Lhasa, nella morsa di Pechino

Tibet: viaggio attraverso il «paese reale»

È stata una teocrazia cruenta ed elitaria. Dopo l’invasione della Cina (1950),
la situazione non è migliorata. Il Tibet è diventato una regione – formalmente autonoma – su cui Pechino agisce con pugno inflessibile. I monasteri sopravvissuti alla chiusura sono strettamente controllati. I tibetani sono rinchiusi in carcere per ogni azione che contrasti con i voleri di Pechino. Gli stranieri possono accedere alla regione soltanto con mille limitazioni, mentre il Dalai Lama viene descritto come un nemico pubblico, da isolare e demonizzare. Il racconto di un viaggiatore occidentale entrato in Tibet clandestinamente.

Jamyang Gyatso, nome legale Lhundrup Kalsang, 29 anni, originario di Gyantse, monaco del monastero di Gyaltse Palkhor. Fu incarcerato nel dicembre del 1996 e condannato a cinque anni per aver distribuito copie di una preghiera di lunga vita composta dal Dalai Lama per il Panchen Lama (seconda figura per importanza del buddismo tibetano).
Lobsang Dawa, 28 anni, originario di Phenpo Lhundrup era monaco a Ganden. Fu arrestato il 7 maggio 1996 per «attività politiche» e condannato a 12 anni. Sey Khedup, 27 anni, era monaco a Sog Tsendhen. Fu incarcerato il 19 marzo 2000 per aver affisso ad un muro del Barkhor dei manifesti pro-indipendenza. Fu condannato nel dicembre dello stesso anno all’ergastolo. Lobsang Nyima, 30 anni, originario di Pashoe, era monaco nel monastero di Pomda. Fu incarcerato nell’agosto del 1997 e condannato a cinque anni per non aver partecipato ad un «lavoro di squadra» all’interno del convento.
Thinlay Choenden Samdup, 34 anni, originario di Phenpo Lhundrup. Era monaco nel monastero di Drepung quando fu incarcerato il 25 aprile del 1998. Fu condannato a quattro anni per aver distribuito volantini inneggianti all’indipendenza a Lhasa. Fu tenuto in carcere 18 mesi prima di ricevere una formale accusa. Migmar, 37 anni, originaria di Lhasa, impiegata nel settore delle telecomunicazioni. Fu arrestata nel gennaio 2001 e condannata a sei anni per aver guardato un video del Dalai Lama. Phuntsok Wangdu, 32 anni, di Lhasa, monaco a Ganden. Fu incarcerato il 7 marzo 1997 per non meglio chiarite attività politiche. Condannato a 14 anni.
Sono solo alcuni del «migliaio» di prigionieri politici detenuti nella prigione di Drapchi nel maggio del 2001.

Prima dei cinesi

Così vivono i tibetani in Tibet. Costantemente sotto controllo. Osservati e incarcerati per i più disparati motivi. Distribuire copie di una preghiera per il Dalai Lama equivale a «mettere in pericolo la sicurezza nazionale». Riunirsi in più di sei persone può significare «attività politiche» e garantire una dozzina di anni di carcere. Guardare un video del Dalai Lama ne garantisce sei. Possedere una bandiera tibetana, sette.
Però in fondo le cose per i tibetani non andavano molto meglio prima dell’invasione cinese. La teocrazia presieduta dal Dalai Lama, nonostante si ispirasse alla filosofia buddista, contraria all’uccisione e ai maltrattamenti, non si comportava secondo tali precetti. Le pene corporali anche cruente erano all’ordine del giorno. Henrich Harrer, che in Tibet passò sette anni tra il 1943 e il 1950, racconta di un uomo che aveva rubato una lampada dorata al burro da uno dei templi di Kyriong: «Gli furono pubblicamente mozzate le mani, e il suo corpo mutilato ma ancora vivo, fu avvolto in una pelle di yak bagnata. Quando smise di sanguinare fu gettato in un precipizio». Altre volte veniva praticata la fustigazione pubblica, che spesso portava alla morte in seguito a dolori lancinanti.
Altri reati erano puniti con la gogna, con lo sfregio o con il carcere a vita. La punizione per l’adulterio era il taglio del naso.
Non migliore era la situazione economica. Fino al 1959, la maggior parte della terra arabile era ancora organizzata attorno a proprietà feudali religiose o secolari lavorate da servi della gleba. Il monastero di Drepung, ad esempio, che era il monastero più grande del mondo, possedeva una delle più estese proprietà terriere del globo, con 185 feudi, 25.000 servi della gleba, 300 grandi pascoli e 16.000 guardiani di gregge. La ricchezza dei monasteri andava ai Lama di più alto rango, che spesso erano nominati Lama per ingraziarsi le famiglie aristocratiche, mentre invece la maggior parte del clero più basso era povero come la classe contadina dalla quale discendeva.
Secondo la giornalista Anna Louise Strong, che viaggiò nel Tibet nel 1959, nel 1953 la maggioranza della popolazione rurale, circa 700.000 persone su una popolazione totale di circa 1.250.000 abitanti, era composta da servi della gleba. Vincolati alla terra, veniva loro assegnata soltanto una piccola parcella fondiaria per poter coltivare il cibo necessario al loro sostentamento. Per loro non c’era accesso alle cure mediche né all’istruzione e trascorrevano la maggior parte del tempo lavorando per i monasteri, per i Lama di alto rango e per un’aristocrazia secolare, laica, che non contava più di duecento famiglie. Sostanzialmente, non erano altro che proprietà dei loro signori, che gli comandavano quali prodotti della terra coltivare e quali animali allevare.

Il lungo viaggio

Certo, se oggi il Tibet dovesse tornare libero la situazione non sarebbe quella di cinquanta anni fa. L’attuale Dalai Lama si considera mezzo buddista e mezzo marxista e, grazie anche all’esilio e alla conoscenza del mondo esterno che questo ha portato, ha più volte condannato molte delle pratiche medioevali del Tibet pre – cinese.
Nonostante ciò Pechino non ha mai voluto negoziare con il Dalai Lama. A prova del fatto che gli interessi cinesi in Tibet sono di carattere geopolitico ed economico e non ideologico. Ma la scintilla che, costantemente, infiamma i tibetani contro i loro invasori è invece di carattere strettamente ideologico. Ed è per questo che il controllo esercitato dalle autorità di Pechino sugli abitanti dell’altipiano raggiunge livelli paranoici. Alcune persone sono state incarcerate per aver recitato delle preghiere che contenevano le parole «Dalai Lama», altri per aver cercato tali parole su google.
Per evitare che il mondo si accorga di tutto questo, da quando hanno invaso il Tibet le autorità di Pechino hanno sempre vietato a tutti di visitare il tetto del mondo in completa autonomia. L’unico modo oggi possibile per andare in Tibet è con un viaggio organizzato da un tour operator cinese.
Ma io avevo una promessa da mantenere. Nell’aprile del 2007 conobbi Palden Gyatso. Monaco tibetano che aveva passato 33 anni nelle carceri cinesi per non aver denunciato il Dalai Lama e la sua «cricca reazionaria».
Dopo una lunga chiacchierata Palden mi disse: «Io non posso più tornare in Tibet. Vai tu e raccontami come è il paese delle nevi». Due mesi dopo ero sull’altipiano, ma non con un tour operator cinese. Palden mi aveva chiesto di raccontargli il Tibet, e non quello che i cinesi vogliono farti apparire come tale. Passai la frontiera nascosto in un camion insieme ad un pellegrino nepalese che tentava di raggiungere il monte Kailash, la montagna sacra ai buddisti, ai giainisti, ai bön e agli induisti.
Alle pendici del monte Kailash scesi dal camion, e da lì mi incamminai a piedi fino a Lhasa, passando dal monte Everest e dal villaggio natale del mio amico Palden. Percorsi più di 1.500 chilometri a piedi. Ottocento di questi in compagnia di un pellegrino che tornava a casa dopo aver percorso 108 circuiti sacri del monte Kailash. Sono pochi gli occidentali che hanno avuto la fortuna, e la sfortuna, di entrare in Tibet. Ed è anche grazie a questo che la Cina può contare su una costante disinformazione su ciò che vi accade.
Oggi chi parla di Tibet lo fa da Nuova Delhi o da Dharamsala, alcuni addirittura da Pechino. Solo pochi lo fanno da Lhasa. Ma, purtroppo, Lhasa ormai non è più Tibet. Il vero Tibet, quello dei pastori nomadi e dei monaci che resistono, non lo conosce quasi nessuno, e quindi nessuno ne parla. E le autorità di Pechino approfittano molto di questo.
Stando alle agenzie di stampa cinesi la repressione in Tibet è terminata da anni e il paese è una provincia cinese «perfettamente integrata». Potrebbe essere così per quanto riguarda Lhasa. Ma di sicuro non è così nell’altipiano.
Gli arresti indiscriminati continuano. Molti monasteri sono chiusi, altri sono aperti ma i monaci vi possono accedere solo in numero controllato. Ogni monastero può ricevere un numero di monaci massimo che non superi il 10% della sua capienza.
I monaci sono obbligati ad eseguire sedute di rieducazione e «lavori collettivi» con scadenze settimanali. Chi non partecipa finisce dritto dritto in carcere a subire torture di ogni tipo.
La ferocia della repressione è brutale, e lo è per un preciso motivo. I tibetani non mollano la presa. Nelle ultime manifestazioni di indipendenza, quelle del 2008, hanno partecipato persone che sono nate da genitori nati in un Tibet già occupato. Giovani «nati in seno al partito» come dicono in Cina.
E se le autorità di Pechino vietano l’ingresso a tutti lo fanno sì per nascondere le brutalità che stanno commettendo, ma soprattutto per evitare che il mondo si renda conto che il Tibet non è una provincia cinese. Nonostante le repressioni e le vessazioni, nonostante il tentativo sistematico di annullare la cultura tibetana questa è ogni giorno più viva.

Le hanno provate tutte

Fin dal 1950 i governanti di Pechino hanno speso le loro energie migliori per sottomettere il popolo tibetano. Prima l’invasione militare, poi la repressione religiosa, la Rivoluzione Culturale e infine l’immigrazione forzata han. Ma l’occupazione del Tibet si ferma lungo le due strade principali e nelle periferie delle città. I centri storici arroccati intorno ai monasteri, i piccoli villaggi delle verdi vallate, i laghi turchesi, le vette delle montagne, le interminabili lande popolate dai nomadi sono ancora Tibet.
Qui conobbi Lobsang, un ragazzo tibetano che ha studiato a Dharamsala grazie ad una borsa di studio. Una volta rientrato in patria si è trovato costretto a fare, da laureato, il cuoco per un’agenzia di viaggio nepalese, perché chi ha studiato dal Dalai Lama è considerato un reazionario. Lobsang ha un’idea molto chiara delle relazioni Cina – Tibet. Un giorno mi disse: «I cinesi hanno il terrore dei tibetani. Loro, sono oltre 1,3 miliardi di persone, hanno la bomba atomica, uno degli eserciti più potenti del mondo, temono un paese con sei milioni di abitanti malnutriti, senza esercito e senza aiuti da nessuno».
Ed è forse anche questo concetto che i cinesi vogliono nascondere in Tibet. In Cina parlare di Tibet è tabù.  La pena di morte, lo sfruttamento dei lavoratori, la giustizia sommaria sono tutti argomenti scottanti ma per i cinesi l’argomento più delicato di tutti è proprio il Tibet.
È sorprendente come l’economia più forte del mondo possa essere messa in crisi da un gruppo di pastori nomadi, analfabeti e malnutriti. Ma la risposta è semplice. Allo stato attuale il Tibet rappresenta la più grande sconfitta della Repubblica Popolare Cinese, sia sul piano politico – militare che sul piano delle relazioni inteazionali. Le pressioni dei gruppi filo – tibetani all’estero, il continuo peregrinare del Dalai Lama e le interrogazioni all’Onu sono una fonte di imbarazzo per un paese che si propone come un nuovo leader mondiale, non solo nel campo economico. E i motivi delle incarcerazioni e delle condanne lasciano trapelare quello che sostiene Lobsang. I cinesi hanno paura. Paura che l’immagine di una superpotenza forte, compatta e inarrestabile venga messa in dubbio da un pugno di monaci e qualche pastore nomade. Come mi disse Lobsang: «Mi sembra la storia dell’elefante e il topolino che raccontano in India». 

Di Flaviano Bianchini

CRONOLOGIA

IL TIBET FINO ALLA «GUERRA DELL’OPPIO»

Paleolitico superiore (50.000 anni fa) – Primi insediamenti umani in Tibet.
VII secolo dopo Cristo – Sotto la guida dell’Imperatore Songtsen Gampo il Tibet conquista parte della Cina e dell’India. L’abile Songtsen Gampo sposa una donna cinese e una nepalese per proteggere i confini dell’Impero.
770 – Inizia la diffusione del buddismo sull’altipiano tibetano.
823 – Dopo decenni di lotte un trattato di pace con la Cina sigla che «Il Tibet e la Cina devono fermarsi alle frontiere che stanno occupando ora. Tutto ciò che sta a est è terra della Grande Cina, tutto ciò che sta a ovest è, senza alcun dubbio, territorio del Grande Tibet. D’ora in poi da nessuna delle due parti deve provenire minaccia di guerra o di confisca di territori» ancora oggi inciso sul portone del Jokang a Lhasa.
1240 – I mongoli di Gengis Khan conquistano il Tibet praticamente senza colpo ferire.
1271 – 1368 – Kubulai Khan imperatore della Cina. Inizia la dinastia degli Yuan.
1407 – I mongoli vengono espulsi dal Tibet. Inizia l’espansione del buddismo sull’altipiano. In questi anni sorgono tutti i grandi monasteri del Tibet.
1578 – Altan Khan, imperatore della Mongolia, proclama Seunam Gyamtso Dalai Lama (letteralmente Oceano di Saggezza), inizia il dominio dei Dalai Lama sul Tibet.
1642 – Il quinto Dalai Lama instaura regolari rapporti diplomatici con la Cina.
1696 – 1700 – Muore il quinto Dalai Lama. Truppe cinesi invadono e saccheggiano il Tibet. Il sesto Dalai Lama è costretto all’esilio in Mongolia.
1793 – Trattato dei venti punti. Il Tibet è de facto un protettorato cinese.
1839 – Guerra dell’oppio in Cina. Il Tibet riacquista indipendenza.

LA PERDITA DELL’INDIPENDENZA

1902 – 1904 – Truppe inglesi entrano in Tibet. Sbaragliano completamente l’esercito tibetano (gli inglesi conteranno tre morti, i tibetani quasi tremila) e arrivano a Lhasa. Il XIII Dalai Lama fugge in Mongolia. Il Tibet entra nella sfera d’influenza britannica.
1906 – Trattati sino – inglesi ridanno alla Cina una certa influenza sul Tibet.
1912 – Proclamazione della Repubblica cinese a Lhasa. Rivolta dei monasteri. Il Dalai Lama fugge in India.
1913 – Cacciata dei cinesi. Il XIII Dalai Lama torna in patria e il Tibet dichiara l’indipendenza dalla Cina.
1914 – 1933 – Il XIII Dalai Lama tenta di modeizzare il Tibet. Invia delegazioni all’estero, visita Pechino e riceve delegazioni russe e inglesi. Tenta anche di modeizzare l’esercito ma si scontra continuamente con il clero conservatore.
1934 – Dopo la morte del Dalai Lama il Tibet è scosso da continue lotte intee per la successione. I monaci e gli aristocratici governano il Tibet a tutti i livelli, sono consentite schiavitù e servitù della gleba, la terra è tutta proprietà di monasteri e latifondisti. Nel frattempo in Cina l’esercito di liberazione popolare guidato dal giovane Mao Zedong inizia una lunga guerriglia contro le truppe nazionaliste di Chang Kay Shek e contro i vari signori della guerra presenti in Cina.
1939 – 1945 – Seconda Guerra Mondiale. Il Tibet si dichiara neutrale.
1947 – L’India diventa indipendente.
1949, primo ottobre – Nasce la Repubblica Popolare Cinese. Mao Zedong ne è il leader indiscusso.
1950 – «Volontari» cinesi partecipano alla guerra in Corea. Viene annunciata l’imminente «liberazione» del Tibet.
1950 – 1951 – Truppe cinesi invadono il Tibet. Accordo in 17 punti per la «liberazione pacifica del Tibet». Nasce l’Anvd, l’esercito guerrigliero tibetano.
1954 – Prima riforma agraria. In tutta la Cina (Tibet compreso) la terra viene confiscata ai latifondisti e distribuita ai contadini.
1954 – 1974 – «Guerra dei vent’anni». Ribelli Kham si fronteggiano alle truppe cinesi. La Cia (servizi segreti Usa) li appoggia.
1958 – «Grande balzo in avanti»:  vengono collettivizzate le terre. I contadini che prima lavoravano per un monastero ora lavorano per una comune. Viene obbligato tutto il Tibet a coltivare riso anziché orzo, ma a quelle quote i raccolti sono miseri.
1959 – Rivolta di Lhasa. In occasione del capodanno tibetano decine di migliaia di tibetani si ribellano all’occupazione cinese. L’esercito apre il fuoco sulla folla. Circa 80.000 morti in tre giorni. Il Dalai Lama denuncia l’accordo in 17 punti e fugge in India. Secondo l’Inteational commission of jurists (Icj), commissione sotto l’egida dell’Onu, la Cina è responsabile di genocidio. Iniziano le repressioni religiose.
1960 – 1963 – Prima tensione e poi rottura tra Mosca e Pechino. L’Unione Sovietica richiede indietro i prestiti in grano. Grave carestia in tutta la Cina. In Tibet si parla del 10 -15% della popolazione morta di fame.
1966 – «Rivoluzione culturale proletaria». Le Guardie rosse distruggono tutti i luoghi di culto del Tibet.
1972 – Incontro tra Nixon e Mao. Le speranze di un aiuto statunitense alla causa tibetana si infrangono.
1976 – Morte di Mao Zedong, fine della Rivoluzione culturale. Dopo dieci anni sono rimasti in piedi solo otto monasteri con un migliaio di monaci. Nel 1959 i monasteri erano oltre 6.000 e i monaci più di 100.000.
1977 – Deng Xiaoping promuove l’immigrazione forzata in Tibet. In venti anni oltre otto milioni di cinesi han si spostano in Tibet. I tibetani diventano una minoranza.
1987 – Rivolte in Tibet represse nel sangue.
1989 – Manifestazione di piazza Tien Anmen. Caduta del muro di Berlino. Premio Nobel per la Pace assegnato al Dalai Lama. Grande rivolta in tutto il Tibet. Hu Jintao, allora governatore del Tibet, impone la legge marziale e reprime la rivolta nel sangue. Il Parlamento europeo lo condanna. Deng Ziao Ping si congratula con lui attraverso un famoso telegramma.
1991 – Anno internazionale per il Tibet.
1995 – Rapimento e sparizione dell’VIII Panchen Lama (seconda figura per importanza del buddismo tibetano).
1997 – Morte di Deng Xiaoping.

IL TIBET OGGI

Anni 2000 – La Cina diventa una superpotenza economica. Per molti paesi rappresenta il primo partner economico e il Dalai Lama inizia a vedersi rifiutare da diversi governi.
2007 – Il Dalai Lama in visita in Italia non viene ricevuto né dal Papa né dai rappresentanti del governo italiano. Il premier Romano Prodi, intervistato sull’argomento, risponderà «ragioni di stato».
2008 – Prima delle olimpiadi di Pechino in Tibet scoppia l’ennesima rivolta nuovamente repressa nel sangue. Le olimpiadi si svolgono regolarmente. A giornalisti e atleti non è però concessa libertà di movimento.
2009 – Con la crisi economica globale la Cina diventa l’ancora di salvezza. Si affievoliscono sempre più le speranze di indipendenza dei tibetani.

(a cura di Flaviano Bianchini)

Stanno «sotto» gli interessi di Pechino
Ferro, rame, oro, acqua

La Cina non può fare a meno del Tibet. Il boom economico cinese va supportato da ingenti quantità di materie prime. Metalli, petrolio e, soprattutto, acqua. Il Tibet e il Turkestan sono tutto questo. Il Turkestan è il petrolio. Il Tibet i metalli e l’acqua. I cinesi si sono accorti che, oltre ad andare in Africa o in America Latina, possono rifoirsi di metalli in casa loro.
Nel 1999 il ministero delle Risorse e dei Territori, ha inviato un migliaio di ricercatori, geologi e ingegneri minerari sull’altipiano. Divisi in 24 brigate di ricerca, hanno realizzato una mappatura precisa e dettagliata di tutti i giacimenti presenti sul tetto del mondo. L’operazione, conclusasi nel 2006, è costata circa 44 milioni di dollari. Ma non appena ricevuti i primi dati delle ricerche Pechino ha approvato la costruzione della ferrovia per Lhasa. Costo dell’operazione: quattro miliardi di dollari. Ma ampiamente ripagabili.
Il fabbisogno di ferro, per esempio, è aumentato da 186 milioni di tonnellate nel 2002 a 350 milioni nel 2007. Il solo ingresso della Cina sul mercato internazionale del ferro ha fatto quasi triplicare il prezzo di questo metallo. E lo stesso vale per l’oro, per il rame e per la bauxite. Ma ora Pechino ha scoperto che sul «Tetto del mondo» giacciono un miliardo di tonnellate di ferro e 40 milioni di tonnellate di rame. Nel 2007 la Cina ha superato il Sudafrica nella classifica dei paesi produttori di oro e tutto questo oro arriva proprio dal Tibet. Secondo le stime delle brigate di ricerca sotto il suolo del Tibet giacciono minerali per un valore complessivo di oltre 150 miliardi di dollari. Il che giustifica le spese per la costruzione della ferrovia per Lhasa, il suo ampliamento fino a Shigatze, il finanziamento delle brigate di ricerca e la repressione di ogni forma di protesta. Non saranno certo i monaci a fermare Pechino in questa sua fame di metallo. L’Occidente lo sa.

Per Pechino Tibet significa metalli, ma significa anche acqua. Il 48% della popolazione mondiale, l’82% di quella asiatica, vive grazie all’acqua del Tibet. Da esso si alimentano i bacini del fiume Giallo, Azzurro, Gange, Indo, Sultej e Bramaputra. Controllando la regione, la Cina controlla l’approvvigionamento di acqua di quasi metà della popolazione mondiale.
Ma a tutto questo i tibetani non ci stanno. E continuano a ribellarsi con tutti i loro mezzi. La stragrande maggioranza di loro che, costantemente, scendono in piazza per manifestare contro la Cina e il suo esercito di liberazione popolare non ne sa nulla dei giochi politico – ecologici – strategici intorno al loro Paese. Loro sanno che il Dalai Lama, la loro indiscussa guida spirituale, è costretto all’esilio da ormai cinquanta anni; sanno che le terre sterili del Tibet non producono cibo a sufficienza per l’immigrazione forzata promossa da Pechino; sanno che i monasteri, centri nevralgici e vitali del Tibet, sono stati prima distrutti, poi ricostruiti ed infine svuotati; sanno che non hanno libertà di stampa, di informazione, di preghiera e di religione; sanno che devono rispondere a dei governanti che non parlano la loro lingua e che non si vestono come loro; sanno che ovunque vanno e qualsiasi cosa facciano rischiano di essere considerati reazionari e quindi incarcerati e torturati. Questo a loro basta. Non gli serve di sapere altro.

Il Dalai Lama invece sa perfettamente gli interessi che ci sono dietro (sarebbe meglio dire sotto) la sua terra. Ed è per questo che sono ormai anni che non chiede più l’indipendenza del Tibet. Molti tibetani non sono d’accordo con la linea morbida adottata da Tenzin Gyatso. Ma egli sa perfettamente che, allo stato attuale delle cose, la Cina non può fare a meno del Tibet. E sa anche che, da quando c’è la crisi, è tutto il mondo globalizzato che non può fare a meno del Tibet. O meglio, non può fare a meno delle risorse che la Cina preleva al Tibet. L’economia cinese è la pezza che ha arginato, seppur solo temporaneamente, la crisi mondiale e le sue conseguenze (l’economia americana in crisi ha chiesto prestiti alla Cina e li ha ricevuti dando respiro all’economia, anche se in modo temporaneo). Ma questo rammendo si basa sulle risorse del Tibet (l’aumento dei prezzi delle materie prime è stata una delle cause della crisi, e la Cina ha immesso nuove materie prese da Tibet e Turkestan). Ma non possiamo pensare che l’economia continui a crescere all’infinito, in un mondo dove le risorse sono finite. 

Flaviano Bianchini

Flaviano Bianchini




Cana (11) Un protagonista delle nozze: il vino dell’abbondanza

Il racconto delle nozze di Cana (11)

«La terra darà i suoi frutti diecimila volte tanto e in una vite saranno mille tralci e un tralcio farà mille grappoli e un grappolo farà mille acini e un acino farà un kor [1] di vino (2Baruc XXIX,3-5).
Quando Giacobbe, il patriarca padre dei dodici figli che daranno vita alle dodici tribù di Israele sta per morire, benedice Giuda con queste parole:
«Egli lega alla vite il suo asinello e a una vite scelta il figlio della sua asina, lava nel vino la sua veste e nel sangue dell’uva il suo manto; scuri ha gli occhi più del vino e bianchi i denti più del latte» (Genesi 49, 11-12).
è l’unico testo in tutta la Toràh che accenna espressamente al re Messia:
«Il targum Onqelos [dal 60 a. C. al sec. II d. C.] applica questo versetto al re Messia. La vite simboleggia Israele. Il termine il suo asinello è interpretato come “la sua città” cioè Gerusalemme. La vite è Israele di cui sta scritto: Io ti avevo piantato come vigna pregiata [Ger 2,21]. L’espressione figlio della sua asina è interpretata come: “Essi edificheranno il suo santuario”, dove il termine asina (’aton) è riferito per significato al termine “ingresso” (’iton) del tempio, che ricorre nel profeta Ezechiele (cf Ez 40,15). Il targum presenta ancora un’altra interpretazione. La vite sono i giusti. Il suo asinello sono “coloro che si occupano dello studio della Toràh”, in riferimento al testo: Voi che cavalcate asine bianche [Gdc 5,10]. L’espressione lava nel vino la sua veste significa “la sua veste sarà di porpora preziosa”, il cui colore è come quello del vino» (cf Rashì, Genesi 409-410).
Un asino, una vite, il Messia
In Is 49,12 si conclude che gli occhi sono iniettati di vino (sangue di vite): «Scuri ha gli occhi più del vino e bianchi i denti più del latte». Avere gli occhi scuri, cioè rossi di vino, nel contesto, significa essere talmente pieni dalla Toràh da essee sommersi fino agli occhi: come un recipiente pieno che straborda. In Es 20,18 si dice che il popolo vedeva i suoni con cui Dio si rivelava la montagna del Sinai. Ascoltare e vedere sono quindi sinonimi. Non basta ascoltarla con gli orecchi perché la Toràh deve anche «uscire» dagli occhi, deve riempirli, perché essa fa vedere il Signore. Occhi iniettati di vino è dunque sinonimo di conoscenza profonda della Parola del Signore. Chi vede la Toràh che ascolta ha compreso la rivelazione del Sinai.
Il tempo del Messia, prefigurato dal targum sul testo di Gen 49,10-12, sarà segnato da un’abbondanza strepitosa di vino e latte. La terra di Giuda, notoriamente abbastanza arida diventerà florida e irrigata dal vino e dal latte: una terra dove scorre «latte e miele» (Es 3,8.17, ecc.). Poiché i due versetti si riferiscono direttamente al Messia, il vino è un’allusione all’assemblea di Israele che riceve la Toràh, mentre l’asinello e il figlio d’asina sono un’allusione al Messia: «Chi vede (in sogno) un vitigno scelto, aspetti il Messia, secondo quanto fu detto: “Egli lega alla vite il suo asino ed a vitigno scelto il figlio della sua asina”» (Talmud, trattato Berakòt/Benedizioni, 57a). Gesù nel suo ingresso a Gerusalemme per andare all’appuntamento con la sua morte si presenta come il Messia della discendenza di Davide che viene a dorso non di un cavallo, simbolo di guerra e di violenza, ma di un asino, strumento di lavoro e di lavoro pesante: «Gesù, trovato un asinello, vi montò sopra, come stà scritto: Non temere, figlia di Sion! Ecco, il tuo re viene, seduto su un puledro di asina» (Gv 12,14-15; cf Zc 9,9-10). Il Messia che viene a dorso di un asino è colui che porta l’unità nel popolo di Dio, ma porta anche la Toràh al compimento pieno, cioè a comprensione universale.
Il giogo della Toràh
Nella stessa benedizione di Giacobbe in Gen 49,14-15 la tribù di Ìssacar è paragonata ad un «asino robusto … ha piegato il dorso a portare la soma». Secondo la tradizione ebraica Ìssacar è la tribù che si dedica interamente allo studio della Toràh: «Egli porta su di sé il giogo della Toràh, come un asino robusto che è caricato di un fardello pesante [cf anche Midràsh Genesì Rabbà XCXC, 10] (Rashì, Genesi 411). Il vino è l’abbondanza della Toràh, mentre l’asino è colui che porta il peso della Toràh. L’asino nel giudaismo è simbolo dello studio della Toràh per la sua costanza (cocciutaggine) e fedeltà a sopportare ogni peso (e lo studio è un peso notevole). A questi testi si ispira anche Gesù quando invita i suoi ascoltatori ad imitarlo: «Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore … il mio giogo infatti è dolce e il mio peso leggero» (Mt 11,29-30), come lui stesso darà l’esempio quando si carica non più del leggero peso della Parola, ma del giogo della croce che in questo contesto assume il valore di un nuovo monte Sinai da cui non scende più una Toràh scritta sulle fredde tavole di pietra, ma la persona stessa di Dio, nell’uomo e Figlio di Dio, Gesù: «Ed egli, portando la croce, si avviò verso il luogo del Cranio … dove lo crocifissero» (Gv 19,16-18). Da questo momento non è più il vino il simbolo della nuova Toràh, ma lo Spirito del risorto che egli consegna nel momento stesso in cui si affida al Padre suo e alla sua volontà di salvezza: «E, chinato il capo, consegnò lo Spirito» (Gv 19,30).
Inondazione di vino
In Gen 49,11 (v. sopra) l’abbondanza del vino è così grande che vi sarà bisogno di un asino per ogni vite tanto il raccolto sarà abbondante. Scrive l’apocrifo Apocalisse greca di Baruc (o 2Baruc), databile sec. I d. C.:
«La terra darà i suoi frutti diecimila volte tanto e in una vite saranno mille tralci e un tralcio farà mille grappoli e un grappolo farà mille acini e un acino farà un kor di vino. E coloro che avevano avuto fame saranno deliziati e, ancora, vedranno meraviglie ogni giorno. Venti. Infatti, usciranno da davanti a me per portare ogni mattina odore di frutti profumati e, al compimento del giorno, nubi stillanti rugiada di guarigione. E accadrà in quel tempo: scenderà nuovamente dall’alto il deposito della manna e in quegli anni ne mangeranno perché loro sono quelli che sono giunti al compimento del tempo. E accadrà dopo ciò: quando il tempo della venuta dell’Unto sarà pieno ed egli toerà nella gloria, allora tutti coloro che si erano addormentati nella speranza di lui risorgeranno. E accadrà in quel tempo: saranno aperti i depositi nei quali era custodito il numero delle anime dei giusti ed esse usciranno e la moltitudine delle anime sarà vista insieme, in un’unica assemblea di un’unica intelligenza, e le prime giorniranno e le ultime non si dorranno. Sapranno infatti che è giunto il tempo di cui è detto: è il compimento dei tempi. Le anime degli empi, invece, quando vedranno tutte queste cose, allora soprattutto si scioglieranno. Sapranno infatti che è giunto il loro supplizio ed è venuta la loro perdizione» (2Baruc XXIX,3.5-8-XXX,1-5; testo in P. Sacchi (a cura di), Apocrifi dell’Antico Testamento, I, Milano, TEA 1990, 302-203).
Lo stesso concetto è espresso dai Padri per i quali il tempo messianico sarà caratterizzato dall’immagine delle «viti che avranno ciascuna diecimila ceppi e su ogni ceppo diecimila rami e su ogni ramo diecimila tralci e su ogni tralcio diecimila grappoli e su ogni grappolo diecimila acini e ogni acino, schiacciato, darà venticinque metrète [2] di vino» (Ireneo, Contro le Eresie, 5,33,3). Un altro apocrifo del sec. II a.C., il libro di Enoch, anch’esso del genere delle apocalissi, prefigura l’era messianica come un tempo di abbondanza strepitosa che descrive come una inondazione di vino:
«E in quei giorni … si pianterà su di essa [la terra] ogni sorta di alberi piacevoli; vi si coltiveranno delle vigne, e la vigna che vi sarà piantata darà vino a sazietà; e ciascun chicco seminato in essa produrrà mille misure ciascuno, e una misura d’olivo produrrà dieci pressoi d’olio» (Enoch 10,18-19).
Il vino del riscatto
Il tema vino/vigna ha una valenza fortemente messianico-escatologico (Is 55,1; Jer 2,24; Am 9,13-15; Zc 9,17) perché la venuta del Messia è vista come una festa nuziale dove il vino abbonda in misura straripante: il profeta Amos avverte che «i monti stilleranno il vino nuovo e le colline si scioglieranno» (Am 9,13), mentre Isaia parla del tempo del Messia come di un sontuoso banchetto senza eguali, dove non mancherà certamente il vino (Is 25,6-8; cf 55,1). I monti e le colline sono una allegoria per indicare i Patriarchi e le Matriarche come leggiamo nel targum Neofiti a Dt 33,15: «[La terra] che produce buoni frutti per i meriti dei nostri padri, che somigliano ai monti, Abramo, Isacco e Giacobbe e per i meriti delle madri, che somigliano alle colline, Sara, Rebecca, Rachele e Lia». L’abbondanza del vino nell’era messianica sarà il riscatto di tutta la storia d’Israele perché alla gioia della nuova alleanza parteciperanno anche i Patriarchi e le Matriarche, cioè tutto il popolo di ieri, di oggi e anche di domani, come ci garantisce anche il targum Onqelos a Gen 29,12: «I suoi monti diventeranno rosseggianti per le sue vigne, i suoi colli distilleranno vino» (cf anche gli altri targumìm: Jerushalmì I e II e Neòphiti allo stesso versetto).
Si avrà un’abbondanza tale di vino che si offrirà gratuitamente a quanti lo vorranno: «O voi tutti assetati, venite all’acqua, voi che non avete denaro, venite, comprate e mangiate; venite, comprate senza denaro, senza pagare, vino e latte» (Is 55,1). Emerge chiaro che il vino è sempre la Toràh, la Parola di Dio per cui all’epoca del Messia l’abbondanza del vino significa l’abbondanza della Parola che non avrà più bisogno di scuole particolari perché tutti la insegneranno a tutti: «poiché da Sion uscirà la Legge e da Gerusalemme la parola del Signore» (Is 2,1-5). Giovanni esprimerà questo esito con il solenne ingresso del «Lògos» che «era dal principio» ed irrompe nella storia (cf Gv 1,1.14). Israele è simboleggiato dalla vite che Dio ha divelto dall’Egitto e trapiantato nella terra promessa (Sal 80/79,9) e per questo egli legherà i tralci, cioè tutte le componenti d’Israele tra di loro, ma legherà anche se stesso al popolo d’Israele. Il Re Messia non solo unirà le diverse anime del popolo in unico sentimento, ma sarà anche l’esegeta della Toràh che così sarà compresa e capita da tutti i popoli che formeranno la nuova umanità messianica (cf Gv 1,18). è l’era che chiude definitivamente la carestia di Am 8,11-12.
Nel segno di un sorriso
Il vino sarà così abbondante da sostituire anche l’acqua: il versetto «lava nel vino la sua veste e nel sangue dell’uva il suo manto» richiama anche il sangue del sacrificio dell’Agnello che lava le vesti di coloro che vengono dalla tribolazione: «Sono quelli che vengono dalla grande tribolazione e che hanno lavato le loro vesti, rendendole candide nel sangue dell’Agnello» (Ap 7,14). è un sangue che rende candida la propria identità e la propria adesione alla risurrezione di Gesù, passando attraverso la morte. Anche la comunità di Qumran prepara il banchetto per i giorni del Messia, cioè per gli ultimi giorni e si mangerà pane e mosto che saranno bevande esclusive di questo banchetto escatologico (cf 1QSa II,11-12). Allo stesso modo anche la Pasqua ebraica che anticipa quella della fine dei tempi è impeiata su quattro coppe di vino, sintesi della storia della salvezza (1a coppa: la creazione; 2a coppa: l’elezione d’Israele in Abramo; 3a coppa: l’esodo [è la coppa che Gesù prende nella sua ultima cena in Ma 14,25; Mt 26,29; Lc 22,18] e infine la 4a coppa con cui si conclude il canto dell’Halle (Sal 113/112-118/117) che altro non è se non l’eco dei cinque temi della Rivelazione: l’uscita dell’Egitto; la divisione del Mar Rosso; il dono della Toràh; la risurrezione dei morti; le tribolazioni del Messia (cf Serra, Contributi 248).
Una caratteristica del tempo messianico sarà il «sorriso» qui indicato con il bianco dei denti a motivo del molto latte bevuto. Il talmud babilonese spiega l’espressione della benedizione di Giacobbe a Giuda: «Denti bianchi da latte. Ha detto Rabbì Jeudà: È migliore colui che rende bianchi i propri denti al proprio compagno rispetto a colui che gli dà da bere del latte» (Ketubot 111b). Rendere bianchi i propri denti al compagno è espressione tipicamente orientale per dire «sorridere», cioè mostrare i denti bianchi. è più importante nella vita un sorriso che nutrirlo. Il sorriso, l’accoglienza, la disponibilità sono superiori a dare da mangiare, cioè dare cose materiali.
Questa attitudine di chi crede in Dio è bene espressa nella Mishnàh, trattato Pirqè Avot /Massime dei Padri I,15 in cui a nome di Shammài s’insegna: «Fa del tuo studio un’occupazione abituale; parla poco, ma fa molto [= fai pochi voti, ma pratica molto la carità] e accogli ogni persona con volto sereno». Quando una persona accoglie un’altra persona con un sorriso, è segno che il Messia è già arrivato.
La vite dello Sposo che è Cristo
Anche il Ct si proietta in un contesto messianico quando la sposa conduce lo sposo nella casa della madre: «Ti condurrò e ti farò entrare nella casa di mia madre e tu mi insegnerai: ti darò a bere del vino aromatico, del succo del mio melograno» che il targum commenta: «Io ti condurrò, o Re Messia, e ti farò entrare nel mio Tempio; e tu m’insegnerai a temere il Signore e a camminare nelle sue vie. Là ci nutriremo … e berremo il vino vecchio tenuto in serbo nei suoi grappoli fin dal giorno che fu creato il mondo». Il vino è creato da Dio nei giorni della creazione e conservato per il grande giorno del Messia (cf Talmud di Babilonia Berakot 34b = BSanhedrin 99a; Jlqut Chimoni a Gen 2,8). In Gv 2,10 l’arcitriclino rimprovera lo sposo con parole identiche: «Tu hai tenuto in serbo il vino buono fino ad ora».
L’apocrifo dell’AT, Apocalisse di Baruc (sec. II d.C.) presenta la vigna come «l’albero che sedusse Adamo» e che Dio maledisse, strappando la vite e annegandola nel diluvio universale. Noè però dopo il diluvio, piantò tutte le piante che trovò, compresa la vite, ma prima di piantarla memore della rovina del patriarca Adamo chiese a Dio consiglio. Dio gli suggerì di piantarla:
«Levati, Mosè, pianta la vite, poiché così dice il Signore: l’amarezza in essa verrà mutata in dolcezza, e la maledizione che è in essa diverrà benedizione; e quanto verrà tratto da lei, diverrà il sangue di Dio; e come attraverso di lei l’umanità ha attirato la dannazione, così essi attraverso Gesù Cristo, l’Emmanuele, riceveranno con essa la loro chiamata verso l’alto e il loro ingresso nel paradiso» (2Baruc 4,15).
Per rivelare al faraone la Presenza del Dio liberatore, Mosè cambia l’acqua del Nilo in sangue (Es 4,9; cfr 7,14-25), ora nel NT, il nuovo Mosè cambia l’acqua di Cana in vino, prefigura del suo sangue che sarà versato sulla croce per lavare i figli dell’antica e della nuova alleanza. L’autore del racconto non ci spiega espressamente qual è il senso del racconto, ma ci obbliga a non fermarci alla superficie e a pescare nel pozzo profondo della Parola. Una cosa però è chiara: A Cana Gesù «manifestò la sua gloria e i suoi discepoli cedettero in lui» (Gv 2,11). Il senso finale del simbolismo del vino è la Parola/Lògos/Dabàr che rivela il Cristo, cioè il suo vangelo, la sua Persona come splendidamente sintetizza Sant’Agostino:
«… di quelle nozze nelle quali lo sposo è Cristo … Lo sposo delle nozze di Cana, infatti, cui fu detto: Hai conservato il buon vino fino ad ora, rappresentava la persona del Signore. Cristo, infatti, aveva conservato fino a quel momento il buon vino, cioè il suo Vangelo» (Omelia 9,2 (PL 35, 1459).
Il vino del Vangelo
Il primo segno che Gesù opera nel vangelo di Giovanni è l’abbondanza del vino e il vino è il simbolo della sua Parola rivelatrice che lo pone così sullo stesso piano del Dio del Sinai, di cui le nozze di Cana sono ripresa e rinnovamento. Come al Sinai, Dio rivelò se stesso «nel terzo giorno», così ora anche Gesù rivela se stesso «nel terzo giorno»: al Sinai Israele ricevette la Toràh, a Cana l’umanità riceve il vino bello della sua Gloria. Ora sì, possiamo anche comprendere perché Gesù dice di se stesso: «Io-Sono la vite vera» (Gv 15,1) perché con lui si riapre il tempo dell’alleanza e il vino della parola scorre abbondante e senza misura «in Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samarìa e fino ai confini della terra» (At 1,8) perché ora l’umanità nuova, invitata a Cana può accostarsi al cuore di Dio per «vedere» la parola e gustare il vino nuovo banchetto finale:
«Prese un calice e rese grazie, lo diede loro e ne bevvero tutti. E disse loro: “Questo è il mio sangue dell’alleanza, che è versato per tutti. In verità io vi dico che non berrò mai più del frutto della vite fino al giorno in cui non lo berrò di nuovo, nel regno di Dio» (Mc 14,23-25).
Il senso generale del racconto ci apre prospettive straordinarie per la fede e la testimonianza: non si tratta di un matrimonio quanto della nuova alleanza che inaugura i tempi nuovi nell’umanità di Cristo come ripresa e compimento dell’alleanza del Sinai che ora è restaurata e compiuta: la nuova umanità, noi siamo tutti invitati alle nozze di Dio con il suo popolo che ora raccoglie tutti i popoli. Il banchetto eucaristico che celebriamo nella storia è la nostra Cana dove il vino è mutato in sangue e la parola diventa il pane del corpo del Signore, i segni nuovi che ci abilitano ad andare nel mondo ed essere anche noi segni visibili di nuzialità e di gioia. Se il vino del Sinai è la Toràh e quello di Cana è la Parola, il vino per noi è il Vangelo, cioè Gesù il Cristo, la rivelazione del Padre, in forza della testimonianza di Marco: «Principio del Vangelo, cioè Gesù, cioè il Cristo, cioè il Figlio di Dio» (Mc 1,1). [continua – 11]

Di Paolo Farinella

Paolo Farinella




Pochi (cristiani) ma buoni

Somalia – Gibuti: monsignor Giorgio Bertin

Il Coo d’Africa. Si combattono i pirati in mare ma non si cercano le cause. La Somalia è ingovernabile e i gruppi di matrice islamica si sono «affiliati» ad Al Qaeda. I cristiani sono ormai pochissimi, e dispersi. Oggi il vescovo ha solo contatti individuali. E tra Gibuti ed Eritrea continua la tensione.  Senza la ribalta dei media.

Monsignor Giorgio Bertin è vescovo di Gibuti e amministratore apostolico della Somalia, o «di tutte le Somalie», come lui ama ricordare. È frate francescano dell’Ordine dei frati minori.
Vicentino, ha lavorato a lungo con monsignor Salvatore Colombo,  assassinato a Mogadiscio il 9 luglio del 1989.  Attualmente risiede a Gibuti, e tenta, tra mille difficoltà, di dare il suo appoggio ai pochi cristiani in Somalia. Ha studiato l’arabo e parla somalo, inglese e francese.
Lo abbiamo incontrato per parlare dell’area.

Mons. Bertin come descrive la situazione attuale in Somalia?
La situazione rimane estremamente difficile, non dico disperata, ma molto grave. Inoltre è chiaro che questo crea problemi ai paesi vicini, in particolare a Etiopia e Kenya, ma non sarebbe improbabile che li creasse in futuro a Gibuti, che per ora è risparmiato. Ad esempio la pirateria non si risolve solo sull’acqua, arrestando i pirati, ma è una conseguenza di un problema sulla terra, in Somalia.
C’è uno sforzo concreto per il mare, mentre l’azione di contrasto sulla terra in questo momento è verbale, di buone intenzioni, ma bisogna che queste e i timidi passi che si fanno, siano più rafforzati, presi con maggior decisione.

Lei pensa che questo governo somalo riuscirà a rimanere in piedi a lungo?
Gli shebab (gioventù, in somalo, è il nome con cui si fanno chiamare gli estremisti islamici somali, ndr) sono forti, perché mentre si svolgeva a Gibuti la quindicesima conferenza sulla riconciliazione della Somalia, loro avevano già cominciato a prendere il terreno in mano. Era successa la stessa cosa con il precedente governo di transizione. Non so se prenderanno veramente il potere, anche  perché penso che in quel caso, l’Etiopia reinterverrebbe in modo molto chiaro, per opporsi. La cosa scatenerebbe come reazione un intervento, forse anche del Kenya, mi immagino.
Il governo federale di transizione ha un margine minimo di potere. Come al solito ha la comunità internazionale che lo appoggia, ma sul terreno le cose non vanno tanto bene, soprattutto in quella zona. È vero che dietro gli shebab e anche agli altri ci sono ancora gruppi con legami clanici.
Quindi si ha l’impressione, come dicono i somali, che abbiano cambiato camicia: la prima era quella della libertà e la democrazia, la seconda è stata quella del clan, la terza quella del semplice signore della guerra e adesso, la quarta, è quella dell’ideologia islamica. Ma si ha l’impressione che dietro ci siano sempre alcuni gruppetti, con legami clanici.
Recentemente hanno mostrato una video cassetta in cui dichiaravano la loro lealtà nei confronti di Al Qaeda. Non so se è vera o se è cercare un ulteriore appoggio. Credo che abbiano dei rapporti, ma ho l’impressione che cerchino di tirarli ancora di più dalla loro parte. Per sostenerli nella loro ideologia, ma anche nella loro presa di potere con questi legami clanici.

Cosa ci dice dei cattolici in Somalia, sono perseguitati?
I cattolici in Somalia, sono pochissimi. Anche prima di questa guerra civile eravamo circa 2.000 di cui il 90% stranieri. Questi sono andati via, quelli rimasti in parte sono stati uccisi. E anche tra i somali una buona metà è partita. Ne resta un gruppetto, forse meno di un centinaio, ma disperso. Io sono in contatto telefonico con alcuni di loro, ma nulla di più. Risiedono soprattutto nella zona di Mogadiscio, ma metà della popolazione è fuori città, in campi di sfollati.
Dire che sono perseguitati vorrebbe dire che c’è qualcuno che li perseguita in modo generale e che sono tanti. Io direi che non c’è persecuzione in modo formale, ma certamente questi gruppuscoli violenti legati a shebab e altri, hanno bisogno di crearsi dei diavoli da combattere.
Prima, ma anche ora, quelli che conoscevano i cristiani, avevano imparato a vivere insieme pacificamente, però adesso mancando la legge e lo stato, i gruppetti sono disperatamente alla ricerca del caso da presentare alla loro ideologia. Come i giornalisti, quando venivano in Somalia cercavano il bambino striminzito da far vedere nelle loro foto. Mentre la maggioranza non era così.
Devono quindi stare in clandestinità nascosti.

E lei riesce ad andare in Somalia regolarmente? Qual è oggi il clero presente?
Adesso è un anno e mezzo che non riesco ad andare nella zona centro-sud, ma negli ultimi anni non ho mai potuto incontrare i cristiani insieme come gruppo. Qualche individuo singolo sì. Il rischio era per me ma anche per loro, perché li avrebbero individuati. Questi gruppi che devono far vedere che loro stanno combattendo per il trionfo dell’islam e per scacciare i traditori, li ucciderebbero e lo hanno anche fatto.
Non ci sono sacerdoti stabili, e quando vanno rischiano subito di farsi individuare. Gli unici sono qualche cristiano somalo e qualche cristiano nelle Ong. Anche le suore sono uscite dopo l’uccisione di suor Lionella (missionaria della Consolata, uccisa nel settembre 2006, ndr). Le consorelle sono andate una a Gibuti e due in Kenya.

E le tensioni tra Gibuti e l’Eritrea sono finite?
No, non sono finite, Gibuti continua a chiedere che gli eritrei se ne vadano e le Nazioni Unite continuano a dichiarare e minacciare, ma l’Eritrea rimane sul territorio occupato a Gibuti, che comunque è poca cosa.
La Francia è intervenuta all’inizio, ha appoggiato Gibuti soprattutto con la logistica, e ha visto che le cose si sono fermate. Ha ritirato i suoi militari dal fronte, mentre vi rimangono i soldati gibutini, perché c’è questo stallo. La mia impressione è che l’Eritrea dica: visto che voi all’Onu avete deciso di darci un po’ di ragione con l’Etiopia e questa non si ritira, io non mi ritiro da Gibuti, convincete l’Etiopia a ritirarsi e io farò altrettanto. È una mia interpretazione perché non capisco cosa gli interessi quel pezzo di terra.

Parlando del sinodo per l’Africa, secondo lei, ha rispettato le aspettative?
Io penso che nelle prime due settimane sia stato un po’ dispersivo. Mi è sembrato che nei vari interventi ognuno mettesse sul tavolo le sue preoccupazioni e l’impressione era che si perdesse forse qual era lo scopo e il tema di questo sinodo. Però credo che ci sia stata un’opera di ridirezione da parte della segreteria perché sia nel messaggio che abbiamo preparato noi, sia nelle proposizioni dei vari gruppi, c’è stato un raddrizzamento, nel senso di evitare dispersioni e rifocalizzare il tema principale. Vedo che c’è stato un buon lavoro positivo.

Per applicare il messaggio del sinodo nella quotidianità della gente, che idee ci sono?
Qui si è detto che Ecclesia in Africa (del 1995, è l’esortazione apostolica del primo sinodo per l’Africa, ndr), si è cercato di applicarla, ma forse è mancato da parte dei vescovi stessi un monitoraggio, per dire cosa stiamo facendo, come stiamo lavorando. Risulta chiaro da diversi interventi, che tornando nei nostri paesi, si aspetterà  l’esortazione post sinodale, ma il Messaggio del sinodo è corposo. Abbiamo preferito tenerlo lungo proprio perché vogliamo tornare dai nostri con qualcosa in mano, senza aspettare troppo. Qualcosa su cui cominciare a riflettere. L’impegno che ci siamo presi è che i punti particolari vogliamo attuarli senza accontentarci di belle parole. Ovvero dire: facciamo una valutazione dopo un periodo, cosa abbiamo messo in pratica, quali sono gli aspetti che ci toccano, fare un monitoraggio.

Ha visto novità particolari in questo secondo sinodo per l’Africa?
Rispetto al precedente sinodo l’aspetto particolare è che ci siamo concentrati su dei temi, cercando di  non disperderci. Non c’è nessuna vera novità, ma un’insistenza e una ricerca per la messa in pratica di alcuni aspetti della dottrina sociale della chiesa, che toccano riconciliazione, giustizia e pace. Questo a livello liturgico, di catechesi, educazione, ecc.
Questi temi devono far parte della formazione della comunità cristiana. Un altro aspetto su cui io personalmente sono coinvolto, è quello della collaborazione con persone di altre religioni, in particolare l’islam ma anche le religioni tradizionali.
Perché è un tema che interessa non solo i cattolici, ma tutti gli abitanti dell’Africa. Pure questo è un aspetto che è stato  messo in luce.

Anche il ruolo della donna è stato messo in luce, è venuto fuori nel messaggio, che la generica affermazione che si trova in Ecclesia in Africa deve essere messa in maggior rilievo e messa in pratica, sia a livello della società ma anche all’interno della chiesa stessa. Si è riconosciuto che in questo ultimo caso non si è fatto molto.  

Di Marco Bello

Marco Bello




Induismo intollerante?

Violenze contro i cristiani e musulmani

Tolleranza o intolleranza religiosa in India? Le violenze dei fondamentalisti indù contro le comunità cristiane dell’Orissa e contro i musulmani dell’India pone alcune domande sulla tradizionale tolleranza religiosa dell’induismo.

L’induismo: tollerante o intollerante? L’Occidente si è sempre trovato in difficoltà nell’interpretare la religione e la cultura dell’India. Per secoli è stato posto l’accento sulla sua spiritualità e la sua cultura millenaria, il cui momento d’inizio della sua storia risale a circa 3000 anni prima di Cristo. Oggi, invece, si preferisce mettere in luce il tasso di crescita del suo prodotto interno lordo e l’eccezionale sviluppo delle sue capacità informatiche, che hanno fatto di Electronic City, vicino a Bangalore, la Silicon Valley indiana. Entrambe le letture sono parziali e distorte. Nell’abbracciare le varie anime del mondo indiano, vi è il rischio di lasciarsi condizionare da preconcetti e d’incastellare la complessa realtà indiana in una griglia prefabbricata.
Anche nel dibattito, molto vivo oggi, sul pluralismo e la tolleranza religiosa, l’induismo gode della fama di essere l’esempio di una religione in grado di coesistere pacificamente con altre tradizioni religiose. Poche guerre sono state combattute lungo i secoli nel nome dell’induismo, così come, in generale, gli indù hanno opposto scarsa resistenza all’ingresso o al sorgere di altre religioni nel proprio contesto sociale.
Un uomo come il Mahatma Gandhi, un indù devoto, tollerante e non-violento, che fece della frateità di tutte le religioni la causa della sua esistenza, non poteva nascere che in un’India caratterizzata da una molteplicità di gruppi etnici, linguistici, religiosi e culturali, i cui rapporti erano fondamentalmente di pacifica convivenza.

Movimenti nazionalisti

Questa immagine è stata in qualche modo guastata dalla comparsa in India di un movimento nazionalista indù e dalla nascita di un partito, il Bharatiya Janata, anch’esso nazionalista, che nelle elezioni parlamentari del febbraio del 1998 è riuscito a trionfare. La coalizione di governo, d’ispirazione nazionalista, è caduta poco dopo, nell’aprile 1999, ma le tensioni all’interno del governo dell’Unione indiana e con il vicino Pakistan non sono diminuite. Gli scontri armati tra l’India e il Pakistan, già aggravati nel marzo del 1990, a causa dell’appoggio pakistano ai movimenti autonomisti del Kashmir, sono ripresi nel novembre successivo e anche nel giugno del 1999, dopo che le forze pakistane avevano attraversato la linea di controllo fissata dalle Nazioni Unite.
Nel frattempo un’altra forza politica, d’ispirazione anch’essa nazionalista, il Movimento di Liberazione Tamil, ha aggravato la situazione politica dell’Unione. Una campagna elettorale con un saldo di 280 vittime precedette le elezioni parlamentari del maggio 1991. Le elezioni furono sospese per l’assassinio di Rajiv Gandhi, vittima di un attentato delle cosiddette Tigri Tamil, avvenuto con un’azione suicida, in cui però i Tamil negarono ogni responsabilità. Una settimana dopo, Marasimha Rao fu nominato successore di Rajiv Gandhi quale leader dello storico Partito del Congresso, a lungo governato dal primo ministro Jawaharlal Nehru e, dopo la sua morte nel 1996, da Indira Gandhi, la figlia, uccisa dai separatisti Sikh nel 1984.
Anche la violenza recentemente perpetrata contro le religioni «straniere», come l’islam e il cristianesimo, ha una sua triste storia. Nel 1992 si sono registrati numerosi atti di violenza dei fondamentalisti indù contro la popolazione islamica nelle città di Bombay (ora Mumbay) e di Ayodhya. Gli scontri tra le due comunità, scoppiati a causa della distruzione della moschea di Baber ad Ayodhya, causarono circa 1.300 morti e si estesero ai paesi vicini, quali il Pakistan e il Bangladesh. Nel febbraio 2002 un’altra ondata di violenza contro la comunità musulmana attraversò lo Stato del Gujarat, nell’India occidentale, con capitale Ahmedabad, ricca di templi e di edifici monumentali e uno dei maggiori centri indùstriali del paese. Più di 2.000 persone furono uccise. Di mira furono prese soprattutto le donne, che subirono stupri di gruppo prima di essere bruciate vive. I ribelli indù incendiarono e saccheggiarono negozi, case e moschee. Circa 15.000 musulmani furono cacciati dalle loro case. Secondo il rapporto stilato da Amnesty Inteational, il governo del Gujarat e la polizia di Stato non si impegnarono a sufficienza per difendere la popolazione civile.

Pluralismo religioso
e tolleranza

Dagli scontri tra indù e musulmani, costellati da vere e proprie stragi, recentemente si è passati ai linciaggi e alle persecuzioni delle comunità cristiane, opera di fondamentalisti indù, che accusano i cristiani di indebito proselitismo. I cristiani in India, cattolici e protestanti, sono una esigua minoranza. Di fronte a circa l’83 per cento di indùisti e all’11 per cento di musulmani, i cristiani sono soltanto il 2 per cento su una popolazione di 1 miliardo e 150 milioni di abitanti. L’induismo comprende inoltre un’ampia varietà di credi e pratiche religiose; si va dalle pratiche di una devozione intensa e appassionata all’ascetismo severo e all’affidarsi alle proprie capacità yogiche, da un pantheon indù popolato da un grande numero di divinità alle molteplici forme di teismo fino al più radicale rifiuto dell’esistenza di un Dio personale. E mentre si considera questa diversità come una debolezza, la si può considerare anche come la base stessa per riconoscere la diversità fuori dalla propria tradizione religiosa e fondare quella che si è soliti definire «tolleranza indù».
In effetti, l’assenza di un credo comune in un unico Dio può considerarsi la principale ragione della tolleranza indù verso le altre religioni. Una simile generalizzazione non fa però giustizia alla tradizione indùista, che certamente include anche forti tradizioni teistiche e monoteistiche. Nelle Scritture indù si ritrovano infatti vari tentativi di mantenere un equilibrio fra il riconoscimento della diversità e la ricerca di unità dell’unica realtà. Questa unità a volte la si ritrova in un Dio personale e a volte in una realtà ultima non personale.
Accade però che nella storia religiosa dell’India tra le tante divinità del pantheon indù si sia giunto a considerare il proprio dio come superiore o più potente degli altri. Questo concentrarsi su un dio particolare portò sovente a un vero e proprio settarismo nella storia dell’induismo e a sanguinose competizioni fra i diversi gruppi religiosi. Si aggiunga ora il desiderio di trovare una chiara e ben definita identità indù di fronte alle pressioni esercitate sull’induismo da altre tradizioni religiose venute dall’esterno, come il cristianesimo o l’islamismo.

Contro i cristiani dell’Orissa

A scatenare la furia dei fondamentalisti contro i cristiani è stato un omicidio eccellente, quello dello Swami Laxmanananda Saraswati, guida spirituale del Vishwa Indù Parishad, il movimento dei nazionalisti indù nello Stato dell’Orissa. Un comando di una trentina di persone, ben armato, ha fatto irruzione nel suo ashram e lo ha freddato. L’azione fu rivendicata dai guerriglieri maoisti del People’s Liberation Revolutionary Group. «Abbiamo ucciso lo Swami – hanno detto – perché mischiava la religione alla politica». Nonostante questa rivendicazione, i seguaci dello Swami Saraswati hanno subito puntato il dito contro i cristiani. Un’accusa non casuale: da tempo, infatti, lo Swami Saraswati conduceva una durissima campagna contro le conversioni al cristianesimo. Accusava i missionari di mangiare le vacche sacre e di «comprare» battesimi tra i cosiddetti «tribali», una popolazione indigena di circa 500 gruppi che insieme ai kanikar, i muthuvan, gli urali e i mala arayan sono ancora oggi considerati dei dalit, degli intoccabili, dei fuori casta, nonostante che la divisione in caste sia stata ufficialmente abolita in India.
Le popolazioni tribali dell’India nord-orientale sono sicuramente i più ben disposti verso la religione cristiana. Non credono nella reincarnazione come gli indùisti, ma ritengono che quando si muore si va a Dio; per questo pregano per i defunti e conoscono il sacrificio, che permette loro di comprendere meglio il sacrificio eucaristico. A un anno dall’ondata di violenza nello Stato dell’Orissa più di cento cristiani sono morti per mano dei fondamentalisti indù; di questi almeno 57 erano dalit, così come migliaia di rifugiati che hanno visto distrutte le loro case e le loro proprietà.
La campagna ideologica condotta dallo Swami Saraswati contro i cristiani, accusati di fare proselitismo fraudolento tra le fasce più povere della popolazione, cominciò nell’agosto del 2008 con l’uccisione di un sacerdote carmelitano di 38 anni, che aveva dedicato la sua vita ai poveri e agli emarginati e svolgeva il suo apostolato nello Stato indiano dell’Andhra Pradesh. Fu trovato cadavere con diverse ferite al volto, mani e gambe spezzate e gli occhi strappati dalle orbite. Alcuni giorni dopo una missionaria laica di 22 anni venne arsa viva nell’incendio dell’orfanotrofio che dirigeva in un villaggio del distretto di Bargarh. In quegli stessi giorni un cristiano del villaggio di Rupa, nel distretto di Kandhamal, morì bruciato nella sua abitazione distrutta dal fuoco, e altre tre persone furono uccise negli incendi appiccati alle loro case da estremisti indù. Chiese e scuole cattoliche e di altre confessioni cristiane sono state devastate da una parte all’altra dell’Orissa. Perfino le missionarie della Carità, le suore di Madre Teresa di Calcutta, furono assaltate e alcune di loro prese a sassate; anche un ospedale per anziani, tenuto dai missionari della Carità di Madre Teresa, fu distrutto. Chiese, centri sociali e pastorali, case religiose e orfanotrofi vennero presi di mira al grido: «Uccidete i cristiani e distruggete le loro istituzioni».
Non era comunque la prima volta che accadevano tali fatti. Nel novembre del 2007 il Consiglio Globale dei cristiani indiani aveva già fatto pervenire un rapporto al Comitato Nazionale dei Diritti umani dell’India, nel quale erano documentati 464 attacchi contro i cristiani nei venti mesi precedenti tale data. L’ondata di violenza che ha colpito l’Orissa non è per questo terminata. Una delegazione di vescovi cattolici e di altre confessioni cristiane, poche settimane dopo l’inizio delle violenze seguite all’uccisione dello Swami Saraswati, si è incontrata con il Primo Ministro indiano per presentargli un dossier sui danni subiti dai cristiani. Secondo questo dossier, 26 cristiani furono assassinati, dei quali 12 solamente nel distretto di Kandhamal; inoltre furono distrutte 41 chiese e luoghi di culto, 17 case, 4 conventi, 3 alberghi, 7 sedi istituzionali e un numero imprecisato di veicoli. Il panico suscitato da tale violenza ha spinto molti cristiani ad abbandonare le loro case e a rifugiarsi nella foresta oppure a emigrare. Il proposito dei fondamentalisti è infatti quello di cacciare i cristiani dalla regione, come risulta evidente dagli slogan ripetuti un po’ ovunque. Estremisti indù hanno perfino attaccato e dato alle fiamme la cattedrale di Jabalpur, nello Stato del Madhya Pradesh, edificio che ha 150 anni di vita e che ha subito danni irreparabili.
Nei mesi successivi all’agosto del 2008 le violenze contro i cristiani si sono ulteriormente complicate. Agli indù si sono unite alcune comunità battiste e diversi gruppi evangelici. «Nella mia diocesi – riferisce il vescovo Jose Mukala di Koshima, nel nord-est dell’India – c’è un grande numero di persone che desiderano diventare cattoliche, ma esiste una fortissima opposizione da parte di alcune confessioni protestanti locali». A Koshima, nel cui distretto i primi cattolici sono stati battezzati solamente nel 1951 all’arrivo dei missionari, ora, in poco più di cinquant’anni, essi hanno raggiunto la cifra di 58.000 fedeli su una popolazione di un milione e 900 mila abitanti, per la maggior parte evangelica.

Violenze anche
nelle nazioni vicine

Gli attentati contro i cristiani in India hanno risvegliato gli estremisti indù che nel Nepal chiedono la fine della libertà religiosa. Il 25 maggio 2009 una bomba è esplosa nella cattedrale cattolica di Dhobighat, alla periferia di Kathmandu, la capitale. Sulla scena del crimine sono stati trovati degli opuscoli di un gruppo militante indùista, denominato National Defense Army (Esercito di difesa nazionale), che ha rivendicato anche l’assassinio del sacerdote salesiano John Prakash, avvenuto nel luglio 2009 nella zona orientale del Nepal. Questo cosiddetto esercito per la difesa nazionale lotta per la restaurazione della monarchia indùista, abolita nel 2008. La bomba aveva un forte potenziale di deflagrazione. Nella cattedrale vi erano circa 300 persone. Un adolescente e una donna sono morti; le persone, molte delle quali ferite, sono state sbalzate lontane dai loro posti, i vetri della cattedrale e gli arredi distrutti. Nel Nepal oltre l’80 per cento degli abitanti è indùista; i cattolici sono solo 7.000, ma ogni anno si registrano circa 300 nuovi battezzati.
La violenza contro i cristiani dell’India ha così superato le frontiere, coinvolgendo, oltre al Nepal, anche il vicino Pakistan. Dei circa 170 milioni di pakistani, nella stragrande maggioranza musulmani, i cristiani vengono subito dopo gli indùisti con circa 2 milioni e 800 mila fedeli. La loro persecuzione è un fatto antico, soprattutto nel Punjab centrale, dove i cristiani vengono sovente accusati di blasfemia. Durante le violenze provocate nel luglio del 2009 dai musulmani nel quartiere cristiano della cittadina di Gojra, nel Punjab, sono stati arsi vivi due bambini, tre donne e due uomini, tutti cristiani. La tensione ha continuato a salire dopo che si era sparsa la voce di una presunta profanazione del Corano per mano di cristiani. In questa tragedia sono state date alle fiamme anche numerose case di cristiani e soprattutto le scuole. Negli ultimi due anni circa 170 scuole hanno subito danni e più di 400 strutture educative sono state costrette a chiudere i battenti o a sospendere la propria attività. Le violenze contro i cristiani in Pakistan non sono però terminate. Il 28 agosto 2009 sono stati uccisi a colpi di arma da fuoco altri cinque cristiani nel centro della città di Quetta, nel Belucistan. Il nuovo episodio arrivava poco dopo il massacro nel Punjab, in cui erano morti undici cristiani e più di cento case erano state saccheggiate o bruciate. I cristiani in Pakistan vivono in uno stato di continua tensione per l’uso improprio delle cosiddette leggi sulla blasfemia e sulle presunte offese contro il Corano e Maometto.
Infine, nello Sri Lanka, l’isola a sud dell’India un tempo denominata Ceylon, i ribelli Tamil di religione indù, i cui combattenti si definiscono Tigri e lottano contro le forze governative, hanno provocato almeno 70 mila morti. Centinaia di migliaia sono stati gli sfollati tra la popolazione civile e circa 250 mila sono rimasti intrappolati nella zona degli scontri. Una tragedia che si consuma ormai da molti anni. Il conflitto tra le forze governative e le Tigri Tamil, che lottano per la liberazione della loro patria nelle zone a nord dell’isola, è infatti iniziato nel 1983 e pare sia terminato il 18 maggio 2009 con la resa incondizionata dei ribelli. Tuttavia l’arcivescovo di Colombo, la capitale del Paese, al termine del conflitto ha dichiarato: «Potremmo dire che abbiamo vinto la battaglia, ma la guerra non è finita».

Quale la causa
delle violenze?

Ecco descritta per sommi capi una delle tante tragedie umane sconosciute o dimenticate. Nel corso delle violenze in Orissa, che ha riguardato almeno 392 villaggi dell’India, circa 500 persone hanno perso la vita, 54 mila sono stati coloro che hanno dovuto abbandonare le loro case date alle fiamme e 180 chiese son andate distrutte. Ma che cos’è che ha fatto scatenare la furia dei fondamentalisti indù: la conversione al cristianesimo dei tribali dell’India? La paura di perdere la propria identità religiosa nel contesto di un’India democratica e liberale? L’irrompere della globalizzazione che intacca e mette in crisi gli schemi tradizionali? L’influenza dell’Occidente, per molti aspetti laico e indifferente, con il suo potere economico e culturale che convince e trasforma ogni cosa?
Secondo alcuni vescovi indiani la causa dell’attuale persecuzione contro i cristiani non è religiosa, ma nazionalista e politica; in particolare del partito nazionalista Bharatiya Janata, legato al movimento Rashtriya Swayan Sevak Sangh, che ha ispirato diversi gruppi di fanatici. Uno dei fondatori di questo movimento si chiamava Golwalkar. Egli rifiutava l’idea di un’India laica. A essa contrapponeva l’idea dell’Indù Rashtra, di un’organizzazione indù nella quale non ci fosse posto per altre religioni.
I vescovi dell’India non condividono le accuse di proselitismo forzato, dietro cioè ricompense o con l’inganno, perché – dicono – la comunità cristiana «continua a offrire i suoi servizi a tutti i settori della società indiana senza alcuna discriminazione». «Le accuse infondate di conversioni fraudolenti – continuano i vescovi – sono dovute agli interessi di gruppi impegnati a polarizzare la società in base alle loro credenze religiose». Il portavoce della Conferenza episcopale dell’India ha affermato che, dopo gli attacchi e i saccheggi nell’Orissa durati mesi, i cristiani sono ora costretti a convertirsi all’induismo, e a saccheggiare e distruggere le loro chiese. Inoltre, se la maggioranza delle religioni presenti in India convive in modo pacifico, alcuni governi della Federazione hanno messo in atto e ampliato le leggi sull’anti-conversione e non intervengono in modo tempestivo ed efficace per contrastare la violenza contro le comunità cristiane locali.
Questi fatti indùcono a pensare che le violenze contro i cristiani, cattolici o protestanti, non siano semplicemente una strategia socio-politica, ma piuttosto l’espressione di un integralismo religioso che cerca d’imporre l’induismo in ogni parte dell’India, anche nelle regioni delle minoranze tribali del nord-est e, nella parte meridionale del Paese, tra i cristiani del Kerala, regione evangelizzata fin dal IV secolo. Gli attacchi a chiese e istituzioni cristiane si sono infatti estesi negli Stati di Chhattisgarh, Madya Pradesh, Kaataka e Kerala e rischiano di dilagare in altri Stati della Federazione, ormai entrati, come altre parti del mondo, nel vortice del fondamentalismo religioso prodotto dalla secolarizzazione della società.
Una tale violenza – affermano ancora i vescovi dell’India – sta umiliando l’antica civiltà indiana e valori come la non-violenza (Ahimsa), la tolleranza, il rispetto per le religioni, il diritto alla libertà di coscienza e di religione, che l’India ha gelosamente conservato per secoli e che la Costituzione indiana ha posto a fondamento della nazione. In India tutti si dicono scioccati per gli avvenimenti accaduti nell’Orissa. Va inoltre riconosciuto che la deriva del fondamentalismo è solo una manifestazione aberrante di una piccolissima parte dell’India. Essa è però oggi un grave rischio anche per quelle religioni che tentano di preservare e difendere la propria identità con metodi violenti, inaccettabili alla coscienza umana e all’interno stesso dei contenuti della propria fede in Dio.
In India – osservano i vescovi – c’è comunque «bisogno di un dialogo profondo» che non va impoverito dal sincretismo, ma sviluppato nel rispetto reciproco. Il cardinale Oswald Gracias, arcivescovo di Bombay e presidente della Conferenza episcopale indiana, ha ricordato che la Chiesa cattolica in India «non ha mai mancato» di promuovere il dialogo e continuerà a farlo rimanendo «dalla parte dei poveri, dei malati, senza guardare se sono indùisti, musulmani o cristiani». Accanto alla preghiera «è vitale e fondamentale» il dialogo. «Solo un vero dialogo interreligioso – ha continuato – permetterà di eliminare ogni possibile causa di tensione e di disaccordo tra gruppi religiosi ed etnici dell’India».
Tutto il mondo cristiano, a cominciare da papa Benedetto XVI, lo desidera e spera che siano rimossi al più presto equivoci e pregiudizi. L’India non si merita il radicalismo dell’Indùtva, il movimento estremista nell’India democratica. Non va infatti dimenticato che nella tradizione indùista la non-violenza è uno degli insegnamenti più importanti e che una guida esemplare della non-violenza è stato il Mahatma Gandhi, giunto al punto di sacrificare la propria vita per mano di un fanatico indù. Lo stesso Primo Ministro della Federazione indiana ha riconosciuto che l’ondata di violenza che ha colpito i cristiani in questi ultimi mesi è una vergogna nazionale, in contraddizione palese con i grandi valori di non-violenza, tolleranza e rispetto delle religioni che l’India ha coltivato per secoli. 

Di Gianpiero Casiraghi

Giampiero Casiraghi




Cari missionari

Nel numero di  dicembre 2009, «Missioni Consolata» ha pubblicato il dossier-reportage «Il grande sogno – viaggio tra i rifugiati», di Gabriella Mancini. Accogliamo due commenti, tra cui quello dell’Assessore alle politiche sociali del Comune di Torino, che speriamo possano aiutare ad allargare il dibattito su un tema tanto importante e scottante come quello dell’accoglienza.

… e le istituzioni?

Ho letto con vivo interesse il vostro approfondito reportage sulla condizione dei rifugiati nella nostra città. Non ho mai trovato sui media, riguardo a questo tema, un’informazione completa come quella contenuta in questo dossier.
In questi anni ho seguito con apprensione la vicenda narrata nel dossier e ho anche personalmente, per quanto possibile, contribuito portando a questi rifugiati dei generi di prima necessità. Di tutta questa storia mi hanno sempre colpito molto i toni di impossibilità assunti dalle istituzioni, sin dall’inizio. Apprendo a mezzo stampa in questi giorni che invece il governo, dopo che il comune aveva già magicamente trovato in fretta e furia fondi per allestire la caserma di via Asti, avrebbe stanziato 2 milioni di euro l’anno per tre anni consecutivi da spendere in via esclusiva per trovare una soluzione al «problema» rifugiati nel comune di Torino.
Una domanda sorge allora spontanea: sarebbero poi veramente comparsi questi fondi senza il «rumore» creato dai rifugiati?”

Paolo Macina
Torino

La Città  è presente

Gentile Direttore,
ho letto con attenzione il dossier-inchiesta «Il grande sogno – viaggio tra i rifugiati» pubblicato sul vostro mensile nel numero di dicembre scorso.
Devo premettere che ogni articolo descrive con fedeltà la drammatica vicenda che viene vissuta da coloro che intraprendono il viaggio del «Grande Sogno» e che tutte le preoccupazioni espresse dall’autrice sono condivisibili.
Ciò che invece mi ha indotto a scriverle è la parziale ottica con cui si descrive il sistema di accoglienza della Città di Torino. O meglio, della «non accoglienza», così come definita da Gabriella Mancini, lasciando credere ai lettori che il tema sia di esclusiva competenza e responsabilità degli enti locali e non una competenza governativa: anche se penso che sui permessi di protezione umanitaria che avrà esaminato, non avrà sicuramente trovato il simbolo della Città bensì della Repubblica Italiana.
Torino, in tutta la Regione Piemonte, è l’unico capoluogo che gestisca 50 posti di accoglienza della rete del «Sistema di protezione richiedenti asilo e rifugiati» (Sprar) finanziata dal ministero dell’Inteo. È in solitaria compagnia di altre 3 città: Ivrea (TO), Chiesanuova (TO), Alice Bel Colle (AL). Forse già questo primo indizio serve a spiegare come mai sia di riferimento a molti «flussi».
Non contenti di ciò, abbiamo negli ultimi anni potenziato i posti di accoglienza per dare delle risposte (seppur, a volte, parziali) a coloro che si rivolgevano al nostro Ufficio Stranieri: oggi la Città garantisce oltre 530 posti di accoglienza quotidiana (vitto, alloggio, formazione). Nel 2008 sono stati 1.047 gli stranieri che hanno beneficiato delle nostre strutture per un periodo mediamente di 6 mesi (gestite direttamente o indirettamente dalla Città, oltre alla rete del volontariato e del privato sociale con contributo economico comunale); sono più di 300 i minori stranieri non accompagnati per i quali l’assessore pro tempore ai servizi sociali della Città di Torino è «tutore»!
Forse sarà poco; sicuramente non sufficiente se paragonato ai 30 mila sbarchi sulle coste italiane ogni anno; ma penso sia abbastanza per contendere la palma ai «giovani dei centri sociali, tra i più attivi nell’aiutare i rifugiati» così come definiti in un articolo del dossier; o per dimostrare che il Comune non è «il grande assente» così come definito dalla sig.ra Molfetta in un altro passo del documento.
Alcuni esempi? Ve li elenco per brevità.
• Progetto Hopeland. Si tratta del progetto che fa parte dello Sprar a cui la Città aderisce da quando, ancora nel 1999, si chiamava Progetto Nazionale Asilo (Pna)) e che oggi garantisce un sistema di accoglienza personalizzato di 50 posti (35 maschili e 15 femminili).
• Progetto Masnà. Realizzato sempre nell’ambito dello Sprar, ma rivolto ai minori stranieri richiedenti asilo e rifugiati (20 posti)
• Progetto Isa (Inclusione socio abitativa): interventi per favorire l’esercizio di un diritto di cittadinanza, ridurre il fenomeno della marginalità abitativa e fornire uno specifico supporto abitativo in caso di urgenza a persone in temporanea situazione di rischio. Finanziato dal ministero del Lavoro e delle Politiche sociali con fondi stanziati nel 2007.
• Progetto «Rifugio Diffuso». L’intervento prevede l’individuazione di 20 beneficiari tra richiedenti asilo, rifugiati (con protezione sussidiaria e per motivi umanitari), presenti sul territorio cittadino e presi in carica dall’Ufficio Stranieri, da inserire in accoglienza familiare, attraverso la collaborazione di associazioni, organizzazioni di volontariato e volontari singoli, in percorsi di inserimento sociale mediante la realizzazione di programmi individualizzati.
• Progetto «Action Work». Realizza percorsi di accompagnamento all’autonomia ed all’integrazione sociale mediante azioni di ricerca attiva del lavoro e inserimento lavorativo che avvengono soprattutto attraverso la realizzazione di tirocini formativi, orientativi, socializzanti. La metodologia impostata prevede la sperimentazione di azioni e strumenti finalizzati all’integrazione socio-lavorativa dei cittadini stranieri disoccupati impegnati in percorsi di inserimento sociale, in collaborazione con altri enti, cornoperative ed associazioni del territorio.
• Azioni straordinarie per intervenire sulle situazioni di occupazione abusiva dello stabile di corso Peschiera «ex clinica San Paolo». Progetto di accoglienza temporanea d’intesa con la Prefettura di Torino presso la ex caserma «La Marmora».
C’è poi un sottile filo che separa due interpretazioni del concetto di accoglienza. Accogliere, secondo i ragazzi dei centri sociali, significa «assistenzializzare». L’occupazione ricorrente di stabili per l’ospitalità dei profughi, parte da rivendicazioni condivisibili di diritti (lavoro, casa, residenza) per arrivare poi al passaggio di responsabilità: «Caro comune, in questo stabile che abbiamo occupato ci sono 200 persone: devi occupartene».
Accogliere, secondo il lavoro fatto in questi anni dall’amministrazione comunale, si traduce in «accompagnamento sociale» verso l’autonomia delle persone. Per questo motivo è stato fondamentale il lavoro di concertazione con altri enti, associazioni, organizzazioni. In particolare l’Ufficio Stranieri della  Città di Torino ha promosso la realizzazione del «Tavolo Rifugio» che rappresenta un momento di confronto e condivisione con gli Enti e le Associazioni che liberamente aderiscono. Il Tavolo attualmente coinvolge, oltre all’Ufficio Stranieri, i diversi collaboratori dei progetti (Coop. Soc. Progetto Tenda, Coop. Soc. Il Riparo, Sermig – Centro come Noi, Asgi, Ass. Frantz Fanon, il Cfpp Casa di Carità), i soggetti istituzionali (Questura, Prefettura) e le organizzazioni del volontariato (Ufficio Pastorale Migranti della Caritas, Chiesa Valdese, Ass. La Tenda, Gruppo Abele, Arci, Croce Rossa Italiana, Asai, Ass. Mosaico – Azioni per i Rifugiati, Ass. Somali a Torino, Alma Terra). Si tratta di un luogo multifunzionale che permette l’elaborazione di esperienze di gestione, la verifica dell’andamento dei casi e dei progetti in fieri e la formazione sulle nuove problematiche. Tale luogo viene organizzato come un laboratorio per la progetta- zione di iniziative in favore dei richiedenti asilo e rifugiati, il più possibile vicine alle reali problematiche e alle reali risorse delle persone.
Spero di essere riuscito ad aggiungere un altro pezzo di informazione che mi sembrava totalmente mancante. Così come penso che le migliori politiche per l’integrazione non si realizzino «concentrando» in un’unica realtà le aspettative e le tensioni, ma che sia più facile trovare soluzioni di inserimenti sociali se si lavora su una superficie territoriale ampia. Per questo motivo credo nella programmazione territoriale di Province e Regione che dovrebbe portare alla più capillare distribuzione del fenomeno di accoglienza dei profughi, per offrire maggiori opportunità di autonomia a cui le persone legittimamente aspirano.

Marco Borgione
Assessore alla Famiglia, Salute e Politiche Sociali
Comune di Torino

Caro Assessore, innanzitutto la ringraziamo per l’attenzione e per aver considerato il nostro dossier  un lavoro approfondito. Prendiamo atto dei progetti da lei elencati e che, in sole 20 pagine, non era possibile inserirli tutti. Solo una precisazione: non abbiamo voluto oscurare la presenza del Comune che rientra in più punti nel dossier, dall’intervista all’Ufficio Stranieri del Comune al lungo intervento sul Tavolo di co-progettazione, ma far presente una falla strutturale nel sistema di accoglienza e, in particolare, in quello specifico contesto. Per il resto, ci auguriamo sinceramente  che la sinergia di più intenti, il dialogo e la motivazione nel risolvere i problemi possa condurre a soluzioni strutturali e non transitorie.
Buon lavoro!

Ugo Pozzoli
Gabriella Mancini




Il peso del MITO

Monsignor Romero

Ricordo bene la prima volta in cui sentii parlare male di Monsignor Oscar Aulfo Romero. L’invettiva lanciata all’indirizzo dell’ex arcivescovo di San Salvador da parte di una sua relativamente giovane conterranea fu pesante, l’equivalente di «vecchio schifoso comunista». La donna considerava anche lui responsabile della sua situazione di emigrata, nonché della perdita di status e benefici garantiti a lei e alla sua famiglia dal lavoro svolto a suo tempo in patria: impiegata in un ministero. In fondo, riceveva lo stipendio da chi con il vescovo ce l’aveva al punto da farlo fuori. Lo ammetto, ci restai male.
Del resto, che sulla figura del presule salvadoregno non ci sia mai stata uniformità di pensiero è un fatto che non si discute. All’interno della chiesa stessa, per alcuni Romero sarebbe da fare «santo subito», per altri «santo mai». Sono convinto che, come successo in occasione degli anniversari precedenti, neppure la celebrazione del trentennale di questo martire della fede e della giustizia, il 24 marzo prossimo, darà impulso al processo di beatificazione che lo riguarda.

Tuttavia, ciò che dovrebbe farci riflettere, al di là della possibilità di trovare un giorno San Oscar Aulfo sul calendario, è l’ingiallimento progressivo che la sua memoria sta subendo, come se fosse una vecchia foto che l’incedere degli anni priva di contrasto e nitidezza. Non è detto, comunque, che questo fatto debba risultare del tutto negativo. In passato, Romero ha sicuramente pagato lo scotto di una qual certa strumentalizzazione politica, concretizzatasi nella costruzione di un mito tanto ingombrante quanto estraneo alla profonda motivazione cristiana che ne animava l’azione pastorale. Una riscoperta in chiave puramente evangelica della sua persona eviterebbe, forse, di prestare il fianco a pericolose forme di revisionismo e, soprattutto, fornirebbe un modello sempre attuale di testimonianza del Vangelo, senza compromessi e senza frontiere.
Anzi, le battaglie di Romero, proprio perché combattute alla luce e con la forza della Parola e non di un’ideologia, mantengono tutta la loro freschezza e carica ispiratrice, riproponendo una lettura profetica della realtà che, come la Buona Novella, non conosce confini e mai dovrebbe appassire.
Sono innumerevoli, oggi, le sacche di povertà e le situazioni di ingiustizia che chiedono ai cristiani un’azione che sia allo stesso tempo di annuncio e denuncia. La figura dell’arcivescovo di San Salvador, la sua presa di coscienza della realtà e il conseguente, radicale abbraccio al messaggio di giustizia del Vangelo possono e dovrebbero servirci da modello di autentico servizio profetico alla nostra chiesa. Oggi come oggi e anche qui in Italia, il suo «lasciarsi convertire ed evangelizzare dai poveri» rimane per noi una sfida profondamente missionaria, ben sapendo che tale assunzione di responsabilità può arrivare a presentare un conto ben salato.

Di Ugo Pozzoli

Ugo Pozzoli