Testimoni di Cristo nella sua terra

Incontro con Michel Sabbah, patriarca latino emerito

Cosa significa essere cristiani, oggi, nella Terra santa? Essi hanno una vocazione speciale: come minoranza schiacciata tra ebraismo e musulmanesimo, sono chiamati a vivere in Gesù Cristo e renderlo presente nella sua stessa terra; come appartenenti in maggioranza a un popolo di oppressi, sono chiamati a lottare per la pace e la giustizia, attraverso la solidarietà, il dialogo, la riconciliazione.

Fare la conoscenza con la chiesa in Terra santa: fa parte del programma del corso di aggioamento presso la casa dei Padri Bianchi a Gerusalemme. Ce ne parla la voce più autorevole: mons. Michel Sabbah, primo palestinese eletto patriarca latino di Gerusalemme dal 1987 al 2008.
La sua presentazione è molto breve: nato a Nazaret nel 1933, ordinato presbitero nel 1955, laureato in filologia araba a Beirut, dottore in filosofia alla Sorbona di Parigi, presidente della Conferenza episcopale dei vescovi latini della regione araba, dell’Assemblea degli ordinari cattolici della Terra santa e di Pax Christi Inteational (1999-2007) è stato e continua ad essere, anche dopo le dimissioni da patriarca per limiti di età, promotore appassionato del dialogo interreligioso con ebrei e musulmani, costruttore di pace e riconciliazione tra i due popoli e le tre religioni presenti nella terra di Gesù.
Testimoni per natura e vocazione 
«Siamo una chiesa piccola e lo siamo da sempre – esordisce con voce pacata e ferma -. Nel III secolo il vescovo di Gerusalemme era suffraganeo dell’arcivescovo di Cesarea e solo nel V secolo ottenne il titolo di patriarca (Concilio di Calcedonia, 451 d.C.). Durante i tre secoli di dominio bizantino i cristiani sono stati in maggioranza, ma sono tornati piccolo gregge dal VII secolo in poi, con la conquista araba (638). Possiamo dire che in tutta la sua storia Gerusalemme non è mai stata una città cristiana. 
Tale piccolezza non è solo un problema di carattere storico e politico, ma fa parte del mistero di Cristo, come afferma l’evangelista Giovanni: “Venne tra i suoi e i suoi non lo riconobbero, non lo accettarono”. Gesù formò un’esigua comunità con gli apostoli, i discepoli e le donne che avevano creduto in lui, e rimase un piccolo gruppo nella sua società. Ancora oggi, dopo quasi 20 secoli, Cristo è nella stessa situazione: non è riconosciuto nella sua terra; non è accettata nella società la sua azione di redenzione».
«Siamo piccoli e siamo molte chiese – continua il patriarca emerito senza reticenze -. A Gerusalemme sono presenti quasi tutte le chiese cristiane storiche: ortodosse, cattoliche e protestanti. Pur con le nostre diversità, dobbiamo rispondere alle sfide del mondo contemporaneo: siamo un piccolo gruppo, ma, come ai tempi delle origini, abbiamo una vocazione speciale: testimoniare Cristo nella sua terra; questa presenza di testimonianza è la vera natura della chiesa di Gerusalemme. Quando incontro dei fedeli che vogliono emigrare dico loro che perdono due cose: patria e vocazione, cioè, essere cristiani e testimoni nella terra di Gesù e in questa società».
Toccando il problema della migrazione, il patriarca si fa serio e ricorda che sono oltre mezzo milione i cristiani palestinesi, in maggioranza dispersi nel mondo dall’emigrazione e dalle guerre del 1948 e del 1967; solo circa 180 mila sono in Terra santa, formando l’1,7% della popolazione sia in Israele che in Palestina.
«Siamo una comunità in via di estinzione? – continua il patriarca ponendosi la domanda e dandosi la risposta -. Molti vorrebbero pensarlo. In realtà, benché piccola siamo una comunità molto viva, partecipe di tutta la vita della chiesa e della società. È vero che tanti sono stremati da una continua lotta per la sopravvivenza e finiscono per andarsene. Altri, però, restano. Resterà sempre in Terra santa una piccola comunità di cristiani. Gesù ha detto ai suoi apostoli: «Voi sarete miei testimoni a Gerusalemme, nella Giudea e nella Samaria e fino agli estremi confini della terra» (At 1,8). Per questo noi restiamo e resteremo, lungo i secoli, i testimoni di Gesù nella sua terra.
Situazione insopportabile 
«Qual è il ruolo dei cristiani, oggi, in Terra santa?» si pone la domanda il patriarca, dandone pure la risposta: «Oltre a chiesa di testimoni, siamo anche chiesa del Calvario, sempre in croce per i conflitti politici che hanno interessato questa terra. Se Gerusalemme è per eccellenza la città della croce, la chiesa di Terra santa nasce sotto di essa. Ogni cristiano partecipa alle sofferenze della sua gente: i cristiani israeliani di espressione ebraica si sentono parte di una società che soffre e ha paura; i cristiani palestinesi condividono le sofferenze e le tragedie dei palestinesi. Sulla carta esiste un’autorità palestinese; in realtà non abbiamo alcuna libertà e l’occupazione militare diventa sempre più insostenibile e violenta».
Muro di separazione, umiliazioni ai chek point, aggressioni, demolizioni di case, impossibilità di movimento, disoccupazione… La lista continua sciorinando le ingiustizie che tengono un popolo in ostaggio, impediscono lo sviluppo e fomentano odio e violenza.
«Ai disagi materiali si aggiungono pericolose ricadute sociali e morali come la disgregazione delle famiglie» prosegue il patriarca, spiegando che, per uscire dai territori occupati occorre uno speciale permesso, che viene molto spesso rifiutato. Ne consegue che se un coniuge lavora a Gerusalemme e l’altro vive nei territori palestinesi, entrambi sono impediti di vivere insieme come famiglia. «Ci sono cristiani di Betlemme, per esempio, che non sono mai stati a pregare nei luoghi santi a Gerusalemme. Si dà la colpa alla Giordania, che ha governato Gerusalemme fino al 1967: a quei tempi gli israeliani non potevano recarsi al muro del pianto. Ora il regime d’Israele si comporta allo stesso modo con i cristiani palestinesi e dei paesi islamici come Siria e Giordania».
Responsabilità di religioni e chiese  
Nel conflitto israelo-palestinese fino a che punto c’entrano le ragioni religiose?
«La situazione di oppressione e violenza in cui viviamo rendono difficili le relazioni tra gruppi e individui e risvegliano l’antagonismo tra sensibilità religiose differenti. Tuttavia la religione diventa molto spesso un pretesto per affermare la posizione politica, come la questione delle moschee sulla spianata del tempio. Nelle grandi feste, come capodanno o sukkot, c’è sempre qualche gruppo di fanatici ebrei che tentano di prendere possesso della spianata del tempio. Da parte araba è nata una nuova ideologia: si afferma che non c’è mai stato il tempio, ma il luogo è islamico dai tempi di Abramo.
L’ostilità dei palestinesi non è contro gli ebrei in quanto ebrei, ma contro lo stato d’Israele: ostilità semplicemente politica, derivate dalla situazione politica e non da sentimenti di antisemitismo.
Ma in Oriente la dimensione religiosa compenetra e anima tutte le attività private e pubbliche, per cui le religioni hanno una grande responsabilità, in questa parte del mondo, nella ricerca della giustizia e della pace; perciò i leader religiosi possono avere un’influenza decisiva sui fedeli, in un senso o nell’altro, incitare alla guerra e violenza o esortare alla pace.

Qual è il rapporto tra chiesa e stato d’Israele?
All’interno del territorio israeliano, i rapporti della chiesa con lo stato d’Israele sono basati sul rispetto dovuto a ogni autorità. Quando i cristiani arabo-israeliani mi chiedono come comportarsi di fronte allo stato, io rispondo: siete cristiani, siete arabi e siete cittadini israeliani. Siete dunque tenuti a una triplice fedeltà: alla vostra fede cristiana, al vostro patrimonio culturale arabo, che condividete con i musulmani d’Israele e i popoli arabi, e allo stato d’Israele in cui vivete e disponete di un sistema democratico dove sviluppare la vostra vita sociale e religiosa.
Nei Territori occupati, invece, i rapporti tra chiesa e stato sono spesso tesi a causa del regime di occupazione. Ogni volta che faccio sentire la mia voce in questo senso, si alza la tensione, pur non arrivando alla rottura. Tuttavia cerco sempre di fare comprendere che, come portavoce della chiesa, voglio solo il bene dei palestinesi e degli israeliani.

Anche le altre chiese sono sulla stessa linea?
Grazie a Dio, oggi in Terra santa viviamo in un clima di amicizia e frateità tra le differenti chiese cristiane e speriamo di crescere in un cammino ecumenico reale che ci orienti verso una maggiore unità e meno status quo, meno vita nel passato e più attenzione alle difficoltà dell’ora presente.
Siamo 13 capi di chiese a Gerusalemme e prendiamo la parola ogni volta che la situazione si fa più opprimente per denunciare le ingiustizie, come abbiamo fatto durante la crisi e l’assedio della basilica di Betlemme. Abbiamo fatto insieme un documento su Gerusalemme, sulla natura e significato cristiano della città. In dicembre abbiamo pubblicato Il documento kairos Palestina (vedi pagina 30).
Pace su Gerusalemme!  
Gerusalemme è il cuore del conflitto: come trasformare il problema in soluzione?
Oggi Gerusalemme è la città di due popoli e tre religioni. Le parti in conflitto pensano più a dividerla che a condividerla. È la città di Dio e, come Dio, è per tutti: nessuno può averla in esclusiva. Essa deve essere aperta a tutti i credenti, facendone una città internazionale con uno statuto speciale, governata alla pari da israeliani e palestinesi; un’entità unica di cui nessuno è padrone, ma comproprietario, sotto la supervisione dell’Onu, per garantire il rispetto delle regole e delle speranze dei due popoli e delle tre religioni.
Gerusalemme è la chiave della pace nella regione; ogni soluzione imposta con la forza, che non rispetti i diritti e i doveri di tutti può portare solo a una tregua, non a una pace definitiva.

Chi ha le chiavi della pace?
Il conflitto in corso non è una guerra: non ci sono due eserciti che si combattono tra loro, ma da una parte c’è l’oppressore, dall’altra l’oppresso. Se si parla di azioni terroristiche palestinesi, bisogna parlare anche di azioni terroristiche israeliane. La violenza palestinese e quella israeliana sono purtroppo legate tra loro.
Come rompere il circolo vizioso? La soluzione è semplice: porre fine all’occupazione militare israeliana; non vedo altro modo possibile per far scoppiare la pace in Medio Oriente. Purtroppo, Israele non parla di occupazione, ma di autodifesa, di diritto alla sicurezza, e non capisce che il vero problema è l’ingiustizia fatta al popolo palestinese. Se cesserà tale ingiustizia, se i palestinesi avranno il loro stato, saranno i migliori amici d’Israele. La pace è molto più utile a Israele che ai palestinesi. E se vuole la pace, deve aprire il dialogo, fare passi concreti; è lo stato più forte ed è l’oppressore, per cui dovrà fare il primo passo. La chiave della pace è in mano a Israele.

In concreto, come risolvere il conflitto?
Non può esserci pace senza risolvere il problema del territorio. Nel 1967 il 78% del territorio formava lo stato di Israele; il 22% sotto il governo giordano; poi Israele lo ha occupato e di questo 22% promette di restituire il 40%, che non basta per fare uno stato. Quindi, o Israele si ritira dai territori occupati e li restituisce ai palestinesi, oppure li incorpora formando un unico stato in cui tutti i cittadini sono uguali, con gli stessi diritti e doveri, cambiando il nome se necessario, tornando magari al nome primitivo, da Èretz Israèl (terra d’Israele) a Terra di Canaan.
Invece Israele continua a costruire nuovi insediamenti nei territori occupati e sta giudeizzando Gerusalemme, confiscando proprietà e case, con il pretesto che prima del 1948 appartenevano o erano abitate da ebrei. Ma lo stesso principio non è applicato per i rifugiati palestinesi, quando reclamano la restituzione delle loro abitazioni, ora occupate da ebrei.

Ma Obama…
Anche Obama ha deluso. Quando ha incontrato il premier israeliano e il presidente dell’Autorità palestinese, non ha concluso niente: si è accontentato di parole, lasciando le cose come stanno, senza fare alcuna pressione su Netanyahu, permettendogli in pratica di continuare la sua politica. Senza imporre sanzioni e farle rispettare, Israele continua a fare ciò che vuole, contro e al di sopra di ogni legge internazionale.
Obama ha capito che c’è un problema di leadership: né Netanyahu, né Abu Mazen, né Hammas sono all’altezza per risolvere il conflitto; per questo non si impegna più di tanto per risolvere il problema.
Ma Obama…
Allora… come cristiani continuiamo a sperare e lavorare. Nella terra sacra per le tre grandi religioni monoteiste il dialogo è possibile e deve essere possibile. Siamo popoli che da due mila anni viviamo gomito a gomito: è un fatto storico. È la storia che ci ha radunati tutti insieme, o meglio, è la Provvidenza, i Signore della storia  che lo ha permesso e voluto.
Da parte nostra facciamo tutto quello che possiamo, convinti di avere una vocazione specifica: essere cristiani, cioè testimoni di Gesù nella sua terra, chiamati a testimoniare il suo amore e la sua riconciliazione qui e non altrove.

Di Benedetto Bellesi

Benedetto Bellesi




Piccolo gregge, grande missione

Comunità cattoliche di espressione ebraica

Non sono molti, forse un migliaio, i cattolici ebreofoni, ma consapevoli del loro ruolo a livello locale e universale: testimoniare i valori di pace e giustizia, perdono e riconciliazione in un contesto di violenza e di guerra; servire da ponte fra la chiesa universale e il popolo ebreo, accrescere nella chiesa la coscienza delle radici ebraiche e l’identità ebrea di Gesù e degli apostoli. 

«Sono francescano e polacco; quindi un goi (gentile) e non ebreo» dice sorridendo padre Apolinary Szwed, e continua: «Siamo una comunità modesta, che non fa rumore, quasi invisibile, ma viva e cosciente della nostra realtà». Che sia modesta non c’è dubbio. La comunità a lui affidata è formata da una settantina di fedeli, che si raduna in una stanza molto semplice, che funge da chiesa dedicata ai santi Simeone e Anna; ma la novità sta nel fatto che questi cattolici sono di lingua ebraica, e costituiscono un tassello importante nel mosaico della cristianità in Terra santa.  
Tutto è cominciato subito dopo la creazione dello stato di Israele, quando arrivarono in Israele cristiani che pregavano in ebraico. Alcuni preti, per lo più francesi di origine, cominciarono a occuparsi di loro per introdurli nella chiesa di Gerusalemme; a tale scopo fondarono nel 1955 l’associazione chiamata «Opera di san Giacomo», il cui statuto ne stabiliva lo scopo: costituire una comunità di espressione ebraica e colmare il fossato tra giudei e cristiani, promuovere riconciliazione e conoscenza reciproca in seno alla società ebraica.
Per raggiungere tale fine, furono avviate varie iniziative: nel 1959 il domenicano Bruno Hussar, ebreo di origine francese, nato in Egitto e naturalizzato israeliano, fondò la Casa di sant’Isaia, istituto domenicano di ricerche e studi ebraici. Altri religiosi, come Marcel Debois e Jacques Fontaine, promossero tra i giovani francesi lo studio dell’ebraico biblico, della cultura, religione, storia ebraica. Lo stesso padre Hussar fu all’origine di Neve Shalom (Oasi di pace), un villaggio dove ebrei, cristiani e musulmani vivono insieme ed educano i propri figli in una stessa scuola, rispettosa delle due culture arabe ed ebraiche.
Alcuni membri di questa comunità hanno aiutato a formulare varie riforme del Concilio Vaticano II, come la condanna dell’antisemitismo, il ripudio dell’accusa di deicidio, uso della lingua locale nella messa, iniziato in Israele 10 anni prima del Concilio. Per anni hanno svolto un enorme lavoro per tradurre la liturgia, sviluppare una musica sacra e creare un vocabolario teologico cristiano in ebraico.
L’Opera di san Giacomo non è una parrocchia o un insieme di parrocchie, ma un’associazione con statuto particolare e oggi costituisce il «Vicariato ebreofono» all’interno del Patriarcato latino di Gerusalemme. Nel 1990 fu nominato il primo vicario nella persona dell’abate benedettino israeliano Jean Baptiste Gourion, consacrato vescovo nel 2003, morto prematuramente nel 2005. Dal 2009 il vicario patriarcale è il gesuita israeliano David Neuhaus.

Dopo una ventina di anni la comunità è cresciuta, soprattutto con l’ondata migratoria dall’ex Unione Sovietica, che ha portato decine di migliaia di cristiani, tra i quali vari cattolici. Oggi il vicariato patriarcale conta nove preti, alcune centinaia di fedeli e sei centri: quattro di lingua ebraica (Ber Sheva, Haifa, Jaffa e Gerusalemme) e due di lingua russa.
Negli ultimi 20 anni, però, passata l’ondata immigratoria, i cattolici ebreofoni sono diminuiti e si prevede che resteranno pochi. «Abbiamo qualche conversione – spiega padre Apolinary -. Attualmente due adulti si stanno preparando al battesimo. Anche se le leggi statali lasciano libertà di fede, la pressione sociale, economica e giuridica è tale che non solo scoraggia le conversioni, ma consiglia gli ebrei cristiani alla discrezione, senza sbandierare la loro appartenenza al cristianesimo».
Per il resto, essi vivono le realtà e i problemi di tutti gli altri ebrei. Religione, storia, cultura ebraica stabiliscono il ritmo della vita della comunità cattolica, che segue quindi il calendario e partecipa alle feste ebraiche; alcuni cattolici digiunano nel giorno del kippur e partecipano alle funzioni della sinagoga in segno di solidarietà.
Inizialmente le comunità erano formate da ebrei arrivati in Israele durante la grande emigrazione, coppie miste, formate in prevalenza da un uomo laico ebreo e una donna cattolica; vi erano pure cattolici di origine ebraica che avevano scoperto la loro appartenenza al popolo ebraico in seguito alla shoah. Oggi prevalgono i membri nati e cresciuti in Israele, per cui la grande sfida è trasmettere la fede alle nuove generazioni. Problema non facile, dal momento che, a differenza delle comunità cristiane di lingua araba, i piccoli gruppi di cattolici ebreofoni non hanno istituzioni educative proprie, per cui i giovani frequentano le strutture statali, con il rischio di assimilazione nella società ebraica laica.
«Per questo siamo impegnati nella catechesi – spiega padre Apolinary -: formazione dei bambini, preparazione ai sacramenti, sessioni per giovani coppie, incontri di studio della bibbia, ritiri e preparazione dei catechisti della comunità».

Nonostante la sua quasi invisibilità, la comunità cattolica ebraica è impegnata nella missione che la Provvidenza le ha assegnato. Un primo lavoro è la ricerca delle pecorelle smarrite, cioè coloro che non sanno dell’esistenza della chiesa di lingua ebraica e della possibilità di una vita cattolica nella società israeliana.
Un’altra sfida per i cattolici di lingua ebraica è l’impegno per il dialogo e la riconciliazione. «Le nostre comunità – spiega padre Apolinary – sono diventate un luogo di preghiera per la pace. Vogliamo essere un ponte tra ebrei e arabi, tra la chiesa e il popolo d’Israele, rafforzando i legami di amicizia e testimoniando i valori cristiani di pace e giustizia, perdono e riconciliazione in un contesto di violenza e conflitto armato».
La comunità cattolica di espressione ebraica ha qualcosa da dire anche alla chiesa universale che, a partire dal Concilio Vaticano II, è chiamata a rinnovarsi mediante la riflessione sull’identità ebraica di Gesù, a riscoprire le radici ebraiche della fede cristiana; una sfida che i cattolici in Terra santa vivono quotidianamente. Pregare in ebraico, vivere da cattolico in ebraico, essere minoranza cattolica nell’unica società totalmente ebraica è una realtà nuova per la chiesa locale e universale.

Di Benedetto Bellesi

Benedetto Bellesi




Stella di Davide e croce di Cristo

Ebrei al cento per cento e discepoli di Yeshua (Gesù)

Credono che Gesù è il Messia, ma non vogliono essere chiamati cristiani; sono una sparuta minoranza, osteggiata e perseguitata, ma in rapida crescita nel mondo e dentro i confini di Israele;
si definiscono «ebrei messianici»: sperano di diventare un ponte tra ebraismo e cristianesimo.

«Mia madre era ebrea irachena, emigrata in Cina, dove sposò un cristiano inglese – comincia Maureen Grimshaw, raccontando la sua storia -. Non cambiò mai la sua fede, ma non volle che i suoi figli fossero educati come ebrei, dopo ciò che era avvenuto con l’olocausto (sono nata nel 1942). Toati in Inghilterra ricevetti un’istruzione cristiana nella chiesa metodista.
Avevo otto anni quando un giorno, sentendomi più triste del solito (mia madre si era risposata), udii una voce che mi disse: “Io ti amo”. Fu la prima esperienza personale di Gesù. Mi piaceva andare al catechismo e sentire parlare di lui. A 12 anni mi domandavo come fosse Dio; un giorno una voce mi risuonò nel cuore: “Io sono l’amore”. A 16 anni, mi sentivo non accettata in famiglia, odiavo me stessa e pregavo il Signore perché mi facesse morire. Ma una notte sentii un grido fortissimo che mi disse: “Io sono morto per te”.
La mia vita mi portò in vari posti per lavoro finché arrivai nel Qatar. Qui sperimentai quanto gli arabi disprezzassero e odiassero americani ed ebrei. “Mia madre è ebrea e io sono ebrea – mi dissi -. Devo andare ad aiutarli”. Pochi mesi dopo tornai a Londra e feci domanda di aliya (migrazione in Israele). Fu un miracolo: mi accettarono, benché fossi coinvolta con il cristianesimo. Lavorai come infermiera, finché sono entrata in questo luogo come volontaria, per testimoniare che Gesù ama gli ebrei».
Il luogo è Christ Church, una chiesa-sinagoga costruita nel 1849 con lo scopo di portare il cristianesimo tra gli ebrei e oggi centro di culto per varie comunità messianiche. E mentre racconta, la signora Maureen intreccia le dita nella catenina da cui pende una medaglia formata dall’unione della stella di Davide e la croce di Cristo. E spiega: «È il simbolo più eloquente della nostra fede: la stella esprime l’identità ebraica; la croce testimonia la fede in Gesù il Cristo».

Si definiscono ebrei al cento per cento e credono che Gesù è il Messia. Per esprimere questa identità essi usano termini ebraici: Gesù diventa Yeshua, Cristo diventa Hamashiah (messia, consacrato); non vogliono essere chiamati giudeo-cristiani o ebreo-cristiani, ma ebrei messianici; tanto meno ebrei convertiti: sono ebrei compiuti o ebrei credenti; la chiesa diventa l’assemblea.
Essi vogliono ricreare le comunità dei primi discepoli del Messia, cresciute a Gerusalemme e in Palestina durante il primo secolo, come sono descritte nel libro degli Atti; comunità formate da ebrei osservanti tutte le tradizioni ebraiche, finché non furono cacciati dalle sinagoghe dal giudaismo talmudico-rabbinico da una parte e assorbiti nel cristianesimo d’impronta greco-romana dall’altra, in cui fu bandita ogni espressione di fede ebraica (sinodo di Nicea 730).
Paolo aveva descritto le comunità dei credenti gentili (non ebrei) come olivo selvatico innestato sull’olivo buono, cioè Israele (Romani 11,17); per quasi 2.000 anni è avvenuto il contrario: l’olivo buono innestato sui rami selvatici: fino a una cinquantina di anni fa un ebreo, per essere battezzato, doveva abiurare il suo ebraismo, perdendo la sua identità ebraica, sia per la sinagoga che per la chiesa.
In quanto ebrei, i messianici rispettano la legge mosaica, seguono la liturgia ebraica, praticano la circoncisione, onorano lo sabath (sabato) e la kasherut (dieta alimentare); alcuni indossano tallit, (scialle della preghiera), kipah (zucchetto) e tefillim (astucci con brani della legge) come gli ebrei più ortodossi; celebrano le feste che ricordano l’intervento di Dio nella storia d’Israele: pessach, shavuot, succot (pasqua, pentecoste e capanne), anche come feste profetiche, che hanno avuto il loro compimento nel Messia.
In quanto messianici credono nel Nuovo Testamento come parte integrante della bibbia, i cui autori e destinatari appartengono al popolo d’Israele, ma data a conoscere a tutte le genti. Celebrano la santa cena in generale una volta al mese. Il battesimo è proposto agli adulti ed è praticato per immersione, come nella chiesa primitiva. Credono nella Trinità e nel valore salvifico della morte del Signore Gesù, ma ostentano la croce nei luoghi di culto, poiché nella memoria collettiva è diventata simbolo di uccisione e morte. «Ma non ci vergogniamo del Messia crocifisso: anche per noi la croce è simbolo significativo della nostra fede, che ci ricorda quello che il Messia ha dovuto soffrire» afferma il messianico Gershon Nerel.

Il messianismo è nato nel 1800 in Inghilterra, quando i cristiani di origine ebraica, per differenziarsi dagli altri, si organizzarono in associazioni proprie, come la «Unione cristiana ebraica» (1865). Associazioni e alleanze messianiche dalla Gran Bretagna si diffusero negli Stati Uniti e nel resto d’Europa, con la stessa visione: riunire i cristiani di origine ebraica e annunciare il Messia agli ebrei.
Q uanti sono oggi gli ebrei messianici? È difficile dirlo, essendo comunità fluttuanti. Ogni assemblea conta tra 20 e 250 membri, che si radunano in appartamenti o sale private, con poche eccezioni, come l’uso di Christ Church. Ciascuna di esse è autonoma, con storia, carattere e organizzazione propria. Molte somigliano a comunità evangeliche e carismatiche, specie quelle dove i membri provengono da movimenti e gruppi carismatici. Nei loro incontri, tutti danno importanza alla testimonianza: «Noi l’abbiamo trovato!».
Mancando una qualsiasi autorità centrale rimane difficile definire il numero dei messianici. Secondo stime approssimative, attualmente essi sarebbero oltre mezzo milione nel mondo, metà dei quali negli Usa e tra i 5 mila e i 15 mila in Israele, distribuiti in un centinaio di comunità; calcoli più realistici contano nel paese 80 assemblee con circa 7 mila membri.
E sono in continua crescita, come scrive un ampio servizio di Up Front (supplemento del Jerusalem Post del 13-2-2009). Il vistoso titolo dice: «La fede avanza: 7 mila credono in Gesù come loro redentore». E il sottotitolo aggiunge: «Con grande irritazione dell’establishement in Israele». Alcune foto a colori mostrano giovani, con T-shirt rosse e scritta in ebraico: «Ebrei per Gesù», che distribuiscono volantini. L’articolo cita pure espressioni della loro fede senza censurarle: «Yeshua è l’incarnazione del Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe». «Se mi rifiutassi di parlare di Yeshua ai miei simili, sarebbe come conoscere la medicina contro l’Aids e tenerla per me».
«Ebrei per Gesù» è il gruppo più conosciuto, anche se minoritario, e il più avversato per la sua attività missionaria. I suoi adepti organizzano campagne con predicazioni pubbliche e discussioni individuali per le strade, distribuzione ai passanti di stampati informativi a bizzeffe e uso di tutti i mezzi di comunicazione di massa, per dimostrare agli ebrei che la messianicità di Gesù è fondata su prove evidenti e aiutare i cristiani a ritrovare le radici della loro fede. 

Per lo più gli ebrei messianici preferiscono non mostrare la propria fede. Oltre a essere rispettosi della legge mosaica, essi si comportano da leali cittadini, sono presenti nell’esercito, università e altri settori professionali, in associazioni israeliane umanitarie, hanno fondato quella «Pro Life» per lottare contro l’aborto e aiutare le donne in difficoltà.
Eppure sono spesso oggetto di angherie, intolleranza e persecuzione. Ad aizzare l’ostilità sono almeno due «Organizzazioni anti-missionarie» ultra-ortodosse, come Yad L’achim (Mano ai fratelli) e Lev L’achim (Cuore per i fratelli). I loro attivisti raggiungono, e a volte oltrepassano, i limiti della legalità, denigrando e minacciando gli ebrei messianici, screditando i loro pastori e anziani, attaccando minacciosi manifesti con la foto del «messianico» del quartiere e la scritta «pericolo».
«Quando un ebreo in Europa dice di credere in Gesù Cristo, ciò diventa un biglietto per entrare nella società normale; in Israele è il contrario: credere in Yeshua è un biglietto per uscire, esclude automaticamente dalla società ebraica» afferma un rabbino; e un altro aggiunge: «In Israele un ebreo può essere buddista o ateo, ma non gli è consentito di credere in Yeshua Hamashiah».

Di Benedetto Bellesi

Chiese di Gerusalemme e dintorni

Le tredici «sorelle»

Comunità ortodosse

PATRIARCATO GRECO-ORTODOSSO. Fu istituito dal Concilio di Calcedonia nel 451, legato a Costantinopoli ne seguì il progressivo distacco fino allo scisma con la chiesa latina (1054). Dal 1534 i patriarchi di Gerusalemme sono tutti di origine greca, causando serie tensioni con il clero di lingua araba. I greco-ortodossi costituiscono la chiesa più grande in Terra santa (circa 70 mila fedeli), tutti arabi, eccetto poche centinaia di greci. Sotto la giurisdizione dello stesso patriarcato sono le chiese ortodosse nazionali di Russia e Romania presenti in Israele.

PATRIARCATO ARMENO. Prima nazione cristiana (IV secolo), chiesa non calcedoniana, presente a Gerusalemme fin dal V secolo, dal 1311 gli armeni hanno un proprio patriarca, che risiede nel convento di san Giacomo. La comunità armena crebbe con l’arrivo di profughi dalla fine del XIX secolo alla prima guerra mondiale. Oggi i 1.500 armeni vivono a Gerusalemme, altre centinaia in Israele e Territori palestinesi.

CHIESA SIRIACA o GIACOBITA. Erede di Antiochia, lingua liturgica l’aramaico (lingua di Gesù) è una chiesa non calcedoniana, anche se chiamata «ortodossa». Dei 300 siriaci in Terra santa, 200 vivono a Gerusalemme, presso il monastero di san Marco, guidati da un vescovo (esarca) rappresentante del patriarca residente a Damasco.

CHIESA ORTODOSSA COPTA. Arrivata dall’Egitto a Gerusalemme nel IV secolo, ebbe forte influsso nell’origine del monachesimo nel deserto di Giuda. La comunità oggi è composta da una decina di monaci, il cui superiore ha dignità vescovile; abitano vicino al Santo Sepolcro.

CHIESA ORTODOSSA ETIOPE. Dal IV secolo presente a Gerusalemme, ebbe vari diritti nei luoghi santi, perduti con il dominio turco. Oggi un vescovo guida poche dozzine di monaci e monache, vicino al Santo Sepolcro.

COMUNITÀ Cattoliche

CATTOLICI DI RITO LATINO. Ebbero amministrazione autonoma con l’istituzione del primo patriarca latino di Gerusalemme per opera dei crociati (1099), finito con la riconquista araba (1187) e restaurato nel 1847. Nel frattempo la presenza cattolica fu assicurata dai francescani (Custodia di Terra santa) con opere pastorali, educative, assistenziali, moltiplicate con l’arrivo di vari istituti religiosi a partire dal 1800. Oggi i circa 41 mila cattolici di rito latino sono quasi tutti arabi, compreso il patriarca; alcune centinaia di cattolici sono di espressione ebraica.

CHIESA CALDEA. La chiesa cattolica caldea è nata nel XVI secolo da uno scisma della chiesa assira (conosciuta come chiesa nestoriana), quando alcuni gruppi elessero un proprio vescovo (1552) e chiesero l’approvazione di Roma, ricevendo il titolo di patriarca dei cattolici caldei. In Terra santa la comunità caldea conta poche famiglie; sede vescovile a Gerusalemme.

CHIESA MARONITA. È la sola chiesa orientale interamente cattolica, fondata da san Marone (IV sec.) in Siria e affermatasi in Libano. I maroniti sono circa 8 mila, presenti soprattutto i Galilea, guidati da un arcivescovo (esarca patriarcale)  che risiede a Gerusalemme. 

CHIESA GRECO-CATTOLICA o MELKITA. Chiesa calcedonica, dipendente da Antiochia, definitivamente in comunione con Roma nel 1729, segue la liturgia bizantina in lingua araba e greca. I melkiti in Terra santa sono circa 50 mila, buona parte nella Galilea, guidati da un esarca, rappresentante del patriarca di Antiochia.

CHIESA CATTOLICA ARMENA. Fin dai tempi delle crociate ci furono tentativi di unione degli armeni con Roma; con la predicazione dei domenicani si formarono alcune comunità armeno-cattoliche, alle quali papa Benedetto XIV assegnò un patriarca (1742), che dal 1829 risiede a Istanbul. Alcune decine di famiglie di cattolici armeni sono sparse tra Gerusalemme, Haifa, Nazaret e Ramallah; sede dell’esarca patriarcale in santa Maria dello Spasimo.

CHIESA CATTOLICA SIRIACA. Nata in Siria con la predicazione cattolica nel XVII secolo; a causa di persecuzioni, la sede del patriarcato da Aleppo fu portata in Libano. I cattolici siriaci in Terra santa sono 2-300, sparsi in varie città, con sede vescovile a Gerusalemme.

CHIESE PROTESTANTI

COMUNITà ANGLICANA e LUTERANA. I protestanti arrivarono a Gerusalemme solo a partire dal 1800, con l’instaurarsi delle rappresentanze diplomatiche occidentali a Gerusalemme. Oggi contano circa 5 mila fedeli; ognuna delle due comunità è guidata da un proprio vescovo.

Benedetto Bellesi




Babele o profezia?

Chiesa e chiese in Terra santa

A Gerusalemme sono presenti 13 chiese cristiane, con culture, lingue, credi, riti, leggi, tradizioni proprie. Una varietà che risale alle origini, ma che nei secoli è diventata divisione, con conseguenti tensioni
e conflitti. Eppure oggi più che mai i cristiani della Terra santa si sentono uniti in un ricco mosaico di fede e di vita, destinato a diventare un esempio per tutte le chiese del mondo.

Il primo impatto è stato scioccante per non dire scandaloso. Dopo ore di fila riesco a sfiorare la roccia del Calvario, quando un monaco scorbutico mi sollecita ad allontanarmi; nell’edicola del Santo Sepolcro è anche peggio: il monaco assomiglia più a un buttafuori che al custode del luogo sacro. Per non parlare delle celebrazioni religiose delle diverse confessioni: riti e processioni che si susseguono con ritmo incalzante, con canti e incensi in abbondanza, ma scarsa devozione, almeno in apparenza.
Tale freddezza rituale è frutto delle tensioni esistenti tra le differenti chiese che hanno il controllo della basilica o il diritto di officiarvi: devono rispettare con scrupolo tempi e luoghi loro assegnati dalla consuetudine; la minima invasione di tempo o di campo può finire in risse furibonde.
Tali tensioni hanno origini storiche lontane e si coagulano per futili motivi nella gestione del luogo santo, regolata dal cosiddetto Status quo (vedi p. 32) fuori dal tempio, la diversità tra le chiese appare piuttosto come un dono per la chiesa universale.
In principio… era la diversità
A Gerusalemme e in Terra santa esistono ben 13 confessioni cristiane differenti e separate: tutte riconoscono la città santa come loro madre, ma faticano a riconoscersi sorelle. Da dove derivano tante differenze?
Il giorno stesso di pentecoste, fra i tre mila battezzati c’erano «giudei osservanti di ogni nazione sotto il cielo», differenti per cultura e lingua (Atti 2,5). Durante l’era apostolica la chiesa crebbe in pluralità di modi d’intendere riti e comunione, nell’unica chiesa fatta di cristiani-giudei e cristiani-pagani, uniti nell’unica fede in Cristo.
La pluriformità aumentò dopo l’età apostolica, con la diffusione del vangelo in tutte le direzioni nel mondo allora conosciuto e la fondazione di nuove comunità o chiese locali, che si svilupparono in differenti aree geografiche e attorno a importanti centri amministrativi e culturali, sotto la guida di un vescovo. Alle chiese di origine apostolica fu riconosciuta particolare autorità sulle altre chiese. Cinque in particolare, chiamati patriarcati,   Roma, Costantinopoli, Alessandria, Antiochia e Gerusalemme (pentarchia), costituirono i vertici  e punto di riferimento, attorno ai quali fu organizzata la chiesa universale, all’interno dell’impero romano e al di fuori dei suoi confini, come in Armenia, Persia, Mesopotamia, Etiopia, India.
Ogni chiesa locale si sviluppò con caratteristiche proprie di lingua, liturgia, teologia, diritto canonico, spiritualità, conservando sempre la comunione e l’unità di fede, riconoscendosi parte dell’unica chiesa di Cristo. Per quattro secoli unità e pluriformità crebbero assieme, fino ai tempi delle grandi controversie cristologiche. 
Poi le divisioni 
L’evoluzione della fede cristiana fu accompagnata fin dagli inizi dall’incalzare di movimenti ereticali, riguardanti soprattutto la figura di Cristo e il mistero della sua incarnazione. Tali controversie teologiche mettevano a rischio anche la pace e unità sociale, per cui l’imperatore stesso si fece promotore di concili ecumenici, convocando i vescovi per risolvere le controversie. I primi due concili, di Nicea (325) e di Costantinopoli (381), che definirono rispettivamente la divinità di Gesù e dello Spirito Santo (da cui il credo niceno-costantinopolitano) furono accettate da tutte le chiese. Non così i concili di Efeso (431) e di Calcedonia (451).
A Efeso fu condannato il nestorianesimo, che sosteneva un’unione apparente tra natura divina e umana di Cristo, negando a Maria l’appellativo di «madre di Dio» (Theotókos), ritenendola genitrice della sola persona del Cristo-uomo. Tale concilio non fu accettato dalle chiese in Persia: nasceva così la chiesa assira, impropriamente chiamata nestoriana, e sostenuta dall’impero persiano, in funzione anti-bizantina.
A Calcedonia fu condannata Eutiche: affermava che Cristo ha solo la natura divina (monofisismo), nella quale la natura umana si fonde come una goccia d’acqua nel mare. Il rifiuto di tale concilio diede origine a chiese nazionali: chiesa egiziana o copta con la sua filiazione etiopica ed eritrea, chiesa siriaca giacobita e chiesa armena.
In passato queste chiese venivano chiamate «monofisite»; oggi si definiscono «ortodosse orientali antiche», per distinguersi da quelle calcedoniane chiamate globalmente «chiesa ortodossa orientale» (o bizantina).
A partire dal IX secolo, con l’evangelizzazione dei popoli slavi, per opera dei santi Cirillo e Metodio e con il battesimo della Rus’ nel 988, furono stabilite altre chiese ortodosse nell’Europa orientale. Queste rimasero in comunione con la chiesa di Roma o latina fino al 1054, quando cioè, dopo un progressivo e reciproco estraneamento e per motivi politici e teologici, le chiese di Bisanzio e di Roma si scomunicarono a vicenda, trascinando nello scisma anche le chiese dell’Europa orientale.
Cinque secoli dopo, la cosiddetta riforma protestante provocò lacerazioni e divisioni anche nella chiesa d’Occidente, con la cosiddetta riforma protestante, con conseguenze indirette anche sulle chiese dell’Est.
Vari missionari inviati nelle chiese orientali riuscirono a creare piccole comunità favorevoli all’unità con Roma, dando origine a «chiese cattoliche orientali» (uniati): chiesa caldea (1552), cattolici ucraini (1595-96), chiesa cattolica siro-malabarica (1599), cattolici siriani (1662), greco-cattolici o melkiti (1724), cattolici armeni (1740), cattolici copti (1895), chiesa cattolica siro-malankara (1930) cattolici etiopici (1961).
Le chiese… pellegrine 
La chiesa di Gerusalemme, inizialmente formata da fedeli di origine, lingua e cultura ebraica, greca e romana, per oltre tre secoli rimase una minoranza nella società, finché, sull’esempio di sant’Elena, madre dell’imperatore Costantino, la devozione verso i luoghi sacri cominciò ad attirare pellegrini di tutte le nazioni: bizantini, armeni, siriani, georgiani, latini; ognuna cercò di organizzare le strutture di accoglienza materiale e spirituale per i propri pellegrini, dando origine a presenze cristiane di differenti riti, lingue, culture. Tuttavia, durante i primi secoli la chiesa di Gerusalemme era unita attorno a un solo vescovo, che aveva giurisdizione anche sui cristiani di origine straniera che venivano e vivevano nella città santa.
Nel V secolo, però, le divisioni provocate dalle controversie cristologiche si ripercossero anche nelle chiese «pellegrine» stabilitesi a Gerusalemme: anche qui le diversità si tradussero in divisioni.
La conquista islamica provocò una graduale arabizzazione e scristianizzazione del paese. Un largo settore della popolazione passò all’islam per evitare vessazioni di indole sociale e fiscale. Il patriarca della comunità cristiana, assai ridotta e povera, cercò appoggio nella chiesa più forte di Bisanzio; quando questa consumò lo scisma con Roma (1054), anche le chiese di Gerusalemme la seguirono.
Nell’epoca crociata (1099-1291), con l’istituzione del patriarcato latino di Gerusalemme la maggioranza cristiana fu attratta nell’orbita romana, ma con la riconquista della città santa da parte del Saladino il patriarca latino fu costretto a fuggire e con la caduta del Regno latino furono espulse tutte le congregazioni religiose occidentali. La presenza cattolica fu continuata dai frati minori, che nel 1336 ottennero di stabilirsi attorno ai luoghi santi: nasceva la Custodia di Terra santa. Da allora fino al 1847, quando fu ristabilito il patriarcato latino, i francescani furono responsabili del lento ritorno di alcuni cristiani all’unità con Roma.
Il passaggio della Palestina dal dominio dei mamelucchi all’impero turco ottomano (1517) segnò la rinascita dell’influenza degli ortodossi a spese dei latini. Non passò un secolo che, favoriti dai vari sultani,  gli ortodossi cominciarono a rivendicare diritti di proprietà sui luoghi santi, sottraendoli con la forza o con l’inganno ai francescani. Questi, per difendere i propri diritti, facevano appello alle potenze occidentali, finché nel secolo XIX la questione dei luoghi santi divenne un caso politico specie tra Francia e Russia: la prima assunse l’esclusiva protezione dei cattolici; la Russia quella dei cristiani orientali. La pressione delle potenze europee sul sultano ottomano ebbe come risultato il decreto del 1852, che fissava i diritti e proprietà attorno ai luoghi santi, confermando lo Status quo, cioè la situazione esistente prima del 1757.
Nel frattempo, molti missionari occidentali si riversarono nella Terra santa e promossero la creazione di nuove comunità cattoliche e protestanti con relative istituzioni gerarchiche. Nel 1754 fu creata l’archidiocesi greco-cattolica di Galilea; nel 1838 fu eretto il vicariato patriarcale greco-cattolico a Gerusalemme; nel 1842 si stabilì a Gerusalemme il vescovo anglicano-luterano; nel 1847 fu ristabilito il patriarcato latino.
Evviva la differenza
Oggi i cristiani in Israele e Territori palestinesi sono circa 180 mila: 100 mila cattolici (50 mila melkiti, 41 mila latini, 8 mila maroniti, un migliaio di altri riti), 70 mila greco-ortodossi e altri 5 mila ortodossi orientali; 5 mila tra anglicani e protestanti. Durante l’ultimo secolo si sono aggiunte nuove realtà, non sempre quantificabili: cattolici di lingua ebraica, assemblee di ebrei messianici, lavoratori migranti, cristiani dall’ex Unione Sovietica, senza contare i milioni di pellegrini da ogni parte del mondo che affollano i luoghi santi.
Ne risulta quindi un ricco e complesso mosaico di chiese, ognuna delle quali con la propria storia, teologia, spiritualità, lingua, riti, tradizioni… Tale pluralità non pregiudica l’unità, ma arricchisce la chiesa universale; anzi, essa offre l’ispirazione per affrontare alcune urgenze ancora attualissime, come il problema dell’inculturazione del vangelo e il rifiuto di ogni tentazione di fondamentalismo e integralismo.
La chiesa di Gerusalemme rimane punto di riferimento, profezia perenne per la chiesa universale e per tutte le chiese locali. Teologicamente e organizzativamente la comunità dell’età apostolica rimane il modello della chiesa di Cristo, al quale si richiamano tutti i cristiani che, in ogni tempo, hanno sentito il bisogno di rinnovarsi spiritualmente. Anche negli atti concreti con cui ha saputo superare le iniziali tensioni e difficoltà intee, la prima chiesa rimane un modello e punto di riferimento per conservare anche oggi l’unità nella diversità.
In un’epoca in cui la globalizzazione rischia di essere confusa con l’uniformità, le chiese di Gerusalemme sono un richiamo a guardare alle origini, quando l’unica verità, che è Gesù Cristo, fu accolta da culture diverse e narrata, celebrata, pensata in modi differenti, nella teologia, liturgia, spiritualità, diritto… Tali espressioni non furono elaborate da un unico centro, ma fu il risultato dell’incontro del vangelo con le situazioni concrete dei singoli popoli. Per questo le chiese di Gerusalemme sono motivo di ispirazione, oggi, per l’attività missionaria della chiesa, nel fare discepoli di Cristo i popoli e le culture a cui è inviata.
Laboratorio di dialogo
Intanto le diversità, che attraverso i secoli sono diventate separazioni, divisioni e competizioni, rimangono quasi intatte nella chiesa di Gerusalemme, minandone la credibilità della testimonianza e facendole assomigliare alla biblica Babele. Tuttavia, al di là delle apparenze, oggi Gerusalemme è un laboratorio di dialogo ecumenico e interreligioso. I cristiani in Terra santa sono impegnati in incontri di dialogo a livello formale e istituzionale e altre iniziative di vario genere per camminare insieme verso l’unità. Per raggiungere tale meta ognuno è esortato a restare fedele alla chiesa in cui Dio gli ha dato di vivere e a restare al tempo stesso aperto alle altre chiese.
Il cammino del dialogo ecumenico, iniziato nel 1964 con l’abbraccio in Terra santa tra papa Paolo VI e il patriarca ortodosso Atenagora, è continuato tra ostacoli ereditati dalla storia e innumerevoli difficoltà provenienti dalla situazione politica, di violenza e oppressione. Ma proprio tale situazione di conflitto ha contribuito alla coesione tra le chiese. Unite dalle stesse prove, si sono riavvicinate le une alle altre per ascoltare e rispondere agli appelli e alle sofferenze delle società in cui sono chiamate a vivere e operare; e per rendere più forte la loro voce contro le ingiustizie.
Tra le iniziative prese in comune dai capi delle chiese va segnalato il memorandum comune sul significato di Gerusalemme (1994); l’apertura del giubileo del 2000; l’accoglienza di Giovanni Paolo II (2000) e di Benedetto XVI (2009); la creazione del Jerusalem Inter-Church Center (Jic, Centro interecclesiale di Gerusalemme). L’ultimo esempio è il «Documento Kairos Palestina», pubblicato lo scorso dicembre (vedi riquadro p. 30).
Ponte di pace e riconciliazione
Nel 1948 i cristiani costituivano il 20% della popolazione palestinese; oggi, la percentuale è scesa all’1,8%. I cristiani sono una minoranza schiacciata tra i due colossi: ebrei e musulmani. Il dialogo interreligioso è un’altra dimensione essenziale nella vita della chiesa, soprattutto con l’islam. La situazione di conflitto contribuisce ad avvicinare i fedeli di queste due religioni, anche se una certa propaganda cerca di fare risaltare un’ipotetica persecuzione islamica contro i cristiani.
Nulla di tutto questo, almeno in Palestina. Anche in fatto di dialogo interreligioso, le chiese presenti nella terra di Gesù sono un esempio per le comunità cristiane che vivono nel mondo in situazioni simili di minoranza religiosa, con conseguenti tensioni e conflitti; soprattutto costituiscono una sconfessione di quanti predicano e praticano il «conflitto di civiltà».
Naturalmente il dialogo è esteso anche all’ebraismo. Pur essendo minoranza, i cristiani hanno un ruolo importante da giocare nel conflitto arabo-israeliano. Avendo essi in comune con i giudei i valori biblici e con i musulmani la lingua araba, possono essere il ponte che permette la riconciliazione. Tanto più che, come afferma un professore dell’università di Betlemme, «senza i cristiani lo scontro tra ebrei e musulmani sarebbe molto più forte».
In tale ruolo, la chiesa continua a ricordare al mondo intero che quella in corso non è una guerra di religione, ma una resistenza in difesa dei diritti umani fondamentali. E per resistere i cristiani chiedono la solidarietà e corresponsabilità di tutte le chiese del mondo verso la chiesa madre: dalla pace e riconciliazione di Gerusalemme dipende il futuro del Medio Oriente.
Le chiese cristiane in Palestina hanno bisogno di sostegno morale e materiale per resistere anche a una forte tentazione: quella di emigrare. La Terra santa rischia di diventare un museo cristiano senza pietre viventi. E cosa sarebbe la terra di Cristo senza cristiani?

Di Benedetto Bellesi

Il documento Kairos Palestina

pace subito
 
P orre fine all’occupazione dei territori palestinesi e al boicottaggio che strangola l’economia della Palestina, riducendo in miseria la popolazione; eliminare il muro di separazione che sigilla la barriera fra i due popoli, rinegoziare con serietà e chiarezza per costruire la pace nella regione: sono i punti principali di un appello firmato e diffuso, in vista del natale 2009, da una quindicina di leader cristiani, fra i quali il patriarca emerito di Gerusalemme, Michel Sabbah, il vescovo luterano Munib Younan, il patriarcato greco-ortodosso di Gerusalemme, Theodosios Atallah Hanna.
L’appello è stato intitolato «Documento Kairos Palestina», proprio perché insiste sul «momento di grazia, tempo favorevole» (kairos), in cui è possibile riprendere in mano con coscienza la questione dell’eterno conflitto fra i popoli di Terra santa. Grazie allo sforzo di buona volontà della comunità internazionale, dei leader politici della regione e delle chiese nel mondo, «la pace è possibile» ed è la sola speranza per il futuro della Terra santa. Ma essa impone uno sforzo concreto da parte di tutti, non solo «parole vuote», risuonate per troppo tempo senza cambiare nulla nella situazione reale.

I firmatari dell’appello denunciano «l’occupazione come peccato contro Dio e l’umanità» e, fra i problemi più scottanti, «il muro di separazione israeliano eretto in territorio palestinese, blocco di Gaza, colonie israeliane che sorgono su terreni palestinesi, umiliazioni subite ai posti di blocco militari, restrizioni religiose e accessi controllati ai luoghi santi, la piaga dei rifugiati che attendono il loro diritto al ritorno, prigionieri detenuti in Israele e paralisi della comunità internazionale di fronte a questa tragedia».
Tuttavia, afferma il testo, «Dio ci ha creato per vivere in pace. La nostra terra ha una missione universale e la promessa della terra non è mai stato un programma politico, ma piuttosto preludio alla salvezza universale».
Inoltre, si fa appello alle chiese di tutto il mondo perché «dicano una parola di verità e prendano posizione riguardo all’occupazione israeliana del territorio palestinese», affinché «venga applicato contro Israele un sistema di sanzioni economiche e boicottaggio», il quale «non rappresenta una vendetta ma piuttosto un’azione seria al fine di raggiungere una pace giusta e definitiva». 
(Fides)

Ttutta colpa dello «status quo»

Durante l’occupazione di Gerusalemme da parte dei crociati, i cristiani di rito latino ebbero il predominio sui luoghi, senza affatto escludere gli orientali. Quando il Saladino conquistò la città santa (1187), confiscò tutte le chiese cristiane; alcune le trasformò in moschee, altre le lasciò ai cristiani, anche per lucrare sulle offerte dei pellegrini. L’entrata del Santo Sepolcro, invece, fu affidata a due famiglie musulmane: ai Joudeh fu data la chiave dell’unico portale rimasto funzionale e ai Nusseibeh il privilegio di chiuderlo e aprirlo.
I governi successivi concedevano i diritti a suon di mazzette. Grazie alle somme sborsate dai sovrani di Napoli e Sicilia, i francescani ottennero i diritti di abitare e ufficiare nella basilica del Santo Sepolcro e costruire un convento  sul monte Sion. Dal 1336 al 1662 essi furono gli unici padroni del Cenacolo, Santo Sepolcro, Calvario, Tomba della Vergine, Mangiatornia di Betlemme. 
Poi i turchi ottomani sottrassero la Palestina ai mamelucchi d’Egitto (1517) e i sultani cominciarono a favorire gli ortodossi, loro sudditi. I monaci greci passarono all’offensiva, rivendicando la chiesa di Betlemme e poi quella della risurrezione: con tangenti e documenti falsi ottennero il controllo della cappella del Calvario e della pietra dell’unzione (1633), poi il possesso esclusivo dell’edicola del Santo Sepolcro (1675). Di fronte a tali scippi i papi sollecitarono le potenze cristiane perché facessero pressione sulla Sublime Porta: un decreto del 1690, dichiarava i francescani legittimi proprietari dei santuari e restituiva loro gli antichi diritti.
Per più di un secolo e mezzo, mentre attorno ai luoghi sacri crescevano interferenze e pressioni delle potenze egemoni, dentro le mura sacre la lotta per il controllo si risolveva spesso a cazzotti e bastonate. L’episodio più grave avvenne nel 1756, con l’irruzione vandalica nella basilica e l’assalto al convento francescano. Un altro decreto del sultano concesse ai greci la comproprietà con i latini del Santo Sepolcro e la proprietà della basilica di Betlemme e della Tomba della Vergine. 
Nel XIX secolo la questione dei luoghi sacri divenne un caso politico soprattutto tra Francia e Russia: la prima si assunse la protezione dei cattolici, la Russia quella degli orientali. Le lotte «fratee» continuarono, usando tutti i modi per estromettersi a vicenda. Nel 1847 i greci rimossero dalla grotta di Betlemme la stella d’argento, con la scritta latina che attestava la proprietà latina del luogo. Francia e Russia costrinsero la Turchia, nel 1852, a firmare l’ennesimo decreto che ripristinava la situazione (status quo) sui diritti di proprietà e accesso all’interno del Santo Sepolcro, della basilica della Natività e della tomba di Maria; situazione risalente al 1767, tenendo conto di ulteriori diritti acquisiti da altre comunità cristiane.

Il documento assegna la basilica del Santo Sepolcro quasi interamente ai greci ortodossi, ma le parti essenziali sono in condominio con cattolici (rappresentati dai frati minori) e armeni, che a tuo si susseguono, notte e giorno, con le rispettive cerimonie liturgiche. Queste tre comunità (latina, greca, armena) hanno pure residenza effettiva nella basilica, ognuna con proprie abitazioni e cappelle. Altre chiese, come siro-giacobiti e ortodossi etiopi, godono di alcune concessioni per svolgere le loro funzioni nelle grandi solennità, mentre i copti posseggono alcune stanze e una cappella dietro l’edicola del Santo Sepolcro, col diritto di officiarvi solo alcuni giorni.  
Lo Status quo determina pure orari e tempi di funzioni, percorsi di processioni e modo di realizzarle con canti e incensi… I diritti di ogni comunità sono stabiliti dall’uso di lampade, addobbi, quadri, candelieri. Di importanza cruciale sono i diritti di pulizia, manutenzione, restauro: chi ripara il tetto o il muro di una cappella ne acquista il possesso esclusivo; appendere o rimuovere una lampada, un quadro da un pilastro o un muro… implica il riconoscimento di possesso su tale pilastro o muro. Ma lo Status quo stabilisce un principio draconiano: senza comune accordo, niente può essere cambiato o innovato, sia nel possesso della basilica che nell’esercizio del culto.

T
ale situazione oggi è considerata un dato di fatto acquisito, ma rimane sempre difficile ridurre al minimo i disagi della coabitazione. Le comunità si incontrano periodicamente per decidere riparazioni e restauri della basilica e cercare una migliore distribuzione delle differenti liturgie, ma le trattative sono lunghe ed estenuanti. I monaci etiopi e copti, per esempio, discutono da decenni su chi spetti restaurare un edificio che minaccia di cadere sul tetto del santuario; migliaia di fedeli passano per una sola porta, ma tra le sei diverse confessioni non c’è modo di accordarsi per aprire un’uscita di sicurezza.
Bisogna tenere presente che per queste comunità ogni piccola cosa assume un significato simbolico. Tuttavia il vento del dialogo ecumenico ha cominciato a soffiare anche dentro queste mura, stemperando i conflitti secolari: non esiste più, almeno da parte cattolica, l’accusa di «usurpazione» dei luoghi santi. Frati, pope, monaci armeni, abuna etiopici ed egiziani, incrociandosi nella penombra del luogo, si scambiano perfino sobri cenni di saluto. Anzi, la pluriforme presenza cristiana su tali luoghi è ritenuta una ricchezza preziosa da salvare e un diritto irrinunciabile.
Rimane ancora il fatto innegabile che basta molto poco, come togliere una ragnatela nel posto altrui, per scatenare risse e scazzottate. Eppure, guardando il lato positivo, reazioni del genere sono segni inequivocabili di attaccamento e amore alle memorie tangibili del nostro Salvatore. E anche Lui, di fronte a tali scene, non si scandalizzerebbe più di tanto, ma si farebbe una tacita risata.

Benedetto Bellesi




GERUSALEMME: ombelico del mondo

«Che gioia, quando mi dissero: “Andiamo alla casa di Dio”. Ora i miei passi si fermano alle tue porte, città di pace» (Sal 121). Così cantava estasiato il pio israelita, quando, dopo un lungo viaggio raggiungeva il Monte degli Ulivi e poteva finalmente contemplare la città santa. Sarà stato anche il canto di Gesù, quando si recava a Gerusalemme per le grandi feste; un canto concluso con un pianto: «Gerusalemme, Gerusalemme… quante volte ho voluto raccogliere i tuoi figliuoli, come la chioccia raccoglie i suoi pulcini sotto le ali» (Luca 13,34).
Dal Dominus Flevit, la chiesetta che ricorda tale pianto, la visione di Gerusalemme conserva intatto il suo fascino e mistero. Il panorama di cupole, campanili e minareti attesta la sua singolarità: città unica e universale, dove i fedeli di tre monoteismi possono rivolgersi all’unico Dio. Gerusalemme è il centro dell’ebraismo, è il centro del cristianesimo e dal VI secolo è per l’islam «la Santa» (Al Quds). 
Nelle sue vicende storiche, spesso drammatiche, Gerusalemme è stata la città dell’incontro e continua a essere tale. È stata definita ombelico del mondo (Ezechiele 38,12); è stata cantata da salmisti e profeti quale patria spirituale e universale, in cui tutti i popoli sono chiamati a riconoscersi fratelli, anche i nemici tradizionali come Egitto e Babilonia, a causa dell’origine comune: «Raab e Babilonia… Palestina, Tiro ed Etiopia: tutti là sono nati. Si dirà di Sion: l’uno e l’altro in essa sono nati e lui, l’Altissimo, la mantiene salda. Il Signore registrerà nel libro dei popoli: là costui è nato. E danzando canteranno: sono in te tutte le mie sorgenti» (Salmo 87,4-7).
Vista dall’alto, al momento del tramonto, Gerusalemme diventa tutta d’oro, come se si specchiasse nella città gemella che attende di scendere dall’alto dei cieli e fondersi con la città terrena, come scrive l’Apocalisse. Terrena e celeste, storica e trascendente, materiale e spirituale, temporale e mistica… Gerusalemme è una realtà bipolare, possiede due volti, come ricorda il suo nome ebraico (Jerushalayim è forma duale); una duplice dimensione in perenne tensione dialettica: la Gerusalemme storica richiama quella celeste e la Gerusalemme celeste attrae quella storica e, con essa, attrae tutta la storia umana.

Gerusalemme città dell’incontro o semplicemente città della coesistenza? Un dilemma drammatico che affiora ogni volta che ci si ferma a osservare anche superficialmente il turbinio di lingue, culture, rumori, colori, vestiti e comportamenti che riempiono le stradine della città vecchia: i passi veloci dei rabbini che si recano al Muro e quelli lenti dei musulmani apparentemente senza meta; pellegrini cristiani che pregano ad alta voce a una stazione della via crucis, mentre il bottegaio fuma indifferente il suo naghilé; fogge di monaci ortodossi e suore cattoliche che s’incrociano senza guardarsi; e poi soldati che sembrano bivaccare a ogni angolo delle strade… Ciascuno vive nel suo mondo; mondi differenti che coesistono, l’uno accanto all’altro.
Sotto la scorza di tale coesistenza si celano fortissime tensioni, prima di tutto tra ebrei e palestinesi, che spesso si tramutano in proteste e scontri, e conseguenti repressioni. Tensioni fra le tre religioni monoteistiche e perfino all’interno di ciascuna di queste religioni; tensioni che pervadono anche i fedeli delle varie chiese cristiane.

Nonostante le contraddizioni della sua storia passata e presente, Gerusalemme continua a essere simbolo di tutte le attese e speranze umane. E per rispondere a tali attese è indispensabile che ebrei, cristiani e musulmani realizzino quei valori che concordano nel riconoscere come divini: frateità, amore, giustizia, pace. 
La città senza più né pianto, né lutto, né dolore, della perfetta giustizia e libertà è dono di Dio, è profezia; al tempo stesso è pure sfida e impegno umano. Da Gerusalemme la tradizione delle tre religioni vuole che parta e si concluda la storia della salvezza del genere umano.

di Benedetto Bellesi

Benedetto Bellesi




MEDIAMENTE

Fuori dal coro

Il meccanico delle rose
Hamid Ziarati, Einaudi editore,  2009 – Euro 18,50

Non so se avete mai provato il piacere di innamorarvi a tal punto di un libro da aspettare la sera o il momento opportuno per tornare a leggerlo. «Il meccanico delle rose» di Hamid Ziarati ha toccato così profondamente  la mia emotività e il  mio piacere verso la lettura da farmi scendere alla fermata sbagliata dall’autobus. Vi assicuro che non è poco, nell’epoca della corsa senza fine ai tanti impegni. Hamid Ziarati è nato a Teheran e all’età di  15 anni si  è trasferito a Torino dove ha fatto il liceo e studiato ingegneria. Al centro del suo libro c’è l’amore – in tutte le sue sfaccettature – che muove i suoi personaggi, dal primo all’ultimo, in una girandola di storie e sacrifici. Amore,  morte e libertà in cinque storie sullo sfondo di un paese volutamente mai nominato ma decifrabilissimo. Lo stile narrativo  è veramente originale: far conoscere e svelare più spaccati della personalità del protagonista attraverso lo sguardo delle persone che sono state importanti per lui.  Con un tono caldo e suadente, l’autore narra ogni esistenza e lo fa con destrezza, utilizzando anche un linguaggio diverso a seconda dell’epoca in cui si compie la singola vicenda. Una poetica ricca di metafore e di riflessioni,  che ci riporta all’idea del nostro essere protagonisti solo per noi stessi, ma comparse sulla scena della vita altrui.

«Diamoci del tu»: botta e risposta con l’autore

Hamid, il tuo libro rappresenta un’innovazione stilistica nel raccontare il protagonista.
Come è nata quest’idea?
«Volevo raccontare la storia di un uomo qualunque, partendo dagli anni Venti ai giorni nostri. Per farlo, riconsegnando al lettore anche il periodo della sua prima infanzia, dovevo far parlare chi lo aveva accompagnato in questo viaggio. Dal padre, al cugino, alla moglie, alla figlia e all’amata. Così si è formata una galleria di personaggi che mi hanno aiutato a dargli una personalità, differente a seconda dei rapporti con ognuno di loro: padre meraviglioso, amante, vigliacco, marito protettivo, cugino astuto, innamorato delle rose. In sostanza, un uomo di passaggio come tutti gli altri e come tutti noi».

Questo libro è dedicato a tua figlia e le  figure femminili di cui narri sono tante. Raccontaci…
«Il libro è dedicato alla mia bambina Emma perché vorrei che imparasse ad apprezzare il valore della vita in una società libera. Le donne del mio libro sono forti, risolute e pronte a sacrificarsi per amore. La figura centrale dell’ultimo episodio, Laleh, è una «pazza d’amore» ed è proprio dal suo letto che ci vengono riconsegnate in un lucido mosaico, tutte le storie del libro. In questo delirio osserviamo Laleh chiedere insistentemente dell’acqua. Ebbene, è proprio quell’acqua che non le viene concessa, la metafora del desiderio di libertà delle donne iraniane. Del loro essere e rimanere assetate!».

Perché la scelta di non nominare mai il tuo paese?  
«Non nominare il mio paese è stata una scelta di solidarietà e di  rispetto verso gli autori locali, vittime di un regime retrogrado e sanguinario, impossibilitati dalla censura a far sentire la loro voce.
Volevo che attraverso le pagine si respirasse un po’ delle trasformazioni sociali, economiche e politiche avvenute in Iran. E desideravo che il pubblico non avesse la solita  visione distorta  dell’Iran – paese musulmano uguale nazione araba – ma che ci leggesse tutta la storia, le tradizioni e il patrimonio dell’antica Persia».

I primi sullo scaffale

Censura
Shahariar Mandanipour, Rizzoli editore, 2009 – Euro 19,50
La storia d’amore tra due giovani negli anni della rivoluzione khomeinista, l’influenza della censura nella scrittura e nella vita stessa degli iraniani, sono i protagonisti di questo insolito romanzo nel romanzo. L’autore, infatti, nelle pagine di «Censura» ci racconta di come nasca in lui l’idea di voler scrivere un romanzo d’amore, di come desideri dar vita ad una storia luminosa in un’epoca oscura, in cui il sentimento stesso non può essere comunicato esplicitamente. Il racconto delle tecniche e degli espedienti dell’autore per mantenersi fedele alla storia si intercala con la narrazione della storia d’amore stessa: quella di  Sara e Dara  che cercano disperatamente di vivere  la loro passione  tra le difficoltà imposte dalle dure leggi della società iraniana. I tagli applicati dall’inflessibile censore Sig. Petrovic si materializzano con tratti di penna che cancellano, pur mantenendole visibili al lettore, le frasi «incriminate» costituite da allusioni reali o immaginate o da semplici parole «proibite».

Le cose che non ho detto
Azar Nafisi, Adelphi edizioni, 2009 – Euro 19,50
Ultimo romanzo di Azar Nafisi, «Le cose che non ho mai detto» ha una struttura autobiografica. Lo stile autentico e immediato dell’autrice e la sua tecnica del racconto conduce il lettore in un mondo dove, alle storie legate all’universo famigliare, si contrappongono quelle di una società in trasformazione. L’universo dei personaggi che ritrae è toccante: dal  magnifico ritratto del padre, sindaco di Teheran all’epoca dello scià, e della madre, fra le prime donne entrate al Parlamento iraniano.  Due storie in una: quella del paese e di un regime repressivo vista con gli occhi delle dinamiche familiari che, spesso, nei silenzi e nelle doppie verità presentano una chiara analogia.

Leggere Lolita a Teheran
Azar Nafisi, Adelphi edizioni, 2007 – Euro 10,00
Il primo libro di Azar Nafisi è un inno alla letteratura e alla libertà. La cultura apre una finestra sul mondo così come il soggiorno dell’autrice diventa luogo fisico e mentale di un anelito alla vita vissuta autenticamente. Azar Nafisi, dopo aver dato le dimissioni dall’ateneo,  decide di organizzare un seminario «segreto» sulla letteratura inglese con le sue sette migliori studentesse. La poetica del  celebre autore inglese Nobokov con il suo impareggiabile «Lolita» instaura con l’autrice e le sue allieve un legame unico. I suoi romanzi, colmi di sfiducia e costruiti attorno a invisibili trappole, diventano  simboli di uno stato d’animo e di una quotidianità priva di ogni libertà. Il salotto diventa momento di scambio e di apertura, dove, senza l’atteggiamento composto e il chador imposto, tutte le allieve si aprono alla confidenza del loro difficile vivere sotto il regime islamico. La narrativa diventa così un veicolo forte e profondo per scoprire e riappropriarsi del loro io più nascosto.

Vediamoli insieme

Premessa:
In Iran, a causa della continua censura, non sono usciti film negli ultimi tempi.  La scelta del movie che proponiamo è però ricco di metafore con l’essere umano e con qualsiasi paese sotto regime dittatoriale.

Cecità – disponibile in formato DVD presso videoteche e negozi dedicati
un Film di Feando Meirelles (2008)
«Cecità» è un film ispirato all’omonimo romanzo di  José Saramago: un’allegorica riflessione sulla cecità dell’uomo verso gli altri esseri umani, sulla mancanza di solidarietà e sull’uso corrotto del potere. La pellicola racconta la storia di una città colpita da una folgorante epidemia di cecità che porterà i suoi abitanti a vedere tutto bianco. L’impossibilità di orientarsi determinerà uno sbando collettivo e lo scatenarsi dei più biechi istinti di sopravvivenza. Solo una donna non sarà colpita dal morbo e sarà la testimone oculare della fragilità umana. L’attrice Julienne Moore (nella foto) è la protagonista nel film.

Di Gabriella Mancini

Gabriella Mancini




Ci siamo mangiati il tonno

Il degrado delle acque

La maggioranza delle persone si ricorda che anche il mare e gli oceani meritano rispetto soltanto quando avviene qualche catastrofe: una petroliera che perde in acqua il proprio contenuto, gruppi di cetacei che si arenano su qualche spiaggia, alghe che infestano le località balneari. In realtà, l’uccisione dei mari è fatto quotidiano, prodotto da una pluralità di cause, tutte riconducibili all’uomo e alle sue attività.

Quante volte, facendo la spesa al supermercato, abbiamo distrattamente preso qualche scatoletta di tonno, oppure qualche trancio di verdesca o di spada, o dei gamberi, senza chiederci che cosa significhi fare questa scelta? Effettivamente l’offerta di pesce, sui banconi di un grande supermercato è così grande e diversificata, che diventa un gesto piuttosto naturale scegliere tra i vari tipi di pesce. Oltretutto, da più parti ci vengono ripetutamente sbandierate le qualità nutrizionali del pesce, peraltro vere: oltre ad essere una fonte eccellente di proteine animali, esso contiene le vitamine A e D, il magnesio, il fosforo, i sali minerali, gli acidi grassi omega-3 (essenziali per lo sviluppo del cervello nel feto e nel neonato). Purtroppo attualmente i grandi pesci predatori, cioè i caivori come gli squali, i tonni, i marlin, per citae alcuni, sono anche ricchi di diossine, di Pcb e di metalli pesanti, come il mercurio, a causa dell’inquinamento marino, come visto nel nostro articolo precedente (MC, gennaio 2010). Ma, oltre i rischi che la nostra salute può correre, consumando determinati tipi di pesce, è indispensabile conoscere anche quale impatto può avere  un certo tipo di pesca sull’ambiente e, conseguentemente, sulle popolazioni costiere, specialmente le più povere.
Secondo il rapporto dell’Onu sulla pesca di marzo 2009, attualmente il 77% delle risorse ittiche vanno considerate completamente esaurite o quasi. Le zone più sfruttate in assoluto sono l’Atlantico orientale ed il Mare del Nord. Si stima che, ogni anno, l’ammontare mondiale del pescato sia di circa 86 milioni di tonnellate e le specie a maggiore rischio di estinzione sono il cetorino, il merluzzo bianco, il nasello, il pesce specchio atlantico ed il tonno rosso. A queste specie di pesce, vanno aggiunte quelle di alcuni dei grandi mammiferi marini, come le balene grigie del Pacifico occidentale, i cui esemplari rimasti sarebbero solo più un centinaio (mentre quelle del Pacifico orientale avrebbero avuto un recupero numerico), o le balenottere azzurre dell’Antartide, che sono ormai solo l’1% della popolazione originaria.
Negli ultimi 30 anni, il mercato dei prodotti ittici e dell’acquacoltura ha registrato uno sviluppo esponenziale, legato essenzialmente alle modalità di vendita. In pratica, nelle grandi superfici commerciali, non solo c’è una grande offerta di pesce fresco, ma un’altrettanto grande varietà di prodotti trasformati, soprattutto i piatti pronti, per cui c’è un’esigenza costante di nuovi approvvigionamenti di pesce. Oltre a questo, una parte consistente del pescato (comprese le cai di balena e di delfino) viene utilizzata nella produzione dei mangimi (per gli allevamenti intensivi di bovini, di suini, di pollame), del cibo per animali domestici e come cibo per le specie pregiate di pesce allevate in acquacoltura, come il salmone. In quest’ultimo caso, la quantità di pesce necessaria per l’allevamento dei salmoni è veramente considerevole. In media servono 5 chilogrammi di pesce grasso, come aringhe e sardine, per produrre un chilogrammo di salmone. Questo comporta l’alterazione di interi ecosistemi – i delfini, le foche e le orche, che normalmente frequentano gli estuari dei  fiumi nella Columbia Britannica, in Canada o in Cile, ad esempio, sono sempre meno numerosi e denutriti e spesso vengono respinti dai dispositivi utilizzati, per proteggere i recinti degli allevamenti – e l’impoverimento di molte piccole comunità di pescatori, che non hanno altra fonte di reddito, oltre alla pesca. Il pesce d’allevamento rappresenta ormai il 30% delle proteine animali di origine ittica e l’industria dell’acquacoltura ha un fatturato di 30 miliardi di dollari all’anno, ma l’impatto che essa ha sull’ambiente è sconcertante. Basta pensare che, secondo la David Suzuki Foundation, un’organizzazione ambientalista di Vancouver, nella Columbia Britannica, l’acquacoltura praticata in questa provincia canadese scarica nell’oceano lo stesso quantitativo di rifiuti di una città di mezzo milione di abitanti.
In genere ogni allevamento di salmoni è costituito da 12-15 gabbie, cioè recinti di reti collocati in corrispondenza degli estuari dei fiumi, dove sono presenti forti correnti e può ospitare anche 200.000 pesci. Dai recinti fuoriescono grandi quantità di rifiuti ittici, di antibiotici somministrati per contrastare il rapido diffondersi di malattie tra gli animali, di microbi diventati resistenti agli antibiotici, di pesticidi e tutte queste sostanze si depositano sul fondo del mare, distruggendo varie forme di vita. Inoltre una parte considerevole di tali sostanze viene trasportata dalle correnti, va alla deriva e riesce ad insinuarsi nelle tane dei crostacei, contaminandole e diffondendo malattie in tutta la catena alimentare. Qualcuno si chiederà perché vengono usati i pesticidi negli allevamenti di salmone. Il motivo è la necessità di debellare i pidocchi di mare, che spesso infestano i salmoni.
Negli anni ’80 e ’90, si fece, a tale scopo, grande uso di Nuvan (noto anche come Aquagard), contenente il 50% di dichlorvos, un organofosfato messo al bando dalla Commissione Europea e considerato uno dei pesticidi più tossici, associato dai ricercatori all’insorgenza del cancro ai testicoli, proprio per il suo uso negli allevamenti di salmoni. Come spesso accade, i pidocchi di mare sono diventati resistenti al dichlorvos, per cui attualmente si utilizzano altre sostanze, come la cipermetrina, un veleno neurale cancerogeno, l’ivermectina, una neurotossina, il teflubenzurone, il benzornato di emamectina ed il verde malachite; si tratta di sostanze capaci di uccidere crostacei e molluschi nel raggio di alcune miglia, ma tossiche anche per altre specie di pesci, di uccelli e di mammiferi.
Una sostanza comunemente usata come disinfettante e conservante negli allevamenti ittici di tutto il mondo è la formalina, soluzione al 37% del gas formaldeide, noto cancerogeno per l’uomo. Come se tutto ciò non bastasse, ai salmoni d’allevamento (anche da allevamento biologico) viene somministrata una tintura, per conferire alle loro cai il tipico colore roseo degli esemplari allo stato brado, i quali lo acquisiscono, mangiando crostacei e gamberetti. Tale tintura è a base di carotenoidi sintetici, in particolare l’astaxantina e la cantaxantina (E161), controparti sintetiche delle versioni naturali, presenti nel krill (minuscoli crostacei simili a gamberetti), di cui si nutrono i salmoni liberi. Nel 2003, la Commissione Europea ha pubblicato un rapporto sul danno alla retina, provocato dalla cantaxantina sintetica, scientificamente provato e l’UE ha ridotto l’utilizzo consentito negli allevamenti di questa sostanza (usata anche negli allevamenti di pollame).
Un altro tipo di acquacoltura, che arreca danni gravissimi all’ambiente è quello dei gamberi, che comporta la distruzione delle foreste di mangrovie, situate in delicate zone di confine tra il mare e la terraferma. Le foreste di mangrovie ospitano grandi quantità di pesci e di crostacei e sono, nel contempo, l’habitat per svariate specie animali terrestri o arboricoli, come i giaguari e le scimmie. Da sempre, la sussistenza delle comunità locali dipende da queste foreste: basta pensare che le donne catturano pesci e molluschi, che vengono rivenduti al mercato e permettono di mantenere intere famiglie. La crescita rapida dell’industria dell’allevamento dei gamberi ha comportato la perdita, a livello mondiale,  del 38% delle foreste di mangrovie, secondo Greenpeace, e la scomparsa di molte delle tradizionali aree di pesca delle comunità locali. Sia in Asia, che in America Latina si sono verificate violente proteste delle popolazioni locali, che hanno tentato di opporsi all’introduzione dell’allevamento dei gamberi, ma talvolta tali proteste si sono concluse con l’uccisione di qualcuno degli insorti.
Oltre alla perdita delle foreste di mangrovie, il danno di questi allevamenti è dato anche dalle grandi quantità di mangimi artificiali, di antibiotici e di pesticidi, che vengono rilasciati nell’acqua. Inoltre, i siti di allevamento dei gamberi necessitano di un frequente ricambio, per cui i proprietari abbandonano spesso le zone di palude, ormai trasformate in vere e proprie discariche, per trasferire i loro allevamenti in altre zone costiere. La distruzione delle foreste di mangrovie è senz’altro una delle cause delle terribili conseguenze degli tsunami, poiché le onde non trovano più alcuna barriera naturale alla loro potenza distruttiva.
Enormi quantità di pescato sono necessarie anche per gli allevamenti dei tonni pinna azzurra o tonni rossi, che prendono sempre più piede nel Mediterraneo. Si calcola che servano 25 chilogrammi di pesce, per un chilogrammo di tonno. Questa attività è conosciuta anche come ranching dei tonni e consiste nella cattura e nel trasporto dei tonni in particolari siti, presso le coste del Mediterraneo, dove essi vengono chiusi in gabbia e messi all’ingrasso, per rifornire la clientela giapponese, che paga lautamente per ottenere pesce di elevata qualità per il sushi ed il sashimi. I rapidi profitti derivanti da questa attività hanno portato all’uso di navi da pesca sempre più grandi, che, con reti a circuizione, catturano interi banchi di tonni, per convogliarli nelle gabbie d’allevamento. Le navi, dotate di radar e di sonar, vengono assistite da elicotteri od aerei da ricognizione, che dall’alto avvistano i banchi. Sono inoltre stati costruiti nuovi aeroporti, per il trasporto del tonno. Dal 1997, l’Unione Europea eroga annualmente 34 milioni di dollari, come sussidio per quest’attività ed a questi fondi si aggiungono gli investimenti del Giappone e dell’Australia, che hanno incoraggiato le sempre più organizzate aziende ittiche.
Purtroppo la conseguenza di questa febbrile attività è stata la drastica riduzione del tonno rosso, che è diminuito del 74% nel Mediterraneo tra il 1957 ed il 2007, mentre nell’Atlantico è diminuito dell’83% tra il 1970 ed il 2007. Va detto che il tonno rosso del Mediterraneo non è quello, che troviamo nelle scatolette; in questo caso si tratta di tonno del Pacifico, una varietà meno rara. Attualmente, a livello internazionale, le quote di pesca del tonno rosso del Mediterraneo sono state diminuite del 30% dall’Iccat (Inteational Commission for the Conservation of Atlantic Tunas), ma il Principato di Monaco ha proposto di inserire questa specie tra quelle a rischio di estinzione, nell’elenco Cites (Convention On Inteational Trade In Endangered Species of wild flora and fauna), come auspicato anche dal Wwf. Purtroppo tale proposta, a settembre 2009, non è stata accolta dall’UE; hanno infatti votato contro di essa l’Italia, la Francia, la Spagna, la Grecia e Malta, cioè i Paesi, che più pescano tonno, mentre Cipro si è astenuta ed il Portogallo era favorevole. Oltre al respingimento di questa proposta, l’Iccat ha fatto anche una concessione quanto mai discutibile, cioè due anni di proroga al Marocco, per l’eliminazione delle reti derivanti, usate illegalmente per la cattura del pesce spada e responsabili della morte, ogni anno, di 4.000 delfini e di 25.000 squali nel Mediterraneo.
Tra le specie, che rischiano l’estinzione ci sono i grandi pesci predatori, come gli squali, i merluzzi, i pesci spada, il cui numero sta scendendo ad un ritmo vertiginoso, al punto che, secondo gli studiosi del settore, il 90% di tali pesci è già stato pescato. Considerando che il sovrasfruttamento delle risorse ittiche, a livello industriale, è cominciato solo negli anni ’50, mantenendo lo stesso livello dei prelievi di tutti questi anni, si arriverà ad un totale sovvertimento degli ecosistemi marini. Venendo a mancare i grandi predatori, inevitabilmente nei mari si avrebbe infatti un’eccessiva diffusione delle specie da loro controllate, tra cui, ad esempio, le meduse. L’eccessivo sfruttamento delle risorse ittiche ha già avuto le sue prime conseguenze: in Canada, le popolazioni di merluzzo si sono drasticamente ridotte di numero, per cui la pesca di questa specie è ferma dal 1992 e, conseguentemente, sono andati persi 40.000 posti di lavoro.
Un grosso problema correlato alla pesca intensiva è quello delle catture accidentali, che vanno sotto il nome di bycatch. Si tratta, in pratica della pesca non selettiva, per cui ogni anno, secondo Greenpeace, quasi 100 milioni di squali e di razze vengono catturati erroneamente, mentre circa 300.000 cetacei (balene, delfini, focene) rimangono accidentalmente intrappolati nelle reti. Questo fenomeno assume dimensioni preoccupanti nelle zone, in cui si pratica la pesca a strascico dei gamberetti dei fondali. Secondo la Fao, la pesca a strascico dei gamberi, da sola, è la maggiore fonte di scarti inutilizzati. Le reti a strascico sono tutt’altro che selettive e, al loro passaggio, catturano spesso esemplari giovani di svariate specie commerciali, nonché specie a rischio di estinzione, come le tartarughe marine. Secondo uno studio del Wwf, va sprecato il 40% del pescato al mondo, a causa delle catture accidentali, poiché tali catture sono considerate inutili ed il pesce viene rigettato in mare, il più delle volte morto. Al massimo, in certi casi, il pescato accidentale viene utilizzato come mangime per l’acquacoltura, ma il Wwf ha stimato uno spreco annuale di circa 38 milioni di tonnellate di pesce. Questo saccheggio sconsiderato del mare ha portato ad una riduzione di quasi il 90% di alcune riserve ittiche, con gravissime ripercussioni sull’economia di quelle popolazioni povere, che vivono solo di pesca locale. Oltre a questo la pesca industriale non selettiva distrugge la biodiversità marina, uccidendo esemplari di ogni genere.
Sempre più spesso gli Stati ed i governi dimostrano una totale insensibilità per questo tipo di problema e, come abbiamo visto sopra, concedono proroghe e permessi di pesca con mezzi assolutamente devastanti per l’ambiente, spronati dal miraggio dei guadagni facili. Dietro la pesca industriale ci sono infatti movimenti di milioni di dollari, specialmente quando si tratta di specie particolarmente ricercate, come il tonno rosso. Le flotte di pesca industriale contano ormai centinaia di pescherecci, molti dei quali dotati di reti a circuizione (per circondare interi banchi) o a strascico, o derivanti (spadare). Molti pescherecci pescano con i palamiti. Sempre più spesso i pescherecci sono vere e proprie navi, che raggiungono anche le 8.000 tonnellate, dotate di radar e di sonar, in grado di lavorare completamente il pescato a bordo, di surgelarlo e di trasportarlo per migliaia di chilometri. Quasi sempre le navi appartenenti alle grosse società di pesca prelevano più di quanto stabilito dalle norme inteazionali, con le quote di pesca. Nel Mediterraneo, ad esempio, la quota di tonno pescabile annualmente è di 32.000 tonnellate, ma si stima un prelievo totale tra le 50.000 e le 60.000 tonnellate, perché le ispezioni ed i controlli sono spesso irrisori.
Un gravissimo problema sia per le economie dei paesi in via di sviluppo, che per l’ambiente è rappresentato dalla pesca pirata, cioè la pesca illegale sempre più diffusa nei mari di tutto il mondo, una pesca senza regole, la cui unica mira è il maggior quantitativo possibile di pescato. Si tratta di un pericolo a livello mondiale, perché questo tipo di pesca causa gravi danni ambientali, contribuisce all’esaurimento degli stock ittici e fa concorrenza sleale ai pescatori rispettosi delle regole. In tal modo è messo in pericolo l’equilibrio economico delle comunità costiere, con tragiche ripercussioni nei paesi in via di sviluppo, dove può essere compromessa la stessa sicurezza alimentare. Basta pensare alle coste dell’Africa sub sahariana, i cui villaggi spesso dipendono dalla pesca. Si stima, ad esempio, che la Guinea, nell’Africa occidentale, perda annualmente 100 milioni di dollari, a causa della pesca pirata effettuata nelle sue acque territoriali. Molti di questi Paesi non hanno i mezzi sufficienti, per pattugliare il mare antistante alle loro coste, così i pescatori illegali ne approfittano per sovrasfruttare queste acque. Inoltre spesso le imbarcazioni, che pescano illegalmente, si servono come mano d’opera, di marinai e di pescatori dei Paesi in via di sviluppo, che vengono imbarcati e lavorano con paghe modestissime, in condizioni di vita e di lavoro, che talora rasentano la schiavitù.
A tal proposito, Greenpeace ha elaborato il documento «Freedom of the seas», dove sono illustrate le misure attuabili dai governi, sia singolarmente che con una cooperazione internazionale, per fermare sia la pesca pirata, che quella attuata con metodiche distruttive, come la pesca a strascico. Tra le misure adottabili sicuramente c’è quella del controllo capillare degli sbarchi, sia da parte dello Stato di bandiera, che dello Stato del porto, da cui le navi partono o dove arrivano. Secondo la normativa marittima, infatti, una nave è quasi considerata come parte del territorio dello Stato di bandiera, il che significa che le possibilità d’ispezione a bordo, da parte dello Stato di porto sono fortemente limitate ed i bracconieri conoscono perfettamente questo principio, quindi portano il loro carico lontano, in luoghi dove le autorità locali non possono o non vogliono controllare. Da qui essi riescono poi a fare entrare il loro pescato nel mercato legale.
Una soluzione al progressivo depauperamento dei mari è la istituzione di una rete di riserve marine, come è stato fatto in Nuova Zelanda; si tratta di zone dove è proibita ogni attività di pesca, ma anche di estrazione mineraria e di scarico di rifiuti. In queste zone sono inoltre bandite tutte le attività legate al turismo. Laddove esse sono presenti già da anni (la prima è stata creata a Goat Island Bay, Nuova Zelanda, nel 1977), si è assistito ad un consistente aumento delle colonie marine, della durata della vita dei pesci e ad un aumento della loro capacità riproduttiva.
è perciò sempre più indispensabile un consumo di pesce da parte nostra, che sia intelligente e rispettoso, per non arrecare danno agli altri ed all’ambiente e per fare questo è sufficiente limitare il numero di pasti a base di pesce e fare delle scelte oculate, seguendo ad esempio la guida «Sai che pesci pigliare?» stilata dal Wwf, che è consultabile in rete. 

Di Roberto Topino e Rosanna Novara

C’è rete e rete

Reti da circuizione: si tratta di reti ideate per catturare banchi interi di pesci, i quali spesso vengono attratti da luci. Una volta catturato il banco di pesci, il fondo della rete si chiude, impedendone la fuga. Questo tipo di pesca può essere molto selettivo, ma anche molto dannoso, se utilizzato per i banchi di pesci giovani, poiché, in questo caso, intacca direttamente le riserve ittiche.
Reti a strascico: per la pesca sul fondo del Mediterraneo, i pescherecci usano reti a forma di sacco, con un’apertura larga 20 metri ed alta circa 2 metri. Tali reti sono tenute aperte da due divergenti, detti “tavoloni”, spinti di lato dalla pressione dell’acqua, da galleggianti posti superiormente all’imboccatura e da piombi posti inferiormente alla stessa. Il peschereccio traina la rete per parecchie ore, per un tratto di mare di 15 o più chilometri, irretendo e sconvolgendo tutto ciò, che si trova in quel fondale. In pratica, a causa dei pesi metallici trascinati sul fondale, questo viene quasi arato, con la cattura e l’uccisione di ogni forma di flora e di fauna presente. Per ripopolare i tratti di fondale, così devastati, possono essere necessari degli anni. La superficie interessata da una simile battuta di pesca può arrivare a 100.000 metri quadrati. In tal modo vengono catturati molti pesci giovani, col pericolo di impoverire le riserve ittiche. Per evitare questo problema, molti Paesi hanno fissato il limite di 20 millimetri, per le maglie delle reti, ma di fatto nessuno controlla.
Reti a strascico d’altura: si tratta di una variante più distruttiva dell’ambiente marino, rispetto alla precedente, perché questo tipo d’attrezzo consente ai pescherecci di pescare sia sul fondo, che a media profondità. L’ampiezza dell’imboccatura delle reti varia da 10 a 15 metri e le maglie sono molto più piccole (9-12 millimetri), quindi inferiori rispetto al limite legale. In genere, i pescherecci, che usano questo tipo di reti, hanno motori molto più potenti degli altri e riescono a catturare qualsiasi cosa si presenti sulla loro strada. Le reti a maglie piccole, trascinate a forte velocità, creano una sorta di barriera (anche perché in tal modo le maglie si rimpiccioliscono ulteriormente) e, di conseguenza, riescono a catturare anche pesci di piccole dimensioni, che altrimenti sarebbero sfuggiti.
Palamiti: si tratta di attrezzi costituiti da cime “madri” lunghe parecchi chilometri, a cui sono applicate migliaia di cime più corte, dotate di ami con esche, distanziate l’una dall’altra di qualche metro. Un sistema di galleggianti e di piombi permette a questo attrezzo di essere posizionato sulla superficie dell’acqua o alla profondità desiderata. I palamiti posizionati in superficie spesso catturano tartarughe (decine di migliaia, ogni anno) ed uccelli marini. Purtroppo spesso i palamiti vengono posizionati lungo le rotte migratorie delle tartarughe.
Reti derivanti: sono reti fisse, lunghe parecchi chilometri, posizionate singolarmente o a gruppi anche fino a 30 metri di profondità, oppure sospese in acqua, mediante galleggianti. La dimensione delle loro maglie varia a seconda delle specie cacciate, che di solito sono pesci spada, alalunga e tonni bonito. La pesca con queste reti è del tutto indiscriminata e spesso vi si impigliano delfini, balene, tartarughe e talvolta uccelli marini.
Tramaglio: tipo di rete fissa, alta circa 2,5 metri, usata nel Mediterraneo, costituita da un insieme di due reti a maglia larga (200 millimetri), entrambe tese, con in mezzo una rete più estesa e meno tirata, a maglie più piccole (30-40 millimetri), di modo che il pesce, nuotando in mezzo, vi resti intrappolato.

Di R. Topino e R. Novara

Roberto Topino e Rosanna Novara




Madre Teresita non va in pensione

Legion d’Onore a una missionaria Figlia della carità

La Francia ha onorato con una delle più prestigiose onorificenze nazionali una missionaria francese ultra ottantenne, Madre Teresita, ancora attivissima sulle Ande ecuadoriane nella promozione integrale dei giovani indios quechua.

Ho letto una notizia che ha fatto davvero bene al mio cuore missionario. Soeur Marie Louise Duvignau, più nota in Ecuador come Madre Teresita, il primo gennaio 2010 è stata nominata dal presidente francese Nicolas Sarkozy, per la prestigiosa onorificenza della «Legion d’Onore». Madre Teresita appartiene alla Congregazione delle Figlie della Carità e lavora attivamente nella parrocchia di Flores, diocesi di Riobamba, Ecuador. Le ho scritto per farle sapere che in molti condividiamo la soddisfazione di vedere che il suo lavoro a favore degli ultimi e una vita spesa per gli altri sono pubblicamente riconosciuti. Mi ha risposto facendo notare che si è sentita a disagio per l’onorificenza: «Abbiamo sempre preferito la parte nascosta e umile perché la nostra luce deve far vedere e rintracciare chi è invisibile e abbandonato».
Alla fine di dicembre Madre Teresita ha compiuto 85 anni, sono un percorso ben definito riguardo all’età, ma incalcolabile in rapporto al suo impegno missionario. È stata anche in Egitto prima di arrivare in Ecuador sempre fedele all’ispirazione e carisma di San Vincenzo de Paoli, che i poveri li trattava da «signori», non perché fossero bravi, belli e buoni, ma perché in questo modo si faceva un investimento sicuro nell’amore di Dio. Oggi, in un angolo sperduto delle Ande, grazie a questa meravigliosa missionaria francese, esiste davvero un luogo dove gli indigeni sono tenuti in considerazione e amati come persone care, ma soprattutto sono aiutati ad essere capaci di dare e ricevere con disponibilità e sensibilità fuori del comune. Quando Madre Teresita faceva notare (e lo faceva spesso) che il progetto «Missione Flores» era frutto della Grazia Divina, si riferiva ai volontari, tutti giovani indigeni, che ancora adesso l’accompagnano e dirigono assieme il centro di formazione, e sono partecipi e seriamente responsabili della gestione pastorale nel territorio della Missione.
Questi collaboratori volontari mi hanno scritto delle testimonianze stupende: «è impressionante l’amore di Teresita per noi indigeni poiché nonostante l’età già avanzata, continua la sua presenza sollecita e generosa. È un regalo grandissimo. I giovani che frequentano il centro sono particolarmente ansiosi di imparare. Il centro è un luogo che li accoglie con molto amore, dove tutti sono benvenuti. Quest’anno (2009-2010) vogliamo impegnarci di più nella informatica, accettando la richiesta degli alunni. Allo stesso tempo avremo spagnolo, matematica, contabilità, inglese, tessitura di fasce, taglio e cucito, arti e mestieri, cucina, produzione agricola e piccoli allevamenti, musica, Bibbia e altre materie. Tutto serve per la vita».
Quando i missionari della Consolata arrivarono nel 1987, madre Teresita era già presente da alcuni anni e con una consorella aveva in affitto due stanze perché non c’erano ancora strutture. La diocesi di Riobamba era ben organizzata, le idee e gli obiettivi chiari. La base teorica, «el marco teorico», prevedeva di partire dalla comprensione della realtà per arrivare alla meta, il Regno di Dio; da qui erano stabiliti gli obiettivi generali e quelli specifici. La fede era accettare Gesù Cristo come premessa e fondazione per impegnarsi a lavorare a costruire la chiesa dai poveri e con i poveri, formando comunità con la coscienza di essere popolo di Dio e segno espressivo del regno. Assieme bisognava fare tutto il possibile per costruire una società nuova che fosse anticipazione del regno nella terra, mettendo al primo posto l’impegno di edificare la chiesa indigena. Gli obiettivi specifici diventavano la formazione, la moltiplicazione e consolidazione delle comunità cristiane di base e altri tipi di comunità cristiana. Tutto cominciava formando i responsabili della marcia di queste comunità: catechisti, missionari, futuri sacerdoti. La diocesi sembrava un laboratorio effervescente. Ma già nel 1987 mons. Leonidas Proaño (1910-1988), anima della diocesi, aveva già dato le dimissioni (1985), subito accettate.
Non ci volle molto a capire che chi aveva voce in capitolo non erano gli indios, ma gli agenti pastorali, francesi, colombiani, spagnoli, tedeschi, olandesi, preti, laici e suore. Gli indios erano i protetti, i beniamini, e anche loro dovevano esserci sempre, ma lasciar fare agli altri. Ogni tanto potevano anche dire la loro che, guarda caso, appoggiava gli agenti pastorali con attacchi e lamenti contro la chiesa gerarchica, il Fmi e il debito estero. Gli indios erano tutti battezzati e nelle comunità della campagna oltre la cappella c’era anche la casa comunale, la comunità cristiana e l’immancabile comitato locale. Avevano messo in piedi una certa convivenza o almeno una coabitazione con i vari interlocutori. Ma loro seguivano quello che avevano sempre fatto, il loro stile di vita collaudato nei secoli. Secondo la storia, tutti gli indios dell’Ecuador erano puruhà, minuscole tribù confederate e cornordinate in linee generali dai re di Quito. Poi arrivarono gli incas dal Perù a dominarli e all’arrivo degli spagnoli erano già stati assimilati nella cultura incaica. Gli spagnoli fecero il resto: unificarono la lingua e l’amministrazione e promossero a tutta forza la cristianizzazione.
Quando con Madre Teresita ci siamo messi a studiare il progetto missionario degli indigeni di Flores, ci siamo chiesti «cos’era rimasto dei puruhà? E degli incas? E degli spagnoli?». Lungo i secoli erano arrivati poi i libanesi, i cinesi, gli italiani, gli inglesi, i tedeschi. Ma nella diocesi di Riobamba gli indigeni reclamavano si ascoltasse il loro grido che rivendicava luoghi e spazi nella chiesa. Come dire che «se non ci danno spazio nella chiesa cattolica», saremo costretti a fae una noi totalmente indigena, nel pensiero e nella teologia, con riti propri e segni propri. Un bel sogno, ma impossibile da realizzare. Così con Madre Teresita ci siamo messi a lavorare partendo davvero dalla realtà che si trovava senza nostalgie indebite. La chiesa di Riobamba anche se composta per l’ 80% di indios e quasi indios, non aveva che una manata di essi nei suoi quadri direttivi. Allora si può inculturare la chiesa senza presenza indigena?
A Flores abbiamo iniziato modestamente, ma con decisione, a indigenizzare la parrocchia. Il primo impegno è stato pratico: cosa possiamo fare con una chiesa piena di cultura indigena e vuota di ministri, dirigenti e responsabili indigeni? Cooptammo allora indios nei quadri parrocchiali, certi che, una volta inseriti, avrebbero poi manifestato le loro idee e le esigenze più vere. Una delle prime esigenze fu quella di offrire una educazione complementare ai ragazzi e alle ragazze quechua che finivano la scuola primaria e rimanevano senza prospettive per il futuro.
Flores è un piccolo centro di 200 abitanti, ma la parrocchia ne conta 6.000 di cui il 60% sono protestanti evangelici. Subito ci siamo organizzati per migliorare la chiesetta e fare un centro di promozione educativa e formativa. Nel 1989 funzionava già e Madre Teresita diventò l’anima di tutte le attività volte a far sì che gli indigeni fossero avviati a diventare responsabili della propria vita e della organizzazione delle attività comunitarie.
Per il centro sono passati già diverse centinaia di giovani indigeni e tutti hanno ricevuto quello che noi chiamavamo «capacitasion» (rendere una persona capace di), ognuno secondo le proprie qualità. Ciascuno acquisiva delle capacità professionali e umane diverse, secondo i bisogni della famiglia e comunità. Madre Teresita animava una splendida collaborazione tra tutti senza divagare sulla gerarchia dei ruoli. Aveva capito il tessuto della impostazione culturale: ognuno al suo posto con responsabilità e funzione rispettata. Madre Teresita, come religiosa della Carità, si è sempre caratterizzata per la capacità di praticare una solidarietà con i poveri e gli ultimi non fine a se stessa, ma sempre orientata alla costruzione di una società nuova che completasse quella di partenza con più vita, più verità, più amore e più giustizia. Il tutto condito dalla virtù che lei ha praticato di più, la «tendresse» (tenerezza).
Grazie a Madre Teresita la «Missione» non è un altro episodio nella lunga lista di opere che hanno un principio, molti sacrifici e poi una rapida scomparsa. Non ho mai smesso di ringraziare perché Madre Teresita era riuscita a rendere il centro una casa sempre abitata. Ha lavorato molto per elevare, emancipare, far valere l’indio, come qualità imprescindibile dell’essere e dell’agire. E la cultura è stata animata perché davvero coltivasse la persona indigena e la magnificasse nel sapere e nel volere, nel conoscere e nel fare.
Teresita grazie, sempre. L’onorificenza la meriti tutta, anche perché già da tanti anni sei diventata un riferimento stabile, bello e felice per l’indio piccolo, per la comunità umile, per il giovane indio fermo in un presente senza memoria che valga la pena ricordare e privo di un futuro che meriti impegno, fatica e sacrificio. Hai dato loro incentivo per raggiungere una dignità che valga la spesa di essere salvata e degna di essere continuata, anche se sappiamo tutti che il processo è lento e lungo, se si vuole includere tutti quanti e non solamente alcuni più furbi e capaci. Que Dios te pague, cuyashca Hermanita. 

Di Giuseppe Ramponi

Giuseppe Ramponi




Risorgiamo dalla polvere

Fondazione Missioni Consolata Onlus

Inizia con questo numero una nuova rubrica: Cooperando…, spazio di riflessione, proposte  e progetti per pensare il mondo della cooperazione internazionale insieme a Missioni Consolata Onlus.

Il microcosmo delle baraccopoli

Peter posa distrattamente una mano su un mucchio di T-shirt impilate con cura sul suo banco del mercato. Ha sentito il fischio del treno in lontananza e sa che fra pochi secondi un convoglio ferroviario lambirà la sua merce passando sulle rotaie che attraversano Kibera, il più grande degli oltre duecento slum di Nairobi. Viene da sorridere pensando agli annunci nelle stazioni europee, dove voci meccaniche raccomandano ai viaggiatori di non oltrepassare la linea gialla di sicurezza ogni volta che un treno in transito scorre tra i binari. Peter compie quel gesto con estrema naturalezza, in modo quasi automatico: abita e lavora in una bidonville di trecentomila persone e ha imparato a convivere con la mobilità causata dai pochi lentissimi treni di passaggio, il fango della stagione delle piogge, i rivoli di liquami che scorrono negli scoli a cielo aperto, l’odore acre di pneumatici bruciati e il puzzo dei rifiuti urbani mai raccolti.
Secondo le stime di Un Habitat, l’agenzia delle Nazioni Unite che si occupa degli insediamenti umani, un abitante del globo su sei vive in una baraccopoli, cioè in un agglomerato urbano spontaneo dove non sono garantite cinque condizioni essenziali: l’accesso all’acqua, i servizi igienici, lo spazio vitale sufficiente, la durata e qualità delle abitazioni e le garanzie giuridiche del possesso delle case. Sempre Un Habitat informa che attualmente metà della popolazione mondiale vive in città e questo, nel giro di un ventennio, aumenterà fino al sessanta per cento. Nei paesi in via di sviluppo, in particolare, questa crescita è decisamente sostenuta: ogni mese, cinque milioni di persone abbandonano le zone rurali e vanno a ingrossare le fila della popolazione urbana, inseguendo gli stessi sogni e speranze che portano migliaia di immigrati sulle coste italiane.
Al di là delle ovvie considerazioni sui drammi legati alla vita in uno slum, ciò che impressiona di questi quartieri è la presenza di dinamiche quotidiane del tutto simili a quelle vissute dalle persone appartenenti a contesti sociali più agiati. Ben oltre la soglia di degrado tollerabile per un cittadino occidentale si sviluppa infatti un «microcosmo», come lo ha definito padre Paolo, missionario comboniano attivo nello slum di Korogocho, «con le sue regole e la sua economia». In Kenya, un terzo degli abitanti degli slum è un finto povero che ha scelto di vivere in questi quartieri per evitare gli alti costi e doveri dei luoghi residenziali oppure per lucrare sulla disperazione altrui, affittando baracche di fango e lamiera a chi, invece, non ha scelta.
Non solo. La baraccopoli è ben lontana dall’essere un errore, un imprevisto storico e sociale; al contrario. «Gli slum sono vere e proprie riserve di manodopera giornaliera a buon mercato», commenta padre Franco, missionario della Consolata in Kenya. «E sono un ottimo centro smistamento di merci “sensibili”», gli fa eco dall’altra parte del mondo padre Jaime, missionario della Consolata a San Paolo del Brasile. «Dai quartieri ricchi, decine di automobili di lusso arrivano ogni sera a Héliopolis e nelle altre favelas pauliste per comprare marijuana, cocaina, sesso e qualunque cosa».
L’esistenza di realtà urbane degradate è certamente foriera di tensioni e violenza, dentro e fuori i confini tracciati dal marrone fulvo della ruggine delle lamiere. «Che ti aspetti?», chiede ironico Marco, consulente in psicologia sociale di Johannesburg. «Nelle metropoli del Sudafrica vedi ville immense con piscine da mille e una notte e, letteralmente girato l’angolo, trovi la township dove il piatto forte è la testa di capra arrosto. Ovvio che ogni tanto qualcuno compra un fucile e cerca di rubarti la macchina».
Viene spontaneo chiedersi perché questa marea umana non faccia valere la sua superiorità numerica e non si ribelli mettendo a ferro e fuoco le città e prendendo d’assalto le sedi del potere. «Non otterrebbero niente», spiega padre Franco, «se non una dura repressione da parte delle autorità. Si sentirebbero rispondere: “Ma chi vi ha chiesto di abbandonare le campagne e ammassarvi come bestie in città?”. No, non è questo che vogliono». Ciò che vogliono gli abitanti degli slum è piuttosto il riconoscimento graduale dei propri diritti, la riqualificazione delle aree dove vivono, il risanamento delle infrastrutture. Della quotidianità di una baraccopoli fanno parte anche i numerosi comitati di quartiere e associazioni che, anche con la collaborazione di istituzioni inteazionali, Ong e missionari, lottano ogni giorno per avere case di mattoni, scuole adeguate, allacciamenti idrici ed elettrici, strutture sanitarie.

Missioni Consolata Onlus
nelle periferie urbane
L’impegno nelle periferie urbane è uno degli ambiti prioritari del lavoro di evangelizzazione che i missionari della Consolata portano avanti attraverso la loro presenza decennale, in alcuni paesi anche centenaria, in Africa e America Latina. Sono stati perciò testimoni diretti dell’esodo dalle aree rurali o dalle zone di guerra da cui hanno avuto origine gli insediamenti urbani spontanei e la loro degenerazione in baraccopoli e, nel corso del tempo, hanno cercato di rispondere alle nuove emergenze.
Missioni Consolata Onlus (Mco) nasce proprio per valorizzare questa esperienza e accompagnare il lavoro di promozione umana attraverso lo strumento del progetto. Nella maggioranza dei casi, i progetti di Mco nelle periferie urbane, ideati e gestiti in stretta collaborazione con le comunità locali, intervengono sugli ambiti sanitario e scolastico e mirano a fornire a tutti l’accesso alle cure mediche, ai servizi igienici, a un’istruzione di qualità, senza dimenticare la formazione dei leader e il microcredito.
Tra le esperienze più significative promosse attraverso la campagna quaresimale «Risorgiamo dalla polvere» occorre ricordare il Kenya. Nella periferia di Nairobi, i missionari della Consolata operano negli slums di Kahawa West, Deep Sea, Suswa e Masaai con progetti relativi a istruzione, sanità e sanificazione. A Kahawa West è in corso la costruzione di un asilo mentre continua la collaborazione con Un Habitat e altre agenzie per la costruzione e manutenzione dei servizi igienici. A Deep Sea, Suswa e Masaai sono operativi un centro di artigianato e sartoria con annessa produzione, un dispensario e una scuola matea ed elementare, quest’ultima gestita in collaborazione con l’associazione italiana Afrikasì.
Altra realtà importante è quella della periferia di Boa Vista, capitale dello stato brasiliano di Roraima, dove i missionari della Consolata hanno avviato progetti sanitari e di microcredito per la popolazione indigena emigrata in città e i lavoratori urbani.
Nella periferia di Kinshasa, Repubblica Democratica del Congo, si sta procedendo all’ampliamento di due strutture scolastiche ed è in programma l’apertura di un centro nutrizionale per far fronte agli alti tassi di malnutrizione rilevati tra i bambini del quartiere di Saint Hilaire.
In Mozambico, nei sobborghi della capitale Maputo, si fornisce appoggio didattico agli studenti universitari attraverso il programma di borse di studio, affiancato dai servizi offerti dal centro culturale e dalla biblioteca.
Infine, i missionari della Consolata sono presenti anche nelle periferie urbane di Caracolí (Colombia), Guayaquil (Ecuador) e Caracas (Venezuela), dove svolgono attività formative e gestiscono centri d’aggregazione.
Il dettaglio dei progetti di Missioni Consolata Onlus è disponibile su sito web all’indirizzo www.missioniconsolataonlus.it, dove è possibile consultare il dossier «Periferie urbane» e visitare la pagina della campagna «Risorgiamo dalla polvere».

Chiara Giovetti e Antonio Rovelli

Chiara Giovetti e Antonio Rovelli




L’esempio brasiliano

Immigrazione illegale in Italia e in Brasile

Il Brasile è un paese che si è costruito sull’immigrazione e ancora oggi
ha larghe fette di immigrati, essendo uno dei giganti economici emergenti.
Anche là non tutti gli immigrati sono legali, solo che il problema è affrontato
in modo diverso che da noi. Forse abbiamo qualcosa da imparare.

Globalizzazione: basta la parola per avere una fotografia di quello che da un paio di decenni è il modello economico dominante: un flusso costante e interconnesso di merci che si muovono a ritmi vertiginosi da un luogo all’altro. Libertà ampia e senza restrizioni ai beni di consumo. I pomodori turchi in Francia, il gazpacho spagnolo in Giappone, le scarpe italiane negli Stati Uniti, le chincaglierie cinesi sparse per tutto il pianeta, e così via. Tutto si muove, e tutto – in questo incessante muoversi – produce ricchezza o povertà a seconda del punto di vista da cui si osservi il transito. E gli esseri umani? Quelli se ne devono stare a casa loro. E quando cercano di uscire con quella forza che solo la disperazione dà, è la frontiera di qualche lontano Paese in cui vanno a cercare di sfuggire alla miseria che provvede a rispedirli al mittente.
Ma quell’umanità che ha ereditato i peggiori scompensi prodotti dal capitalismo selvaggio, con la sua inarrestabile corsa per la sopravvivenza impone agli altri Paesi di confrontarsi anche con il problema della globalizzazione umana. L’immigrazione contemporanea mette in crisi il ruolo prioritario conferito finora alle merci e riporta al centro della discussione l’uomo, infiammando le società con complessi dibattiti su questioni di carattere etico e politico. Da una parte le nazioni appartenenti al cosiddetto «blocco dei paesi del primo mondo», che si irrigidiscono di fronte al timore delle trasformazioni che stanno avvenendo all’interno delle loro culture, custodite orgogliosamente da centinaia di anni come simboli statici di un periodo aureo di dominazione del mondo. Dall’altra, i paesi emergenti, nati essi stessi da fenomeni migratori, che difendono la necessità di organizzare i flussi mondiali partendo dall’adozione di politiche umanitarie, sì, ma anche pragmatiche e a lungo termine.
Una democrazia in crisi
Nel primo gruppo figura l’Italia dell’era Berlusconi, che di fronte al problema dell’immigrazione ha rivelato un profondo deterioramento del proprio sistema di garanzie democratiche. I numerosi elementi negativi presenti nella politica portata avanti dal Goveo Italiano in quest’ultimo anno sono ormai noti: l’introduzione del crimine di immigrazione clandestina, la subordinazione della concessione del Permesso di Soggiorno al contratto di lavoro dipendente, la persecuzione dei locatori e dei datori di lavoro di immigrati irregolari, il ruolo ambiguo e inquietante delle ronde, il tentativo di segregazione scolastica degli stranieri, l’invito a denunciare gli irregolari che richiedano prestazioni nelle strutture sanitarie, l’aumento della burocrazia per la regolarizzazione di uno straniero, il patealismo nazionalistico di uno stato che offre la Carta di Soggiorno permanente in cambio del dominio della lingua italiana e dell’assimilazione automatica della cultura nazionale o, peggio ancora, regionale. Chiaramente la lista non finisce qui. Le norme sono innumerevoli e trasmesse alle questure ad un ritmo tale da non permettere alla macchina burocratica di metterle in pratica.
Una valanga di leggi che fanno a pugni con un’identica montagna di statistiche presentate dai centri di ricerca più accreditati del Paese – Banca d’Italia, Istat, Caritas/Migrantes, Fondazione Leone Moressa – che rivelano che la nuova Italia è affetta da una miopia politica che la fa remare contro i propri stessi interessi economici. Quasi senza eccezioni, gli studi sui fenomeni migratori finora realizzati concordano infatti su un punto: i flussi non si fermeranno almeno per i prossimi cinquant’anni e ridisegneranno completamente il profilo socio-economico-culturale della penisola.
Umanizzare le politiche
di immigrazione
Nel clou della polemica sulla riforma della legge sull’immigrazione, che in Italia ha trasformato in un istante un milione di irregolari in criminali a tutti gli effetti, il presidente brasiliano Luiz Inácio Lula da Silva si è presentato alla riunione del G8 dell’Aquila annunciando di voler dare una grande lezione di immigrazione ai Paesi più sviluppati. Lula si riferiva alla legge 11961 di amnistia dei clandestini in Brasile, promulgata il 2 luglio del 2009, che ha permesso la regolarizzazione di cinquantamila stranieri provenienti da altri Paesi latini. L’iniziativa del governo, in realtà, non è stata altro che la ripresa di una disposizione del ‘98, in occasione della quale trentanovemila immigrati furono amnistiati nel Paese.
La differenza fra la politica brasiliana e quella italiana, ovviamente non riguarda solo i numeri. Il Brasile – oggi con poco più di 870 mila immigrati regolari – è passato dal suo ruolo di tradizionale ricettore di stranieri – quando fra il 1820 ed il 1940 giunse a ricevere circa cinque milioni di persone – a quello di paese emissore di migranti, verso la fine degli anni ‘80.
Solo negli ultimi anni è ritornato ad attrarre l’interesse dei Paesi limitrofi, ed in particolare dei boliviani. Le stime prima della regolarizzazione dello scorso luglio, indicavano che sessantamila si erano attestati clandestinamente a São Paulo e diecimila nello stato del Mato Grosso.
«L’immigrazione deve essere trattata come un’emergenza umanitaria e non la si può confondere con la criminalità», ha affermato Lula al G8, confrontando i provvedimenti messi in atto dal Brasile con quelli che stavano per essere adottati in Europa. Ma non è tutto. Secondo Lula, la regolarizzazione è stata il primo passo di un progetto di più ampio respiro che punta alla creazione di una nuova Legge dello Straniero, e che ha come obiettivo riumanizzare l’immigrazione in Brasile.
Uno strumento per evitare che gli immigrati, in condizioni di estrema fragilità finanziaria, siano oggetto dello sfruttamento e del traffico umano praticato dalle gang di narcotrafficanti, che insieme ad altre organizzazioni criminali operano nelle zone di frontiera.
La legge 11961 ha dato ai clandestini che vivono in Brasile la possibilità di ottenere la residenza provvisoria per due anni, che al momento della scadenza potrà essere trasformata in permanente. Vengono garantiti ai beneficiari della legge gli stessi diritti e doveri dei brasiliani, ad eccezione di quei privilegi di cui si gode per nascita, come la possibilità di candidarsi a cariche elettorali.
Mettendo a confronto la politica del Brasile con la regolarizzazione effettuata dall’Italia nel settembre del 2009 per colf e badanti o con lo stesso decreto flussi, appare chiaro che le complesse pratiche burocratiche italiane hanno una precisa finalità: creare condizioni tali da non permettere agli immigrati di legalizzarsi.
Sette mesi prima della promulgazione della legge di amnistia, in vista del progetto di integrazione dei Paesi dell’America del Sud, il governo Lula ha siglato un accordo bilaterale con l’Argentina, permettendo la concessione del visto permanente a turisti e cittadini argentini muniti di visto provvisorio. Un visto che – come si sostiene a Brasilia – oltre a permettere al viaggiatore di vivere esattamente come un cittadino del Paese che lo ospita, gli offre al tempo stesso la possibilità di decidere se stabilirvisi definitivamente.
Questa preoccupazione, presente anche nella legge di amnistia, dimostra che la politica migratoria del Brasile, offrendo le condizioni di base per l’inserimento legale dell’immigrato nel mercato del lavoro, anticipa in un certo senso il processo di integrazione.
Nulla di tutto questo si avverte per ora nelle scelte dell’Italia, nonostante l’allarme mano d’opera che rischia di compromettere seriamente il potenziale produttivo del Paese a causa dell’invecchiamento della popolazione, del basso indice di natalità e del rifiuto da parte dei giovani italiani di svolgere lavori meno remunerativi o qualificati.

Di Célia Takada

Célia Takada