Ci siamo mangiati il tonno

Il degrado delle acque

La maggioranza delle persone si ricorda che anche il mare e gli oceani meritano rispetto soltanto quando avviene qualche catastrofe: una petroliera che perde in acqua il proprio contenuto, gruppi di cetacei che si arenano su qualche spiaggia, alghe che infestano le località balneari. In realtà, l’uccisione dei mari è fatto quotidiano, prodotto da una pluralità di cause, tutte riconducibili all’uomo e alle sue attività.

Quante volte, facendo la spesa al supermercato, abbiamo distrattamente preso qualche scatoletta di tonno, oppure qualche trancio di verdesca o di spada, o dei gamberi, senza chiederci che cosa significhi fare questa scelta? Effettivamente l’offerta di pesce, sui banconi di un grande supermercato è così grande e diversificata, che diventa un gesto piuttosto naturale scegliere tra i vari tipi di pesce. Oltretutto, da più parti ci vengono ripetutamente sbandierate le qualità nutrizionali del pesce, peraltro vere: oltre ad essere una fonte eccellente di proteine animali, esso contiene le vitamine A e D, il magnesio, il fosforo, i sali minerali, gli acidi grassi omega-3 (essenziali per lo sviluppo del cervello nel feto e nel neonato). Purtroppo attualmente i grandi pesci predatori, cioè i caivori come gli squali, i tonni, i marlin, per citae alcuni, sono anche ricchi di diossine, di Pcb e di metalli pesanti, come il mercurio, a causa dell’inquinamento marino, come visto nel nostro articolo precedente (MC, gennaio 2010). Ma, oltre i rischi che la nostra salute può correre, consumando determinati tipi di pesce, è indispensabile conoscere anche quale impatto può avere  un certo tipo di pesca sull’ambiente e, conseguentemente, sulle popolazioni costiere, specialmente le più povere.
Secondo il rapporto dell’Onu sulla pesca di marzo 2009, attualmente il 77% delle risorse ittiche vanno considerate completamente esaurite o quasi. Le zone più sfruttate in assoluto sono l’Atlantico orientale ed il Mare del Nord. Si stima che, ogni anno, l’ammontare mondiale del pescato sia di circa 86 milioni di tonnellate e le specie a maggiore rischio di estinzione sono il cetorino, il merluzzo bianco, il nasello, il pesce specchio atlantico ed il tonno rosso. A queste specie di pesce, vanno aggiunte quelle di alcuni dei grandi mammiferi marini, come le balene grigie del Pacifico occidentale, i cui esemplari rimasti sarebbero solo più un centinaio (mentre quelle del Pacifico orientale avrebbero avuto un recupero numerico), o le balenottere azzurre dell’Antartide, che sono ormai solo l’1% della popolazione originaria.
Negli ultimi 30 anni, il mercato dei prodotti ittici e dell’acquacoltura ha registrato uno sviluppo esponenziale, legato essenzialmente alle modalità di vendita. In pratica, nelle grandi superfici commerciali, non solo c’è una grande offerta di pesce fresco, ma un’altrettanto grande varietà di prodotti trasformati, soprattutto i piatti pronti, per cui c’è un’esigenza costante di nuovi approvvigionamenti di pesce. Oltre a questo, una parte consistente del pescato (comprese le cai di balena e di delfino) viene utilizzata nella produzione dei mangimi (per gli allevamenti intensivi di bovini, di suini, di pollame), del cibo per animali domestici e come cibo per le specie pregiate di pesce allevate in acquacoltura, come il salmone. In quest’ultimo caso, la quantità di pesce necessaria per l’allevamento dei salmoni è veramente considerevole. In media servono 5 chilogrammi di pesce grasso, come aringhe e sardine, per produrre un chilogrammo di salmone. Questo comporta l’alterazione di interi ecosistemi – i delfini, le foche e le orche, che normalmente frequentano gli estuari dei  fiumi nella Columbia Britannica, in Canada o in Cile, ad esempio, sono sempre meno numerosi e denutriti e spesso vengono respinti dai dispositivi utilizzati, per proteggere i recinti degli allevamenti – e l’impoverimento di molte piccole comunità di pescatori, che non hanno altra fonte di reddito, oltre alla pesca. Il pesce d’allevamento rappresenta ormai il 30% delle proteine animali di origine ittica e l’industria dell’acquacoltura ha un fatturato di 30 miliardi di dollari all’anno, ma l’impatto che essa ha sull’ambiente è sconcertante. Basta pensare che, secondo la David Suzuki Foundation, un’organizzazione ambientalista di Vancouver, nella Columbia Britannica, l’acquacoltura praticata in questa provincia canadese scarica nell’oceano lo stesso quantitativo di rifiuti di una città di mezzo milione di abitanti.
In genere ogni allevamento di salmoni è costituito da 12-15 gabbie, cioè recinti di reti collocati in corrispondenza degli estuari dei fiumi, dove sono presenti forti correnti e può ospitare anche 200.000 pesci. Dai recinti fuoriescono grandi quantità di rifiuti ittici, di antibiotici somministrati per contrastare il rapido diffondersi di malattie tra gli animali, di microbi diventati resistenti agli antibiotici, di pesticidi e tutte queste sostanze si depositano sul fondo del mare, distruggendo varie forme di vita. Inoltre una parte considerevole di tali sostanze viene trasportata dalle correnti, va alla deriva e riesce ad insinuarsi nelle tane dei crostacei, contaminandole e diffondendo malattie in tutta la catena alimentare. Qualcuno si chiederà perché vengono usati i pesticidi negli allevamenti di salmone. Il motivo è la necessità di debellare i pidocchi di mare, che spesso infestano i salmoni.
Negli anni ’80 e ’90, si fece, a tale scopo, grande uso di Nuvan (noto anche come Aquagard), contenente il 50% di dichlorvos, un organofosfato messo al bando dalla Commissione Europea e considerato uno dei pesticidi più tossici, associato dai ricercatori all’insorgenza del cancro ai testicoli, proprio per il suo uso negli allevamenti di salmoni. Come spesso accade, i pidocchi di mare sono diventati resistenti al dichlorvos, per cui attualmente si utilizzano altre sostanze, come la cipermetrina, un veleno neurale cancerogeno, l’ivermectina, una neurotossina, il teflubenzurone, il benzornato di emamectina ed il verde malachite; si tratta di sostanze capaci di uccidere crostacei e molluschi nel raggio di alcune miglia, ma tossiche anche per altre specie di pesci, di uccelli e di mammiferi.
Una sostanza comunemente usata come disinfettante e conservante negli allevamenti ittici di tutto il mondo è la formalina, soluzione al 37% del gas formaldeide, noto cancerogeno per l’uomo. Come se tutto ciò non bastasse, ai salmoni d’allevamento (anche da allevamento biologico) viene somministrata una tintura, per conferire alle loro cai il tipico colore roseo degli esemplari allo stato brado, i quali lo acquisiscono, mangiando crostacei e gamberetti. Tale tintura è a base di carotenoidi sintetici, in particolare l’astaxantina e la cantaxantina (E161), controparti sintetiche delle versioni naturali, presenti nel krill (minuscoli crostacei simili a gamberetti), di cui si nutrono i salmoni liberi. Nel 2003, la Commissione Europea ha pubblicato un rapporto sul danno alla retina, provocato dalla cantaxantina sintetica, scientificamente provato e l’UE ha ridotto l’utilizzo consentito negli allevamenti di questa sostanza (usata anche negli allevamenti di pollame).
Un altro tipo di acquacoltura, che arreca danni gravissimi all’ambiente è quello dei gamberi, che comporta la distruzione delle foreste di mangrovie, situate in delicate zone di confine tra il mare e la terraferma. Le foreste di mangrovie ospitano grandi quantità di pesci e di crostacei e sono, nel contempo, l’habitat per svariate specie animali terrestri o arboricoli, come i giaguari e le scimmie. Da sempre, la sussistenza delle comunità locali dipende da queste foreste: basta pensare che le donne catturano pesci e molluschi, che vengono rivenduti al mercato e permettono di mantenere intere famiglie. La crescita rapida dell’industria dell’allevamento dei gamberi ha comportato la perdita, a livello mondiale,  del 38% delle foreste di mangrovie, secondo Greenpeace, e la scomparsa di molte delle tradizionali aree di pesca delle comunità locali. Sia in Asia, che in America Latina si sono verificate violente proteste delle popolazioni locali, che hanno tentato di opporsi all’introduzione dell’allevamento dei gamberi, ma talvolta tali proteste si sono concluse con l’uccisione di qualcuno degli insorti.
Oltre alla perdita delle foreste di mangrovie, il danno di questi allevamenti è dato anche dalle grandi quantità di mangimi artificiali, di antibiotici e di pesticidi, che vengono rilasciati nell’acqua. Inoltre, i siti di allevamento dei gamberi necessitano di un frequente ricambio, per cui i proprietari abbandonano spesso le zone di palude, ormai trasformate in vere e proprie discariche, per trasferire i loro allevamenti in altre zone costiere. La distruzione delle foreste di mangrovie è senz’altro una delle cause delle terribili conseguenze degli tsunami, poiché le onde non trovano più alcuna barriera naturale alla loro potenza distruttiva.
Enormi quantità di pescato sono necessarie anche per gli allevamenti dei tonni pinna azzurra o tonni rossi, che prendono sempre più piede nel Mediterraneo. Si calcola che servano 25 chilogrammi di pesce, per un chilogrammo di tonno. Questa attività è conosciuta anche come ranching dei tonni e consiste nella cattura e nel trasporto dei tonni in particolari siti, presso le coste del Mediterraneo, dove essi vengono chiusi in gabbia e messi all’ingrasso, per rifornire la clientela giapponese, che paga lautamente per ottenere pesce di elevata qualità per il sushi ed il sashimi. I rapidi profitti derivanti da questa attività hanno portato all’uso di navi da pesca sempre più grandi, che, con reti a circuizione, catturano interi banchi di tonni, per convogliarli nelle gabbie d’allevamento. Le navi, dotate di radar e di sonar, vengono assistite da elicotteri od aerei da ricognizione, che dall’alto avvistano i banchi. Sono inoltre stati costruiti nuovi aeroporti, per il trasporto del tonno. Dal 1997, l’Unione Europea eroga annualmente 34 milioni di dollari, come sussidio per quest’attività ed a questi fondi si aggiungono gli investimenti del Giappone e dell’Australia, che hanno incoraggiato le sempre più organizzate aziende ittiche.
Purtroppo la conseguenza di questa febbrile attività è stata la drastica riduzione del tonno rosso, che è diminuito del 74% nel Mediterraneo tra il 1957 ed il 2007, mentre nell’Atlantico è diminuito dell’83% tra il 1970 ed il 2007. Va detto che il tonno rosso del Mediterraneo non è quello, che troviamo nelle scatolette; in questo caso si tratta di tonno del Pacifico, una varietà meno rara. Attualmente, a livello internazionale, le quote di pesca del tonno rosso del Mediterraneo sono state diminuite del 30% dall’Iccat (Inteational Commission for the Conservation of Atlantic Tunas), ma il Principato di Monaco ha proposto di inserire questa specie tra quelle a rischio di estinzione, nell’elenco Cites (Convention On Inteational Trade In Endangered Species of wild flora and fauna), come auspicato anche dal Wwf. Purtroppo tale proposta, a settembre 2009, non è stata accolta dall’UE; hanno infatti votato contro di essa l’Italia, la Francia, la Spagna, la Grecia e Malta, cioè i Paesi, che più pescano tonno, mentre Cipro si è astenuta ed il Portogallo era favorevole. Oltre al respingimento di questa proposta, l’Iccat ha fatto anche una concessione quanto mai discutibile, cioè due anni di proroga al Marocco, per l’eliminazione delle reti derivanti, usate illegalmente per la cattura del pesce spada e responsabili della morte, ogni anno, di 4.000 delfini e di 25.000 squali nel Mediterraneo.
Tra le specie, che rischiano l’estinzione ci sono i grandi pesci predatori, come gli squali, i merluzzi, i pesci spada, il cui numero sta scendendo ad un ritmo vertiginoso, al punto che, secondo gli studiosi del settore, il 90% di tali pesci è già stato pescato. Considerando che il sovrasfruttamento delle risorse ittiche, a livello industriale, è cominciato solo negli anni ’50, mantenendo lo stesso livello dei prelievi di tutti questi anni, si arriverà ad un totale sovvertimento degli ecosistemi marini. Venendo a mancare i grandi predatori, inevitabilmente nei mari si avrebbe infatti un’eccessiva diffusione delle specie da loro controllate, tra cui, ad esempio, le meduse. L’eccessivo sfruttamento delle risorse ittiche ha già avuto le sue prime conseguenze: in Canada, le popolazioni di merluzzo si sono drasticamente ridotte di numero, per cui la pesca di questa specie è ferma dal 1992 e, conseguentemente, sono andati persi 40.000 posti di lavoro.
Un grosso problema correlato alla pesca intensiva è quello delle catture accidentali, che vanno sotto il nome di bycatch. Si tratta, in pratica della pesca non selettiva, per cui ogni anno, secondo Greenpeace, quasi 100 milioni di squali e di razze vengono catturati erroneamente, mentre circa 300.000 cetacei (balene, delfini, focene) rimangono accidentalmente intrappolati nelle reti. Questo fenomeno assume dimensioni preoccupanti nelle zone, in cui si pratica la pesca a strascico dei gamberetti dei fondali. Secondo la Fao, la pesca a strascico dei gamberi, da sola, è la maggiore fonte di scarti inutilizzati. Le reti a strascico sono tutt’altro che selettive e, al loro passaggio, catturano spesso esemplari giovani di svariate specie commerciali, nonché specie a rischio di estinzione, come le tartarughe marine. Secondo uno studio del Wwf, va sprecato il 40% del pescato al mondo, a causa delle catture accidentali, poiché tali catture sono considerate inutili ed il pesce viene rigettato in mare, il più delle volte morto. Al massimo, in certi casi, il pescato accidentale viene utilizzato come mangime per l’acquacoltura, ma il Wwf ha stimato uno spreco annuale di circa 38 milioni di tonnellate di pesce. Questo saccheggio sconsiderato del mare ha portato ad una riduzione di quasi il 90% di alcune riserve ittiche, con gravissime ripercussioni sull’economia di quelle popolazioni povere, che vivono solo di pesca locale. Oltre a questo la pesca industriale non selettiva distrugge la biodiversità marina, uccidendo esemplari di ogni genere.
Sempre più spesso gli Stati ed i governi dimostrano una totale insensibilità per questo tipo di problema e, come abbiamo visto sopra, concedono proroghe e permessi di pesca con mezzi assolutamente devastanti per l’ambiente, spronati dal miraggio dei guadagni facili. Dietro la pesca industriale ci sono infatti movimenti di milioni di dollari, specialmente quando si tratta di specie particolarmente ricercate, come il tonno rosso. Le flotte di pesca industriale contano ormai centinaia di pescherecci, molti dei quali dotati di reti a circuizione (per circondare interi banchi) o a strascico, o derivanti (spadare). Molti pescherecci pescano con i palamiti. Sempre più spesso i pescherecci sono vere e proprie navi, che raggiungono anche le 8.000 tonnellate, dotate di radar e di sonar, in grado di lavorare completamente il pescato a bordo, di surgelarlo e di trasportarlo per migliaia di chilometri. Quasi sempre le navi appartenenti alle grosse società di pesca prelevano più di quanto stabilito dalle norme inteazionali, con le quote di pesca. Nel Mediterraneo, ad esempio, la quota di tonno pescabile annualmente è di 32.000 tonnellate, ma si stima un prelievo totale tra le 50.000 e le 60.000 tonnellate, perché le ispezioni ed i controlli sono spesso irrisori.
Un gravissimo problema sia per le economie dei paesi in via di sviluppo, che per l’ambiente è rappresentato dalla pesca pirata, cioè la pesca illegale sempre più diffusa nei mari di tutto il mondo, una pesca senza regole, la cui unica mira è il maggior quantitativo possibile di pescato. Si tratta di un pericolo a livello mondiale, perché questo tipo di pesca causa gravi danni ambientali, contribuisce all’esaurimento degli stock ittici e fa concorrenza sleale ai pescatori rispettosi delle regole. In tal modo è messo in pericolo l’equilibrio economico delle comunità costiere, con tragiche ripercussioni nei paesi in via di sviluppo, dove può essere compromessa la stessa sicurezza alimentare. Basta pensare alle coste dell’Africa sub sahariana, i cui villaggi spesso dipendono dalla pesca. Si stima, ad esempio, che la Guinea, nell’Africa occidentale, perda annualmente 100 milioni di dollari, a causa della pesca pirata effettuata nelle sue acque territoriali. Molti di questi Paesi non hanno i mezzi sufficienti, per pattugliare il mare antistante alle loro coste, così i pescatori illegali ne approfittano per sovrasfruttare queste acque. Inoltre spesso le imbarcazioni, che pescano illegalmente, si servono come mano d’opera, di marinai e di pescatori dei Paesi in via di sviluppo, che vengono imbarcati e lavorano con paghe modestissime, in condizioni di vita e di lavoro, che talora rasentano la schiavitù.
A tal proposito, Greenpeace ha elaborato il documento «Freedom of the seas», dove sono illustrate le misure attuabili dai governi, sia singolarmente che con una cooperazione internazionale, per fermare sia la pesca pirata, che quella attuata con metodiche distruttive, come la pesca a strascico. Tra le misure adottabili sicuramente c’è quella del controllo capillare degli sbarchi, sia da parte dello Stato di bandiera, che dello Stato del porto, da cui le navi partono o dove arrivano. Secondo la normativa marittima, infatti, una nave è quasi considerata come parte del territorio dello Stato di bandiera, il che significa che le possibilità d’ispezione a bordo, da parte dello Stato di porto sono fortemente limitate ed i bracconieri conoscono perfettamente questo principio, quindi portano il loro carico lontano, in luoghi dove le autorità locali non possono o non vogliono controllare. Da qui essi riescono poi a fare entrare il loro pescato nel mercato legale.
Una soluzione al progressivo depauperamento dei mari è la istituzione di una rete di riserve marine, come è stato fatto in Nuova Zelanda; si tratta di zone dove è proibita ogni attività di pesca, ma anche di estrazione mineraria e di scarico di rifiuti. In queste zone sono inoltre bandite tutte le attività legate al turismo. Laddove esse sono presenti già da anni (la prima è stata creata a Goat Island Bay, Nuova Zelanda, nel 1977), si è assistito ad un consistente aumento delle colonie marine, della durata della vita dei pesci e ad un aumento della loro capacità riproduttiva.
è perciò sempre più indispensabile un consumo di pesce da parte nostra, che sia intelligente e rispettoso, per non arrecare danno agli altri ed all’ambiente e per fare questo è sufficiente limitare il numero di pasti a base di pesce e fare delle scelte oculate, seguendo ad esempio la guida «Sai che pesci pigliare?» stilata dal Wwf, che è consultabile in rete. 

Di Roberto Topino e Rosanna Novara

C’è rete e rete

Reti da circuizione: si tratta di reti ideate per catturare banchi interi di pesci, i quali spesso vengono attratti da luci. Una volta catturato il banco di pesci, il fondo della rete si chiude, impedendone la fuga. Questo tipo di pesca può essere molto selettivo, ma anche molto dannoso, se utilizzato per i banchi di pesci giovani, poiché, in questo caso, intacca direttamente le riserve ittiche.
Reti a strascico: per la pesca sul fondo del Mediterraneo, i pescherecci usano reti a forma di sacco, con un’apertura larga 20 metri ed alta circa 2 metri. Tali reti sono tenute aperte da due divergenti, detti “tavoloni”, spinti di lato dalla pressione dell’acqua, da galleggianti posti superiormente all’imboccatura e da piombi posti inferiormente alla stessa. Il peschereccio traina la rete per parecchie ore, per un tratto di mare di 15 o più chilometri, irretendo e sconvolgendo tutto ciò, che si trova in quel fondale. In pratica, a causa dei pesi metallici trascinati sul fondale, questo viene quasi arato, con la cattura e l’uccisione di ogni forma di flora e di fauna presente. Per ripopolare i tratti di fondale, così devastati, possono essere necessari degli anni. La superficie interessata da una simile battuta di pesca può arrivare a 100.000 metri quadrati. In tal modo vengono catturati molti pesci giovani, col pericolo di impoverire le riserve ittiche. Per evitare questo problema, molti Paesi hanno fissato il limite di 20 millimetri, per le maglie delle reti, ma di fatto nessuno controlla.
Reti a strascico d’altura: si tratta di una variante più distruttiva dell’ambiente marino, rispetto alla precedente, perché questo tipo d’attrezzo consente ai pescherecci di pescare sia sul fondo, che a media profondità. L’ampiezza dell’imboccatura delle reti varia da 10 a 15 metri e le maglie sono molto più piccole (9-12 millimetri), quindi inferiori rispetto al limite legale. In genere, i pescherecci, che usano questo tipo di reti, hanno motori molto più potenti degli altri e riescono a catturare qualsiasi cosa si presenti sulla loro strada. Le reti a maglie piccole, trascinate a forte velocità, creano una sorta di barriera (anche perché in tal modo le maglie si rimpiccioliscono ulteriormente) e, di conseguenza, riescono a catturare anche pesci di piccole dimensioni, che altrimenti sarebbero sfuggiti.
Palamiti: si tratta di attrezzi costituiti da cime “madri” lunghe parecchi chilometri, a cui sono applicate migliaia di cime più corte, dotate di ami con esche, distanziate l’una dall’altra di qualche metro. Un sistema di galleggianti e di piombi permette a questo attrezzo di essere posizionato sulla superficie dell’acqua o alla profondità desiderata. I palamiti posizionati in superficie spesso catturano tartarughe (decine di migliaia, ogni anno) ed uccelli marini. Purtroppo spesso i palamiti vengono posizionati lungo le rotte migratorie delle tartarughe.
Reti derivanti: sono reti fisse, lunghe parecchi chilometri, posizionate singolarmente o a gruppi anche fino a 30 metri di profondità, oppure sospese in acqua, mediante galleggianti. La dimensione delle loro maglie varia a seconda delle specie cacciate, che di solito sono pesci spada, alalunga e tonni bonito. La pesca con queste reti è del tutto indiscriminata e spesso vi si impigliano delfini, balene, tartarughe e talvolta uccelli marini.
Tramaglio: tipo di rete fissa, alta circa 2,5 metri, usata nel Mediterraneo, costituita da un insieme di due reti a maglia larga (200 millimetri), entrambe tese, con in mezzo una rete più estesa e meno tirata, a maglie più piccole (30-40 millimetri), di modo che il pesce, nuotando in mezzo, vi resti intrappolato.

Di R. Topino e R. Novara

Roberto Topino e Rosanna Novara

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