Taybeh: ultimo villaggio interamente cristiano
Tre campanili e nessun minareto: l’antica Efraim è l’unico villaggio palestinese interamente cristiano, ma è a rischio estinzione: varie iniziative provvedono lavoro e motivazioni perché la gente resista alla tentazione di emigrare.
La sua storia risale a migliaia di anni prima di Cristo, quando arrivarono nella regione alcuni clan cananei, provenienti dalla penisola araba; una storia travagliata fin dal nome, citato almeno sei volte nella bibbia come Ofra, Efron, Efraim, Afra, finché nel 1187 il Saladino gli diede il nome definitivo: era capitato che, ricevendo gli omaggi di una delegazione di Afra, il presentatore storpiò talmente il nome da significare «demonio malefico»; affascinato dalla bellezza e gentilezza dei delegati, il condottiero musulmano cambiò il nome in «Taybeh», che significa «Bello di nome».
Taybeh è bello anche di fatto, con le sue casette bianche appollaiate su una collina sassosa, 35 chilometri a nord-est di Gerusalemme, ai margini della Samaria e del deserto di Giuda. Visto da lontano assomiglia ad altri innumerevoli villaggi arabi disseminati nelle zone collinose della Terra Santa; è così piccolo che non figura sulle mappe ufficiali di Israele e Palestina; ma quanto più ci si avvicina tanto più appare la sua singolarità: al posto del solito minareto e rispettiva moschea, spiccano tre bei campanili di altrettante chiese cristiane: la cattolica latina, che conta oltre 750 fedeli, quella greca-ortodossa con poco più di 450 membri e quella greco-cattolica o melchita con circa 160 seguaci.
Storia e tradizioni
«Taybeh è l’unico villaggio della Terra Santa abitato da soli cristiani: tutti arabi. Anch’io sono arabo, nato a Jenin 42 anni fa; dal 2002 sono parroco della comunità cristiana di rito latino» esordisce don Raed Abusalhia, parlando ai visitatori, come fa ogni domenica dopo la celebrazione della messa. Di solito li accoglie nella «Sala del divano», ammobiliata come una tenda di beduini; questa volta, però, ci raduna tutti in chiesa, poiché due gruppi di ospiti (indiani del Kerala e cristiani uniati di San Francisco, Usa) sono troppo numerosi.
«Gli abitanti del villaggio sono tutti arabi – ripete don Raed – e si vantano di essere stati evangelizzati da Gesù in persona, come si legge nel vangelo». Dopo la risurrezione di Lazzaro, racconta l’evangelista Giovanni, «i sommi sacerdoti e i farisei riunirono il sinedrio… e decisero di uccidere Gesù. Pertanto egli… si ritirò di là nella regione vicina al deserto, in una città chiamata Efraim, dove si trattenne con i suoi discepoli» (Giovanni, 11,47-54).
L’enunciato evangelico è molto scao. Ma ci ha pensato la fantasia mediorientale a fornire altri dettagli, a cui si ispira anche don Raed. «Gesù venne in questo luogo per quattro motivi – continua il parroco. Primo perché la Samaria è un posto tranquillo e i samaritani sono ospitali; secondo perché questo era un luogo di rifugio e chi vi accorreva godeva di immunità e non poteva essere perseguito neppure dai rabbini; terzo perché qui Gesù aveva degli amici a cui ricorreva nelle difficoltà; soprattutto egli venne in questo luogo quasi desertico per prepararsi agli ultimi eventi della sua vita, come aveva già fatto tre anni prima, ritirandosi a pochi chilometri da qui, sul monte della Quarantena o delle Tentazioni, per prepararsi alla sua vita pubblica».
Secondo la tradizione, proprio sulla strada verso Efraim sarebbe avvenuta la guarigione dei 10 lebbrosi (Luca 17,12) e il samaritano guarito avrebbe accompagnato Gesù fino al villaggio, gridando talmente la sua felicità che gli apostoli ne furono irritati. Ma Gesù, continua la leggenda, si fermò, chiamò il samaritano, lo benedisse e lo congedò. L’uomo, baciando il suolo, chiese un nuovo nome e Gesù lo chiamò «Efraim», che significa «doppio frutto», cioè, la vita ricevuta due volte.
Un’altra tradizione racconta che, arrivato ad Efraim, i notabili del villaggio lo invitarono a restare con loro, poiché quelli del tempio lo odiavano, e un ragazzo gli corse incontro con un melograno. Gesù ne approfittò per raccontare una parabola. Spaccò il melograno e lo mostrò ai presenti, dicendo: «I chicchi di questo frutto sono dolci, come sapete, ma sono racchiusi in una membrana molto amara. Così il Figlio dell’uomo deve passare attraverso le amarezze della morte, prima di gustare la dolcezza della risurrezione».
Anche alla Madonna, venuta a Taybeh per trovare il Figlio, la gente avrebbe offerto un melograno. A tale leggenda si ispira l’icona della «Madonna di Efraim», in cui la vergine è rappresentata con in mano il melograno, frutto sacro in oriente, simbolo di pienezza, fecondità ed eternità.
«Leggende a parte – continua il parroco – i cristiani di Taybeh rivendicano la discendenza apostolica della loro fede e la consapevolezza di avere mantenuto vivo il vangelo da due mila anni senza interruzione, resistendo all’islamizzazione avvenuta invece nel resto della Palestina. Tale resistenza e costanza nella fede è testimoniata dalle rovine di due antichissime chiese bizantine costruite nel paese fin dall’inizio del IV secolo. In una di esse, El Khader o chiesa di san Giorgio, potete vedere il battistero in cui gli abitanti di Taybeh hanno attinto e continuano ad attingere la fede cristiana» (vedi riquadro).
Uniti dalla stessa sorte
Taybeh è un laboratorio di ecumenismo. I parroci delle tre comunità formano un comitato che si incontra una volta al mese per discutere i problemi della gente, trovare soluzioni ed anche per pregare insieme, fatto non comune in Terra Santa. Tale intesa è necessaria anche perché molte famiglie, in seguito ai matrimoni misti, fanno parte di più chiese. Per evitare confusioni in famiglia e di fronte ai musulmani, le tre chiese hanno concordato di celebrare natale e pasqua nelle stesse date, nonostante le differenze di calendario: natale il 25 dicembre, secondo il calendario gregoriano-latino, e pasqua seguendo il calendario giuliano-ortodosso.
«Qui pratichiamo l’ecumenismo della vita. Non capisco perché, con tanti incontri ecumenici ad alto livello non si riesca a stabilire una data definitiva per la pasqua valida per tutte le chiese cristiane nel mondo, senza dipendere dalle fasi della luna» sottolinea polemicamente don Raed, tra sonori applausi degli uniati americani.
«Coltiviamo buoni rapporti anche con i musulmani: una quarantina locali (“ospiti di passaggio” dicono i paesani), e quelli dei 16 villaggi circostanti. Noi cristiani ci sentiamo palestinesi a tutti gli effetti. Viviamo insieme da almeno 14 secoli e ci sentiamo un solo popolo: stesse tradizioni, stessa lingua, stessi problemi, stessa sorte. Nel conflitto in corso non rappresentiamo una terza parte, ma siamo sulla stessa barca con i nostri fratelli musulmani e abbiamo a cuore la liberazione della nostra terra in modo pacifico, senza essere antisemiti né anti-israeliani».
Don Raed insiste nell’affermare che lui e la sua comunità sono arabi, per confutare una certa «propaganda» che identifica il cristiano con l’occidentale e lo contrappone all’arabo islamico. «A volte ci capita di essere vittime di reciproci “pregiudizi”, ma con il dialogo riusciamo a superarli». Lo prova il fatto che gli alunni più piccoli della scuola del Patriarcato Latino sono per un terzo musulmani: vengono dai villaggi vicini, compagni di scuola dei ragazzi di Taybeh con normalissime relazioni di amicizia.
«Noi cristiani – continua don Raed – non vogliamo essere definiti “minoranza”: parola che in arabo ha la stessa radice di debole, perseguitato, straniero. Niente di tutto questo. La nostra rilevanza non dipende dal numero, ma dal tipo di presenza e testimonianza che riusciamo a garantire». Ma non si pensi che sia facile restare cristiani in Terra Santa. «Il problema principale è la mancanza di libertà, in seguito all’occupazione militare israeliana e alla politica di sicurezza, diventata più oppressiva dopo lo scoppio della seconda intifada» spiega don Abusalhia. Centinaia di chilometri di «muro», posti di blocco, check points tengono i palestinesi prigionieri nei loro territori, dai quali non possono uscire senza uno speciale permesso, rilasciato dall’amministrazione israeliana solo per motivi particolari.
Tale isolamento è reso più pesante dalla politica di colonizzazione perseguita dal governo ebraico senza sosta e con ogni mezzo, comprando dai palestinesi o espropriando con la forza i loro terreni. Attoo a Taybeh ci sono già cinque insediamenti ebraici e quello di Ofra continua ad espandersi, erodendo anche il territorio del villaggio cristiano. Tale politica rende più difficile gli spostamenti anche all’interno dei territori palestinesi: alcune strade sono riservate esclusivamente alle auto dei coloni israeliani, costringendo i palestinesi a nuovi e più lunghi percorsi. «Prima della costruzione di Ofra – precisa don Abusalhia – il percorso tra Taybeh a Ramallah era di 13 chilometri; oggi è di 35».
Sopravvivenza a rischio
Conseguenza di tale situazione è l’emorragia migratoria, che minaccia la sopravvivenza del villaggio cristiano, al pari della presenza cristiana nel resto della Terra Santa. Prima della guerra dei sei giorni (1967), Taybeh contava 3.400 abitanti; oggi sono più che dimezzati; almeno 7 mila persone originarie di Taybeh sono sparse per il mondo, in America, Giordania o semplicemente a Gerusalemme.
Per frenare tale emorragia le autorità religiose e civili di Taybeh hanno posto in atto varie iniziative. Prima di tutto, contro la minaccia della colonizzazione, è stato costituito un fondo comune, con il contributo degli emigrati, per acquistare i beni di chi decidesse di emigrare: una legge non scritta, ma scrupolosamente osservata, proibisce di vendere ai non cristiani le proprietà, terreni e case, che devono passare da padre in figlio.
Ma non basta: bisogna motivare la gente a restare nel paese, foendo lavoro e prospettive per il futuro. La chiesa ortodossa ha lanciato il progetto per la costruzione di 20 abitazioni: alla raccolta dei fondi contribuiscono anche cattolici romani. «La spesa prevista è di un milione di dollari» chiarisce don Raed, con un sorriso accattivante verso gli uniati americani.
«In tempi di check point e strade chiuse – continua don Raed – è quasi impossibile raggiungere l’ospedale di Ramallah o Gerusalemme; in questi anni, nei check point abbiamo avuto la nascita di 76 bambini e 24 decessi tra madri e bambini. Per questo abbiamo dovuto ingrandire il centro medico, foendolo di una sala parto e altre piccole strutture di emergenza. Oggi il centro medico, nonostante la sua minuscola taglia, offre tutti i servizi di un vero ospedale. E questo grazie al vostro aiuto» conclude il parroco ammiccando agli estasiati americani. E continua senza distogliere lo sguardo dal gruppo califoiano: «Cerchiamo sponsor e volontari per sostenere la scuola, che oggi accoglie oltre 450 alunni, dall’asilo al liceo, e la nostra Beit Afram, la casa di riposo per anziani e di riabilitazione per handicappati, realizzata nel 2005 con fondi donati dalla parrocchia di San Lorenzo in Firenze e gestita dalle suore Figlie dell’Addolorata».
A Taybeh c’è anche una casa di accoglienza per pellegrini e gente di passaggio, intitolata a Charles de Foucauld, il quale passò a Taybeh una prima volta nel 1897 e vi ritoò l’anno seguente per una settimana di ritiro, dal 14 al 21 marzo, traendo da qui ispirazione per ben 35 pagine dei suoi scritti spirituali.
Olio extra vergine e…
per la pace
La parrocchia cattolica, essendo la più numerosa e meglio organizzata, è l’asse portante di tutto lo sviluppo del paese, valorizzando al massimo le risorse locali e con gli aiuti che vengono dall’estero. «Ma noi cristiani di Terra Santa non vogliamo restare mendicanti, dipendere dagli altri. La nostra gente ha voglia di lavorare e creare prodotti di qualità» continua il parroco.
Appena arrivato a Taybeh don Raed ha creato la Olive Branch Foundation (Fondazione ramo d’olivo) che ha finanziato la realizzazione di un moderno oleificio e l’avvio di laboratori artigianali per la produzione di oggetti di legno d’olivo, sapone, candele, maftul (cuscus), ceramiche… La produzione dell’olio di oliva è un’attività ancestrale a Taybeh, praticata da 300 famiglie su 380, con oltre 30 mila olivi e altri 180 mila nei territori dei villaggi circostanti. Ma l’intifada e relative misure di sicurezza israeliane hanno reso difficile il mercato dell’olio di Taybeh, dimezzandone il prezzo e riducendolo a moneta di baratto.
La gente era così scoraggiata che non si curava più di raccogliere le olive. «Un anno, all’apertura delle scuole, molta gente si trovò senza soldi per pagare la tassa scolastica – racconta don Raed -. Dissi che potevano pagare con l’olio: sei taniche da 16 litri all’anno per ogni studente. Mi ritrovai con oltre trenta ettolitri d’olio d’oliva da smaltire, in compenso la gente trovò nuovo coraggio».
L’installazione a Taybeh del frantornio moderno, senza più dipendere da quello di Silwad, ha permesso di ottimizzare la produzione dell’olio con certi accorgimenti tecnici, come la raccolta ritardata delle olive e la frantumazione in giornata, cosicché l’olio può essere classificato come «extra vergine». «Nel 2003 – continua don Raed – abbiamo firmato un contratto con una Ong francese, Ater Ego, che assorbe gran parte della produzione locale: oggi l’olio di Taybeh viene venduto in 4 mila supermercati francesi, mentre i prodotti artigianali, tramite il commercio equo-solidale, vengono spediti in ogni parte del mondo».
Un’altra idea del vulcanico parroco, lanciata nel 2004, è la «lampada della pace», una ceramica a forma di lucerna tradizionale o di colomba, che oltre a dare lavoro e di che vivere dignitosamente ad una ventina di famiglie, vuole richiamare l’attenzione sulla Terra Santa, straziata da decenni di conflitto israelo-palestinese, in una situazione che a tutt’oggi sembra senza via di uscita. «Ci resta un ultimo rimedio: rivolgiamo al Signore la nostra preghiera per la pace in Terra Santa, attorno a un’idea semplice e simbolica: la lampada, con olio e luce, è un messaggio di pace da parte nostra e un segno di solidarietà da parte vostra» spiega il parroco sempre rivolto agli americani.
Il suo obiettivo è far giungere le «lampade della pace» a più di 100 mila chiese in tutto il mondo. «Con una tale catena di preghiera che unisce i cristiani di tutto il mondo, il buon Dio ascolterà il nostro appello, non avrà altra scelta!» conclude don Raed, volgendo lo sguardo accattivante anche agli indiani del Kerala.
Benedetto Bellesi