Incontro con Michel Sabbah, patriarca latino emerito
Cosa significa essere cristiani, oggi, nella Terra santa? Essi hanno una vocazione speciale: come minoranza schiacciata tra ebraismo e musulmanesimo, sono chiamati a vivere in Gesù Cristo e renderlo presente nella sua stessa terra; come appartenenti in maggioranza a un popolo di oppressi, sono chiamati a lottare per la pace e la giustizia, attraverso la solidarietà, il dialogo, la riconciliazione.
Fare la conoscenza con la chiesa in Terra santa: fa parte del programma del corso di aggioamento presso la casa dei Padri Bianchi a Gerusalemme. Ce ne parla la voce più autorevole: mons. Michel Sabbah, primo palestinese eletto patriarca latino di Gerusalemme dal 1987 al 2008.
La sua presentazione è molto breve: nato a Nazaret nel 1933, ordinato presbitero nel 1955, laureato in filologia araba a Beirut, dottore in filosofia alla Sorbona di Parigi, presidente della Conferenza episcopale dei vescovi latini della regione araba, dell’Assemblea degli ordinari cattolici della Terra santa e di Pax Christi Inteational (1999-2007) è stato e continua ad essere, anche dopo le dimissioni da patriarca per limiti di età, promotore appassionato del dialogo interreligioso con ebrei e musulmani, costruttore di pace e riconciliazione tra i due popoli e le tre religioni presenti nella terra di Gesù.
Testimoni per natura e vocazione
«Siamo una chiesa piccola e lo siamo da sempre – esordisce con voce pacata e ferma -. Nel III secolo il vescovo di Gerusalemme era suffraganeo dell’arcivescovo di Cesarea e solo nel V secolo ottenne il titolo di patriarca (Concilio di Calcedonia, 451 d.C.). Durante i tre secoli di dominio bizantino i cristiani sono stati in maggioranza, ma sono tornati piccolo gregge dal VII secolo in poi, con la conquista araba (638). Possiamo dire che in tutta la sua storia Gerusalemme non è mai stata una città cristiana.
Tale piccolezza non è solo un problema di carattere storico e politico, ma fa parte del mistero di Cristo, come afferma l’evangelista Giovanni: “Venne tra i suoi e i suoi non lo riconobbero, non lo accettarono”. Gesù formò un’esigua comunità con gli apostoli, i discepoli e le donne che avevano creduto in lui, e rimase un piccolo gruppo nella sua società. Ancora oggi, dopo quasi 20 secoli, Cristo è nella stessa situazione: non è riconosciuto nella sua terra; non è accettata nella società la sua azione di redenzione».
«Siamo piccoli e siamo molte chiese – continua il patriarca emerito senza reticenze -. A Gerusalemme sono presenti quasi tutte le chiese cristiane storiche: ortodosse, cattoliche e protestanti. Pur con le nostre diversità, dobbiamo rispondere alle sfide del mondo contemporaneo: siamo un piccolo gruppo, ma, come ai tempi delle origini, abbiamo una vocazione speciale: testimoniare Cristo nella sua terra; questa presenza di testimonianza è la vera natura della chiesa di Gerusalemme. Quando incontro dei fedeli che vogliono emigrare dico loro che perdono due cose: patria e vocazione, cioè, essere cristiani e testimoni nella terra di Gesù e in questa società».
Toccando il problema della migrazione, il patriarca si fa serio e ricorda che sono oltre mezzo milione i cristiani palestinesi, in maggioranza dispersi nel mondo dall’emigrazione e dalle guerre del 1948 e del 1967; solo circa 180 mila sono in Terra santa, formando l’1,7% della popolazione sia in Israele che in Palestina.
«Siamo una comunità in via di estinzione? – continua il patriarca ponendosi la domanda e dandosi la risposta -. Molti vorrebbero pensarlo. In realtà, benché piccola siamo una comunità molto viva, partecipe di tutta la vita della chiesa e della società. È vero che tanti sono stremati da una continua lotta per la sopravvivenza e finiscono per andarsene. Altri, però, restano. Resterà sempre in Terra santa una piccola comunità di cristiani. Gesù ha detto ai suoi apostoli: «Voi sarete miei testimoni a Gerusalemme, nella Giudea e nella Samaria e fino agli estremi confini della terra» (At 1,8). Per questo noi restiamo e resteremo, lungo i secoli, i testimoni di Gesù nella sua terra.
Situazione insopportabile
«Qual è il ruolo dei cristiani, oggi, in Terra santa?» si pone la domanda il patriarca, dandone pure la risposta: «Oltre a chiesa di testimoni, siamo anche chiesa del Calvario, sempre in croce per i conflitti politici che hanno interessato questa terra. Se Gerusalemme è per eccellenza la città della croce, la chiesa di Terra santa nasce sotto di essa. Ogni cristiano partecipa alle sofferenze della sua gente: i cristiani israeliani di espressione ebraica si sentono parte di una società che soffre e ha paura; i cristiani palestinesi condividono le sofferenze e le tragedie dei palestinesi. Sulla carta esiste un’autorità palestinese; in realtà non abbiamo alcuna libertà e l’occupazione militare diventa sempre più insostenibile e violenta».
Muro di separazione, umiliazioni ai chek point, aggressioni, demolizioni di case, impossibilità di movimento, disoccupazione… La lista continua sciorinando le ingiustizie che tengono un popolo in ostaggio, impediscono lo sviluppo e fomentano odio e violenza.
«Ai disagi materiali si aggiungono pericolose ricadute sociali e morali come la disgregazione delle famiglie» prosegue il patriarca, spiegando che, per uscire dai territori occupati occorre uno speciale permesso, che viene molto spesso rifiutato. Ne consegue che se un coniuge lavora a Gerusalemme e l’altro vive nei territori palestinesi, entrambi sono impediti di vivere insieme come famiglia. «Ci sono cristiani di Betlemme, per esempio, che non sono mai stati a pregare nei luoghi santi a Gerusalemme. Si dà la colpa alla Giordania, che ha governato Gerusalemme fino al 1967: a quei tempi gli israeliani non potevano recarsi al muro del pianto. Ora il regime d’Israele si comporta allo stesso modo con i cristiani palestinesi e dei paesi islamici come Siria e Giordania».
Responsabilità di religioni e chiese
Nel conflitto israelo-palestinese fino a che punto c’entrano le ragioni religiose?
«La situazione di oppressione e violenza in cui viviamo rendono difficili le relazioni tra gruppi e individui e risvegliano l’antagonismo tra sensibilità religiose differenti. Tuttavia la religione diventa molto spesso un pretesto per affermare la posizione politica, come la questione delle moschee sulla spianata del tempio. Nelle grandi feste, come capodanno o sukkot, c’è sempre qualche gruppo di fanatici ebrei che tentano di prendere possesso della spianata del tempio. Da parte araba è nata una nuova ideologia: si afferma che non c’è mai stato il tempio, ma il luogo è islamico dai tempi di Abramo.
L’ostilità dei palestinesi non è contro gli ebrei in quanto ebrei, ma contro lo stato d’Israele: ostilità semplicemente politica, derivate dalla situazione politica e non da sentimenti di antisemitismo.
Ma in Oriente la dimensione religiosa compenetra e anima tutte le attività private e pubbliche, per cui le religioni hanno una grande responsabilità, in questa parte del mondo, nella ricerca della giustizia e della pace; perciò i leader religiosi possono avere un’influenza decisiva sui fedeli, in un senso o nell’altro, incitare alla guerra e violenza o esortare alla pace.
Qual è il rapporto tra chiesa e stato d’Israele?
All’interno del territorio israeliano, i rapporti della chiesa con lo stato d’Israele sono basati sul rispetto dovuto a ogni autorità. Quando i cristiani arabo-israeliani mi chiedono come comportarsi di fronte allo stato, io rispondo: siete cristiani, siete arabi e siete cittadini israeliani. Siete dunque tenuti a una triplice fedeltà: alla vostra fede cristiana, al vostro patrimonio culturale arabo, che condividete con i musulmani d’Israele e i popoli arabi, e allo stato d’Israele in cui vivete e disponete di un sistema democratico dove sviluppare la vostra vita sociale e religiosa.
Nei Territori occupati, invece, i rapporti tra chiesa e stato sono spesso tesi a causa del regime di occupazione. Ogni volta che faccio sentire la mia voce in questo senso, si alza la tensione, pur non arrivando alla rottura. Tuttavia cerco sempre di fare comprendere che, come portavoce della chiesa, voglio solo il bene dei palestinesi e degli israeliani.
Anche le altre chiese sono sulla stessa linea?
Grazie a Dio, oggi in Terra santa viviamo in un clima di amicizia e frateità tra le differenti chiese cristiane e speriamo di crescere in un cammino ecumenico reale che ci orienti verso una maggiore unità e meno status quo, meno vita nel passato e più attenzione alle difficoltà dell’ora presente.
Siamo 13 capi di chiese a Gerusalemme e prendiamo la parola ogni volta che la situazione si fa più opprimente per denunciare le ingiustizie, come abbiamo fatto durante la crisi e l’assedio della basilica di Betlemme. Abbiamo fatto insieme un documento su Gerusalemme, sulla natura e significato cristiano della città. In dicembre abbiamo pubblicato Il documento kairos Palestina (vedi pagina 30).
Pace su Gerusalemme!
Gerusalemme è il cuore del conflitto: come trasformare il problema in soluzione?
Oggi Gerusalemme è la città di due popoli e tre religioni. Le parti in conflitto pensano più a dividerla che a condividerla. È la città di Dio e, come Dio, è per tutti: nessuno può averla in esclusiva. Essa deve essere aperta a tutti i credenti, facendone una città internazionale con uno statuto speciale, governata alla pari da israeliani e palestinesi; un’entità unica di cui nessuno è padrone, ma comproprietario, sotto la supervisione dell’Onu, per garantire il rispetto delle regole e delle speranze dei due popoli e delle tre religioni.
Gerusalemme è la chiave della pace nella regione; ogni soluzione imposta con la forza, che non rispetti i diritti e i doveri di tutti può portare solo a una tregua, non a una pace definitiva.
Chi ha le chiavi della pace?
Il conflitto in corso non è una guerra: non ci sono due eserciti che si combattono tra loro, ma da una parte c’è l’oppressore, dall’altra l’oppresso. Se si parla di azioni terroristiche palestinesi, bisogna parlare anche di azioni terroristiche israeliane. La violenza palestinese e quella israeliana sono purtroppo legate tra loro.
Come rompere il circolo vizioso? La soluzione è semplice: porre fine all’occupazione militare israeliana; non vedo altro modo possibile per far scoppiare la pace in Medio Oriente. Purtroppo, Israele non parla di occupazione, ma di autodifesa, di diritto alla sicurezza, e non capisce che il vero problema è l’ingiustizia fatta al popolo palestinese. Se cesserà tale ingiustizia, se i palestinesi avranno il loro stato, saranno i migliori amici d’Israele. La pace è molto più utile a Israele che ai palestinesi. E se vuole la pace, deve aprire il dialogo, fare passi concreti; è lo stato più forte ed è l’oppressore, per cui dovrà fare il primo passo. La chiave della pace è in mano a Israele.
In concreto, come risolvere il conflitto?
Non può esserci pace senza risolvere il problema del territorio. Nel 1967 il 78% del territorio formava lo stato di Israele; il 22% sotto il governo giordano; poi Israele lo ha occupato e di questo 22% promette di restituire il 40%, che non basta per fare uno stato. Quindi, o Israele si ritira dai territori occupati e li restituisce ai palestinesi, oppure li incorpora formando un unico stato in cui tutti i cittadini sono uguali, con gli stessi diritti e doveri, cambiando il nome se necessario, tornando magari al nome primitivo, da Èretz Israèl (terra d’Israele) a Terra di Canaan.
Invece Israele continua a costruire nuovi insediamenti nei territori occupati e sta giudeizzando Gerusalemme, confiscando proprietà e case, con il pretesto che prima del 1948 appartenevano o erano abitate da ebrei. Ma lo stesso principio non è applicato per i rifugiati palestinesi, quando reclamano la restituzione delle loro abitazioni, ora occupate da ebrei.
Ma Obama…
Anche Obama ha deluso. Quando ha incontrato il premier israeliano e il presidente dell’Autorità palestinese, non ha concluso niente: si è accontentato di parole, lasciando le cose come stanno, senza fare alcuna pressione su Netanyahu, permettendogli in pratica di continuare la sua politica. Senza imporre sanzioni e farle rispettare, Israele continua a fare ciò che vuole, contro e al di sopra di ogni legge internazionale.
Obama ha capito che c’è un problema di leadership: né Netanyahu, né Abu Mazen, né Hammas sono all’altezza per risolvere il conflitto; per questo non si impegna più di tanto per risolvere il problema.
Ma Obama…
Allora… come cristiani continuiamo a sperare e lavorare. Nella terra sacra per le tre grandi religioni monoteiste il dialogo è possibile e deve essere possibile. Siamo popoli che da due mila anni viviamo gomito a gomito: è un fatto storico. È la storia che ci ha radunati tutti insieme, o meglio, è la Provvidenza, i Signore della storia che lo ha permesso e voluto.
Da parte nostra facciamo tutto quello che possiamo, convinti di avere una vocazione specifica: essere cristiani, cioè testimoni di Gesù nella sua terra, chiamati a testimoniare il suo amore e la sua riconciliazione qui e non altrove.
Benedetto Bellesi