Lhasa, nella morsa di Pechino
Tibet: viaggio attraverso il «paese reale»
È stata una teocrazia cruenta ed elitaria. Dopo l’invasione della Cina (1950),
la situazione non è migliorata. Il Tibet è diventato una regione – formalmente autonoma – su cui Pechino agisce con pugno inflessibile. I monasteri sopravvissuti alla chiusura sono strettamente controllati. I tibetani sono rinchiusi in carcere per ogni azione che contrasti con i voleri di Pechino. Gli stranieri possono accedere alla regione soltanto con mille limitazioni, mentre il Dalai Lama viene descritto come un nemico pubblico, da isolare e demonizzare. Il racconto di un viaggiatore occidentale entrato in Tibet clandestinamente.
Jamyang Gyatso, nome legale Lhundrup Kalsang, 29 anni, originario di Gyantse, monaco del monastero di Gyaltse Palkhor. Fu incarcerato nel dicembre del 1996 e condannato a cinque anni per aver distribuito copie di una preghiera di lunga vita composta dal Dalai Lama per il Panchen Lama (seconda figura per importanza del buddismo tibetano).
Lobsang Dawa, 28 anni, originario di Phenpo Lhundrup era monaco a Ganden. Fu arrestato il 7 maggio 1996 per «attività politiche» e condannato a 12 anni. Sey Khedup, 27 anni, era monaco a Sog Tsendhen. Fu incarcerato il 19 marzo 2000 per aver affisso ad un muro del Barkhor dei manifesti pro-indipendenza. Fu condannato nel dicembre dello stesso anno all’ergastolo. Lobsang Nyima, 30 anni, originario di Pashoe, era monaco nel monastero di Pomda. Fu incarcerato nell’agosto del 1997 e condannato a cinque anni per non aver partecipato ad un «lavoro di squadra» all’interno del convento.
Thinlay Choenden Samdup, 34 anni, originario di Phenpo Lhundrup. Era monaco nel monastero di Drepung quando fu incarcerato il 25 aprile del 1998. Fu condannato a quattro anni per aver distribuito volantini inneggianti all’indipendenza a Lhasa. Fu tenuto in carcere 18 mesi prima di ricevere una formale accusa. Migmar, 37 anni, originaria di Lhasa, impiegata nel settore delle telecomunicazioni. Fu arrestata nel gennaio 2001 e condannata a sei anni per aver guardato un video del Dalai Lama. Phuntsok Wangdu, 32 anni, di Lhasa, monaco a Ganden. Fu incarcerato il 7 marzo 1997 per non meglio chiarite attività politiche. Condannato a 14 anni.
Sono solo alcuni del «migliaio» di prigionieri politici detenuti nella prigione di Drapchi nel maggio del 2001.
Prima dei cinesi
Così vivono i tibetani in Tibet. Costantemente sotto controllo. Osservati e incarcerati per i più disparati motivi. Distribuire copie di una preghiera per il Dalai Lama equivale a «mettere in pericolo la sicurezza nazionale». Riunirsi in più di sei persone può significare «attività politiche» e garantire una dozzina di anni di carcere. Guardare un video del Dalai Lama ne garantisce sei. Possedere una bandiera tibetana, sette.
Però in fondo le cose per i tibetani non andavano molto meglio prima dell’invasione cinese. La teocrazia presieduta dal Dalai Lama, nonostante si ispirasse alla filosofia buddista, contraria all’uccisione e ai maltrattamenti, non si comportava secondo tali precetti. Le pene corporali anche cruente erano all’ordine del giorno. Henrich Harrer, che in Tibet passò sette anni tra il 1943 e il 1950, racconta di un uomo che aveva rubato una lampada dorata al burro da uno dei templi di Kyriong: «Gli furono pubblicamente mozzate le mani, e il suo corpo mutilato ma ancora vivo, fu avvolto in una pelle di yak bagnata. Quando smise di sanguinare fu gettato in un precipizio». Altre volte veniva praticata la fustigazione pubblica, che spesso portava alla morte in seguito a dolori lancinanti.
Altri reati erano puniti con la gogna, con lo sfregio o con il carcere a vita. La punizione per l’adulterio era il taglio del naso.
Non migliore era la situazione economica. Fino al 1959, la maggior parte della terra arabile era ancora organizzata attorno a proprietà feudali religiose o secolari lavorate da servi della gleba. Il monastero di Drepung, ad esempio, che era il monastero più grande del mondo, possedeva una delle più estese proprietà terriere del globo, con 185 feudi, 25.000 servi della gleba, 300 grandi pascoli e 16.000 guardiani di gregge. La ricchezza dei monasteri andava ai Lama di più alto rango, che spesso erano nominati Lama per ingraziarsi le famiglie aristocratiche, mentre invece la maggior parte del clero più basso era povero come la classe contadina dalla quale discendeva.
Secondo la giornalista Anna Louise Strong, che viaggiò nel Tibet nel 1959, nel 1953 la maggioranza della popolazione rurale, circa 700.000 persone su una popolazione totale di circa 1.250.000 abitanti, era composta da servi della gleba. Vincolati alla terra, veniva loro assegnata soltanto una piccola parcella fondiaria per poter coltivare il cibo necessario al loro sostentamento. Per loro non c’era accesso alle cure mediche né all’istruzione e trascorrevano la maggior parte del tempo lavorando per i monasteri, per i Lama di alto rango e per un’aristocrazia secolare, laica, che non contava più di duecento famiglie. Sostanzialmente, non erano altro che proprietà dei loro signori, che gli comandavano quali prodotti della terra coltivare e quali animali allevare.
Il lungo viaggio
Certo, se oggi il Tibet dovesse tornare libero la situazione non sarebbe quella di cinquanta anni fa. L’attuale Dalai Lama si considera mezzo buddista e mezzo marxista e, grazie anche all’esilio e alla conoscenza del mondo esterno che questo ha portato, ha più volte condannato molte delle pratiche medioevali del Tibet pre – cinese.
Nonostante ciò Pechino non ha mai voluto negoziare con il Dalai Lama. A prova del fatto che gli interessi cinesi in Tibet sono di carattere geopolitico ed economico e non ideologico. Ma la scintilla che, costantemente, infiamma i tibetani contro i loro invasori è invece di carattere strettamente ideologico. Ed è per questo che il controllo esercitato dalle autorità di Pechino sugli abitanti dell’altipiano raggiunge livelli paranoici. Alcune persone sono state incarcerate per aver recitato delle preghiere che contenevano le parole «Dalai Lama», altri per aver cercato tali parole su google.
Per evitare che il mondo si accorga di tutto questo, da quando hanno invaso il Tibet le autorità di Pechino hanno sempre vietato a tutti di visitare il tetto del mondo in completa autonomia. L’unico modo oggi possibile per andare in Tibet è con un viaggio organizzato da un tour operator cinese.
Ma io avevo una promessa da mantenere. Nell’aprile del 2007 conobbi Palden Gyatso. Monaco tibetano che aveva passato 33 anni nelle carceri cinesi per non aver denunciato il Dalai Lama e la sua «cricca reazionaria».
Dopo una lunga chiacchierata Palden mi disse: «Io non posso più tornare in Tibet. Vai tu e raccontami come è il paese delle nevi». Due mesi dopo ero sull’altipiano, ma non con un tour operator cinese. Palden mi aveva chiesto di raccontargli il Tibet, e non quello che i cinesi vogliono farti apparire come tale. Passai la frontiera nascosto in un camion insieme ad un pellegrino nepalese che tentava di raggiungere il monte Kailash, la montagna sacra ai buddisti, ai giainisti, ai bön e agli induisti.
Alle pendici del monte Kailash scesi dal camion, e da lì mi incamminai a piedi fino a Lhasa, passando dal monte Everest e dal villaggio natale del mio amico Palden. Percorsi più di 1.500 chilometri a piedi. Ottocento di questi in compagnia di un pellegrino che tornava a casa dopo aver percorso 108 circuiti sacri del monte Kailash. Sono pochi gli occidentali che hanno avuto la fortuna, e la sfortuna, di entrare in Tibet. Ed è anche grazie a questo che la Cina può contare su una costante disinformazione su ciò che vi accade.
Oggi chi parla di Tibet lo fa da Nuova Delhi o da Dharamsala, alcuni addirittura da Pechino. Solo pochi lo fanno da Lhasa. Ma, purtroppo, Lhasa ormai non è più Tibet. Il vero Tibet, quello dei pastori nomadi e dei monaci che resistono, non lo conosce quasi nessuno, e quindi nessuno ne parla. E le autorità di Pechino approfittano molto di questo.
Stando alle agenzie di stampa cinesi la repressione in Tibet è terminata da anni e il paese è una provincia cinese «perfettamente integrata». Potrebbe essere così per quanto riguarda Lhasa. Ma di sicuro non è così nell’altipiano.
Gli arresti indiscriminati continuano. Molti monasteri sono chiusi, altri sono aperti ma i monaci vi possono accedere solo in numero controllato. Ogni monastero può ricevere un numero di monaci massimo che non superi il 10% della sua capienza.
I monaci sono obbligati ad eseguire sedute di rieducazione e «lavori collettivi» con scadenze settimanali. Chi non partecipa finisce dritto dritto in carcere a subire torture di ogni tipo.
La ferocia della repressione è brutale, e lo è per un preciso motivo. I tibetani non mollano la presa. Nelle ultime manifestazioni di indipendenza, quelle del 2008, hanno partecipato persone che sono nate da genitori nati in un Tibet già occupato. Giovani «nati in seno al partito» come dicono in Cina.
E se le autorità di Pechino vietano l’ingresso a tutti lo fanno sì per nascondere le brutalità che stanno commettendo, ma soprattutto per evitare che il mondo si renda conto che il Tibet non è una provincia cinese. Nonostante le repressioni e le vessazioni, nonostante il tentativo sistematico di annullare la cultura tibetana questa è ogni giorno più viva.
Le hanno provate tutte
Fin dal 1950 i governanti di Pechino hanno speso le loro energie migliori per sottomettere il popolo tibetano. Prima l’invasione militare, poi la repressione religiosa, la Rivoluzione Culturale e infine l’immigrazione forzata han. Ma l’occupazione del Tibet si ferma lungo le due strade principali e nelle periferie delle città. I centri storici arroccati intorno ai monasteri, i piccoli villaggi delle verdi vallate, i laghi turchesi, le vette delle montagne, le interminabili lande popolate dai nomadi sono ancora Tibet.
Qui conobbi Lobsang, un ragazzo tibetano che ha studiato a Dharamsala grazie ad una borsa di studio. Una volta rientrato in patria si è trovato costretto a fare, da laureato, il cuoco per un’agenzia di viaggio nepalese, perché chi ha studiato dal Dalai Lama è considerato un reazionario. Lobsang ha un’idea molto chiara delle relazioni Cina – Tibet. Un giorno mi disse: «I cinesi hanno il terrore dei tibetani. Loro, sono oltre 1,3 miliardi di persone, hanno la bomba atomica, uno degli eserciti più potenti del mondo, temono un paese con sei milioni di abitanti malnutriti, senza esercito e senza aiuti da nessuno».
Ed è forse anche questo concetto che i cinesi vogliono nascondere in Tibet. In Cina parlare di Tibet è tabù. La pena di morte, lo sfruttamento dei lavoratori, la giustizia sommaria sono tutti argomenti scottanti ma per i cinesi l’argomento più delicato di tutti è proprio il Tibet.
È sorprendente come l’economia più forte del mondo possa essere messa in crisi da un gruppo di pastori nomadi, analfabeti e malnutriti. Ma la risposta è semplice. Allo stato attuale il Tibet rappresenta la più grande sconfitta della Repubblica Popolare Cinese, sia sul piano politico – militare che sul piano delle relazioni inteazionali. Le pressioni dei gruppi filo – tibetani all’estero, il continuo peregrinare del Dalai Lama e le interrogazioni all’Onu sono una fonte di imbarazzo per un paese che si propone come un nuovo leader mondiale, non solo nel campo economico. E i motivi delle incarcerazioni e delle condanne lasciano trapelare quello che sostiene Lobsang. I cinesi hanno paura. Paura che l’immagine di una superpotenza forte, compatta e inarrestabile venga messa in dubbio da un pugno di monaci e qualche pastore nomade. Come mi disse Lobsang: «Mi sembra la storia dell’elefante e il topolino che raccontano in India».
CRONOLOGIA
IL TIBET FINO ALLA «GUERRA DELL’OPPIO»
Paleolitico superiore (50.000 anni fa) – Primi insediamenti umani in Tibet.
VII secolo dopo Cristo – Sotto la guida dell’Imperatore Songtsen Gampo il Tibet conquista parte della Cina e dell’India. L’abile Songtsen Gampo sposa una donna cinese e una nepalese per proteggere i confini dell’Impero.
770 – Inizia la diffusione del buddismo sull’altipiano tibetano.
823 – Dopo decenni di lotte un trattato di pace con la Cina sigla che «Il Tibet e la Cina devono fermarsi alle frontiere che stanno occupando ora. Tutto ciò che sta a est è terra della Grande Cina, tutto ciò che sta a ovest è, senza alcun dubbio, territorio del Grande Tibet. D’ora in poi da nessuna delle due parti deve provenire minaccia di guerra o di confisca di territori» ancora oggi inciso sul portone del Jokang a Lhasa.
1240 – I mongoli di Gengis Khan conquistano il Tibet praticamente senza colpo ferire.
1271 – 1368 – Kubulai Khan imperatore della Cina. Inizia la dinastia degli Yuan.
1407 – I mongoli vengono espulsi dal Tibet. Inizia l’espansione del buddismo sull’altipiano. In questi anni sorgono tutti i grandi monasteri del Tibet.
1578 – Altan Khan, imperatore della Mongolia, proclama Seunam Gyamtso Dalai Lama (letteralmente Oceano di Saggezza), inizia il dominio dei Dalai Lama sul Tibet.
1642 – Il quinto Dalai Lama instaura regolari rapporti diplomatici con la Cina.
1696 – 1700 – Muore il quinto Dalai Lama. Truppe cinesi invadono e saccheggiano il Tibet. Il sesto Dalai Lama è costretto all’esilio in Mongolia.
1793 – Trattato dei venti punti. Il Tibet è de facto un protettorato cinese.
1839 – Guerra dell’oppio in Cina. Il Tibet riacquista indipendenza.
LA PERDITA DELL’INDIPENDENZA
1902 – 1904 – Truppe inglesi entrano in Tibet. Sbaragliano completamente l’esercito tibetano (gli inglesi conteranno tre morti, i tibetani quasi tremila) e arrivano a Lhasa. Il XIII Dalai Lama fugge in Mongolia. Il Tibet entra nella sfera d’influenza britannica.
1906 – Trattati sino – inglesi ridanno alla Cina una certa influenza sul Tibet.
1912 – Proclamazione della Repubblica cinese a Lhasa. Rivolta dei monasteri. Il Dalai Lama fugge in India.
1913 – Cacciata dei cinesi. Il XIII Dalai Lama torna in patria e il Tibet dichiara l’indipendenza dalla Cina.
1914 – 1933 – Il XIII Dalai Lama tenta di modeizzare il Tibet. Invia delegazioni all’estero, visita Pechino e riceve delegazioni russe e inglesi. Tenta anche di modeizzare l’esercito ma si scontra continuamente con il clero conservatore.
1934 – Dopo la morte del Dalai Lama il Tibet è scosso da continue lotte intee per la successione. I monaci e gli aristocratici governano il Tibet a tutti i livelli, sono consentite schiavitù e servitù della gleba, la terra è tutta proprietà di monasteri e latifondisti. Nel frattempo in Cina l’esercito di liberazione popolare guidato dal giovane Mao Zedong inizia una lunga guerriglia contro le truppe nazionaliste di Chang Kay Shek e contro i vari signori della guerra presenti in Cina.
1939 – 1945 – Seconda Guerra Mondiale. Il Tibet si dichiara neutrale.
1947 – L’India diventa indipendente.
1949, primo ottobre – Nasce la Repubblica Popolare Cinese. Mao Zedong ne è il leader indiscusso.
1950 – «Volontari» cinesi partecipano alla guerra in Corea. Viene annunciata l’imminente «liberazione» del Tibet.
1950 – 1951 – Truppe cinesi invadono il Tibet. Accordo in 17 punti per la «liberazione pacifica del Tibet». Nasce l’Anvd, l’esercito guerrigliero tibetano.
1954 – Prima riforma agraria. In tutta la Cina (Tibet compreso) la terra viene confiscata ai latifondisti e distribuita ai contadini.
1954 – 1974 – «Guerra dei vent’anni». Ribelli Kham si fronteggiano alle truppe cinesi. La Cia (servizi segreti Usa) li appoggia.
1958 – «Grande balzo in avanti»: vengono collettivizzate le terre. I contadini che prima lavoravano per un monastero ora lavorano per una comune. Viene obbligato tutto il Tibet a coltivare riso anziché orzo, ma a quelle quote i raccolti sono miseri.
1959 – Rivolta di Lhasa. In occasione del capodanno tibetano decine di migliaia di tibetani si ribellano all’occupazione cinese. L’esercito apre il fuoco sulla folla. Circa 80.000 morti in tre giorni. Il Dalai Lama denuncia l’accordo in 17 punti e fugge in India. Secondo l’Inteational commission of jurists (Icj), commissione sotto l’egida dell’Onu, la Cina è responsabile di genocidio. Iniziano le repressioni religiose.
1960 – 1963 – Prima tensione e poi rottura tra Mosca e Pechino. L’Unione Sovietica richiede indietro i prestiti in grano. Grave carestia in tutta la Cina. In Tibet si parla del 10 -15% della popolazione morta di fame.
1966 – «Rivoluzione culturale proletaria». Le Guardie rosse distruggono tutti i luoghi di culto del Tibet.
1972 – Incontro tra Nixon e Mao. Le speranze di un aiuto statunitense alla causa tibetana si infrangono.
1976 – Morte di Mao Zedong, fine della Rivoluzione culturale. Dopo dieci anni sono rimasti in piedi solo otto monasteri con un migliaio di monaci. Nel 1959 i monasteri erano oltre 6.000 e i monaci più di 100.000.
1977 – Deng Xiaoping promuove l’immigrazione forzata in Tibet. In venti anni oltre otto milioni di cinesi han si spostano in Tibet. I tibetani diventano una minoranza.
1987 – Rivolte in Tibet represse nel sangue.
1989 – Manifestazione di piazza Tien Anmen. Caduta del muro di Berlino. Premio Nobel per la Pace assegnato al Dalai Lama. Grande rivolta in tutto il Tibet. Hu Jintao, allora governatore del Tibet, impone la legge marziale e reprime la rivolta nel sangue. Il Parlamento europeo lo condanna. Deng Ziao Ping si congratula con lui attraverso un famoso telegramma.
1991 – Anno internazionale per il Tibet.
1995 – Rapimento e sparizione dell’VIII Panchen Lama (seconda figura per importanza del buddismo tibetano).
1997 – Morte di Deng Xiaoping.
IL TIBET OGGI
Anni 2000 – La Cina diventa una superpotenza economica. Per molti paesi rappresenta il primo partner economico e il Dalai Lama inizia a vedersi rifiutare da diversi governi.
2007 – Il Dalai Lama in visita in Italia non viene ricevuto né dal Papa né dai rappresentanti del governo italiano. Il premier Romano Prodi, intervistato sull’argomento, risponderà «ragioni di stato».
2008 – Prima delle olimpiadi di Pechino in Tibet scoppia l’ennesima rivolta nuovamente repressa nel sangue. Le olimpiadi si svolgono regolarmente. A giornalisti e atleti non è però concessa libertà di movimento.
2009 – Con la crisi economica globale la Cina diventa l’ancora di salvezza. Si affievoliscono sempre più le speranze di indipendenza dei tibetani.
(a cura di Flaviano Bianchini)
Stanno «sotto» gli interessi di Pechino
Ferro, rame, oro, acqua
La Cina non può fare a meno del Tibet. Il boom economico cinese va supportato da ingenti quantità di materie prime. Metalli, petrolio e, soprattutto, acqua. Il Tibet e il Turkestan sono tutto questo. Il Turkestan è il petrolio. Il Tibet i metalli e l’acqua. I cinesi si sono accorti che, oltre ad andare in Africa o in America Latina, possono rifoirsi di metalli in casa loro.
Nel 1999 il ministero delle Risorse e dei Territori, ha inviato un migliaio di ricercatori, geologi e ingegneri minerari sull’altipiano. Divisi in 24 brigate di ricerca, hanno realizzato una mappatura precisa e dettagliata di tutti i giacimenti presenti sul tetto del mondo. L’operazione, conclusasi nel 2006, è costata circa 44 milioni di dollari. Ma non appena ricevuti i primi dati delle ricerche Pechino ha approvato la costruzione della ferrovia per Lhasa. Costo dell’operazione: quattro miliardi di dollari. Ma ampiamente ripagabili.
Il fabbisogno di ferro, per esempio, è aumentato da 186 milioni di tonnellate nel 2002 a 350 milioni nel 2007. Il solo ingresso della Cina sul mercato internazionale del ferro ha fatto quasi triplicare il prezzo di questo metallo. E lo stesso vale per l’oro, per il rame e per la bauxite. Ma ora Pechino ha scoperto che sul «Tetto del mondo» giacciono un miliardo di tonnellate di ferro e 40 milioni di tonnellate di rame. Nel 2007 la Cina ha superato il Sudafrica nella classifica dei paesi produttori di oro e tutto questo oro arriva proprio dal Tibet. Secondo le stime delle brigate di ricerca sotto il suolo del Tibet giacciono minerali per un valore complessivo di oltre 150 miliardi di dollari. Il che giustifica le spese per la costruzione della ferrovia per Lhasa, il suo ampliamento fino a Shigatze, il finanziamento delle brigate di ricerca e la repressione di ogni forma di protesta. Non saranno certo i monaci a fermare Pechino in questa sua fame di metallo. L’Occidente lo sa.
Per Pechino Tibet significa metalli, ma significa anche acqua. Il 48% della popolazione mondiale, l’82% di quella asiatica, vive grazie all’acqua del Tibet. Da esso si alimentano i bacini del fiume Giallo, Azzurro, Gange, Indo, Sultej e Bramaputra. Controllando la regione, la Cina controlla l’approvvigionamento di acqua di quasi metà della popolazione mondiale.
Ma a tutto questo i tibetani non ci stanno. E continuano a ribellarsi con tutti i loro mezzi. La stragrande maggioranza di loro che, costantemente, scendono in piazza per manifestare contro la Cina e il suo esercito di liberazione popolare non ne sa nulla dei giochi politico – ecologici – strategici intorno al loro Paese. Loro sanno che il Dalai Lama, la loro indiscussa guida spirituale, è costretto all’esilio da ormai cinquanta anni; sanno che le terre sterili del Tibet non producono cibo a sufficienza per l’immigrazione forzata promossa da Pechino; sanno che i monasteri, centri nevralgici e vitali del Tibet, sono stati prima distrutti, poi ricostruiti ed infine svuotati; sanno che non hanno libertà di stampa, di informazione, di preghiera e di religione; sanno che devono rispondere a dei governanti che non parlano la loro lingua e che non si vestono come loro; sanno che ovunque vanno e qualsiasi cosa facciano rischiano di essere considerati reazionari e quindi incarcerati e torturati. Questo a loro basta. Non gli serve di sapere altro.
Il Dalai Lama invece sa perfettamente gli interessi che ci sono dietro (sarebbe meglio dire sotto) la sua terra. Ed è per questo che sono ormai anni che non chiede più l’indipendenza del Tibet. Molti tibetani non sono d’accordo con la linea morbida adottata da Tenzin Gyatso. Ma egli sa perfettamente che, allo stato attuale delle cose, la Cina non può fare a meno del Tibet. E sa anche che, da quando c’è la crisi, è tutto il mondo globalizzato che non può fare a meno del Tibet. O meglio, non può fare a meno delle risorse che la Cina preleva al Tibet. L’economia cinese è la pezza che ha arginato, seppur solo temporaneamente, la crisi mondiale e le sue conseguenze (l’economia americana in crisi ha chiesto prestiti alla Cina e li ha ricevuti dando respiro all’economia, anche se in modo temporaneo). Ma questo rammendo si basa sulle risorse del Tibet (l’aumento dei prezzi delle materie prime è stata una delle cause della crisi, e la Cina ha immesso nuove materie prese da Tibet e Turkestan). Ma non possiamo pensare che l’economia continui a crescere all’infinito, in un mondo dove le risorse sono finite.
Flaviano Bianchini