Non di soli antiretrovirali

Lotta all’HIV/AIDS: a che punto siamo
I missionari della Consolata sono stati coinvolti nella lotta all’Hiv G fin dal primo manifestarsi della malattia, negli anni Ottanta. Sono numerose le testimonianze dei missionari che raccontano del loro sgomento al vedere «decine di persone morire come mosche» di un male misterioso contro il quale la comunità scientifica internazionale era allora completamente impotente. «Oggi condanniamo negli altri le paure e i pregiudizi legati all’Hiv e a chi lo ha contratto», racconta p. Valeriano Paitoni, che segue diversi centri di accoglienza per malati di Aids G in Brasile, «eppure anche noi, all’inizio, avevamo lo stesso atteggiamento: facevamo visita alle persone malate ma non avevamo il coraggio di accettare nemmeno una tazza di caffè, allora. Non ne sapevamo nulla e, anche oggi, molte delle false credenze sono dovute all’ignoranza, al pregiudizio».
Pregiudizio, stigma, ignoranza sono solo alcune delle cause per le quali la battaglia all’Aids non si è ancora chiusa, anzi, pare essere di fronte a nuove, inedite sfide a volte causate proprio da quanto è stato fatto per limitare il contagio: quasi trenta anni dopo la sua ufficiale scoperta, la malattia che all’inizio fu erroneamente considerata come tipica degli omosessuali, e che si è diffusa invece in tutto il mondo fra tutte le fasce sociali, fra uomini e donne, eterosessuali e omosessuali, ha provocato ad oggi venticinque milioni di morti, nonostante i massicci finanziamenti per controllarla e debellarla è ancora un’emergenza mondiale, una
pandemia G.
Dei trentatré milioni di sieropositivi, due terzi sono concentrati nel continente più povero del globo, l’Africa, dove la sanità non è un diritto gratuito, ma un privilegio per chi può permettersi i costi delle visite e dei farmaci, dove le infrastrutture sanitarie sono inadeguate, e dove in media ci sono solamente 2 medici e 11 infermieri per 10.000 abitanti (contro ad esempio i 37 medici e 72 infermieri ogni 10.000 abitanti dell’Italia). Degli oltre due milioni di bambini sieropositivi al mondo un milione e ottocentomila vivono in Africa e dei due milioni di decessi avvenuti nel corso del 2008 a causa dell’Hiv un milione e mezzo sono stati registrati nello stesso continente.
Se è vero che attualmente il numero di persone in cura e che ricevono i trattamenti antiretrovirali G (Arv G) è enormemente cresciuto fino ad arrivare agli odiei quattro milioni, è anche vero che, come riporta l’agenzia delle Nazioni Unite per la lotta all’Aids, l’Unaids, per ogni due persone che iniziano un trattamento Arv cinque contraggono il virus, che i servizi di prevenzione non riescono a raggiungere tutti coloro che ne hanno bisogno e che oltre la metà dei dieci milioni di sieropositivi che hanno urgente bisogno di cure non hanno accesso ai trattamenti Arv.
Sebbene le realtà africane presentino differenze non trascurabili tra di loro, in linea di massima le difficoltà che i missionari segnalano hanno una serie di tratti in comune. Tra questi:
– La resistenza dei pazienti a sottoporsi al test G per timore di scoprirsi sieropositivi e quindi venir esclusi dal contesto sociale nel quale vivono. La maggior parte delle persone che si sottopongono al test lo fanno perché sono già malate o perché i sintomi della malattia si sono già manifestati.
– La distanza dall’ospedale. Spesso per i malati che dovrebbero accedere alla terapia con Arv il costo del viaggio per recarsi fisicamente a ricevere il trattamento è troppo elevato oppure i pazienti sono in condizioni di debilitazione tali da impedire loro di muoversi.
– Ancora, l’effettiva disponibilità dei farmaci Arv non è sempre costante. Infatti, sebbene sulla carta in molti paesi – anche in Africa – le cure e i trattamenti siano gratuiti e foiti dalle autorità sanitarie pubbliche, le strutture sanitarie che li offrono spessissimo ne sono sprovvisti.
– Infine, nutrizione. L’apporto nutrizionale che deve combinarsi con la terapia Arv ha, per molti pazienti e le loro famiglie, costi proibitivi.
Questi fattori causano spesso una discontinuità di trattamento che rischia di creare resistenza ai farmaci di prima linea (cioè quelli più diffusi ed economici) nei pazienti. A quel punto la terapia richiede, per essere efficace, che si passi a farmaci di seconda linea, che sono molto più costosi. È stato stimato che il 5% di pazienti in trattamento di seconda linea sul totale dei pazienti in trattamento nei Paesi del sud del mondo potrebbe costare, da solo, ben un quarto dei fondi a disposizione per le cure.
Dal pregiudizio alla cura: l’impegno dei missionari della Consolata
Nel corso degli anni, i missionari della Consolata hanno seguito l’evolversi della pandemia, ne hanno appreso le dinamiche e si sono organizzati per venire in soccorso dei malati e prevenire il diffondersi dell’infezione.
In ambito strettamente sanitario, i progetti dei missionari della Consolata legati alla prevenzione e cura dell’Hiv sono numerosi in tutti i paesi del sud del mondo in cui operano. Le attività più strutturate si svolgono ovviamente nei grandi ospedali che i missionari gestiscono in Africa.
L’ospedale di Ikonda, in Tanzania, il cui amministratore è p. Sandro Nava, ha un ambulatorio specializzato su Hiv/Aids che fornisce servizi di vario tipo (test, assistenza psicologica e nutrizionale, terapie, eccetera) a una media di 14.000 persone l’anno. In particolare, 1.800 pazienti sieropositivi, tra i quali molti bambini, sono costantemente monitorati e, di questi, oltre 500 ricevono la terapia Arv. Delle oltre mille donne che ogni anno partoriscono a Ikonda, quelle sieropositive possono usufruire di un servizio di prevenzione della trasmissione da madre a figlio, mentre dei 2.000 pazienti che beneficiano di assistenza alimentare la maggioranza è composta da malati di Hiv. Nell’ospedale, sotto la direzione del professor Gerold Jaeger prestano la loro opera circa 15 tra medici, infermieri, laboratoristi e assistenti sociali.
L’ospedale Nostra Signora della Consolata di Neisu, nella Repubblica Democratica del Congo, al quale sono collegati 11 centri sanitari e dispensari anche questi gestiti dai missionari della Consolata, serve un bacino di utenza di oltre 50.000 persone, seguendo quasi 6.000 i pazienti affetti da Hiv e tubercolosi. È in corso un progetto di gemellaggio con l’Ospedale Salvini di Milano, cornordinato dalla dottoressa Barbara Terzi con la collaborazione dell’amministratore p. Richard Larose, per incrementare il numero di malati di Aids assistiti e per incominciare il servizio per la prevenzione della trasmissione del virus Hiv da madre a bambino. Infatti su 1.500 donne che ogni anno partoriscono all’ospedale o ai centri sanitari collegati, circa un centinaio sono sieropositive.
Ancora, a Wamba, in Kenya, il personale del Catholic Hospital, gestito dalla diocesi di Maralal con i missionari della Consolata, ha effettuato circa 3.500 test per Hiv nel periodo 2007-2008 riscontrando una prevalenza Hiv che sfiora quasi il 10% (i sieropositivi sono risultati 325, di cui 189 donne) e tra il 2003 e il 2008 l’ospedale di Wamba ha messo in terapia Arv 130 persone.
Infine, l’Ospedale di Gambo, in Etiopia, funge da «centro sentinella» nell’ambito di un programma nazionale di prevenzione dell’Hiv e ha 67 pazienti in terapia Arv. Dal 2007, sotto la direzione di Fratel Francisco Reyes e dei suoi collaboratori, ha iniziato un programma di screening ante e post natale sulle donne incinte.

Oltre gli ospedali
Al di là dei servizi foiti negli ospedali e nei numerosi centri sanitari e dispensari, che prevedono anche il trattamento di malattie opportunistiche (in particolare la tubercolosi), le strutture sanitarie della Consolata svolgono un intenso lavoro di sensibilizzazione e educazione sanitaria su come evitare il contagio da Hiv e, per i malati, su come ottenere assistenza medica. I quattro ospedali da soli eseguono visite ambulatoriali che sommano a circa 130 mila e il complessivo bacino d’utenza è pari ad almeno cinque volte tanto: questo significa che con attività di sensibilizzazione efficaci che prevedano una collaborazione fattiva della popolazione locale, è possibile raggiungere svariate decine di migliaia di persone, che aumentano ulteriormente se si aggiungono le attività di formazione realizzate nelle parrocchie.
Oltre agli interventi sanitari in senso stretto, i missionari della Consolata, spesso in collaborazione con le missionarie, gestiscono diverse attività che hanno a che fare con l’assistenza ai malati in termini di accoglienza, nutrizione, istruzione.
Un esempio sono certamente la Casa Siloé e Lar Suzanne, strutture aperte negli anni Novanta a San Paolo del Brasile per ospitare circa trenta bambini e una decina di adulti. Non si tratta di strutture ospedaliere, bensì di luoghi dove i pazienti risiedono e vengono seguiti in un’atmosfera simile a quella che si instaura in una vera e propria famiglia. Nei centri per i bambini lavorano dieci persone a tempo pieno, per dare continuità e sicurezza ai piccoli, e centoventi volontari che aiutano in lavanderia e nella pulizia dei locali, portano i bambini a scuola o all’ospedale, li intrattengono nel doposcuola e li fa giocare. Il trattamento medico avviene in stretta collaborazione con l’ospedale governativo, che prescrive e fornisce gratuitamente tutte le medicine da somministrare ogni giorno.
Altro esempio di iniziative come questa sono le attività di sensibilizzazione realizzate ad esempio a Neisu attraverso i Co.Sa., i comitati sanitari di villaggio. Grazie alla formazione che i membri dei comitati ricevono dal personale dell’ospedale di Neisu nel corso di varie sessioni di educazione sanitaria, i Co.Sa. possono fare da «moltiplicatore», diffondendo informazioni corrette sulla prevenzione dell’Hiv una volta rientrati ai loro villaggi.

Lotta all’Aids
e buona sanità di base
La rete di ospedali, centri sanitari e dispensari è fondamentale nel lavoro di lotta all’Aids, così come cruciali sono anche tutti quegli interventi con le comunità locali per fare informazione, educazione, prevenzione.
Oltre alle attività legate specificamente all’Hiv, determinante per garantire l’efficacia degli interventi è il fatto che ogni intervento di cura e trattamento per l’Aids viene innestato su una struttura sanitaria solida e funzionante. I missionari della Consolata, infatti, inseriscono i loro programmi di lotta alla diffusione dell’Hiv e di cura dell’Aids nell’ambito di complessi sanitari dove ad essere garantiti non sono solo i servizi relativi a Hiv/Aids ma anche l’assistenza sanitaria relativa ad altre patologie e, soprattutto, l’assistenza sanitaria di base.
Questo aspetto risulta tanto più rilevante se si traccia un bilancio degli interventi realizzati dalle grandi agenzie umanitarie inteazionali e dalle Ong: dopo anni di campagne e progetti di lotta all’Hiv, infatti, è emerso in modo abbastanza evidente che spesso uno degli elementi che mina alla radice l’efficacia degli interventi di lotta all’Hiv nei paesi del sud del mondo è proprio l’inadeguatezza delle strutture sanitarie di base. Un intervento di cura e trattamento Aids, se non inserito all’interno di una struttura operativa in grado di fornire servizi sanitari di base, rischia non solo di non portare ai risultati sperati, ma di compromettere il funzionamento della struttura stessa: si rischia, per fare un esempio, di fornire farmaci Arv senza essere in grado di curare una banale ferita infetta o un’infezione intestinale.
Difatti i finanziamenti per la lotta all’Hiv finiscono a volte per fagocitare la sanità di base: in molti paesi del sud del mondo il lancio di un progetto in grande stile concentrato su Hiv/Aids rischia di distogliere il già scarso numero di personale sanitario disponibile dalle sue normali funzioni per specializzarsi ed operare esclusivamente sull’Aids, trascurando quindi quello che è la routine sanitaria. Si forma così, di fatto, un vero e proprio sistema sanitario «parallelo», regolato da logiche non sempre in linea con le priorità definite dai governi nazionali, con finanziamenti comunque insufficienti, spesso poco equilibrati e eccessivamente concentrati su un unico ambito sanitario. Ci si trova, nel concreto, a vivere il paradosso di strutture dove il reparto Hiv/Aids è abbastanza ben strutturato, attrezzato e seguito da personale specializzato mentre gli altri reparti mancano perfino delle più elementari attrezzature e del minimo di personale che servirebbero a farli funzionare in maniera sufficiente. Si assiste quindi a una distorsione nell’erogazione del servizio sanitario e a una competizione tra interventi di lotta all’Hiv e sanità di base, mentre i due ambiti dovrebbero essere in cornordinamento e sostenersi l’un l’altro.

L’altra faccia della lotta all’Hiv
Date le considerazioni precedenti, è evidente che un programma efficace di lotta all’Hiv/Aids non può più prescindere dal miglioramento delle condizioni socio – economiche rispetto alle quali l’Hiv/Aids è solo la punta dell’iceberg. Non basta quindi ampliare l’accesso ai servizi per la distribuzione di medicinali; occorre innanzitutto rafforzare i sistemi sanitari di base in modo che siano efficienti, accessibili per tutti e gratuiti.
Sono poi necessari interventi sociali che mettano i malati nella condizione di superare le difficoltà che limitano il loro accesso alle cure, come i già menzionati costi per il cibo o i trasporti, ed evitino la discriminazione sociale.
Dovrebbe, inoltre, essere garantito anche un servizio domiciliare di cura, non solo per chi abita troppo lontano dai centri sanitari, ma anche per chi questi centri non li può raggiungere per motivi di salute. Purtroppo, in quasi tutti i paesi del sud del mondo, e in Africa in particolare, questi servizi di cura domiciliare sono previsti ma, per mancanza di fondi, non sono effettivamente disponibili e la maggior parte dei pazienti che non può recarsi nelle strutture sanitarie non riceve alcun trattamento. I costi per formare gli operatori domiciliari, decisivi specialmente nel trattamento delle infezioni opportunistiche, non sono così elevati e, comunque, inferiori a costi derivanti dal sottrarre personale medico alla sanità di base per destinarla ai progetti di lotta all’Hiv.
Infine è necessario costruire una rete di operatori che possa far sì che i messaggi sulla prevenzione raggiungano i destinatari e, soprattutto, che possa informare le persone sieropositive che esistono servizi presso i quali ricevere cure e trattamenti. Non solo. Oltre a informare, occorre anche invogliare i pazienti a far uso dei servizi offerti, mettendoli in condizione di superare i pregiudizi e il timore che la loro condizione di sieropositività, una volta dichiarata, possa finire per isolarli dalla loro comunità.
Le cliniche mobili, la costruzione di centri sanitari periferici, la formazione di responsabili sanitari comunitari e il lancio di progetti «paralleli» (microcredito, micro – progetti agricoli, formazione professionale e simili) sono alcuni dei mezzi attraverso i quali i missionari della Consolata cercano di ovviare alle difficoltà socio – economiche che impediscono a un paziente di fruire effettivamente dei servizi relativi all’Hiv/Aids a causa della propria condizione di indigenza.

Hiv, un’emergenza per tutte le stagioni
Elemento che desta preoccupazione quando si riflette sulle logiche che regolano gli interventi nel sud del mondo è la «riciclabilità» dell’Hiv/Aids come tema su cui si concentra la cooperazione internazionale in mancanza di emergenze più attuali: «L’Hiv non va più di moda, quest’anno: adesso che è finito lo tsunami è il cambio climatico il più gettonato», commentava qualche anno fa con amaro sarcasmo una funzionaria internazionale, constatando le fluttuazioni anche brusche dell’attenzione della comunità internazionale.
Così come «passa di moda» in fretta, altrettanto repentinamente l’Hiv/Aids torna alla ribalta, attraverso gli appuntamenti annuali come la giornata mondiale di lotta all’Hiv (1° dicembre) e anche per effetto di campagne estemporanee lanciate da istituzioni inteazionali e Ong. Ma il problema rimane, anche quando non sta sulle pagine delle riviste o nei documentari trasmessi alla televisione e il modo più efficace di affrontarlo spesso parte dalla lotta alla povertà e all’ingiustizia prima ancora che all’Hiv/Aids.

Chiara Giovetti e Marco Simonelli

Chiara Giovetti e Marco Simonelli

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