Sulle orme dello zio

Quando l’esempio non muore

Amazzonia, missione Catrimani, questa la meta del nostro viaggio. Fino a due anni fa neanche ci conoscevamo, ma la curiosità e l’interesse per la figura di padre Giovanni Calleri ci portano oggi a partire per una regione sperduta a nord ovest del Brasile, Roraima.
Quarant’anni, tanto ha atteso questo viaggio per essere realizzato. p. Calleri, missionario della Consolata originario di Carrù (CN), diocesi di Mondovì venne ucciso nel 1968 durante una spedizione di pace nel territorio degli indios Waimiri Atroarí; da allora nessun parente si è recato in quei luoghi, anche se diverse iniziative sono state portate avanti per mantenee vivo il ricordo. Ultima fra le quali è stata la mostra «Padre Giovanni Calleri, la forza dell’esempio», un percorso di conoscenza e animazione missionaria nei luoghi che ne avevano visto il passaggio e il lavoro pastorale prima che il furore missionario lo portasse nel suo amato Brasile. Come non lasciarsi trasportare dall’entusiasmo sempre crescente? Così è nata e ha preso forma l’idea di ripercorrere le orme di p. Giovanni.
Non sappiamo di preciso a cosa stiamo andando incontro, quali possano essere le difficoltà e la realtà che ci troveremo davanti, abbiamo solo voglia di capire le motivazioni che spingono un uomo a sposare una causa, fino a perdere la vita per essa.
La città dei contrasti
P. Giovanni giunse in Brasile nel 1965, atterrando a San Paolo, dirigendosi poi a Manaus, e quindi a Boa Vista, Belem, il Catrimani, Porto Alegre, e infine, nella terra dei Waimiri Atroarí, dove la sua missione ha avuto il suo completamento.
Anche il nostro viaggio alla ricerca di segnali, storie, testimoni e luoghi che ci rivelino il suo passaggio ha inizio da Manaus. Il caldo umido si fa subito sentire rendendo l’aria difficile da respirare.  Metropoli strappata al verde dell’Amazzonia, ricca e povera in un’alternanza di tempi storici e di distanze di quartieri, a Manaus i contrasti sembrano correre vicini senza mescolarsi, come le acque chiare del Rio Solimões con quelle scure del Rio Negro.
Visitandone il centro, la città ci appare brulicante di vita e di commercio: conseguenza fastosa del periodo dell’oro giallo e di quello nero, la gomma. Ci dirigiamo verso il porto: dobbiamo comprare le amache per le notti in foresta. Il mercato, ricco di spezie, erbe medicinali, animali, carriole di frutta e verdura, ci cattura in un’avvolgente atmosfera di colori, odori e rumori. Missione compiuta, acquistiamo le amache con relativa corda: ci viene consigliato di comprare delle amache matrimoniali, dotate di una corda lunga almeno tre metri per parte in modo da riuscire a legare l’amaca anche quando non si hanno appigli vicini. Sono segreti che si riveleranno preziosi nelle aree indigene.
I contrasti iniziano ad apparirci sempre più evidenti. Dalla balconata del Teatro Amazonas l’obiettivo della macchina fotografica si posa dapprima sulla piazzetta antistante, dai tenui colori pastello, abbellita da alberi verdi e da caffetterie segnalate nelle guide turistiche, per poi inquadrare in lontananza i quartieri grigi e poveri di Manaus. Se il Teatro costituisce la principale attrazione della città – qui si spingono i pochi turisti che visitano Manaus prima delle escursioni in foresta – il panna e il rosa della facciata in stile europeo e la cupola dorata, che riprende i colori della bandiera brasiliana, stonano con la povertà di Manaus, soprattutto con quella delle favelas che appaiono a poca distanza dal nostro privilegiato punto di osservazione. «A chi troppo e a chi niente», pensiamo osservando grandi supermercati e i grattacieli delle multinazionali, che si innalzano su una distesa di baracche.  
Un’immagine che si rafforza quando, accompagnate dai missionari, visitiamo le zone povere della città: il bairro Santa Tereza, il quartiere di Santa Etelvina e la realtà delle palafitte che si reggono l’una sull’altra lungo gli igarapé (piccoli fiumi), ricettacolo di spazzatura e di zanzare portatrici di dengue e malaria.
Sono quartieri che si espandono tra la zona Nord della città, vicino ai nuovi distretti industriali, e intorno al centro. Si sono sviluppati negli anni a seguito delle ondate migratorie e presentano differenze nel tipo di costruzioni, in quanto le favelas più vecchie sono ormai dotate di qualche «comfort» in più rispetto a quelle appena costruite in un bairro di invasione in una periferia in costante crescita. Tuttavia le pessime condizioni igieniche, l’odore che si respira, la luce elettrica che arriva nelle case abusivamente (è impressionante vedere quanti fili vengano attaccati a un traliccio della compagnia elettrica!), accomunano queste realtà così come corruzione, mercato nero, prostituzione, traffico di droga e di persone.
Dai racconti dei missionari che ci accompagnano apprendiamo le problematiche e le difficoltà che si incontrano a lavorare in questo contesto, come, ad esempio, il creare comunità in un luogo così marcato dalla diversità etnica e culturale delle persone che vi abitano. Noi, chiaramente, ci sentiamo impotenti di fronte a ciò che vediamo, ma ci sono persone che sanno vincere questa prima sensazione e che non rinunciano a lottare per portare anche solo un segnale di presenza e speranza. Una tra queste, è p. Ruggero Ruvoletto, che conosciamo nel bairro di Santa Etelvina, tutto intento nei preparativi della festa che si sarebbe svolta la sera stessa e che, per la prima volta, avrebbe coinvolto varie comunità vicine. Purtroppo, dopo neanche un mese dal nostro rientro in Italia, veniamo a sapere della tragica uccisione di questo missionario della diocesi di Padova, partito dall’Italia con l’intento di fare del bene, cosa che ha fatto finché gliene è stata data la possibilità.
Lungo la BR-174
Sveglia all’alba, addolcita dal pane fresco, dalla papaia e dalla marmellata di guajava che i padri ci fanno trovare per colazione, zaini sul furgone coperti da teli per ripararli dagli improvvisi acquazzoni che si incontrano attraversando l’Equatore, si parte!
Emozione, eccitazione, curiosità, consapevolezza del significato che ha per noi questa tappa del viaggio, malinconia al tempo stesso, questi i sentimenti che ci accompagnano lungo la BR-174: ci sentiamo immerse nella storia e siamo vigili a ogni dettaglio e segnale che ci parli di p. Giovanni.
La prima sosta è per visitare la «Escola Municipal Padre Calleri» posta ai confini tra la città e la foresta, costruita per accogliere i bambini delle diverse realtà circostanti che la raggiungono, chi in scuolabus, chi in canoa, chi a piedi. Ci fa piacere che questa scuola porti il nome di p. Giovanni soprattutto perché le sue classi miste (sia per età che per provenienza culturale), i colori allegri dell’edificio e i programmi di studio che la direttrice ci illustra, ci trasmettono una sensazione positiva.
A pochi chilometri dalla scuola il paesaggio inizia a cambiare; la BR-174 si addentra nella foresta e una volta penetrati nella riserva indigena Waimiri Atroarí l’asfalto cede il posto alla terra rossa, unica concessione governativa garantita agli indios per la salvaguardia del loro territorio. Un tempo una targa in metallo fissata su un tronco sul ciglio della strada commemorava la spedizione di p. Calleri; oggi rimane solo il tronco: la targa è stata purtroppo rubata. Un cartello avverte che non si possono fare foto, buttare spazzatura, disturbare gli animali, fermarsi; con gentilezza aggiunge: «Os Waimiri Atroarí agradecem boa viagem». Proseguiamo, accompagnati dagli auguri di buon viaggio della gente del posto.
Lungo il percorso, altri segnali indicano la presenza di p. Giovanni: nella piazza di Caracaraì, paesone rurale non distante da Boa Vista, sorge una statua che ritrae p. Calleri con una donna india e un bambino, inaugurata pochi anni fa in ricordo del lavoro che il missionario svolse con gli indigeni.
«Seja bem-vindo nesta cidade» (Sii il benvenuto nella nostra città), così ci saluta a Boa Vista la Rua Padre Calleri – alle volte scritto con una L soltanto, alle volte con due.).
Siamo arrivate nella città che conserva i resti di nostro zio: mentre leggiamo e rileggiamo la targa posta sotto l’altare maggiore della chiesa matrice, sentiamo tutti i nostri famigliari vicini. Ci hanno accompagnato nel lavoro di recupero della memoria, sostenuto, incoraggiato e sicuramente, vista la distanza che ci separa, ci staranno pensando. Non è l’ultimo incontro che faremo con i resti e con i ricordi di p. Giovanni, ma è sicuramente il più intimo.
In città scopriamo che si sta diffondendo la voce del viaggio delle sobrinhas netas (pronipoti) di p. Calleri e divertite ci lasciamo intervistare dalla radio FM Monte Roraima:
«Quale messaggio può trasmettere p. Calleri ai giovani?» ci domandano; ce lo siamo chiesto molte volte presentando la mostra alle tante scolaresche del cuneese che hanno avuto modo di visitarla.
«Speriamo che l’esempio di p. Calleri sia di incoraggiamento per i giovani a percorrere strade anche difficili per perseguire le proprie idee e quello in cui si crede».
Queste parole ci guideranno anche nelle aree indigene…
La regione de Las Serras
«Influenza suina a Roraima. La Funai sospende l’entrata di visitatori nelle terre indigene».
Con questi titoli i giornali locali aprivano in quei giorni le loro edizioni. Erano i giorni caldi della febbre suina e noi vivevamo nell’incertezza più assoluta: saremmo mai riuscite a visitare le aree indigene?
In questi luoghi non avere certezze è prassi comune, lo avremmo capito dopo poco. I missionari sono abituati a questa situazione e ormai non si lasciano più scoraggiare.
Devono essere gli indios a farci entrare nella loro terra, i missionari in questo tratto non possono venire con noi in quanto anch’essi considerati «visitatori». Il 15 agosto partiamo quindi con alcuni Macuxí, tra cui il leader della comunità (tuxaua); ci penseranno loro a farci superare i posti di blocco. Nella complessità dello stato di Roraima, la Raposa Serra do Sol, area indigena che comprende cinque comunità (Macuxí Wapichana, Tuarepang, Ingariko e Patamona), costituisce una realtà peculiare: situata nella punta Nord-est della Cabeça do Cachorro (regione dalla forma a testa di cane), al confine con la Guiana e con il Venezuela, è un’area continua indigena, continua nonostante all’interno di quest’area sia presente il municipio di Uiramutã, non indio, e il Goveo abbia intenzione di costruire delle centrali idroelettriche (come quella della Cachoeira do Tamanduá, Rio Cotingo). Ci mettiamo in marcia per Uiramutã, sperando di poter proseguire per Maturuca, centro della comunità Macuxí.
Il viaggio in macchina è lungo, su strada sterrata, e il nostro portoghese stentato non aiuta il dialogo con l’autista. Bastano però alcuni sguardi, rassicuranti.
Arriviamo ad un fiume, aspettiamo, passa un pulmino della Funai, attimi di paura, poi il fuoristrada sale su una zattera e dopo pochi minuti siamo dall’altra parte del fiume Uraricuera; la prima difficoltà è superata.
Da qui a Uiramutã sono ettari e ettari di savana, la vegetazione è bassa, brulla, alcune vacche bianche ci attraversano la strada, libere. Libertà, vale la pena lottare per essa, e il popolo Macuxí lo sa bene.
Giungiamo al posto di blocco… tensione, preoccupazione di tutti, anche degli indios che però provano a tranquillizzarci. Lo superiamo, e dopo soli pochi metri ci fermiamo a bere qualcosa, ormai non siamo più in pericolo, siamo tra amici.
La regione delle montagne (las Serras) ci accoglie con il tramonto di Maturuca e con tutta la comunità vestita a festa con abiti tradizionali che canta e danza per noi.
I giorni seguenti visitiamo i progetti che la comunità sta realizzando per far fronte ai cambiamenti climatici e alla conseguente carenza di cibo: gli orti comunitari, con manioca, riso, etc., e la pescicoltura. I leaders delle comunità della Raposa e i cornordinatori locali ci parlano della storia della lotta per il riconoscimento e l’omologazione dell’area, avvenuta nel 2005, e dell’attuale organizzazione delle comunità. I Macuxí sono un popolo fiero, consapevole dei propri diritti e con la voglia di lottare per essi e per la terra che è stata lasciata loro dagli antenati e custodisce quindi tutta la storia e la tradizione di questo popolo.
Il lavoro che i missionari hanno sviluppato negli anni in questa regione è stato di appoggio fondamentale alla lotta per i diritti dei popoli indigeni. La festa per l’accoglienza si unisce al momento del distacco della comunità da p. Tiago (Giacomo Mena), che dopo tanti anni a Maturuca lascia la guida della missione. È un momento di grande intensità a cui anche noi assistiamo, commosse e felici al tempo stesso di essere qui a partecipare a questo passaggio storico.
Come il benvenuto, anche il congedo è un momento di festa. Jacir, storico tuxaua indigeno, ci dona, in quanto nipoti di p. Calleri, una collana di semi in ricordo della spedizione, impegnandosi a raccontare ai Waimiri Atroarí presenti nel CIR (Consiglio Indigeno di Roraima) la vera storia del massacro e il nostro viaggio sulle orme di p. Giovanni.
Nel cuore della foresta
I nuvoloni che si addensano all’orizzonte non aiutano ad affrontare con tanta tranquillità il volo che ci porta alla missione Catrimani, partendo da una pista clandestina, sperduta nei campi della periferia di Boa Vista. L’aereo è minuscolo, cinque posti, mai preso uno così piccolo. Saliamo e iniziamo a sorvolare la foresta.
Atterriamo sulla storica pista, costruita più di quarant’anni fa da p. Calleri e p. Bindo Meldolesi, che si allunga sulla terra rossa a poca distanza dal fiume. L’arrivo appaga di tutti gli scossoni e timori del viaggio: non appena scendiamo dall’aereo scorgiamo le casette verdi della missione e gruppetti di indios che ci attendono incuriositi. Sanno del nostro arrivo e hanno raggiunto la missione per conoscerci. Rimaniamo inevitabilmente colpite dai loro corpi nudi, colorati di rosso e oati di perline e piume, ma presto comprendiamo quanto la fisicità qui sia vissuta naturalmente e liberamente, in un rispetto autentico del pudore.
La loro lingua, per noi incomprensibile, non si rivela però un ostacolo, a breve ci troviamo sedute con Maria Zinha, leader indigena di una delle comunità più vicine alla missione, e con delle bambine molto curiose con le quali iniziamo una comunicazione espressa attraverso gesti, disegni e sorrisi.
P. Corrado e p. Laurindo ci accompagnano nell’esplorazione in terra Yanomami. Amache e provviste alla mano, partiamo in barca per la visita alle comunità più lontane dalla missione.
La prima sosta è presso una comunità indigena la cui maloca (casa comune) è spaziosa ma, a differenza di altre, è tutta chiusa ad eccezione di un piccolo foro in cima; il fumo dei fuochi accesi all’interno e l’odore di cibo reso ancora più acre dal caldo e dall’umidità fanno sì che l’aria sia pesante da respirare. Gli indios si dondolano nelle loro amache rosse appese a sostegni in legno, preparano le focacce di tapioca o tessono; ci guardiamo incuriositi, noi e loro. Chiediamo il permesso di scattare qualche foto, rimaniamo affascinate dai colori di un piccolo tucano che i bambini tengono con sé, ma presto torniamo alla barca e via di nuovo contro corrente.
Nel primo pomeriggio raggiungiamo la comunità indigena presso cui passeremo la notte: siamo allo stesso tempo eccitate e titubanti all’idea di dormire in maloca. Gli Yanomami dimostrano nei nostri confronti un’attenzione e una sensibilità che non ci saremmo aspettate: consapevoli delle nostre difficoltà ad adattarci all’ambiente chiuso e comune della maloca, ci riservano due piccole costruzioni estee. Appendiamo le nostre amache e ci lasciamo cullare per un riposo pomeridiano, che non si rivela però essere troppo lungo. Poco dopo infatti insieme agli indios ci immergiamo esitanti nelle acque fangose del fiume, piacevole momento di sollievo dal caldo umido.
Visitiamo i campi di manioca coltivati dagli indios e ci avventuriamo all’interno della foresta, dove la vegetazione si fa più fitta e a stento la luce riesce a filtrare. I bambini ridono della nostra goffaggine nel muoverci nel loro habitat e un po’ per dispetto, un po’ per vanto, si arrampicano ovunque.
Il calare del sole ci riserva un incontro con tutta la comunità. Vengono invocati gli spiriti degli antenati con danze e canti delle donne, che si tengono per mano quasi a formare un cerchio, espressione di tutta la comunità raccolta in questo momento. Le donne nel popolo Yanomami sono le custodi della famiglia, della tradizione e dei valori comunitari. Proprio il concetto di comunità assume in questo luogo delle sfumature nuove per noi: qui il singolo è parte integrante della comunità, in un modello allargato di famiglia che è fonte di protezione, riferimento e sopravvivenza.  
Dopo le reciproche presentazioni, i tuxaua ci illustrano la loro organizzazione, i loro progetti e condividono con noi i ricordi che hanno di p. Calleri. Gli indios che l’hanno conosciuto – ai tempi erano bambini – lo ricordano come un uomo molto generoso e un gran lavoratore. In quegli anni p. Calleri infatti stava costruendo la missione Catrimani e la pista dell’aereo e si serviva molto dell’aiuto degli indios, ripagandoli poi con coltelli e altri beni che questi non possedevano. L’affermazione che ci colpisce di più è quella del tuxaua Carrera, secondo il quale per gli indios Yanomami l’incontro con p. Calleri è stato il primo contatto positivo con i bianchi.
Quando usciamo dalla maloca, il cielo è completamente stellato. Titiri, lo spirito della notte, ci accompagna.
Facciamo ritorno a Boa Vista in un turbinio di emozioni, e ci tornano alla mente le parole che p. Giovanni scrisse nel ’65 ai parenti in Italia:
«Qui ho avuto l’impressione improvvisa di trovarmi in un paradiso terrestre. Tutto diverso quasi completamente dalla nostra Europa, uomini e cose. C’è da imparare molto prima di insegnare. Pensavo che solo noi civilizzati fossimo capaci a vivere. Credo ora che sia diverso, soprattutto moralmente. Costì mi pare che stiamo già passando in una fase vecchia di vita, qui una fase nuova e fresca. Per cui non demoralizzarci ma guardare con un occhio anche a questi per completare le nostre vedute. In conclusione: qui non si tratta solo di battezzare, sarebbe facile, bensì di impostare un mondo che in un domani ci potrà anche essere utile».
Prima di rientrare in Italia abbiamo sfruttato ancora per qualche giorno le bellezze di questo splendido paese. Dopo l’esperienza vissuta a Roraima e le emozioni provate nel ripercorrere i passi di nostro zio, lasciandosi invadere dai luoghi e dalle voci che ne avevano popolato la storia, non restava però davvero altro da raccontare.

Margherita Allena e Zelda Guglielminotto

PADRE GIOVANNI CALLERI

Padre Giovanni Calleri nasce a Carrù il 15 aprile 1934 e a soli 11 anni entra in seminario a Mondovì. Da sacerdote esercita il suo ministero dapprima in diocesi, distinguendosi da subito per la sua personalità esuberante e dinamica che non lascia indifferenti, soprattutto i giovani. Questi aspetti del suo carattere lo accompagnano anche nel suo compito di missionario della Consolata in Brasile, dove arriva nel 1964. Insieme a padre Bindo Meldolesi costruisce la Missione del Catrimani, in una zona dell’Amazzonia ancora pressoché inesplorata, e inizia un cammino di reciproca conoscenza e scambio culturale insieme agli indios Yanomami.
Nel 1968 parte per una spedizione di pace nel territorio degli indios Waimiri Atroarí, ma dopo poco meno di un mese si perdono i contatti con i membri della spedizione, i cui corpi senza vita verranno ritrovati il 30 novembre dello stesso anno.
L’assassinio di padre Giovanni Calleri e dei suoi compagni di spedizione si inserisce in una delle tante pagine buie che hanno segnato l’insediamento dell’uomo bianco in territorio amazzonico. Nel 1967 il governo brasiliano inizia la costruzione della strada BR-174 per collegare Manaus con Boa Vista e il Venezuela, abbattendo grandi estensioni di foresta e attraversando il territorio degli indios Waimiri Atroarí, che si oppongono al passaggio della strada. Padre Calleri individua un’area limitrofa in cui istituire un «parco protetto» per preservare il gruppo indigeno e la sua identità etnico-culturale. Il piano di contatto da lui elaborato potrebbe garantire il successo della spedizione ed evitare ai Waimiri Atroarí violente ripercussioni. Purtroppo, la riserva si trova nel cuore di un’area ricca di minerali al cui sfruttamento mirano i potentati economici brasiliani ed americani, che si mobilitano subito per impedire la riuscita del progetto.
Sebbene la versione ufficiale incolpi del massacro gli stessi indios Waimiri Atroarí che non vogliono la costruzione della BR-174 sulla loro terra, ricerche seguenti condotte in modo particolare da padre Silvano Sabatini, rivelano scenari molto più complessi ed inquietanti.

Per approfondire la storia di padre Calleri:
Silvano Sabatini, Sangue nella foresta amazzonica. La spedizione di padre Giovanni Calleri tra gli indios Waimiri Atroarí, Emi, Bologna 2001.
Marco Bello, «Massacro. Complotti, interessi, bugie», in Missioni Consolata, settembre 2008.

Margherita Allena e Zelda Guglielminotto




Ricominciare per Continuare

Diventare direttore di questa rivista, era una delle possibilità prevedibili fin da quando ho cominciato il mio servizio missionario nella stampa ormai 34 anni fa, appena ordinato sacerdote. Me lo avevano perfino augurato alla fine del liceo. Ma che lo diventi all’età di andare in pensione mi sembra buffo. Rientrato dopo 21 anni di Kenya, dove per 17 anni ho fatto di tutto (anche l’editore) nella rivista che pubblicavo laggiù (il Seme, The Seed), mi trovo ora a ricominciare (perché qui ho già lavorato dall’80 all’86) con voi questa avventura in una rivista ricca di storia come è Missioni Consolata. Già, la storia ultracentenaria di questa rivista mi affascina e mi spaventa. È una responsabilità non da poco succedere al canonico Giacomo Camisassa e a grandi direttori come i padri Vittorio Sandrone, Mario Bianchi, Giovanni Mazza, Gabriele Soldati, Francesco Beardi, Benedetto Bellesi e Ugo Pozzoli, solo per nominae alcuni.

Questa si definisce la rivista missionaria della famiglia. Sono due qualifiche: missionaria e della famiglia, che mi danno a pensare. Missionaria: rimanda alla Missione; quella con la M maiuscola non è certo cambiata: è sempre l’annuncio di Gesù figlio di Dio incarnato, morto e risorto per la salvezza dell’umanità e del cosmo, l’unico Signore e Salvatore che ci chiama ad accogliere il regno di Dio. Ma la missione, quella spicciola e quotidiana, quella che è traduzione in azione e vita della grande Missione, è sempre in cambiamento e trasformazione. Cosa vuol dire fare, pensare ed essere missione nel 2010? Come raccontarla oggi? È una grande sfida. Della famiglia! La mia esperienza di famiglia, quasi patriarcale, sembra lontana anni luce da quanto si vive oggi. Anche la visione africana della famiglia, che ha avuto un ruolo importante nella mia esperienza keniana, e che tanto ha ispirato la Chiesa africana, è una realtà che sta passando attraverso un grande processo di trasformazione, spesso sofferto e contraddittorio. Quale famiglia oggi in questa nostra Italia, in questa Europa?

C’è un terzo elemento qualificante: Consolata. Consolata indica la dimensione mariana: la Madonna Consolata, fondatrice dell’istituto. Ma non solo, Consolata indica anche un metodo missionario secondo il cuore del beato Giuseppe Allamano: il bene fatto bene (e senza rumore) per l’uomo totale, anima e corpo, nel suo oggi, dove evangelizzazione e promozione umana vanno a braccetto. Per questo “tutto quello che è umano ci interessa”. Per questo possiamo parlare di politica ed economia, di musica e di arte, di sviluppo e di cultura, di moda e di ecologia, di poesia e danza, di giustizia e di pace, di inquinamento e di emigranti, di adozioni e turismo responsabile, di razzismo e guerra, schiavismo e liberazione, acqua e terra, e chi più ne ha più ne metta … e, nello stesso tempo, raccontare sempre più di evangelizzazione e conversione, di battesimi e nuove chiese, di ordinazioni e vescovi, di morale e teologia, religioni ed ecumenismo, papa e catechisti, famiglia e vocazioni, inculturazione e liturgia, preghiera e spiritualità …
Consolata è anche un filtro privilegiato. Non vogliamo e non possiamo essere qualunquisti. Siamo Consolata. Per cui questa non è una rivista neutrale. Siamo schierati, con libertà e senso critico, amore e rispetto. E come Consolata abbiamo un difetto: vediamo le cose con gli occhi del Sud del mondo, dalla prospettiva dei poveri.

Gigi Anataloni

Gigi Anataloni