta questione kurda, il grande potere che l’esercito turco ha sullo Stato e sulla vita dei cittadini, uniti alle politiche di alleanza con le nazioni arabe e islamiche e a una legislazione che ancora non si attiene ai canoni occidentali del rispetto dei diritti umani, rendono problematico e fonte di infinite discussioni diplomatiche e accademiche l’entrata della Turchia nella Ue.

QUALe TURCHIA DOPO IL REFERENDUM?
Sullo scacchiere turco (ed europeo), tuttavia, è stata compiuta una mossa interessante, che introduce un elemento di novità: l’avallo, emerso dall’esito del referendum popolare del 12 settembre, alla riforma costituzionale che toglie poteri ai militari e garantisce maggiore democrazia agli altri organi dello Stato.
La schiacciante vittoria del «sì» permetterà ai legislatori turchi di modificare 26 articoli della Costituzione.
L’Europa vede in questa fase della vita politica turca un segnale positivo, non solo nel senso di una maggiore democratizzazione intea, ma anche della volontà di aderire alla comunità dei popoli europei.
Gli emendamenti aumentano il numero dei membri della Corte costituzionale e del Consiglio superiore della magistratura: essi saranno, inoltre, nominati non più solo dai giudici, ma anche dal Parlamento e dal presidente della Repubblica.
Tra gli altri aspetti della riforma, emerge quello della «discriminazione positiva»: le nuove norme prevedono l’entrata in vigore di misure per «incrementare la presenza delle donne nella vita politica, sociale ed economica del Paese». Attualmente, le parlamentari rappresentano il 9,1% del totale.
Inoltre, il capitolo della Costituzione relativo alla «protezione della famiglia» sarà modificato ampliandolo anche ai «diritti dei minori».
Tuttavia, l’opposizione nazionalista teme che queste riforme possano portare a una presenza più massiccia dei religiosi nelle più alte cariche delle istituzioni statali e che la laicità sia posta a rischio.

L’ISLAM E IL SUFISMO
Nonostante la religione ufficiale in Turchia sia quella musulmana, uno degli effetti del laicismo imposto dalla dottrina kemalista è stato la messa al bando del sufismo, una delle manifestazioni mistiche più significative dell’islam. Dai tempi di Atatürk1 e a fasi altee, infatti, esso è considerato una pratica illegale. In realtà, sia a Istanbul sia a Konya  e in altre città, possiamo trovare numerose confrateite sufi, dissimulate in «centri culturali».
Sin dal XIII secolo, il misticismo islamico turco si espresse attraverso l’adesione agli ordini sufi, le cui sedi rappresentavano dei veri e propri luoghi di spiritualità e di attività sociale.
La parola «sufi» deriva dall’arabo suf , lana, ed era usata per indicare gli asceti che indossavano semplici panni di lana rifiutando i beni e gli agi materiali.
Dal XII secolo, i sufi erano organizzati in tariqah, ordini o confrateite (come i monaci cristiani che praticavano l’ascetismo) che seguivano gli insegnamenti di un Maestro, e si riunivano in tekke o dergah (logge).
Una delle più grandi confrateite turche, la Naqshbandiya, risale al XIV secolo. Un’altra, altrettanto importante, la Mawlawiyah o Mevleviya, venne fondata a Konya: dal figlio e dai seguaci del mistico, teologo e poeta persiano Jalal ad Din Mohammad Balkhi, noto come Mawlana o Rumi.
I membri della sua confrateita sono meglio conosciuti come «Dervishi danzanti» (o roteanti)2, a causa del rito estatico, sema’, da loro eseguito attraverso l’ascolto della musica, la recitazione del dhikr (ricordo di Dio) e una danza rotatoria vertiginosa.

L’ESEMPIO DI SANTA SOFIA: EX CATTEDRALE, EX MOSCHEA
La Turchia è anche un luogo dove si possono incontrare elementi di sincretismo e mescolanza appartenenti a fedi e a culture diverse.
E di questa commistione Istanbul è un po’ l’emblema: è un forziere pieno di tesori architettonici e culturali, frutto della capacità umana non solo di distruggere o entrare in conflitto, ma anche, e soprattutto, di integrare, assimilare, mescolare e rielaborare in modelli completamente diversi da quelli originari.
Hagia Sophia (Aya Sofya), Santa Sofia o Santa Sapienza in italiano, nel quartiere di Sultanahmet, nel cuore antico della città affacciato sul Mare di Marmara, ne è uno splendido esempio.
Nei suoi immensi spazi si realizza un incontro, e un’unione, tra cristianità e islam: la bellezza maestosa di questa ex cattedrale cristiana ed ex moschea musulmana, e ora museo, è un «miracolo» di «assimilazione-trasformazione».
Iniziata sotto Costantino, intorno al 300 d.C., fu ultimata nel 330, durante il regno di Costanzo II. Distrutta da un incendio e ricostruita nel 415 da Teodosio II; nuovamente incendiata e riedificata dopo il 532 da Giustiniano I, la nuova cattedrale, al cui progetto avevano lavorato grandi architetti, venne edificata con materiali preziosi, fatti arrivare da tutte le parti dell’Impero bizantino. All’imperatore Giustiniano dovette sembrare un’opera davvero magnifica, per dichiarare, secondo quanto riporta la tradizione: «Ti ho superato, o Salomone!».
Altri incendi, terremoti, crolli, saccheggi e invasioni (Crociate) resero necessarie ristrutturazioni, modifiche e ampliamenti.
Con la conquista di Costantinopoli, nel 1453, ad opera dei turchi ottomani, Santa Sofia fu trasformata in moschea: vennero costruiti i minareti, coperti gli affreschi interni che ritraevano Gesù, Maria, i santi e gli angeli, e aggiunte opere artistiche islamiche.
Gli antichi mosaici e stucchi bizantini vennero scoperti nel 1849 (e restaurati successivamente). Da allora, coesistono insieme ai simboli e all’arte sacra musulmana, dando alle imponenti navate e gallerie, e all’abside, un’impronta «multireligiosa», che suscita nel visitatore stupore e ammirazione.
La cupola, enorme, è ricoperta di mosaici, ma nel suo centro spiccano decorazioni calligrafiche islamiche (un versetto del Corano dipinto nel XIX secolo). Sui pennacchi, sotto la cupola, si stagliano quattro serafini (due furono realizzati come mosaico, due come affresco). Emblema di questa sovrapposizione e mescolanza tra cristianesimo e islam è la scena che ci si ritrova di fronte abbassando gli occhi dal soffitto e indirizzandoli a est, verso il centro dell’abside: il mihrab (elemento della moschea che indica la direzione della preghiera) è collocato all’interno, ed è sovrastato da un mosaico bizantino del IX secolo che ritrae la Vergine con il Bambino. Il Dio di Gesù e il Dio di Mohammad si fondono dunque in un unico spazio architettonico da cui i fedeli elevavano al cielo le loro preghiere.
Tale sorprendente vicinanza ha una spiegazione pratica: quando Hagia Sophia era un luogo di culto, sia i cristiani sia i musulmani pregavano verso est. Le chiese cristiane erano tradizionalmente rivolte a oriente, così come la qibla, la direzione della preghiera islamica, volge verso Mecca, che, rispetto a Istanbul, si trova a sud-est.
Altre parti di grande interesse artistico sono gli otto «dischi di legno», con incisioni calligrafiche riferite a Dio, al profeta Muhammad, ai primi quattro Califfi (Abu Bakr, Umar, Uthman e Ali) e ai due nipoti di Muhammad (Hasan e Husayn), sospesi alle pareti sotto la cupola, a fianco dell’abside e nella navata. Essi creano un affascinante contrasto con gli elementi decorativi e liturgici cristiani.
Nelle gallerie al piano superiore, che in epoca islamica erano usate per la preghiera delle donne (matroneo), si trovano i mosaici più importanti di Hagia Sophia: il più famoso è quello che ritrae Cristo pantocratore, sovrano e trionfante, vicino a Maria e a Giovanni Battista.
Per oltre 900 anni Santa Sofia fu la sede del Patriarcato ortodosso di Costantinopoli e dei concili ecclesiastici: rimase cristiana fino al 29 maggio del 1453, quando il Sultano Mehmet il Conquistatore entrò trionfante nella città bizantina e trasformò la bellissima basilica in una moschea. Tale rimase per altri 500 anni, divenendo un modello architettonico e artistico per le moschee imperiali di Istanbul, tra cui la stupenda Moschea Blu e quella di Suleyman.
Fu tra il 1847 e il 1849, durante i lavori di restauro commissionati dal Sultano Abdülmecid II a due architetti svizzeri, i fratelli Fossati, che vennero scoperti i mosaici, riportati poi alla luce nel secolo successivo, anche grazie all’Unesco.
Santa Sofia fu trasformata nel museo di Ayasofya nel 1934, durante la presidenza di Kemal Atatürk.
Da allora, almeno all’interno della maestosa e bellissima Santa Sapienza, Occidente cristiano e Oriente musulmano possono convivere in pace e in armonia.

Angela Lano



Angela Lano




Cana (16) Le nozze di cana, il futuro è dietro di noi

Il racconto delle nozze di cana (16)

L’indicazione temporale che apre il racconto di Cana è preciso e delimitato: «E nel terzo giorno» (Gv 2,1). Per comprenderne la portata straordinaria è necessario percorrere il passaggio logico degli eventi e non solo cronologico. Questa indicazione di tempo, così puntuale, come abbiamo più volte osservato, è la conclusione della prima settimana di attività di Gesù, descritta nel capitolo primo e culminante nella festa nuziale di Cana e, nello stesso tempo, è un preciso riferimento alla prima settimana della creazione, con cui Dio inizia la sua attività al di fuori di sé, come è descritta nel capitolo primo del libro della Genesi. Aggiungiamo che in Gv la prima settimana di attività pubblica di Gesù è strettamente connessa anche all’ultima settimana della sua vita terrena, che culmina nella crocifissione (Gv 12,1-19,42). Abbiamo dunque tre settimane da connettere e armonizzare: quella iniziale di Gesù, quella della creazione e quella conclusiva di Gesù. È questo legame che ora ci accingiamo a esaminare e che ci impegnerà anche per la prossima puntata.

Una lettura a ritroso per scoprire Abramo
Il punto di partenza della storia di Israele non è la Genesi, ma l’Esodo. La storia del popolo scelto da Dio non inizia con la creazione, in Adamo, ma in Egitto, dove Israele è schiavo. Qui Dio interviene con Mosè attraverso una epopea di liberazione che nei secoli successivi sarà descritta in termini enfatici, facendo di questo intervento il vero «atto creativo» con cui inizia la storia della salvezza. L’esodo è il punto di partenza, storico e teologico insieme, perché segna «la genesi» di Israele, l’origine di tutto, anche di quello che «avviene prima»: i Patriarchi e la creazione stessa. Dopo l’esodo che si compie nella fantasmagorica traversata del Mare Rosso, degna di una rappresentazione cinematografica «kolossal», l’altro punto assoluto, fulcro centrale di tutta la vita sia di Israele che di ogni singolo israelita, è l’arrivo al Monte Sinai, scenario adeguato e solenne per una mirabile manifestazione, con tutti gli ingredienti della spettacolarità: vi partecipa infatti la natura tutta con tuoni, lampi, fulmini e nubi.
Qui viene consegnata la Toràh / la Legge come coscienza di identità che deve significare il senso profondo che essa esprime: il segno dell’alleanza sponsale tra Dio liberatore e Israele liberato. Da questo momento tutto acquista senso perché l’esodo e in particolare il Sinai diventano la chiave interpretativa di tutta la storia, sia quella futura (cosa ovvia), ma anche quella passata, di cui si sono perdute le tracce nella notte dei tempi, essendo sopravvissuti solo alcuni vaghi ricordi. L’epopea dell’esodo rimette tutto in movimento: il passato (chi sono i patriarchi?) e il futuro (quale terra promessa?).
Se guardiamo solo verso il passato, scopriamo che Israele ha compiuto un’opera di ricostruzione meticolosa e logica. L’esodo pone domande essenziali. Perché Dio ha liberato Israele dalla schiavitù dell’Egitto? Perché Dio ha voluto dare una Legge proprio a Israele tra tutti i popoli esistenti, anche molto più significativi? In altre parole, cosa c’era prima dell’esodo e del Sinai? Qual è il senso del presente, cioè di ciò che accade al Sinai?
La risposta è ovvia: Dio ha dato la Legge a Israele per essere fedele alla promessa che aveva fatto ad Abramo. Inizia così un processo di ricognizione storico-teologica alla ricerca dei patriarchi Abramo, Isacco e Giacobbe per scoprire le fondamenta  del proprio presente e la prospettiva del futuro. La figura del primo patriarca comincia a uscire dalla nebulosità del passato e si proietta maestosa e nobile sul futuro di Israele: egli diventa la prima pietra «angolare» che dà senso all’esodo, nello stesso momento in cui l’esodo dà un nome e un volto al patriarca fondatore. È un cammino a ritroso, alla ricerca delle proprie origini. L’esodo in sé sarebbe poca cosa se non fosse «una promessa» di un Dio, diverso da tutti gli altri «dèi» conosciuti; al contrario, esso è la conclusione del cammino di una «parola» detta nella notte dei tempi che non si è smarrita, ma è diventata un fatto: la parola di Dio ad Abramo ora «si fa carne» e diventa esodo, liberazione.

Alla ricerca di Àdam
Non basta. Cosa c’era prima di Abramo? Proiettando ancora una volta la luce dell’esodo all’indietro, come un faro che illumina il cammino, Israele scopre che prima di Abramo, c’era Adamo che diventa così la coice ancora più ampia della storia della salvezza. Dal padre di Israele al padre dell’umanità. Il processo avviene dal particolare all’universale. Riflettere sull’esodo come evento fondativo significa visitare il proprio passato per cogliere la direzione del futuro e il senso del presente. La liberazione dall’Egitto e la Toràh del Sinai non sono frutti anonimi fuori stagione, ma sono la conseguenza matura di un lungo percorso che è iniziato nella notte dei tempi, anzi nel cuore di Dio. Prima ancora di creare il mondo, Dio aveva pensato Israele come suo popolo ed è per realizzare questa «elezione» che ha creato il mondo, poi ha chiamato Abramo, Isacco e Giacobbe perché «costruissero» il popolo che Dio avrebbe convocato per mezzo di Mosè ai piedi del Sinai per consegnare la Toràh, il codice dell’alleanza da portare a tutti i popoli della terra.
Alla fine si ha questo schema teologico: Dio ha creato l’universo per collocarvi l’umanità, che a sua volta diventa la coice dove avviene la promessa ad Abramo e agli altri patriarchi che diventano così la premessa all’evento principe dell’esodo che culmina nel dono della Toràh come garanzia dell’alleanza sponsale tra Dio e il suo popolo Israele. Il passaggio logico è: Mosè, Abramo, Àdam, non viceversa. Ciò spiega perché nella coscienza di Israele, l’esodo e la creazione non sono mai separati, ma sono i due aspetti complementari dell’intervento di Dio che ha creato il cosmo, formato Àdam e l’umanità, chiamato Abramo, un politeista pagano, solo per amore di Israele, «inventato» da Dio stesso come partner sponsale a cui dona in dote la Toràh, che non è solo una «legge», ma il sigillo dell’alleanza e della prosperità nuziale. Tutta la storia, da Àdam a Mosè ha senso solo se proiettata verso lo scopo e l’obiettivo che è il monte Sinai, il monte dove «nel terzo giorno» Dio consegna se stesso nella forma di Toràh, cioè di «Parola che si fa carne» (cf Gv 1,14) al popolo che ha scelto tra tutti i popoli.

I figli garanzia dei genitori
Narra la tradizione giudaica che Dio prima di Israele interpellò tutti i popoli della terra ai quali offrì in dono la Toràh che tutti rifiutarono per un motivo o per l’altro. Quando giunse infine ad Israele, egli non volle nemmeno sapere ciò che vi era scritto perché l’accettò senza condizioni o riserve.

«Prima di donarla agli Israeliti, l’Onnipotente offrì la Toràh a ogni tribù e nazione del mondo perché nessuno potesse dire: “Se il Santo benedetto avesse voluto darcela noi l’avremmo accolta”. Si recò dai figli di Esaù e chiese: “Accettate la Toràh?” – “Che cosa vi sta scritto?”, risposero quelli. – “Non uccidere” (Es 20,13). – “E tu vorresti privarci della benedizione impartita al nostro padre Esaù, cui è stato detto: ‘vivrai della tua spada?’ (Gen 27,40). Non vogliamo la Toràh”. – Allora il Signore l’offrì alla stirpe di Lot dicendo: “Accettate la Toràh?” – “Che cosa vi sta scritto?”. – “Non commettere adulterio” (Es 20,14). – “Proprio da atti impuri siamo nati! Non vogliamo la Toràh”. Allora il Signore chiese ai figli di Ismaele: “Accettate la Toràh?” – “Che cosa vi sta scritto?”. – “Non rubare” (Es 20,15). – “Vorresti forse portarci via la benedizione impartita a nostro padre, cui fu detto: ‘La sua mano sarà contro tutti’ (Gen 16,12)? No, non vogliamo affatto la Toràh”. Così fece con tutti gli altri popoli, i quali parimenti rifiutarono quel dono dicendo: “Non possiamo rinunciare alla legge dei nostri antenati, non vogliamo la tua Toràh, dalla al tuo popolo Israele”. – Per questo Egli – benedetto sia il suo Nome – andò infine dagli Israeliti e disse: “Accettate la Toràh?” – Risposero: “Che cosa contiene?”. – “Seicentotredici precetti”. Quelli risposero a una sola voce: “Tutto quanto il Signore ha detto noi faremo e ubbidiremo”»(1).

Israele prima mette in pratica la Toràh e solo dopo se ne domanda la ragione. La risposta degli Israeliti è disarmante e totale: (ebr.) «‘asher dibèr Adonai nÈhassèh wenishmà’», che la LXX traduce con «Panta hòsa elàlesen Kýrios poiêsomen kài akousòmetha – Tutto quello che il Signore ha detto, faremo e ascolteremo». Prima si fa e poi si ascolta. È importante mettere in evidenza la risposta di Israele che non s’impegna soltanto a eseguire le parole del Signore, ma accoglie la Toràh prima ancora di conoscee «il peso». In questo atteggiamento di Israele vi è l’entusiasmo dei discepoli che sono affascinati dall’avventura e si buttano con tutta la loro generosità senza calcolare le conseguenze che è il comportamento degli innamorati. Solo in questo contesto «personale» si può spiegare il Midrash (Midrash Ct rabba 1,4; Midras Tehilliìm/Salmi a 8,76-77) che narra di Dio che dopo avere dato la Toràh a Israele resta ancora perplesso e chiede un garante supplementare. Israele risponde dando a garanzia i propri figli, cioè il suo futuro che Dio accetta come pegno:

«Fu così che il popolo portò le mogli con gli infanti al petto e quelle gravide i cui corpi l’Eteo rese trasparenti come vetro. Poi Dio si rivolse a tutti i piccoli con queste parole: “Ecco, sto per dare la Toràh ai vostri padri, siete disposti a impegnarvi perché l’osservino?”. Ed essi risposero: “Sì”… I bambini nel ventre risposero a ogni comandamento positivo con “si” e a ogni comandamento negativo con “no”. L’Eteo diede dunque la Toràh a Israele con la fideiussione dei suoi bambini; ecco perché tanti ne muoiono quando il popolo non la osserva»(2).

Dall’esodo al Sinai per giungere a Cana
Da questa prospettiva, scopriamo che l’evangelista Giovanni è intriso di questa storia, quando scrive il suo vangelo. Collocando lo sposalizio di Cana alla fine della prima settimana di attività di Gesù e all’inizio del suo ministero pubblico, automaticamente costringe ogni credente che conosce la Bibbia a leggere nel racconto un chiaro nesso tra Sinai e Genesi e, a maggior ragione ora nel Nuovo Testamento, tra Sinai, Genesi e «Principio» del «Lògos», che si rivela e si manifesta non più su una montagna del deserto, ma nel Vangelo che assume il volto e la figura di Dio stesso. Con questo racconto l’autore ci costringe a fare lo stesso cammino a ritroso che fece il popolo d’Israele quando formò il suo pensiero teologico e lo sistemò in un organico sistema di sintesi della sua fede.
Su questo rapporto tra Genesi-Esodo-Cana, l’esegeta italiano Aristide Serra, che di fatto ha dedicato l’intera sua vita al racconto delle nozze di Cana, espone una complessa ricerca documentata nel suo ultimo volume «Le nozze di Cana» (Edizioni Messaggero di Padova nel 2009), specialmente alle pp. 110-179. Serra esamina i capitoli 19-24 di Esodo, che egli definisce «come il vangelo dell’Antico Testamento», data «l’importanza sicuramente eccezionale» (p. 119), perché attinente alla rivelazione del Sinai, che ha per oggetto l’alleanza del Signore con Israele. Dall’ampia riflessione giudaica su questo evento fondativo, egli si sofferma sulla «articolazione della settimana», che ha per protagonista la consegna della Toràh e che ha attinenza con la settimana della creazione, evidenziando così un valore cosmico anche all’evento del Sinai.
In Gen 1,3-2,3 i giorni della prima settimana in assoluto, quella della creazione, si susseguono in modo monotono e lineare, scanditi dal ritornello: «E fu sera e fu mattino: giorno primo … secondo giorno … terzo giorno … quarto giorno … quinto giorno … sesto giorno (Gen 1,5.8.13.19.23.31). Nel racconto del Sinai invece si ha un ritmo diverso che esaminiamo a partire dal testo di Es 19:

«1Al terzo mese dall’uscita degli Israeliti dalla terra d’Egitto, nello stesso giorno, essi arrivarono al deserto del Sinai…
10 Il Signore disse a Mosè: “Va’ dal popolo e santificalo, oggi e domani: lavino le loro vesti 11e si tengano pronti per il terzo giorno, perché nel terzo giorno il Signore scenderà sul monte Sinai, alla vista di tutto il popolo.
16 Il terzo giorno, sul far del mattino, vi furono tuoni e lampi, una nube densa sul monte e un suono fortissimo di corno: tutto il popolo che era nell’accampamento fu scosso da tremore».

Su questo testo la letteratura giudaica (targumìm e testi rabbinici) fanno lunghe e minuziose dissertazioni, inquadrando la rivelazione del Sinai in schemi  cronologici di sei, di sette e anche di otto giorni (cf A. Serra, Le nozze di Cana, 97-102 che riporta anche una ampia e accurata bibliografia di testi). In base a questi calcoli il ritmo della scansione della settimana sarebbe il seguente. Il terzo mese del calendario ebraico è il mese di Siwàn (che corrisponde a maggio-giugno). A partire dall’inizio di questo mese, come descrive dettagliatamente il Targum dello pseudo Gionata(3), si contano i giorni con la seguente progressione:

1 giorno:    Gli ebrei giungono al deserto del Sinai (TJ I a Es 19,1-2).
2 giorno:    Mosè sale sul monte e scende (TJ I a Es 19,3-8).
3 giorno    Il Signore preannuncia la sua venuta a Mosè (TJ I a Es 19,9).
4 giorno:    Ordine del Signore a Mosè di purificare il popolo «oggi e domani» e di tenersi pronti per il «terzo giorno», il giorno della Teofania (TJ I a Es 19,10-15).
5 giorno:    Corrisponde al «domani» del punto precedente.
6 giorno:    Corrisponde al «terzo giorno» del punto precedente: Dio si rivela, consegna la Toràh a Mosé che fa avvicinare il popolo ai piedi del monte per consegnargli «le dieci parole» (TJ I a Es 19,16-25).

Nel racconto della Genesi, al sesto giorno è creato Àdam e Eva, cioè la prima umanità; al Sinai al «sesto giorno» che, come abbiamo visto, corrisponde al «terzo giorno», è creato Israele che acquista la identità di «sposa» e nelle nozze di Cana «al terzo giorno» Gesù manifesta la sua gloria. È evidente che in questa progressione cronologica il giorno più importante è «il terzo», il giorno in cui Dio manifesta se stesso sia al Sinai che a Cana e questo «terzo giorno» del Sinai-Cana corrisponde al «giorno sesto» della creazione dove la prima coppia prende vita e contempla in assoluto il volto del Dio creatore                       [continua – 16]

Paolo Farinella

Paolo Farinella




La «terza» via

Paolo Deriu: storia di un laico in missione

Da piccolo gli piacevano i dinosauri. Così scoprì che in Africa erano arrivati i primi ominidi. Pensava di fare il paleontologo. Poi lavoro e università, fino a un’ottima laurea in economia. Ma Paolo era sensibile alla sofferenza e alla miseria, così inizia a lavorare per alcune Ong.
Ma un giorno incontra i missionari della Consolata.

Da Lichinga, capoluogo del Niassa, provincia nel Nord del Mozambico, occorre percorrere 135 km di una strada asfaltata per arrivare a Malanga. Il paesaggio che si attraversa è superbo, montagne aguzze ed ampie vallate. Alberi e campi a perdita d’occhio. Si arriva nel distretto di Majune, povero in quella che è ritenuta la provincia più isolata e depressa del paese.
Qui vivono le etnie Makúa e Ayao, mentre il potere è saldamente in mano ai capi tradizionali e agli stregoni.
«C’è ancora un cattivo utilizzo delle tecniche di coltivazione e una brutta abitudine all’assistenza e al dono». Chi parla è Paolo Deriu, laico missionario della Consolata.
Alto, con il viso ovale, capelli a caschetto. Tranquillo e pacato, con gli occhi sempre vispi dietro a spessi occhiali. Paolo ha un lungo percorso come missionario, laico per l’appunto.

Vocazione laica
Dopo di tre anni a Mecanhelas, sempre nella provincia del Niassa, e un periodo in Italia, è tornato in Mozambico nella missione di Majune. Qui è in comunità con padre Felix Odongo del Kenya e fratel Aires Osmarin brasiliano.
«Io non avevo molti legami con la chiesa, andavo a messa la domenica. Però mi interessava la questione dell’aiuto ai paesi del Sud del Mondo, così mi ero messo nelle Ong, prima come volontario con Mani Tese e poi a livello professionale con Fratelli dell’Uomo. Questa era una organizzazione laica, non aveva contatti con la missione. Poi alcuni amici mi hanno detto che all’Università Cattolica di Milano, dove ho studiato, un sacerdote voleva mettere in piedi un gruppo missionario. Io pensavo che fosse positivo per gli studenti avere una qualche istituzione che li mettesse in contatto con i paesi del Sud». Quel prete era padre Francesco Giuliani, missionario della Consolata, e fu il primo contatto con l’Istituto Missioni Consolata. Tra i due si creò subito intesa.
«Abbiamo fatto un po’ di pubblicità, ed è nato questo gruppo chiamato Spazio aperto, che più tardi è diventato una Onlus, e adesso appoggia alcuni progetti anche a Majune».
In quel periodo Paolo inizia a conoscere il significato di essere missionario e cerca subito di approfondire.
«Io mi interrogavo, perché noi nelle Ong non conoscevamo bene la realtà nel Sud del Mondo, in Africa Occidentale nel mio caso. Erano tante le storie di inganni, fondi che non arrivavano, progetti che non funzionavano. Avrei voluto che questo nostro lavoro fosse più sul campo, più con la gente, e il mondo missionario mi sembrava avesse qualche ipotesi in più per aiutare queste persone. Così mi sono detto: voglio vedere come si fa ad essere missionario».
Paolo scopre che le scelte possibili sono diverse: consacrarsi, prendere i voti, o anche diventare sacerdote. Un’opzione alternativa è vivere la missione come laico.
«Essere padre era un po’ troppo, non ho mai avuto la vocazione di essere consacrato, né padre, né fratello. Allora ho pensato, proviamo come laico missionario, una scelta all’avanguardia, all’epoca nella Consolata non c’era quasi niente. Così sono stato ammesso al postulantato di Alpignano con padre Giordano Rigamonti. Qui ho approfondito la mia conoscenza dell’Istituto, ma anche della religione, il che è stato molto utile».
Paolo difende i due concetti, il laicato e l’essere missionario.
«Anche se io come laico non ho i voti, con padri e fratelli facciamo un lavoro molto simile. Quando siamo qui in missione è più evidente di quando si lavora in Italia. Noi laici, come i fratelli, non diciamo messa, non confessiamo. Il nostro lavoro è entrare in comunità e portare il messaggio di Gesù, ognuno come sa farlo. C’è chi ha la vocazione per incontri di catechesi, chi per orientare gli animatori. Personalmente a me piace di più lavorare sul campo, con le persone per organizzare qualcosa con loro nei settori dell’economia o del sociale. Qualcosa che rimanga, aiuti la popolazione a vivere meglio».

Missione per far crescere
Provenendo dal mondo delle Ong Paolo si porta dietro il concetto di sviluppo, oltre che alla sensibilità per i diritti umani.
«Io comincio un lavoro pensando che domani saranno loro a prenderlo in mano. Ma qua dicono: se il missionario va in Italia, chi prenderà il suo posto? Deve prenderlo uno del Mozambico perché il nostro lavoro è farli crescere, non perpetrare la nostra presenza. Però lamento che ci sono tante situazioni in cui il missionario straniero è la testa e i mozambicani o gli africani stanno a guardare. Falegnamerie, scuole, fattorie, c’è sempre il missionario italiano (o straniero) a capo. Quando vedremo il missionario mozambicano fondare una scuola per aiutare i più poveri? È questo che dobbiamo vedere: le persone del posto che si preoccupano, sentono pena per il loro.
Ma in fatto di solidarietà tra la gente di qua siamo ancora un po’ carenti».
Paolo ripete che la terra nella zona è fertile, si possono fare tre raccolti all’anno, ma c’è ancora un attendismo troppo elevato verso gli stranieri e quindi dipendenza. Lui segue una ventina di progetti di tipo economico e sociale, tutti con aiuti che provengono dall’estero, ma sta lavorando al «Progetto zero», ovvero zero aiuti da fuori. C’è anche il problema della rarità di animatori seri, fondamentali per lavorare sul campo. «Troppo spesso essere animatore, o catechista, viene vista come una posizione sociale, almeno qui a Majune. Altrove sono più seri».
C’è poi un lavoro da fare sui diritti umani.
«I diritti umani sono una questione importante, però io vedo che talvolta, per comodità, è un tema che si trascura. Ad esempio hanno bruciato vivo un malato di mente che rubacchiava nei mercati, una notte il proprietario di una bancarella gli ha versato sopra la benzina e gli ha dato fuoco. Le ustioni erano così avanzate che è morto durante il trasferimento all’ospedale di Lichinga. La domenica successiva neanche una parola a messa. Solo io, negli avvisi, mi sono sentito in dovere di richiamare che era morta una persona, anche se era musulmana. Ucciso in modo barbaro. Gli animatori mi hanno chiesto perché bisognava parlarne e io ho risposto: non ti posso ammazzare un giorno per strada come se niente fosse.
Poi c’è la questione politica, il 22 novembre è l’anniversario dell’assassinio del giornalista Carlos Cardoso, ma nessuno ne vuole parlare. Sono cose importanti. Il peggio è che i deboli qua non sono tutelati. Se una donna venuta da un altro paese o da un altro distretto, sposa un uomo di qui, ma poi divorzia o perde il marito, non ha nessuna protezione. Questi sono problemi gravi e noi dobbiamo sempre essere presenti».

L’impegno per l’infanzia
«Io penso che qui a Majune i bambini siano una categoria molto negletta, perché sono trascurati: igienicamente, nei vestiti, nel cibo. Possono cadere nel fuoco, essere uccisi a calci dal padre ubriaco. Hanno pochi diritti e sono molto abbandonati a se stessi. Circolano di notte da soli, in mezzo agli ubriachi e nessuno si preoccupa».
Paolo è molto fiero di mostrarci un progetto sull’infanzia. È un asilo per sessanta bambini, nel villaggio di Malila. I missionari sono riusciti a coinvolgere la comunità, e le mamme a tuo cucinano il pasto fornito, però, dalla parrocchia. Ci sono alcuni bimbi che gli saltano addosso e gli si appendono al collo. E lui, sempre impassibile, forse per le sue origini olandesi, si lascia intenerire.
Ma Paolo lavora anche con gli anziani. Molti vivono in solitudine, non hanno famiglia, hanno difficoltà a procurarsi da mangiare e sono abbandonati. È il caso di Apita Costa, detta Solzinha (solitaria). I missionari hanno sensibilizzato alcuni giovani affinché si occupino di questi anziani.

Tante sfide, alcune soddisfazioni
Oltre al piacere di essere «sul campo», come dice lui, e avere il contatto con le persone, il nostro missionario laico ci racconta soddisfazioni e sfide di questa scelta.
«Una grande soddisfazione è quando le persone capiscono che vuoi lavorare con loro e per loro e non vuoi essere il loro padrone. Iniziano a rimboccarsi le maniche, ad avere idee e proposte, iniziative, e il tuo lavoro può crescere ancora di più. Quando ci sono dei risultati sul campo, che non è soltanto dire: il malato è guarito, il pazzo è tornato normale. Se vediamo gruppi di persone che dicono: bene adesso siamo noi che aiutiamo i nostri simili.
Le sfide sono tantissime perché quando diventi missionario, laico o religioso che sia, devi andare a vivere in un altro paese. Per esempio se vieni in Mozambico per passare un mese hai un certo spirito, se devi stare tre anni o più il punto di vista cambia notevolmente. L’adattamento, la lingua.  Abituati alle città, in questi villaggi dove non c’è niente di speciale, occorre uno sforzo. Inoltre capire che molti ti considerano solo una mucca da mungere, e tu vorresti fare amicizia, relazionarti da pari a pari. Anche questo è difficile da accettare.
Però c’è sempre della brava gente che lavora. La nostra sfida è scoprire quelli che sono più in gamba, più onesti, quelli che non hanno tanti problemi in testa. Con loro costruire qualcosa di forte e aiutare i più deboli che hanno anche bisogno di modelli».
Essere missionario vuole sovente dire vivere e lavorare con dei confratelli. E anche questo non è sempre cosa facile.
«Se sei in comunità bisogna cercare di evitare di essere persone complicate, capricciose, brontolone. In missione è una sofferenza, perché già dobbiamo spendere molte energie, se poi abbiamo un ambiente teso in casa non si lavora più. Spesso le comunità sono composte da persone di varie nazionalità. Cerchiamo di capirci gli uni con gli altri di evitare soprattutto il rifiuto. Non classificare definitivamente la gente: con quello non si può parlare, con quell’altro non c’è intesa. Questo atteggiamento bloccherebbe tutto. Dobbiamo prendere la persona com’è, talvolta tollerare. Possiamo fare delle osservazioni, ma è importante che dopo la tempesta torni il sereno. Vedi certe case dove i padri si sono chiusi ognuno nella sua zona, e parlano ma non comunicano».

Consigli pratici
Abbiamo chiesto a Paolo che consigli darebbe a chi è interessato a inoltrarsi sulla strada del laicato missionario.
«Colui che vuole vivere qualche tempo come laico missionario deve parlare a lungo con persone che sono già state per vari anni nel paese. È bene che sappia cosa lo aspetta, e non parta con idee strane. Molti pensano ancora che l’Africa sia il continente dei villaggi, della solidarietà, della natura incontaminata e degli anziani. Però l’Africa sta cambiando molto e qui, come in Europa, l’individualismo, la sete dei soldi, sono delle realtà molto forti. Mi dicono che talvolta nella famiglia di oggi nessuno si aiuta, ed è molto peggio della famiglia di ieri dove tutti si aiutavano.
C’è sempre il rischio di chiudersi, nella tristezza, nella rassegnazione e aspettare che il tempo passi.
La persona che va in missione deve avere una formazione di primo piano. Molti hanno la buona volontà, però c’è la solitudine in agguato. Ad esempio il rapporto con gli animatori, con la gente è un punto delicato.
Dobbiamo stimare i nostri collaboratori, cristiani, musulmani. Invece alcuni coltivano un po’ di disprezzo, anche giustificato in parte dalle delusioni che hanno sofferto, le piccole truffe, inganni, vedere l’animatore ubriaco. Da qui cominciamo a essere non dico razzisti ma poco ci manca: “Non si può fare niente con questa gente, sono fatti così”. Ci sono alcuni aspetti che lasciano un po’ perplessi nelle loro abitudini, ma non possiamo lasciarci andare a questo.
E poi non bisogna prendere troppo sul serio i problemi e le difficoltà, fare dei drammi perché alle volte certe cose le ingigantiamo molto dal nostro punto di vista». In Italia non si fa molta promozione di questa «terza via» per fare il missionario. Cosa proporresti?
«Io penso che noi laici dovremmo impegnarci di più per promuovere questa strada. Ci vorrebbe una figura carismatica, un “Allamano dei laici”. È un po’ difficile oggi da trovare, non è facile saper trascinare delle persone, soprattutto in un mondo come quello occidentale dove tutti sono oberati di lavoro e di preoccupazioni e i tempi si fanno sempre più stretti. Ci sono delle persone di buona volontà che portano avanti il laicato, ma non possiamo pretendere che siano sempre i padri a prendere l’iniziativa per incoraggiarlo.
Quando siamo in missione, occorre che anche noi ci interroghiamo su cosa fare per il laicato missionario italiano. È una responsabilità alla quale siamo chiamati».

Il rientro dalla missione
Paolo decide di rientrare in Italia nel giugno dello scorso anno, dopo altri quattro anni di missione.
«Pensavo di dare una sistemata alla mia vita: ogni volta che rientro la mia famiglia si occupa di me, ma non è più pensabile a una certa età. Avrei anche continuato la missione, ma ci sono molte incertezze sul futuro, l’Istituto non ha il dovere di occuparsi di noi finito il servizio. È una situazione che dà poche prospettive».
Questo è un punto debole del laicato missionario. Al momento non esiste un meccanismo che consenta al laico rientrato di inserirsi in comunità italiane e svolgere servizio in madrepatria. Può succedere, ci sono alcune esperienze di questo tipo (vedi box) ma non è sistematico. Anche in Spagna e Portogallo i laici missionari della Consolata hanno alcune comunità. Per dare solidità a questo modo di fare missione sarebbe importante creare un legame forte tra le comunità di vita nel paese di origine e colui che parte. Questo è importante durante il periodo all’estero e fondamentale per reintegrare il laico nella vita italiana al suo rientro. Il missionario dovrebbe essere inviato da un gruppo, che lo appoggia e al quando torna qualcun altro potrà partire, per dare continuità al suo lavoro.
«La prima volta che sono partito ho mantenuto i contatti, la seconda invece questa cosa non ha funzionato. Al mio rientro dalla missione l’Istituto mi ha proposto di lavorare nella pastorale dei migranti».
Paolo è stato inserito nell’équipe della Consolata che presta servizio nell’Ufficio migranti della diocesi di Torino.
«Dopo tanti anni di Africa, tornando in Italia ci sentiamo un po’ spaesati. L’Europa era il nostro mondo, ma in Africa sviluppiamo un’altra sensibilità. In missione trovavo una carica di umanità nonostante tutti i difetti, che non sempre si riesce a riscontrare qui. Dopo un po’ di tempo ci si adatta, ma neanche tanto».

Marco Bello

Marco Bello