Una strada in salita

L’adozione, un terreno delicato

Vengono dal cielo

Avvicinarsi al mondo delle adozioni, anche solo per capire qualcosa in più, è molto coinvolgente a livello personale. Si toccano aspetti di profonda umanità, ed è inevitabile entrare nell’intimità dell’altro, nella sua sfera dei sentimenti, pur tentando di farlo in punta di piedi.
Le storie sono tante, tutte importanti, alcune bellissime, altre molto tristi. Ma ci si rende subito conto, che in questo campo, non esiste la mediocrità.
Abbiamo cercato di affrontare il tema con umiltà, senza accusare (troppo) e ascoltando molto. Non abbiamo la pretesa di essere esaustivi, ma vorremmo dare al lettore alcune possibili piste di lettura e delle pennellate di storie umane. Per non allargare ulteriormente il campo d’azione si è deciso di non estendere il dossier all’adozione nazionale.
Dedichiamo questo lavoro a tutti i bambini haitiani che hanno perso la famiglia il 12 gennaio 2010.

Marco Bello

L’Italia è uno dei primi paesi al mondo come numero di adozioni inteazionali. Ma avere un bambino in adozione è tutt’altro che facile.
E i tempi di attesa sono in media di due anni. Dal 1998 la procedura è allineata con la convenzione dell’Aja. Ma la situazione si fa più «scivolosa» in certi paesi di origine.

«Erano passate 24 ore dal nostro arrivo a Phnom Penh capitale della Cambogia. Ci avevano portato in un orfanotrofio fuori città. Non era male, pulito, perfino profumato. Entriamo in una stanza e da un’altra porta arriva una donna con in braccio un piccolo di 14 mesi. La maman ci sporge il fagotto, poi ci fanno firmare alcune carte. E via, pochi minuti dopo, di ritorno verso la città sul taxi scassato. Il bimbo irrigidito, impaurito, di vedere noi “visi pallidi”, di sentire noi con un odore diverso». È il racconto di un incontro tra genitori e figlio: un trauma, quasi una seconda nascita, che ha dato origine a una seconda vita.

Boom di adozioni

In Italia arrivano ogni anno poco meno di quattromila bambini stranieri (3.964 nel 2009) per inserirsi in circa tremila famiglie adottive. I maggiori paesi di provenienza sono stabili: Russia, Ucraina, Colombia, Etiopia e Brasile, insieme coprono quasi il 60% delle adozioni inteazionali nel nostro paese.
Questi alcuni dati «freddi» del rapporto annuale della Commissione adozioni inteazionali (Cai), l’autorità centrale per le adozioni inteazionali. Dati importanti per capire le tendenze italiane e dei paesi che foiscono bambini in stato di adattabilità.
Dati dietro i quali si nascondono migliaia di storie personali e di famiglie.
L’adozione internazionale è cambiata radicalmente nel 1998, quando l’Italia ratifica la convenzione dell’Aja del ’93. La convenzione, firmata da paesi di origine e di accoglienza, regolamenta l’adozione internazionale e impone nuove modalità e procedure.

Percorso ad ostacoli

L’iter per diventare genitori adottivi è un percorso ad ostacoli. Innanzitutto si presenta domanda al Tribunale dei minorenni di propria competenza. Si devono quindi affrontare accertamenti di tipo sanitario e innumerevoli colloqui con l’équipe adozioni del proprio territorio. Questa è composta da assistente sociale e psicologo e da essa dipenderà in larga misura l’idoneità o meno della coppia ad accogliere un bambino in adozione.
Alla fine dei colloqui, l’équipe invia al Tribunale per i minorenni una relazione che descrive la situazione personale, relazionale e ambientale degli aspiranti genitori adottivi. Sarà il giudice, in base a questa relazione a emanare il tanto agognato «decreto di idoneità» che permette di affrontare il passo successivo.
A questo punto la coppia è obbligata a scegliere uno degli enti autorizzati, associazioni senza fini di lucro (precisarlo è d’obbligo), che dovrà accompagnarla in tutte le fasi successive.
«L’adozione è cambiata in meglio sotto certi punti di vista» racconta Elio Biasi, papà adottivo di due figli brasiliani, ora maggiorenni. «Prima ci voleva più tempo per avere il decreto di idoneità e meno per avere l’adozione. Per questa seconda fase c’era più la strada del “fai da te”». Esistevano già degli enti specializzati, alcuni dei quali operano tuttora e sono quelli oggi indicati come «storici».
«Ci si muoveva tramite l’aiuto, il passaparola. Con tutti i pericoli che poteva comportare. Anche io ne ho aiutati molti, tramite missionari, in Brasile. Ma erano percorsi consolidati, di cui eravamo certi», continua Elio che, si può dire abbia dedicato la sua vita all’adozione, in quanto da 28 anni investe tempo ed energie in un’associazione di aiuto alle coppie (vedi articolo).
«Da quando ci sono gli enti, è più veloce il tribunale, poi ci si arena. Inoltre, la maggior parte degli enti non ti fanno scegliere il paese in cui andare. Ma devi dare la disponibilità multipla. Uno potrebbe invece avere motivazioni particolari verso un dato paese».
E rincara la dose: «Loro (gli enti, ndr) tendono a spingere i paesi dove hanno più possibilità di riuscita, hanno referenti più attivi. Agli enti, secondo me, non interessa darti il bambino, ma chiudere la pratica il più in fretta possibile, perché comunque porta a casa soldi. Non pensano alle sofferenze della coppia, ma al lavoro che devono fare. Si va dai due a tre anni dopo il decreto, per avere il figlio».
E come districarsi nella scelta dell’ente? «Oggi c’è molta domanda. Hanno molte coppie. Qualsiasi ente a cui telefoni per avere informazioni ti fa aspettare 4-5 mesi prima di darti un primo appuntamento.
Non si riesce a capire perché si debba aspettare così tanto. In due o tre anni può succedere di tutto. Dopo l’abbinamento (quando la coppia è associata a un bambino in stato di adattabilità, ndr) aspetti ancora alcuni mesi. Loro danno la colpa alle burocrazie dei paesi. Ma io non sono così convinto che non si possano eliminare questi percorsi».

Procedure non troppo chiare

Gli enti sono tenuti ad avere dei «referenti» nei paesi, ovvero dei loro incaricati che devono sbrigare le procedure burocratiche, accogliere le coppie quando arrivano, e accompagnarle in tutti i momenti della loro permanenza nel paese.
Con il lemma «il fine giustifica i mezzi» molti enti hanno comportamenti a dir poco dubbi in alcuni paesi. «L’associazione per la quale lavoravo puntava ad ottenere l’adozione il più in fretta possibile» racconta una ex referente che ha lavorato per un ente italiano in Africa dell’Ovest.
Ma i tempi erano molto lunghi: «Molto spesso ci si rendeva conto che bisognava pagare qualcosa sottobanco per fare andare avanti le pratiche. Io non ero d’accordo con questo metodo, mentre l’ente non aveva problemi. Per loro l’importante era velocizzare il processo». Per questa incompatibilità, dopo cinque mesi la referente decide di dimettersi.
Di casi di corruzione se ne sentono svariati, a vari livelli, in diversi paesi, soprattutto africani.
Un altro aspetto delicato è quello della facilità con cui i bambini, in alcuni casi, diventano adottabili: «Mi rendevo conto a volte che sarebbe bastato appoggiare la famiglia magari con un progetto di sviluppo, e questa avrebbe potuto e voluto tenere il bambino. Il problema è che non si creava l’alternativa per questa mamma» continua la referente. In questo modo si nega il principio di sussidiarietà sancito dalla convenzione dell’Aja, che prevede come priorità quella di creare le condizioni affinché i bambini trovino una famiglia nel loro paese. «Non riuscivamo a comunicare direttamente con i genitori, perché usavamo l’interprete. Questi, portati davanti al notaio, firmavano per l’adottabilità del proprio figlio». 
Non si vuole qui attaccare il lavoro dei molti enti italiani estremamente seri. Ne sono un esempio quelli che lasciarono il Vietnam, quando nel settembre 2009, furono condannate 16 persone per falsificazione di documenti per rendere adottabili 250 neonati.

Non tutti gli enti, vengono per nuocere

E dal punto di vista delle coppie?
«Le esperienze con gli enti sono sempre soggettive, dipende se ti è andata bene oppure no. Io non accuso mai un ente, ma mi permetto di dare giudizi generali in base a quello che sento. Moltiplico sempre, quantifico e mi rendo conto dei soldi che circolano», continua Elio Biasi.
In effetti un’adozione internazionale costa cara, anche se ci sono delle tabelle della Cai che le regolamentano. «Un’adozione va dai 10 mila euro di un paese africano ai 30 mila di un paese dell’Est Europa. A parte ci sono le spese di permanenza, viaggio nel paese» ci ricorda Elio.
I costi sono suddivisi in spese in Italia e in spese da fare nel paese straniero. Queste, a volte, raggiungono delle cifre anche molto alte.
«In Italia l’ente ha esperti e professionisti: giuristi, assistenti sociali, psicologi. Questi devono aiutare la coppia a predisporre il fascicolo capire dove depositarlo, fornire una formazione sul paese, … poi ci sono enti che dicono di fare queste cose ma non le fanno» ci svela un’addetta ai lavori. E si aggiungono tutte le spese fatte in Italia per la struttura.
«Gli enti hanno spese che si aggirano sui 3.000 – 4.000 euro in Italia. Ma alcuni hanno aumentato e ne chiedono 5.000 – 6.000. In questo caso è la Cai che dovrebbe fare un controllo per verificare innanzi tutto se i servizi vengono resi, e secondo quanto costano effettivamente all’ente». Continua l’operatrice. Poi ci sono i servizi all’estero che differiscono dai paesi: preparazione documenti, traduzioni e legalizzazioni. Spese di procedure. Il Brasile ad esempio ha procedure gratuite, altri chiedono un contributo per il mantenimento del minore che ha già vissuto in una struttura per anni. C’è il referente da pagare, talvolta l’avvocato. E ancora i follow up obbligatori: le relazioni che le coppie devono redigere insieme all’ente da mandare allo stato straniero ogni anno (o ogni semestre), in alcuni casi fino a 18 anni del figlio adottivo.Ma gli enti, essendo Onlus, organizzazioni senza fini di lucro, devono solo rientrare nei costi e non fare profitti. «Un’adozione che con un ente costa in tutto 13.000 euro, nello stesso paese altri enti la fanno pagare 25.000» conclude l’operatrice.
Mentre Elio si chiede: «Perché ci sono enti che fanno 10 adozioni in un paese e altri che ne fanno 200? Io non do giudizi, faccio solo le moltiplicazioni».

di Marco Bello

Marco Bello

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