Il sogno di Jeff
Israele e Palestina: tra pareti abbattute e muri eretti
È possibile avviare un processo di riconciliazione, oggi, tra Israele e Palestina? Lo abbiamo chiesto all’antropologo e attivista isrealiano Jeff Halper, direttore del Comitato isrealiano
contro la demolizione delle case (Icahd).
Più di una volta la nostra rivista ha affrontato il tema del conflitto isrealiano- palestinese. Vorremmo chiedere se, oggi come oggi, vedi una qualche possibilità di riconciliazione fra le due parti.
Parlare di riconciliazione è prematuro. Questa può e deve avvenire soltanto dopo aver stabilito un accordo di pace. Ci sono stati in passato molti tentativi di dialogo tra israeliani e palestinesi; continuiamo sempre a dire che faremo lo sforzo di capirci di più, che ci conosceremo meglio, che parleremo dei nostri problemi… Purtroppo, sono tutti tentativi che, in realtà, non hanno mai funzionato; anche perché il governo israeliano non ha mai manifestato la volontà di smantellare, far cessare l’occupazione. Né che al governo ci fossero i laburisti, il Likud, o qualsiasi altro partito.
Chiaramente, quando i palestinesi entrano in dialogo con gli israeliani che fanno parte di un movimento di pace, si rendono conto che questi ultimi non sono in realtà capaci di influenzare la politica del loro governo e quindi il dialogo si esaurisce ben presto perché i palestinesi dicono: «Non possiamo normalizzare le relazioni, imparare a conoscere meglio voi israeliani, diventare amici e, nel contempo, continuare a subire l’occupazione». Bisogna eliminare l’occupazione dai territori palestinesi e poi si potrà iniziare a dialogare. Non possiamo mettere il carro davanti ai buoi.
Cosa ostacola l’inizio di un processo di normalizzazione e, quindi, di pace e riconciliazione?
Il vero problema è rappresentato dalla politica e dalle strategie politiche che vengono prima di ogni processo di riconciliazione. Ciò che mi sorprende sempre è il fatto che non vi sia odio fra la gente comune delle due parti in conflitto. Anzi, in questo senso, penso che siamo noi israeliani ad essere in difetto. Siamo indifferenti ai palestinesi, non ci importa di loro, non ci importa neppure di odiarli; semplicemente, viviamo la nostra vita. Loro sono arabi, vivono sullo sfondo, appartengono allo scenario, non influenzano la nostra vita, siamo convinti di potee fare a meno. L’economia israeliana sta andando bene, il turismo si sta riprendendo… gli israeliani si sentono tranquilli. Il fatto è che noi possiamo vivere tranquillamente con l’occupazione, non ci pensiamo neppure all’occupazione. Ecco il vero problema.
Per contro, la maggior parte dei palestinesi andrebbe anche d’accordo con gli israeliani… Tutto sommato, non credo che sentano odio verso di noi. L’anno scorso ho fatto parte di uno dei primi gruppi che sono riusciti ad entrare a Gaza rompendo l’assedio dopo l’operazione «Piombo fuso». Ero l’unico isrealiano. e c’erano un sacco di persone che mi chiamavano, mi invitavano per un caffè; alcuni, i più anziani, volevano perfino parlare ebraico. E non di politica, non volevano fare discorsi politici…si chiedevano semplicemente come si sarebbe potuti uscire tutti insieme da questa situazione, da questo marasma che si era creato. Era una conversazione fra gente comune che non discuteva di soluzioni «politiche» come quelle che si potrebbero prendere a livello governativo: gli isrealiani qui, i palestinesi dall’altra parte; meglio una soluzione che contempli uno stato unico, oppure due stati… Niente di tutto ciò. La conversazione partiva dal dato di fatto che ci fosse un “noi” da tenere presente, protagonista di tutta la vicenda: «Perché “noi” non possiamo semplicemente vivere in questo paese? “Noi”, israeliani e palestinesi. Già viviamo tutti nello stesso paese, perché non possiamo convivere tranquillamente?». Questo discorso, fatto da gente comune, mi ha colpito profondamente; è stato importante per me ascoltare ciò che la gente mi stava comunicando. Se loro avessero detto: «Noi palestinesi “dobbiamo” vivere con voi israeliani, siamo costretti a farlo, ma non lo vorremmo assolutamente», la situazione sarebbe stata radicalmente diversa. Ma quello che si stava invece dicendo è: «Siamo qui tutti insieme, allora viviamo in pace tutti insieme». E, lo diceva la gente comune, che è comunque la maggioranza. Su questa base potrebbe iniziare un cammino di riconciliazione, ma la premessa è, ovviamente, la possibilità di avere una vera pace.
E dal punto di vista di Israele?
Non è che la gente di Isreale sia di principio contro la pace; semplicemente agli israeliani non importa nulla di impegnarsi in un processo di pace. L’insistenza dei governi non è sull’idea di pace, ma su quella di sicurezza, cosa che convince la gente della necessità di continuare l’invasione, di costruire il muro, ecc..
Gli israeliani, per dirla molto brutalmente, possono convivere tranquillamente con l’occupazione, non trovano una seria motivazione per terminare con essa; non c’è una vera pressione internazionale che possa obbligarci ad agire diversamente, l’economia tira, le condizioni di vita della gente sono tutto sommato favorevoli, il terrorismo è in calo e ci si sente sicuri, quindi…
Il grande problema è che il ritornello della nostra classe dirigente, sia di sinistra che di destra, è sempre stato: «Gli “arabi“ (noi non usiamo il termine palestinese, perché non li riconosciamo come tali), sono fatti così, sono nemici permanenti, ci odiano, non cambieranno mai».
Uno si rende conto che la cosa è semplicemente ridicola, ma è ciò che gente comune crede. La gente dice: «Noi vorremmo la pace ma gli arabi non lo permetterebbero mai. Abbiamo lasciato Gaza e hanno iniziato a lanciarci dei missili, se ora abbandoniamo anche la West Bank sarebbe ancora peggio».
Anche coloro che non hanno mai partecipato direttamente all’occupazione, che non sono mai diventati coloni, sono però convinti che gli «arabi» ci vogliano buttare a mare. E se si dà eccessivo credito a questa visione, viene meno la fiducia nel trovare una soluzione politica al conflitto e cresce la tentazione di appoggiare i partiti più intransigenti nei confronti dei palestinesi e meno inclini a cercare soluzioni politiche e più favorevoli a quelle militari. È un circolo vizioso dal quale è difficile uscire.
La cosa veramente sorprendente è che pur essendo Israele una società aperta, il 90% degli israeliani ha approvato l’invasione di Gaza dell’anno scorso. È un dato incredibile, testimone di un sentimento assolutamente trasversale, che va ben al di là della dialettica politica fra destra e sinistra. Un sacco di gente di sinistra ha accettato l’idea che, per la nostra sicurezza, noi dobbiamo usare la mano dura nei confronti dei palestinesi.
Israele non vuole accettare nessuna responsabilità e preferisce presentarsi come una vittima. È un fenomeno che appare chiaro anche solo dalla lettura quotidiana dei giornali; per esempio, si giustifica la costruzione del muro per cercare di evitare che i “terroristi” vengano messi a contatto, si mischino con le loro “vittime”. Se tu sei la vittima non potrai essere considerato responsabile e Israele è proprio questo che non accetta: la responsabilità.
Chiaramente, per poter continuare ad essere la vittima ed evitare di assumerti le tue responsabilità è meglio non conoscere, essere lasciati nell’ignoranza delle cose. Lascia che ti faccia un esempio. Uno dei miei migliori amici, professore universitario in Israele, definisce il muro “lo steccato”. Gli sembra una parola migliore, più elegante. Gli ho detto varie volte: «Dammi 10 minuti che ti faccio fare un giro in macchina e ti faccio vedere questo «steccato di cemento alto 8 metri », ma lui si è sempre rifiutato, anche perché dopo averlo visto non potrebbe continuare a chiamare tranquillamente «steccato» un muro di quel genere. C’è quasi come uno sforzo conscio e deliberato da parte nostra di non vedere, di non vedere e di non sapere. Così possiamo continuare tranquillamente a giocare il ruolo di vittime…
Qual è il tuo sogno? Che paese vorresti lasciare nelle mani dei tuoi nipoti?
Vorrei che Israele fosse un unico stato democratico, non in un territorio con due stati differenti. Questo è il sogno. Oggi, però, ci troviamo in una situazione politica particolare in cui, se da una parte l’idea dei due stati va esaurendosi , occorre constatare realisticamente che non siamo ancora pronti per rivendicare l’idea di un unico stato. Ma cosa vorrei davvero arrivare a vedere, sarebbe un qualcosa di simile a ciò che era la Comunità Economica Europea 30 anni fa: una confederazione economica. In altre parole: Israele, Palestina, Giordania, Siria, Libano a formare un territorio in cui tutti siano liberi di muoversi, di lavorare, di vivere liberamente al suo interno: una sorta di piccola Schengen medio-orientale. Questa, credo, sarebbe un’alternativa possibile ed idonea alla nostra situazione. Lo dico perché non penso che la soluzione dei nostri problemi si possa trovare all’interno dei confini di un unico stato; sono tutti problemi regionali (acqua, sicurezza, sviluppo, rifugiati), che non possono essere circoscritti al territorio israeliano-palestinese. Bisogna guardare a un’unità più vasta, che comprenda anche i paesi arabi più vicini. Questo darebbe inoltre più sviluppo economico all’interno della regione. Peccato che, purtroppo, nessuno stia riflettendo e lavorando seriamente a questa idea.
Che cosa significa l’uso del bulldozer in un contesto di guerra? Che messaggio trasmette?
Nel contesto del conflitto che stiamo vivendo, i messaggi che vengono trasmessi sono essenzialmente due; il primo è: «Noi siamo al potere e non abbiamo bisogno di voi. Nessun discorso di uguaglianza, non siamo soci… questo è il nostro paese». Il secondo, conseguenza del primo, è: «Fuori di qui!».
Se tu neghi una casa ad una persona, è come se gliela negassi anche collettivamente, neghi a questa persona il diritto di appartenere a una comunità, il diritto di avere una patria. Questo è il messaggio di fondo che si vuole trasmettere se si demolisce la casa di un altro. La politica delle demolizioni portate avanti dal governo israeliano rappresenta in un certo senso la vera essenza del conflitto. Dal 1967 ad oggi Israele ha demolito più di 24 mila abitazioni palestinesi nei territori occupati. Il nostro lavoro per la riconciliazione consiste oggi soprattutto in questo aspetto. Quando noi ricostruiamo case lo facciamo anche in vista dell’avviamento di un processo di riconciliazione… Diciamo che il nostro lavoro di riconciliazione è oggi politico: consiste nell’essere presenti, nell’aiutare, appoggiare, ma sul territorio consiste nel resistere fisicamente alla demolizione. Resistiamo, ci incateniamo fisicamente alle case perché non vengano distrutte e per questa ragione veniamo anche arrestati… Inoltre, raccogliamo dei fondi per ricostruire case che sono state demolite. È un’azione pacifica di resistenza, non un atto militare. Negli ultimi 10 anni abbiamo ricostruito 165 case, siamo palestinesi e israeliani, uniti in un atto politico e non-violento di resistenza. Vi sono case che sono state distrutte anche due, tre, volte e noi ogni volta le ricostruiamo. Forse non si può materialmente parlare di riconciliazione, ma si tratta, comunque, diun tentativo per mantenere viva la solidarietà, la nostra voglia di vivere e lavorare insieme. Quando intravedi una soluzione politica dei conflitti allora anche la riconciliazione diventa possibile; i palestinesi vedono che vi sono israeliani che hanno voglia di impegnarsi per una pace giusta. Senza questo ponte politico fra le due parti non credo che si possa arrivare un giorno a parlare di riconciliazione.
Ugo Pozzoli