Pochi (cristiani) ma buoni
Somalia – Gibuti: monsignor Giorgio Bertin
Il Coo d’Africa. Si combattono i pirati in mare ma non si cercano le cause. La Somalia è ingovernabile e i gruppi di matrice islamica si sono «affiliati» ad Al Qaeda. I cristiani sono ormai pochissimi, e dispersi. Oggi il vescovo ha solo contatti individuali. E tra Gibuti ed Eritrea continua la tensione. Senza la ribalta dei media.
Monsignor Giorgio Bertin è vescovo di Gibuti e amministratore apostolico della Somalia, o «di tutte le Somalie», come lui ama ricordare. È frate francescano dell’Ordine dei frati minori.
Vicentino, ha lavorato a lungo con monsignor Salvatore Colombo, assassinato a Mogadiscio il 9 luglio del 1989. Attualmente risiede a Gibuti, e tenta, tra mille difficoltà, di dare il suo appoggio ai pochi cristiani in Somalia. Ha studiato l’arabo e parla somalo, inglese e francese.
Lo abbiamo incontrato per parlare dell’area.
Mons. Bertin come descrive la situazione attuale in Somalia?
La situazione rimane estremamente difficile, non dico disperata, ma molto grave. Inoltre è chiaro che questo crea problemi ai paesi vicini, in particolare a Etiopia e Kenya, ma non sarebbe improbabile che li creasse in futuro a Gibuti, che per ora è risparmiato. Ad esempio la pirateria non si risolve solo sull’acqua, arrestando i pirati, ma è una conseguenza di un problema sulla terra, in Somalia.
C’è uno sforzo concreto per il mare, mentre l’azione di contrasto sulla terra in questo momento è verbale, di buone intenzioni, ma bisogna che queste e i timidi passi che si fanno, siano più rafforzati, presi con maggior decisione.
Lei pensa che questo governo somalo riuscirà a rimanere in piedi a lungo?
Gli shebab (gioventù, in somalo, è il nome con cui si fanno chiamare gli estremisti islamici somali, ndr) sono forti, perché mentre si svolgeva a Gibuti la quindicesima conferenza sulla riconciliazione della Somalia, loro avevano già cominciato a prendere il terreno in mano. Era successa la stessa cosa con il precedente governo di transizione. Non so se prenderanno veramente il potere, anche perché penso che in quel caso, l’Etiopia reinterverrebbe in modo molto chiaro, per opporsi. La cosa scatenerebbe come reazione un intervento, forse anche del Kenya, mi immagino.
Il governo federale di transizione ha un margine minimo di potere. Come al solito ha la comunità internazionale che lo appoggia, ma sul terreno le cose non vanno tanto bene, soprattutto in quella zona. È vero che dietro gli shebab e anche agli altri ci sono ancora gruppi con legami clanici.
Quindi si ha l’impressione, come dicono i somali, che abbiano cambiato camicia: la prima era quella della libertà e la democrazia, la seconda è stata quella del clan, la terza quella del semplice signore della guerra e adesso, la quarta, è quella dell’ideologia islamica. Ma si ha l’impressione che dietro ci siano sempre alcuni gruppetti, con legami clanici.
Recentemente hanno mostrato una video cassetta in cui dichiaravano la loro lealtà nei confronti di Al Qaeda. Non so se è vera o se è cercare un ulteriore appoggio. Credo che abbiano dei rapporti, ma ho l’impressione che cerchino di tirarli ancora di più dalla loro parte. Per sostenerli nella loro ideologia, ma anche nella loro presa di potere con questi legami clanici.
Cosa ci dice dei cattolici in Somalia, sono perseguitati?
I cattolici in Somalia, sono pochissimi. Anche prima di questa guerra civile eravamo circa 2.000 di cui il 90% stranieri. Questi sono andati via, quelli rimasti in parte sono stati uccisi. E anche tra i somali una buona metà è partita. Ne resta un gruppetto, forse meno di un centinaio, ma disperso. Io sono in contatto telefonico con alcuni di loro, ma nulla di più. Risiedono soprattutto nella zona di Mogadiscio, ma metà della popolazione è fuori città, in campi di sfollati.
Dire che sono perseguitati vorrebbe dire che c’è qualcuno che li perseguita in modo generale e che sono tanti. Io direi che non c’è persecuzione in modo formale, ma certamente questi gruppuscoli violenti legati a shebab e altri, hanno bisogno di crearsi dei diavoli da combattere.
Prima, ma anche ora, quelli che conoscevano i cristiani, avevano imparato a vivere insieme pacificamente, però adesso mancando la legge e lo stato, i gruppetti sono disperatamente alla ricerca del caso da presentare alla loro ideologia. Come i giornalisti, quando venivano in Somalia cercavano il bambino striminzito da far vedere nelle loro foto. Mentre la maggioranza non era così.
Devono quindi stare in clandestinità nascosti.
E lei riesce ad andare in Somalia regolarmente? Qual è oggi il clero presente?
Adesso è un anno e mezzo che non riesco ad andare nella zona centro-sud, ma negli ultimi anni non ho mai potuto incontrare i cristiani insieme come gruppo. Qualche individuo singolo sì. Il rischio era per me ma anche per loro, perché li avrebbero individuati. Questi gruppi che devono far vedere che loro stanno combattendo per il trionfo dell’islam e per scacciare i traditori, li ucciderebbero e lo hanno anche fatto.
Non ci sono sacerdoti stabili, e quando vanno rischiano subito di farsi individuare. Gli unici sono qualche cristiano somalo e qualche cristiano nelle Ong. Anche le suore sono uscite dopo l’uccisione di suor Lionella (missionaria della Consolata, uccisa nel settembre 2006, ndr). Le consorelle sono andate una a Gibuti e due in Kenya.
E le tensioni tra Gibuti e l’Eritrea sono finite?
No, non sono finite, Gibuti continua a chiedere che gli eritrei se ne vadano e le Nazioni Unite continuano a dichiarare e minacciare, ma l’Eritrea rimane sul territorio occupato a Gibuti, che comunque è poca cosa.
La Francia è intervenuta all’inizio, ha appoggiato Gibuti soprattutto con la logistica, e ha visto che le cose si sono fermate. Ha ritirato i suoi militari dal fronte, mentre vi rimangono i soldati gibutini, perché c’è questo stallo. La mia impressione è che l’Eritrea dica: visto che voi all’Onu avete deciso di darci un po’ di ragione con l’Etiopia e questa non si ritira, io non mi ritiro da Gibuti, convincete l’Etiopia a ritirarsi e io farò altrettanto. È una mia interpretazione perché non capisco cosa gli interessi quel pezzo di terra.
Parlando del sinodo per l’Africa, secondo lei, ha rispettato le aspettative?
Io penso che nelle prime due settimane sia stato un po’ dispersivo. Mi è sembrato che nei vari interventi ognuno mettesse sul tavolo le sue preoccupazioni e l’impressione era che si perdesse forse qual era lo scopo e il tema di questo sinodo. Però credo che ci sia stata un’opera di ridirezione da parte della segreteria perché sia nel messaggio che abbiamo preparato noi, sia nelle proposizioni dei vari gruppi, c’è stato un raddrizzamento, nel senso di evitare dispersioni e rifocalizzare il tema principale. Vedo che c’è stato un buon lavoro positivo.
Per applicare il messaggio del sinodo nella quotidianità della gente, che idee ci sono?
Qui si è detto che Ecclesia in Africa (del 1995, è l’esortazione apostolica del primo sinodo per l’Africa, ndr), si è cercato di applicarla, ma forse è mancato da parte dei vescovi stessi un monitoraggio, per dire cosa stiamo facendo, come stiamo lavorando. Risulta chiaro da diversi interventi, che tornando nei nostri paesi, si aspetterà l’esortazione post sinodale, ma il Messaggio del sinodo è corposo. Abbiamo preferito tenerlo lungo proprio perché vogliamo tornare dai nostri con qualcosa in mano, senza aspettare troppo. Qualcosa su cui cominciare a riflettere. L’impegno che ci siamo presi è che i punti particolari vogliamo attuarli senza accontentarci di belle parole. Ovvero dire: facciamo una valutazione dopo un periodo, cosa abbiamo messo in pratica, quali sono gli aspetti che ci toccano, fare un monitoraggio.
Ha visto novità particolari in questo secondo sinodo per l’Africa?
Rispetto al precedente sinodo l’aspetto particolare è che ci siamo concentrati su dei temi, cercando di non disperderci. Non c’è nessuna vera novità, ma un’insistenza e una ricerca per la messa in pratica di alcuni aspetti della dottrina sociale della chiesa, che toccano riconciliazione, giustizia e pace. Questo a livello liturgico, di catechesi, educazione, ecc.
Questi temi devono far parte della formazione della comunità cristiana. Un altro aspetto su cui io personalmente sono coinvolto, è quello della collaborazione con persone di altre religioni, in particolare l’islam ma anche le religioni tradizionali.
Perché è un tema che interessa non solo i cattolici, ma tutti gli abitanti dell’Africa. Pure questo è un aspetto che è stato messo in luce.
Di Marco Bello
Marco Bello