NON SOLO ORGOGLIO
Guidata da un partito islamico moderato, la Turchia è un paese in pieno fermento, come dimostra anche il referendum del 12 settembre 2010. Pur aspirando a diventare la nuova guida del mondo islamico, i governanti di Ankara vorrebbero avere rapporti privilegiati con la vicina Europa. Ma le distanze culturali e le diffidenze europee per ora sembrano prevalere.
L’aereo volteggia sul Mare di Marmara. Davanti a noi s’apre una distesa di luci sparse su un lembo di terra tagliata dal Bosforo. Al di là, si estendono le acque del Mar Nero. È Istanbul, la bella. La città dalle splendide moschee e dai mille minareti svettanti contro il cielo. La Bisanzio dei greci, la Costantinopoli dell’Impero Romano d’Oriente e la Istanbul ottomana: antica capitale ricca di storia e di cultura e da sempre ponte tra Occidente e Oriente.
Aggirarsi per le sue vecchie strade e per le sue piazze affollatissime, osservare le sue case di legno, le sue facciate decadenti ma piene di fascino è come fare un tuffo nel passato, stando, paradossalmente, ben ancorati al futuro.
La città e il resto della Turchia, infatti, sono in pieno fermento culturale, politico, sociale ed economico. Una condizione che le distingue molto dagli altri stati della stanca e asfittica Europa, a crescita zero o sottozero e soffocata da un malessere generalizzato.
Qui si respira un’aria di freschezza: sarà per la presenza di tanti bambini e giovani; sarà per la voglia di cambiamento e la speranza nel futuro, ma una cosa è certa, questa regione del pianeta qualcosa di nuovo ha in serbo per i suoi 76 milioni di abitanti.
Quartieri modeissimi e antichissimi si contendono il vasto territorio su cui è costruita Istanbul: la convivenza di passato e futuro è tra gli aspetti più appariscenti di questa metropoli mediterranea.
Dell’antica grandezza bizantina, e poi ottomana, si scorgono tracce dovunque, anche nella fierezza del popolo che, in questi anni, sta ritrovando il perduto orgoglio di «guida» del vasto mondo islamico, e arabo, dominato da dittatori e monarchi invisi ai propri stessi popoli.
La Turchia è infatti balzata alla ribalta per le posizioni «terzomondiste» e mediorientali, per il sostegno al popolo palestinese, per l’amicizia con l’Iran, con le repubbliche latino-americane, e per aver sottratto il ruolo di mediatore nei conflitti del Vicino e Medio Oriente all’Egitto, Stato arabo la cui immagine è andata ormai distrutta dall’ostentata sudditanza agli Usa e a Israele e dalla trentennale dittatura del clan Mubarak.
L’atipicitÀ DEGLI ISLAMICI turchi E LE PAURE DEGLI EUROPEI
La Turchia musulmana, ben espressa attraverso il partito al potere, Akp (vedi box), è diventata uno dei punti di riferimento per tutta la vasta regione islamica, in particolare quella sunnita.
Proiezione verso Oriente e slancio verso l’Europa sono aspetti che caratterizzano storicamente il Paese, e non sono solo una novità di questi anni. Già verso la fine dell’Ottocento, gli intellettuali turchi erano scissi interiormente, e politicamente, tra due tendenze, quando non appartenevano proprio alle due fazioni opposte: filo-occidentalismo e filo-islamismo ottomano.
L’ascesa dirompente del secolarismo ebbe inizio nell’ultima fase dell’Impero Ottomano e culminò con le riforme del fondatore della Turchia modea, Mustafa Kemal Atatürk, negli anni Venti.
Religiosità e laicismo, riformismo e conservatorismo rappresentano ancora oggi le tante facce di questa nazione. Aspetti contraddittori e, allo stesso tempo, complementari, in una società sempre in gran fermento.
Nel bel romanzo, La figlia di Istanbul, di Halide Edip Adivar (vedi box), ambientato negli anni che precedettero la rivoluzione dei Giovani Turchi e la fine dell’Impero, questa «doppia anima» turca emerge in modo chiaro, evidenziandone tutta la potenzialità sia conflittuale sia dialettica.
Il laicismo, che ha i tratti fondamentalisti dei kemalisti, i seguaci delle dottrine del padre della Patria, Atatürk, ancora molto presenti in diversi apparati statali, si scontra con le esigenze di maggiori libertà politiche, religiose, culturali e sindacali di una parte sempre più consistente di popolazione, che si sente più vicina agli ideali e ai progetti dell’Akp. Seppur di «ispirazione islamica», infatti, il partito al governo rappresenta le istanze più innovatrici e riformiste della società turca. E certamente più democratiche e dialettiche rispetto a quelle veicolate per circa ottanta anni dal kemalismo, i cui principi si sono basati su una fedeltà all’esercito e ad un laicismo opprimenti e anti-popolari.
Abbiamo avuto modo di visitare il Paese diverse volte, dal 2007 al 2010. Ebbene, rispetto a tre anni fa, le differenze sono ormai visibili. La presenza massiccia dei militari, per le strade, sembra essersi ridotta. Scene da «regime dittatoriale», come quelle cui assistemmo – ragazzi fermati soltanto perché ostruivano il passaggio di una squadra militare, nelle vie di Taksim, uno dei quartieri più eleganti ed «europei» di Istanbul – probabilmente rimarranno solo un brutto ricordo.
In questo quadro mutato si inseriscono le relazioni tra la Turchia e l’Unione Europea. Esse sono iniziate negli anni Sessanta, quando la Cee (Comunità economica europea) siglò l’Accordo di Ankara. Recentemente, al fine di rendere possibile l’ingresso della Turchia nella Ue, il primo ministro Recep Tayyip Erdog˘an ha introdotto diverse riforme, tra cui l’abolizione della pena di morte. Ciò che spaventa tanti europei è l’anima islamica della nuova Turchia: temono che l’ingresso del Paese nell’Unione Europea sbilanci a favore dei musulmani l’equilibrio demografico del Vecchio Continente. Inoltre, l’irrisolta questione kurda, il grande potere che l’esercito turco ha sullo Stato e sulla vita dei cittadini, uniti alle politiche di alleanza con le nazioni arabe e islamiche e a una legislazione che ancora non si attiene ai canoni occidentali del rispetto dei diritti umani, rendono problematico e fonte di infinite discussioni diplomatiche e accademiche l’entrata della Turchia nella Ue.
QUALe TURCHIA DOPO IL REFERENDUM?
Sullo scacchiere turco (ed europeo), tuttavia, è stata compiuta una mossa interessante, che introduce un elemento di novità: l’avallo, emerso dall’esito del referendum popolare del 12 settembre, alla riforma costituzionale che toglie poteri ai militari e garantisce maggiore democrazia agli altri organi dello Stato.
La schiacciante vittoria del «sì» permetterà ai legislatori turchi di modificare 26 articoli della Costituzione.
L’Europa vede in questa fase della vita politica turca un segnale positivo, non solo nel senso di una maggiore democratizzazione intea, ma anche della volontà di aderire alla comunità dei popoli europei.
Gli emendamenti aumentano il numero dei membri della Corte costituzionale e del Consiglio superiore della magistratura: essi saranno, inoltre, nominati non più solo dai giudici, ma anche dal Parlamento e dal presidente della Repubblica.
Tra gli altri aspetti della riforma, emerge quello della «discriminazione positiva»: le nuove norme prevedono l’entrata in vigore di misure per «incrementare la presenza delle donne nella vita politica, sociale ed economica del Paese». Attualmente, le parlamentari rappresentano il 9,1% del totale.
Inoltre, il capitolo della Costituzione relativo alla «protezione della famiglia» sarà modificato ampliandolo anche ai «diritti dei minori».
Tuttavia, l’opposizione nazionalista teme che queste riforme possano portare a una presenza più massiccia dei religiosi nelle più alte cariche delle istituzioni statali e che la laicità sia posta a rischio.
L’ISLAM E IL SUFISMO
Nonostante la religione ufficiale in Turchia sia quella musulmana, uno degli effetti del laicismo imposto dalla dottrina kemalista è stato la messa al bando del sufismo, una delle manifestazioni mistiche più significative dell’islam. Dai tempi di Atatürk1 e a fasi altee, infatti, esso è considerato una pratica illegale. In realtà, sia a Istanbul sia a Konya e in altre città, possiamo trovare numerose confrateite sufi, dissimulate in «centri culturali».
Sin dal XIII secolo, il misticismo islamico turco si espresse attraverso l’adesione agli ordini sufi, le cui sedi rappresentavano dei veri e propri luoghi di spiritualità e di attività sociale.
La parola «sufi» deriva dall’arabo suf , lana, ed era usata per indicare gli asceti che indossavano semplici panni di lana rifiutando i beni e gli agi materiali.
Dal XII secolo, i sufi erano organizzati in tariqah, ordini o confrateite (come i monaci cristiani che praticavano l’ascetismo) che seguivano gli insegnamenti di un Maestro, e si riunivano in tekke o dergah (logge).
Una delle più grandi confrateite turche, la Naqshbandiya, risale al XIV secolo. Un’altra, altrettanto importante, la Mawlawiyah o Mevleviya, venne fondata a Konya: dal figlio e dai seguaci del mistico, teologo e poeta persiano Jalal ad Din Mohammad Balkhi, noto come Mawlana o Rumi.
I membri della sua confrateita sono meglio conosciuti come «Dervishi danzanti» (o roteanti)2, a causa del rito estatico, sema’, da loro eseguito attraverso l’ascolto della musica, la recitazione del dhikr (ricordo di Dio) e una danza rotatoria vertiginosa.
L’ESEMPIO DI SANTA SOFIA: EX CATTEDRALE, EX MOSCHEA
La Turchia è anche un luogo dove si possono incontrare elementi di sincretismo e mescolanza appartenenti a fedi e a culture diverse.
E di questa commistione Istanbul è un po’ l’emblema: è un forziere pieno di tesori architettonici e culturali, frutto della capacità umana non solo di distruggere o entrare in conflitto, ma anche, e soprattutto, di integrare, assimilare, mescolare e rielaborare in modelli completamente diversi da quelli originari.
Hagia Sophia (Aya Sofya), Santa Sofia o Santa Sapienza in italiano, nel quartiere di Sultanahmet, nel cuore antico della città affacciato sul Mare di Marmara, ne è uno splendido esempio.
Nei suoi immensi spazi si realizza un incontro, e un’unione, tra cristianità e islam: la bellezza maestosa di questa ex cattedrale cristiana ed ex moschea musulmana, e ora museo, è un «miracolo» di «assimilazione-trasformazione».
Iniziata sotto Costantino, intorno al 300 d.C., fu ultimata nel 330, durante il regno di Costanzo II. Distrutta da un incendio e ricostruita nel 415 da Teodosio II; nuovamente incendiata e riedificata dopo il 532 da Giustiniano I, la nuova cattedrale, al cui progetto avevano lavorato grandi architetti, venne edificata con materiali preziosi, fatti arrivare da tutte le parti dell’Impero bizantino. All’imperatore Giustiniano dovette sembrare un’opera davvero magnifica, per dichiarare, secondo quanto riporta la tradizione: «Ti ho superato, o Salomone!».
Altri incendi, terremoti, crolli, saccheggi e invasioni (Crociate) resero necessarie ristrutturazioni, modifiche e ampliamenti.
Con la conquista di Costantinopoli, nel 1453, ad opera dei turchi ottomani, Santa Sofia fu trasformata in moschea: vennero costruiti i minareti, coperti gli affreschi interni che ritraevano Gesù, Maria, i santi e gli angeli, e aggiunte opere artistiche islamiche.
Gli antichi mosaici e stucchi bizantini vennero scoperti nel 1849 (e restaurati successivamente). Da allora, coesistono insieme ai simboli e all’arte sacra musulmana, dando alle imponenti navate e gallerie, e all’abside, un’impronta «multireligiosa», che suscita nel visitatore stupore e ammirazione.
La cupola, enorme, è ricoperta di mosaici, ma nel suo centro spiccano decorazioni calligrafiche islamiche (un versetto del Corano dipinto nel XIX secolo). Sui pennacchi, sotto la cupola, si stagliano quattro serafini (due furono realizzati come mosaico, due come affresco). Emblema di questa sovrapposizione e mescolanza tra cristianesimo e islam è la scena che ci si ritrova di fronte abbassando gli occhi dal soffitto e indirizzandoli a est, verso il centro dell’abside: il mihrab (elemento della moschea che indica la direzione della preghiera) è collocato all’interno, ed è sovrastato da un mosaico bizantino del IX secolo che ritrae la Vergine con il Bambino. Il Dio di Gesù e il Dio di Mohammad si fondono dunque in un unico spazio architettonico da cui i fedeli elevavano al cielo le loro preghiere.
Tale sorprendente vicinanza ha una spiegazione pratica: quando Hagia Sophia era un luogo di culto, sia i cristiani sia i musulmani pregavano verso est. Le chiese cristiane erano tradizionalmente rivolte a oriente, così come la qibla, la direzione della preghiera islamica, volge verso Mecca, che, rispetto a Istanbul, si trova a sud-est.
Altre parti di grande interesse artistico sono gli otto «dischi di legno», con incisioni calligrafiche riferite a Dio, al profeta Muhammad, ai primi quattro Califfi (Abu Bakr, Umar, Uthman e Ali) e ai due nipoti di Muhammad (Hasan e Husayn), sospesi alle pareti sotto la cupola, a fianco dell’abside e nella navata. Essi creano un affascinante contrasto con gli elementi decorativi e liturgici cristiani.
Nelle gallerie al piano superiore, che in epoca islamica erano usate per la preghiera delle donne (matroneo), si trovano i mosaici più importanti di Hagia Sophia: il più famoso è quello che ritrae Cristo pantocratore, sovrano e trionfante, vicino a Maria e a Giovanni Battista.
Per oltre 900 anni Santa Sofia fu la sede del Patriarcato ortodosso di Costantinopoli e dei concili ecclesiastici: rimase cristiana fino al 29 maggio del 1453, quando il Sultano Mehmet il Conquistatore entrò trionfante nella città bizantina e trasformò la bellissima basilica in una moschea. Tale rimase per altri 500 anni, divenendo un modello architettonico e artistico per le moschee imperiali di Istanbul, tra cui la stupenda Moschea Blu e quella di Suleyman.
Fu tra il 1847 e il 1849, durante i lavori di restauro commissionati dal Sultano Abdülmecid II a due architetti svizzeri, i fratelli Fossati, che vennero scoperti i mosaici, riportati poi alla luce nel secolo successivo, anche grazie all’Unesco.
Santa Sofia fu trasformata nel museo di Ayasofya nel 1934, durante la presidenza di Kemal Atatürk.
Da allora, almeno all’interno della maestosa e bellissima Santa Sapienza, Occidente cristiano e Oriente musulmano possono convivere in pace e in armonia.
Angela Lano