Guardare al futuro
Anna Maria Colella, direttore Arai
I bambini vanno aiutati a crescere nella propria famiglia e nel proprio paese. Ma talvolta questo non è possibile. Il confine tra lo stato di indigenza e l’abbandono non è sempre netto. Ecco il punto di vista della dottoressa Colella, fondatrice del primo (e unico) ente pubblico per le adozioni inteazionali.
Anna Maria Colella è un funzionario della Regione Piemonte che si occupa da anni della promozione e della tutela dei minori. Annovera tra i tanti incarichi quello di esperta per le politiche minorili presso l’Ufficio di gabinetto dell’allora ministro per la Solidarietà sociale Livia Turco. Inoltre, è stata componente della Commissione adozioni inteazionali e anche dell’Osservatorio nazionale minori.
Nel 2001 ha promosso la nascita del primo (e unico) ente pubblico italiano per le adozioni inteazionali, l’Agenzia regionale per le adozioni inteazionali (Arai) di cui è direttore.
Come è cambiata l’adozione internazionale negli ultimi anni?
«Lo scenario dell’adozione internazionale è cambiato molto. Occorre partire dalla Convenzione de L’Aja per poter parlare di adozioni inteazionali a tutto campo. Nel ‘93 a L’Aja è stato siglato un accordo, tra paesi di origine e paesi di accoglienza, dove si individuava come principio basilare la «sussidiarietà delle adozioni inteazionali»: le adozioni sono possibili, ma solo nel momento in cui il paese di origine non riesca a dare una risposta di famiglia al bambino in abbandono. Si tratta di un principio molto importante, riconfermato con la legge italiana di ratifica della Convenzione de L’Aja (legge n. 476 del 1998).
Lo stato italiano peraltro prevede in tale legge che anche gli enti che si occupano di adozione debbano sviluppare, nei paesi nei quali operano, progetti a sostegno dell’infanzia. Viene ribadito in tal modo un aspetto molto importante: la tutela dei diritti dei bambini passa soprattutto attraverso l’attenzione degli stati di origine, in quanto ciascun bambino deve essere aiutato e sostenuto innanzi tutto nel suo paese».
Il che sembra in contraddizione con l’adozione?
«Questo principio è stato al centro dell’attenzione di tutti (stato, regioni, enti locali) ed è un riferimento per le coppie che vanno ad adottare all’estero. In passato le famiglie avevano l’idea di adottare con facilità in un paese straniero, un bambino molto piccolo e sano. Questo era il desiderio di tanti e spesso lo è ancora.
La trasformazione di questi anni è passata anche attraverso la diffusione di una diversa cultura dell’adozione, promossa sia dai servizi sia dagli enti che si occupano di adozioni. L’enorme cambiamento riguarda soprattutto la maturazione, da parte delle coppie aspiranti all’adozione, di una maggiore consapevolezza delle caratteristiche dei minori in stato di abbandono: sono spesso bimbi in età scolare, con difficili storie famigliari alle spalle e con disabilità, appartenenti a gruppi di fratelli in adozione. Si è cercato sempre più di far capire la differenza tra il bambino desiderato e il bambino reale».
Pensa che questa consapevolezza sia stata raggiunta?
«Le coppie italiane che desiderano avere un figlio adottivo hanno ben compreso questa realtà. Ci sono coppie che si preparano ad accogliere gruppi di fratelli, bambini grandi, a volte con difficoltà sanitarie.
Abbiamo accompagnato diverse famiglie all’adozione di bambini di etnia rom di 8 – 9 anni: sono casi complessi, per nulla facilitati dal dibattito italiano su integrazione e interculturalità, che rende più difficile l’accoglienza di bambini con differenze somatiche e il loro inserimento nella rete sociale allargata. Un altro principio da tener presente è quello per cui le coppie italiane non possono realizzare adozioni “fai-da-te”, ma devono essere accompagnate da enti autorizzati, iscritti in un Albo presso la Commissione per le adozioni inteazionali (Cai) della Presidenza del Consiglio dei ministri. Una volta che si ottiene il decreto di idoneità all’adozione internazionale, rilasciato dal Tribunale per i minorenni, bisogna conferire l’incarico a un ente autorizzato, che, tra i vari compiti, annovera anche la preparazione delle coppie all’intero percorso adottivo. Nel panorama italiano ci sono circa 70 enti privati e un solo ente pubblico: l’Arai».
Ci sono ancora le coppie che vogliono un bimbo «piccolo, subito e sano»?
«Dipende molto sia dalla professionalità dei servizi socio-assistenziali e sanitari del territorio, sia dalla capacità dell’ente di preparare e accompagnare la coppia: l’accompagnamento è un percorso di crescita e consapevolezza.
Certi paesi d’origine chiedono alle coppie requisiti particolari e disponibilità specifiche. Se la relazione sociale, elaborata dall’équipe adozioni del territorio di residenza, riporta che la coppia non se la sente di adottare un bambino di colore o di etnia diversa, è difficile che quella coppia venga accompagnata ad adottare in un paese i cui bambini presentano differenze somatiche evidenti. Noi, però, dobbiamo sostenere le coppie e farle crescere nella loro disponibilità e nella consapevolezza che la realtà dei bambini dichiarati adottabili è complessa.
Ci sono enti che realizzano adozioni in paesi che presentano situazioni giuridiche, sociali e politiche in cui è molto difficile lavorare. Ne è un esempio il Vietnam, dove, di recente, sono emerse delle irregolarità nello svolgimento delle procedure adottive, che hanno portato all’arresto di alcuni cittadini vietnamiti incaricati della gestione di orfanotrofi collegati all’adozione».
In alcuni paesi, genitori in stato di indigenza acconsentono a «dare» i figli in adozione.
«Tutto dipende dalla capacità del paese di origine di controllare le proprie strutture e verificare che i bambini siano effettivamente in stato di abbandono. Alcuni, per esempio, prevedono che venga firmato un consenso all’adozione da parte della famiglia di origine; in tal caso è compito dei paesi d’origine controllare che il consenso non sia stato estorto alla madre per problemi di povertà o indigenza. In base alla nostra legislazione, infatti, un bambino può essere adottato se ne viene dichiarato lo stato di abbandono e di adottabilità.
Se si opera in stati dove la povertà è tale per cui maggiori sono le difficoltà legate all’ottenimento dei provvedimenti di abbandono, bisogna lavorare con cautela. Problemi di questo tipo non riguardano generalmente quei paesi dotati di strutture giuridiche e amministrative consolidate, come il Brasile e la Russia».
In casi di grande povertà il confine tra abbandono e impossibilità di occuparsi dei figli non è netto.
«Sono situazioni difficili da decifrare: alcuni bambini sono in abbandono solo a causa della povertà della famiglia d’origine? Fino a che punto la povertà stessa incide sull’incapacità educativa?
Una mamma molto povera, che vuole bene al suo bambino e lo vuole tenere, va aiutata; se, al contrario, non dimostra l’amore e l’attenzione necessari ad educare il figlio e a crescerlo, bisogna chiedersi se è più importante la mamma o il futuro del bambino.
È pur vero che bisogna avere delle alternative positive da offrire, come strutture adatte a sostenere le famiglie e i loro bambini e investire risorse nella cooperazione internazionale, nel sostegno alla mateità e all’infanzia. È estremamente importante che tutti, lo stato, le regioni, gli enti locali, gli istituti religiosi, le Ong, facciano la loro parte.
All’inizio della mia esperienza professionale nel settore non appoggiavo di buon grado le adozioni inteazionali, ritenendo che ciascun bambino dovesse essere aiutato nel proprio paese d’origine».
Qual è stata per lei la svolta?
«Nel 1998 sono andata in Brasile e ho visto per la prima volta bambini che crescevano negli istituti. Di fronte a questa situazione ci dobbiamo chiedere con che diritto diciamo no alle adozioni inteazionali, se queste possono essere uno strumento per dare una famiglia a un bambino. Se non ci sono legami affettivi e giuridici che tengono quel bambino nella sua terra, un altro paese può dargli gli affetti che non ha trovato. È fondamentale però avere e mantenere il rispetto per questi bambini, per la loro cultura, il loro passato, la loro lingua, la loro storia. Adottando un bambino dal Sud America o dall’Africa bisogna fare in modo che non perda le sue origini: la cultura del paese d’accoglienza va ad aggiungersi alla sua, quale risorsa in più.
Noi, come servizio pubblico che si occupa di progetti di cooperazione internazionale e di adozioni, cerchiamo di preparare il più possibile le coppie a questo passaggio, a non tagliare i legami con il paese d’origine del loro bambino. Per questo riteniamo che soggioare nel paese di provenienza del minore per un certo periodo di tempo sia utile per capire e conoscere meglio la sua cultura. Concordo in ciò con le autorità sudamericane, che richiedono una permanenza minima delle coppie di 40 – 50 giorni.
L’adozione internazionale è una sfida da vincere verso il futuro e rispetto a un mondo sempre più multietnico, caratterizzato dalla convivenza di culture diverse. Noi operatori del settore, occupandoci di bambini, dobbiamo per forza guardare al futuro. Grazie all’adozione internazionale si stringono legami anche tra paesi: una famiglia con figli di origini diverse può rappresentare un modello per migliorare la convivenza e l’integrazione nella scuola e nelle istituzioni».
Perché un’agenzia regionale?
«Questo servizio pubblico è nato per dare un’opportunità in più alle coppie piemontesi aspiranti all’adozione internazionale. Il fatto che possiamo prendere in carico solo coppie della regione è una positività, ma è anche un vincolo: siamo più vicini alla coppia, ma, allo stesso tempo, abbiamo il limite di non poter prendere in carico coppie di altre regioni, che magari hanno decreti di idoneità più ampi. A seguito di una Convenzione con le amministrazioni di Liguria e Val d’Aosta, dal 2010 anche le coppie residenti nelle due regioni possono avvalersi di questo ente pubblico».
Verso un ente nazionale?
«Ci sono altre regioni italiane che vedono positivamente la possibilità di poter istituire un servizio pubblico regionale nelle adozioni inteazionali. Se, da un lato, bisogna valorizzare gli enti privati già esistenti, considerato che alcuni di questi lavorano con molta competenza e professionalità, dall’altro lato sarebbe auspicabile che altre regioni diano vita a dei servizi pubblici in questo settore».
Marco Bello