Il racconto delle nozze di Cana (14)
«In principio Dio creò il cielo e la terra … e in principio era il Lògos» (Es 4,20).
Dopo dodici puntate di introduzione, tralasciando tutti gli altri problemi riguardanti la critica testuale, l’analisi letteraria e gli approfondimenti relativi, che ci porterebbero a comporre un trattato solo sul racconto di Cana, crediamo utile passare all’analisi del testo che vorremmo gustare parola per parola. Per il credente, lo studio della Parola è preghiera perché diventa carne e sangue, fondamento e prospettiva di vita.
L’alfabeto della Presenza
La Parola di Dio che attraversa il nostro cuore, purificandolo e convertendolo, ritorna da dove è venuta, come la pioggia che scende dal cielo a bagnare la terra che a sua volta la restituisce al cielo in forma di vapore, di nubi e nuova pioggia. Lo descrive in modo impareggiabile il profeta Isaia:
«10Come infatti la pioggia e la neve scendono dal cielo e non vi ritornano senza avere irrigato la terra, senza averla fecondata e fatta germogliare, perché dia il seme a chi semina e il pane a chi mangia, 11così sarà della mia parola uscita dalla mia bocca: non ritoerà a me senza effetto, senza aver operato ciò che desidero e senza aver compiuto ciò per cui l’ho mandata» (Is 55,10-11).
A) Studiare è sacrificio gradito
La Parola di Dio è l’alfabeto con cui parlare la lingua nuova della Presenza/Shekinàh di Dio e della fede in lui. Per gli Ebrei lo studio della Toràh dispensava sia dal lavoro che dall’osservanza dei precetti perché lo studio della Scrittura era paragonato ad un giogo impegnativo e pesante come insegna Rabbi Ne’hounia ben Hakàna che diceva: «A colui che accetta il giogo della legge, saranno risparmiati il giogo del Regno ed il giogo delle preoccupazioni del mondo» (Pirqè Avòt/Massime dei Padri III,5). Quando un non ebreo chiedeva di convertirsi all’ebraismo, per scoraggiarlo gli si spiegava come fosse duro portare il giogo della Toràh (Talmud Babilonese, Berakòt 30b). Il giogo però indica anche la fatica quotidiana dello studio della Toràh ed equivale all’osservanza di tutti i comandamenti presi nella loro totalità (cf Mishnàh, Pèah/Angolo, 1,1; Talmud Babilonese, Shabàt 127a). Gesù presenta il suo messaggio come «un giogo buono/facile [da portare] e leggero» (Mt 11,30). Non solo, ma la tradizione giudaica va ancora oltre: lo studio della Toràh ha un valore espiatorio e sacrificale: «Colui che si dedica allo studio della Toràh è come se avesse offerto lui stesso un olocausto, una offerta o un sacrificio per la remissione della colpa» (Talmud Babilonese Menahòt 110a); oppure: «Studiare la Toràh è più grande che salvare vite umane» (Talmud Babilonese Megillàh 16b).
B) Fare la corte a Dio
Non è sufficiente leggere la Bibbia, bisogna «re-stare» su di essa per cogliere la verità di noi e la verità di Dio: «Se rimanete nella mia parola, siete davvero miei discepoli» (Gv 8,31) e «re-stare» vuol dire «stare saldamente ancorati» in virtù del rafforzativo «re-». Dalla lunga introduzione, i nostri lettori avranno compreso che leggere, pregare e accogliere la Parola di Dio è cosa seria ed esige tempo, intimità, fatica, pazienza. Accostarsi alla Bibbia non è leggere un racconto edificante per imparare qualcosa, ma educarsi ad un rapporto d’amore, frequentare una conoscenza d’intimità, imparare ad essere innamorati, apprendere a «fare la corte» a Dio, lasciandosi sedurre dalla Parola che è il Lògos, Gesù di Nàzaret, il Figlio del Padre (cf Ger 20,7).
Pregare stanca anche fisicamente perché lo studio impegna energie, volontà, sentimenti, fantasia, emozioni, anima e corpo. Alla Parola bisogna offrire il tempo più bello della giornata, mai gli scarti, perché è un rapporto di conoscenza e di amore che allarga il cuore ad un amore sempre più senza confini. Lo studio e la preghiera, infatti, non sono incontri fugaci di prostituzione, ma profondi aneliti d’amore vissuti in un dinamico e intimo contesto d’amore. Quando releghiamo Dio e la sua Parola ai margini del nostro tempo «per adempiere al nostro dovere», noi annulliamo il patto nuziale di alleanza, diventiamo mercenari interessati e mercanti di religione.
Il testo e la traduzione letterale
Leggiamo il testo del racconto di Cana nella duplice versione: quella della Cei (edizione 2008) e quella letterale che proponiamo noi:
Questo è il testo che, adesso, dopo la lunga e articolata introduzione, ci appare meno semplice e più armonioso di quanto non immaginassimo. A leggerlo lentamente e assaporandolo si ha la sensazione di entrare nel tessuto di una grande storia che non può essere solo un banale sposalizio anonimo: il cuore ci dice che diventiamo protagonisti di eventi cosmici che ci avvolgono nel passato per proiettarci nel futuro di un processo travolgente, dove Dio e noi camminiamo insieme e insieme viviamo una dimensione nuziale che ci apre alla relazione affettiva, fondamento di ogni relazione spirituale. Cana è il luogo del nostro sposalizio, cioè della nostra vita vissuta in chiave nuziale. Entriamo dunque nel villaggio e, seduti, al banchetto delle nozze, assaporiamo le parole del vangelo.
«E nel terzo giorno» (v. 1)
Sul «terzo giorno» abbiamo anticipato molte informazioni nella sesta puntata (luglio/agosto 2009) e nella settima (settembre 2009), in cui abbiamo cercato di collocare questa espressione nel contesto ampio di tutta la Scrittura e offrendo i motivi biblici e culturali che stanno dietro alla mentalità dell’autore. Abbiamo detto che nel «terzo giorno» della creazione vi sono due benedizioni di Dio che descrivono una doppia fecondità e quindi giorno ideale per celebrare le nozze secondo la tradizione giudaica. Le nozze di Dio con Israele avvengono ai piedi del Sinai «nel terzo giorno» che diventa così il giorno della Toràh, la dote che Dio porta alla sposa nel momento in cui «l’acquista» come sua corona e gloria. Al tempo di Gesù nel quarto giorno si riuniva il tribunale a cui si poteva fare immediato ricorso per il ripudio della sposa non trovata vergine e sposata il giorno prima, cioè «il terzo giorno».
A) Una scansione della salvezza
Abbiamo anche sottolineato che il tema del «terzo giorno» attraversa tutta la Scrittura sia del Primo che del Secondo Testamento: Abramo sacrifica Isacco, Giona è salvato dal pesce, Ester salva il suo popolo, Esdra ricostruisce il tempio. Per i profeti è il giorno della risurrezione, ma anche di condanna per gli atei che si fingono religiosi. Nel NT «terzo giorno» è espressione tecnica per indicare la resurrezione di Gesù, per cui possiamo dire che «il terzo giorno» ritma l’eternità di Dio e segna il tempo dell’uomo. Qual è il nostro «terzo giorno»? Un fatto è certo: nella nostra esistenza c’è un «terzo giorno» che segna la nostra identità e l’evento centrale che ha determinato la nostra vita. Se non prendiamo coscienza di esso e se non lo riconosciamo, noi viviamo come ubriachi che camminano a zonzo, senza una direzione e forse scambiamo i lampioni per punti di riferimento: parliamo a vuoto, mentre ci illudiamo di parlare con Dio.
B) Una formula teologica
L’espressione «E nel terzo giorno» è posta all’inizio del racconto e quindi, come si dice tecnicamente, in posizione «enfatica», cioè preminente, come se l’autore volesse che il lettore si rendesse subito conto che non si trova di fronte ad una nota cronologica, ma un evento teologico. Questa posizione di rilievo inoltre è un esplicito richiamo ai giorni precedenti, perché non si dà un «terzo giorno» senza riferirsi ai giorni precedenti che nel capitolo primo cominciano a descrivere una settimana, che è quella iniziale dell’attività di Gesù, presentata dall’evangelista come la settimana corrispondente a quella della Genesi, quando Dio «crea il cielo e la terra». Se mettiamo insieme il ritmo dei giorni descritti dall’autore scopriamo che il «terzo giorno» delle nozze di Cana corrisponde al «sesto giorno» della stessa settimana. Infatti, lo schema che propone il IV vangelo è il seguente:
1. Gv 1,19-28: «Io non sono il Cristo»: giorno uno della settimana
(Giovanni rende testimonianza e annuncia alla religione ufficiale il nuovo tempo)
2. Gv 1,29-34: «Il giorno dopo» (gr.: têi epàurion): secondo giorno della settimana:
(Giovanni annuncia al mondo l’«Agnello di Dio»)
3. Gv 1,35-42: «Il giorno dopo» (gr.: têi epàurion): terzo giorno della settimana:
(Un discepolo anonimo, Andrea e suo fratello Pietro sono chiamati da Gesù)
4. Gv 1,43-51: «Il giorno dopo» (gr.: têi epàurion): quarto giorno della settimana
(Filippo e Natanaele sono chiamati da Gesù)
5. Gv 2,1: «E nel terzo giorno» (gr.: têi hēmèrai têi trìtēi): sesto giorno della settimana:
(Cana: rinnovo dell’alleanza del Sinai in chiave sposale)
6. Gv 2,12: «Non molti giorni»
(gr.: oú pollàs hēemèras).
(Permanenza di Gesù, sua madre e i discepoli a Cafaao.)
C) Una nuova Genesi?
È evidente che Gv 1 e l’inizio di Gv 2 sono ritmati da questa scansione di giorni che convergono come alla loro foce naturale nel «terzo giorno» di Cana cui fa seguito l’osservazione redazionale che «rimasero non molti giorni» (Gv 2,12), che può essere letto come «un riposo» dopo la settimana impegnativa e di cui parleremo dopo per l’importanza del verbo. In questo modo avremmo uno schema settenario con sei giorni lavorativi e il settimo di riposo, costruito sul modello della settimana della Genesi, in cui per sei giorni Dio «Disse e opera» e, infine, si riposa al settimo. Il terzo giorno del nostro schema corrisponde al sesto giorno della settimana e non al settimo perché secondo il computo ebraico, il giorno si conta dalla fine di quello precedente, dal tramonto al tramonto. Su questo specifico aspetto della struttura settimanale, gli studiosi sono tutti d’accordo nel ritenere che Gv 1,19-2,12 è strutturato nello spazio di una settimana, ma moltissimi divergono nella divisione dei giorni: alcuni calcolano sei giorni, altri sette, altri otto e c’è anche chi ipotizza dieci giorni. Una minoranza di studiosi non ammette nemmeno lo schema settimanale perché secondo loro gli indizi sarebbero fragili. Noi tralasciamo queste discussioni che sono tecniche perché incomprensibili a chi non è addentro a sistemi di indagine esegetica complessa. Chi volesse però approfondire gli argomenti, può ricorrere ad un testo organico e completo di uno dei massimi esperti di Gv e specificamente del racconto di Cana a cui ha dedicato di fatto tutta la vita: Aristide Serra, Le nozze di Cana (Gv 2,1-12). Incidenze cristologico-mariane del primo “segno” di Gesù, Edizioni Messaggero, Padova 2009, pp. 560.
D) Dal «principio» primordiale al «principio»
dell’incarnazione
A questo punto ci pare quasi ovvio dire che lo schema settimanale, all’interno del quale troviamo l’espressione «E nel terzo giorno», è uno schema teologico e non cronologico. Infatti il riferimento al racconto della creazione di Gen 1 non solo è lecito, ma è anche logico perché l’evangelista presenta l’attività di Gesù dentro uno schema settimanale per mettere in evidenza che è un’attività salvifica, una ripresa dei temi della creazione, anzi, con Gesù inizia «una creazione nuova » che trova nella «nuova alleanza» anticipata da Geremia (cf Ger 31,31) l’inizio del tempo escatologico che sia la Scrittura che la tradizione giudaica annunciano come il tempo del Messia. è anche da sottolineare che lo schema settimanale di Giovanni si apre allo stesso modo, della Genesi, con l’assoluto e solenne «In principio» che da un senso di eternità a tutto il racconto. «In principio» Dio pone mano alla creazione del cielo e della terra così come «In principio» il Lògos irrompe nel tempo della storia per farsi «carne», cioè fragilità e temporalità. In greco si trova l’espressione «en archê» che è la traduzione con cui la LXX traduce l’ebraico «Bereshìt» di Gen 1,1. I primi cristiani usavano come Bibbia propria appunto la LXX che era quindi la loro Scrittura di riferimento per l’AT. Un altro elemento, o quanto meno un forte indizio, a cui abbiamo solo accennato, si trova nel verbo «rimasero» di Gv 2,12: dopo la settimana di Gv 1 e le nozze di Cana «nel terzo giorno» di Gv 2, Gesù, sua Madre e i discepoli si ritirano a Cafàao, dove «rimasero non molti giorni». Il verbo usato da Gv è «mènō – rimango/resto/sosto» e quindi «riposo», dove vi potrebbe essere un’eco dello «shabàt-riposo» di Dio creatore. In questo caso Gv presenta Gesù non più come la «Sapienza» che era accanto al creatore pronta ad eseguire i suoi ordini (Pr 24,1-13), ma come il «Lògos» eterno che presiede direttamente la nuova creazione che troverà il culmine nella redenzione, espressa e manifestata nella rivelazione della «gloria» che risplende sul mondo dal trono della croce. Il racconto di Cana è dunque sotto questo aspetto, una rilettura cristiana, un midràsh, della creazione di Genesi e, come abbiamo anticipato nelle puntate precedenti e come vedremo in seguito, anche e specialmente della liberazione dell’esodo e del dono della Toràh al monte Sinai.
[continua – 14]
Paolo Farinella