La «terza» via

Paolo Deriu: storia di un laico in missione

Da piccolo gli piacevano i dinosauri. Così scoprì che in Africa erano arrivati i primi ominidi. Pensava di fare il paleontologo. Poi lavoro e università, fino a un’ottima laurea in economia. Ma Paolo era sensibile alla sofferenza e alla miseria, così inizia a lavorare per alcune Ong.
Ma un giorno incontra i missionari della Consolata.

Da Lichinga, capoluogo del Niassa, provincia nel Nord del Mozambico, occorre percorrere 135 km di una strada asfaltata per arrivare a Malanga. Il paesaggio che si attraversa è superbo, montagne aguzze ed ampie vallate. Alberi e campi a perdita d’occhio. Si arriva nel distretto di Majune, povero in quella che è ritenuta la provincia più isolata e depressa del paese.
Qui vivono le etnie Makúa e Ayao, mentre il potere è saldamente in mano ai capi tradizionali e agli stregoni.
«C’è ancora un cattivo utilizzo delle tecniche di coltivazione e una brutta abitudine all’assistenza e al dono». Chi parla è Paolo Deriu, laico missionario della Consolata.
Alto, con il viso ovale, capelli a caschetto. Tranquillo e pacato, con gli occhi sempre vispi dietro a spessi occhiali. Paolo ha un lungo percorso come missionario, laico per l’appunto.

Vocazione laica
Dopo di tre anni a Mecanhelas, sempre nella provincia del Niassa, e un periodo in Italia, è tornato in Mozambico nella missione di Majune. Qui è in comunità con padre Felix Odongo del Kenya e fratel Aires Osmarin brasiliano.
«Io non avevo molti legami con la chiesa, andavo a messa la domenica. Però mi interessava la questione dell’aiuto ai paesi del Sud del Mondo, così mi ero messo nelle Ong, prima come volontario con Mani Tese e poi a livello professionale con Fratelli dell’Uomo. Questa era una organizzazione laica, non aveva contatti con la missione. Poi alcuni amici mi hanno detto che all’Università Cattolica di Milano, dove ho studiato, un sacerdote voleva mettere in piedi un gruppo missionario. Io pensavo che fosse positivo per gli studenti avere una qualche istituzione che li mettesse in contatto con i paesi del Sud». Quel prete era padre Francesco Giuliani, missionario della Consolata, e fu il primo contatto con l’Istituto Missioni Consolata. Tra i due si creò subito intesa.
«Abbiamo fatto un po’ di pubblicità, ed è nato questo gruppo chiamato Spazio aperto, che più tardi è diventato una Onlus, e adesso appoggia alcuni progetti anche a Majune».
In quel periodo Paolo inizia a conoscere il significato di essere missionario e cerca subito di approfondire.
«Io mi interrogavo, perché noi nelle Ong non conoscevamo bene la realtà nel Sud del Mondo, in Africa Occidentale nel mio caso. Erano tante le storie di inganni, fondi che non arrivavano, progetti che non funzionavano. Avrei voluto che questo nostro lavoro fosse più sul campo, più con la gente, e il mondo missionario mi sembrava avesse qualche ipotesi in più per aiutare queste persone. Così mi sono detto: voglio vedere come si fa ad essere missionario».
Paolo scopre che le scelte possibili sono diverse: consacrarsi, prendere i voti, o anche diventare sacerdote. Un’opzione alternativa è vivere la missione come laico.
«Essere padre era un po’ troppo, non ho mai avuto la vocazione di essere consacrato, né padre, né fratello. Allora ho pensato, proviamo come laico missionario, una scelta all’avanguardia, all’epoca nella Consolata non c’era quasi niente. Così sono stato ammesso al postulantato di Alpignano con padre Giordano Rigamonti. Qui ho approfondito la mia conoscenza dell’Istituto, ma anche della religione, il che è stato molto utile».
Paolo difende i due concetti, il laicato e l’essere missionario.
«Anche se io come laico non ho i voti, con padri e fratelli facciamo un lavoro molto simile. Quando siamo qui in missione è più evidente di quando si lavora in Italia. Noi laici, come i fratelli, non diciamo messa, non confessiamo. Il nostro lavoro è entrare in comunità e portare il messaggio di Gesù, ognuno come sa farlo. C’è chi ha la vocazione per incontri di catechesi, chi per orientare gli animatori. Personalmente a me piace di più lavorare sul campo, con le persone per organizzare qualcosa con loro nei settori dell’economia o del sociale. Qualcosa che rimanga, aiuti la popolazione a vivere meglio».

Missione per far crescere
Provenendo dal mondo delle Ong Paolo si porta dietro il concetto di sviluppo, oltre che alla sensibilità per i diritti umani.
«Io comincio un lavoro pensando che domani saranno loro a prenderlo in mano. Ma qua dicono: se il missionario va in Italia, chi prenderà il suo posto? Deve prenderlo uno del Mozambico perché il nostro lavoro è farli crescere, non perpetrare la nostra presenza. Però lamento che ci sono tante situazioni in cui il missionario straniero è la testa e i mozambicani o gli africani stanno a guardare. Falegnamerie, scuole, fattorie, c’è sempre il missionario italiano (o straniero) a capo. Quando vedremo il missionario mozambicano fondare una scuola per aiutare i più poveri? È questo che dobbiamo vedere: le persone del posto che si preoccupano, sentono pena per il loro.
Ma in fatto di solidarietà tra la gente di qua siamo ancora un po’ carenti».
Paolo ripete che la terra nella zona è fertile, si possono fare tre raccolti all’anno, ma c’è ancora un attendismo troppo elevato verso gli stranieri e quindi dipendenza. Lui segue una ventina di progetti di tipo economico e sociale, tutti con aiuti che provengono dall’estero, ma sta lavorando al «Progetto zero», ovvero zero aiuti da fuori. C’è anche il problema della rarità di animatori seri, fondamentali per lavorare sul campo. «Troppo spesso essere animatore, o catechista, viene vista come una posizione sociale, almeno qui a Majune. Altrove sono più seri».
C’è poi un lavoro da fare sui diritti umani.
«I diritti umani sono una questione importante, però io vedo che talvolta, per comodità, è un tema che si trascura. Ad esempio hanno bruciato vivo un malato di mente che rubacchiava nei mercati, una notte il proprietario di una bancarella gli ha versato sopra la benzina e gli ha dato fuoco. Le ustioni erano così avanzate che è morto durante il trasferimento all’ospedale di Lichinga. La domenica successiva neanche una parola a messa. Solo io, negli avvisi, mi sono sentito in dovere di richiamare che era morta una persona, anche se era musulmana. Ucciso in modo barbaro. Gli animatori mi hanno chiesto perché bisognava parlarne e io ho risposto: non ti posso ammazzare un giorno per strada come se niente fosse.
Poi c’è la questione politica, il 22 novembre è l’anniversario dell’assassinio del giornalista Carlos Cardoso, ma nessuno ne vuole parlare. Sono cose importanti. Il peggio è che i deboli qua non sono tutelati. Se una donna venuta da un altro paese o da un altro distretto, sposa un uomo di qui, ma poi divorzia o perde il marito, non ha nessuna protezione. Questi sono problemi gravi e noi dobbiamo sempre essere presenti».

L’impegno per l’infanzia
«Io penso che qui a Majune i bambini siano una categoria molto negletta, perché sono trascurati: igienicamente, nei vestiti, nel cibo. Possono cadere nel fuoco, essere uccisi a calci dal padre ubriaco. Hanno pochi diritti e sono molto abbandonati a se stessi. Circolano di notte da soli, in mezzo agli ubriachi e nessuno si preoccupa».
Paolo è molto fiero di mostrarci un progetto sull’infanzia. È un asilo per sessanta bambini, nel villaggio di Malila. I missionari sono riusciti a coinvolgere la comunità, e le mamme a tuo cucinano il pasto fornito, però, dalla parrocchia. Ci sono alcuni bimbi che gli saltano addosso e gli si appendono al collo. E lui, sempre impassibile, forse per le sue origini olandesi, si lascia intenerire.
Ma Paolo lavora anche con gli anziani. Molti vivono in solitudine, non hanno famiglia, hanno difficoltà a procurarsi da mangiare e sono abbandonati. È il caso di Apita Costa, detta Solzinha (solitaria). I missionari hanno sensibilizzato alcuni giovani affinché si occupino di questi anziani.

Tante sfide, alcune soddisfazioni
Oltre al piacere di essere «sul campo», come dice lui, e avere il contatto con le persone, il nostro missionario laico ci racconta soddisfazioni e sfide di questa scelta.
«Una grande soddisfazione è quando le persone capiscono che vuoi lavorare con loro e per loro e non vuoi essere il loro padrone. Iniziano a rimboccarsi le maniche, ad avere idee e proposte, iniziative, e il tuo lavoro può crescere ancora di più. Quando ci sono dei risultati sul campo, che non è soltanto dire: il malato è guarito, il pazzo è tornato normale. Se vediamo gruppi di persone che dicono: bene adesso siamo noi che aiutiamo i nostri simili.
Le sfide sono tantissime perché quando diventi missionario, laico o religioso che sia, devi andare a vivere in un altro paese. Per esempio se vieni in Mozambico per passare un mese hai un certo spirito, se devi stare tre anni o più il punto di vista cambia notevolmente. L’adattamento, la lingua.  Abituati alle città, in questi villaggi dove non c’è niente di speciale, occorre uno sforzo. Inoltre capire che molti ti considerano solo una mucca da mungere, e tu vorresti fare amicizia, relazionarti da pari a pari. Anche questo è difficile da accettare.
Però c’è sempre della brava gente che lavora. La nostra sfida è scoprire quelli che sono più in gamba, più onesti, quelli che non hanno tanti problemi in testa. Con loro costruire qualcosa di forte e aiutare i più deboli che hanno anche bisogno di modelli».
Essere missionario vuole sovente dire vivere e lavorare con dei confratelli. E anche questo non è sempre cosa facile.
«Se sei in comunità bisogna cercare di evitare di essere persone complicate, capricciose, brontolone. In missione è una sofferenza, perché già dobbiamo spendere molte energie, se poi abbiamo un ambiente teso in casa non si lavora più. Spesso le comunità sono composte da persone di varie nazionalità. Cerchiamo di capirci gli uni con gli altri di evitare soprattutto il rifiuto. Non classificare definitivamente la gente: con quello non si può parlare, con quell’altro non c’è intesa. Questo atteggiamento bloccherebbe tutto. Dobbiamo prendere la persona com’è, talvolta tollerare. Possiamo fare delle osservazioni, ma è importante che dopo la tempesta torni il sereno. Vedi certe case dove i padri si sono chiusi ognuno nella sua zona, e parlano ma non comunicano».

Consigli pratici
Abbiamo chiesto a Paolo che consigli darebbe a chi è interessato a inoltrarsi sulla strada del laicato missionario.
«Colui che vuole vivere qualche tempo come laico missionario deve parlare a lungo con persone che sono già state per vari anni nel paese. È bene che sappia cosa lo aspetta, e non parta con idee strane. Molti pensano ancora che l’Africa sia il continente dei villaggi, della solidarietà, della natura incontaminata e degli anziani. Però l’Africa sta cambiando molto e qui, come in Europa, l’individualismo, la sete dei soldi, sono delle realtà molto forti. Mi dicono che talvolta nella famiglia di oggi nessuno si aiuta, ed è molto peggio della famiglia di ieri dove tutti si aiutavano.
C’è sempre il rischio di chiudersi, nella tristezza, nella rassegnazione e aspettare che il tempo passi.
La persona che va in missione deve avere una formazione di primo piano. Molti hanno la buona volontà, però c’è la solitudine in agguato. Ad esempio il rapporto con gli animatori, con la gente è un punto delicato.
Dobbiamo stimare i nostri collaboratori, cristiani, musulmani. Invece alcuni coltivano un po’ di disprezzo, anche giustificato in parte dalle delusioni che hanno sofferto, le piccole truffe, inganni, vedere l’animatore ubriaco. Da qui cominciamo a essere non dico razzisti ma poco ci manca: “Non si può fare niente con questa gente, sono fatti così”. Ci sono alcuni aspetti che lasciano un po’ perplessi nelle loro abitudini, ma non possiamo lasciarci andare a questo.
E poi non bisogna prendere troppo sul serio i problemi e le difficoltà, fare dei drammi perché alle volte certe cose le ingigantiamo molto dal nostro punto di vista». In Italia non si fa molta promozione di questa «terza via» per fare il missionario. Cosa proporresti?
«Io penso che noi laici dovremmo impegnarci di più per promuovere questa strada. Ci vorrebbe una figura carismatica, un “Allamano dei laici”. È un po’ difficile oggi da trovare, non è facile saper trascinare delle persone, soprattutto in un mondo come quello occidentale dove tutti sono oberati di lavoro e di preoccupazioni e i tempi si fanno sempre più stretti. Ci sono delle persone di buona volontà che portano avanti il laicato, ma non possiamo pretendere che siano sempre i padri a prendere l’iniziativa per incoraggiarlo.
Quando siamo in missione, occorre che anche noi ci interroghiamo su cosa fare per il laicato missionario italiano. È una responsabilità alla quale siamo chiamati».

Il rientro dalla missione
Paolo decide di rientrare in Italia nel giugno dello scorso anno, dopo altri quattro anni di missione.
«Pensavo di dare una sistemata alla mia vita: ogni volta che rientro la mia famiglia si occupa di me, ma non è più pensabile a una certa età. Avrei anche continuato la missione, ma ci sono molte incertezze sul futuro, l’Istituto non ha il dovere di occuparsi di noi finito il servizio. È una situazione che dà poche prospettive».
Questo è un punto debole del laicato missionario. Al momento non esiste un meccanismo che consenta al laico rientrato di inserirsi in comunità italiane e svolgere servizio in madrepatria. Può succedere, ci sono alcune esperienze di questo tipo (vedi box) ma non è sistematico. Anche in Spagna e Portogallo i laici missionari della Consolata hanno alcune comunità. Per dare solidità a questo modo di fare missione sarebbe importante creare un legame forte tra le comunità di vita nel paese di origine e colui che parte. Questo è importante durante il periodo all’estero e fondamentale per reintegrare il laico nella vita italiana al suo rientro. Il missionario dovrebbe essere inviato da un gruppo, che lo appoggia e al quando torna qualcun altro potrà partire, per dare continuità al suo lavoro.
«La prima volta che sono partito ho mantenuto i contatti, la seconda invece questa cosa non ha funzionato. Al mio rientro dalla missione l’Istituto mi ha proposto di lavorare nella pastorale dei migranti».
Paolo è stato inserito nell’équipe della Consolata che presta servizio nell’Ufficio migranti della diocesi di Torino.
«Dopo tanti anni di Africa, tornando in Italia ci sentiamo un po’ spaesati. L’Europa era il nostro mondo, ma in Africa sviluppiamo un’altra sensibilità. In missione trovavo una carica di umanità nonostante tutti i difetti, che non sempre si riesce a riscontrare qui. Dopo un po’ di tempo ci si adatta, ma neanche tanto».

Marco Bello

Marco Bello

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