A parte tutto: «grazie di esistere»

F come Forum: il Forum sociale mondiale è …

Abbiamo chiesto a quattro giornalisti, tutti stranieri, di scrivere la propria opinione sul Forum di Belém cui hanno partecipato in prima persona. Non mancano le critiche, ma tutti ne sottolineano l’utilità. E criticano l’indifferenza, la superficialità o la supponenza con cui i grandi media mondiali hanno guardato alla manifestazione.

Se la resistenza
al «pensiero unico» non è raccontata

La crisi mondiale e la resistenza dei popoli indigeni sono stati al centro dei dibattiti della nona edizione del Forum sociale mondiale (Fsm) in Belém nello stato del Parà, nell’Amazzonia brasiliana. Questa volta il Forum è avvenuto in un momento unico, dove la globalizzazione neoliberale, dominata dalla finanza libera da qualsiasi controllo pubblico, è in crisi e sta perdendo la sua egemonia. Allo stesso tempo, in Davos, il Forum economico mondiale riconosceva il fallimento e la miscredenza nei principali pilastri del sistema, dando così maggior fiducia al processo del Fsm iniziato nel 2001.
Un consenso sembrava attraversare la maggior parte delle discussioni in Belém: la crisi finanziaria globale deve essere pensata congiuntamente alle crisi energetica, climatica e alimentare. Le conseguenze del processo egemonico hanno generato una crisi di sostenibilità. È importante notare che, oltre le giornate di lotta e azioni globali, molte delle riflessioni realizzate nelle riunioni del Fsm sono trasformate in decisioni politiche. Nonostante i problemi nell’organizzazione, il bilancio finale è stato positivo. L’aspetto più importante è che, attualmente, l’Fsm continua ad essere una delle uniche proposte multisettoriali e inteazionali con un progetto alternativo emergente. In un mondo carente di iniziative, questo è un fatto straordinario. Rispetto alle prime edizioni, l’evento di Belém è stato segnato da una maggior radicalità nelle analisi e una maggior articolazione tra i movimenti. Vi è un consenso comune verso il fatto che la definizione di strategie di lotta sociale e politica, per il superamento della società del capitale, si fa più urgente. Non si tratta più di salvare il sistema, ma di risolvere i problemi dell’umanità cornordinando le forze per uscire da una grave situazione, o vi è la possibilità che non avremo futuro.
Una delle maggiori sfide ancora affrontate dal Forum è la sua comunicazione con il mondo.
Partecipare al Forum è una cosa. Ascoltare parlare del Forum da parte di altri e soprattutto dai grandi mezzi di comunicazione di massa è un’altra cosa. La contraddizione è il non riuscire a «comunicare» ciò che realmente succede nell’evento, proprio perché il Forum stesso è sorto come un’operazione di «controcomunicazione» di fronte al Forum economico. «Un altro mondo è possibile» e non solamente quello del pensiero unico di Davos. Nonostante la presenza di una grande quantità di giornalisti (4.500), l’Fsm è sempre meno «relazionato/descritto» dai grandi mezzi di comunicazione, che quando lo fanno, non raccontano ciò che dovrebbe essere raccontato, ma rimangono sull’aspetto folclorico che l’evento offre.
Per ora l’unica soluzione è valorizzare i media alternativi e la comunicazione che ogni partecipante fa nel suo circolo di appartenenza.


di Jaime Carlos Patias


Guardare oltre, guardare verso chi sta fuori

Mi guardo intorno, a Belém, e vedo una quantità straordinaria di progetti che fervono in tutto il mondo. Al Forum passano in tanti. Ci sono ideologie ormai sclerotizzate. Ci sono missionari cattolici che in Mozambico, Colombia o  Roraima fanno quello che lo Stato o il mercato o chi dovrebbe farlo non fa. Ci sono associazioni che partecipano attivamente nel definire la vita della propria città, della propria regione e perfino del proprio Paese. Ci sono città che praticano quella forma di democrazia e cittadinanza che è il «bilancio partecipativo». Ma tutto ciò non è argomento per riempire pagine di giornali. Sì, al Forum vi è anche folclore; sì, resiste anche un ideario/insieme di idee vecchio, logoro e consumato, ma ciò che mi sorprende è che questo evento, che coinvolge più di 130 mila persone, sia appena una nota di fondo nei telegiornali o una breve notizia nei giornali.
È vero anche che il Forum sociale mondiale è palco di contraddizioni. Dove si accumula immondizia, mentre si discute di un mondo più pulito. Dove ci sono automobili in eccesso, mentre si discute di un mondo più verde. E vi è la mancanza di portare le istanze del Forum fuori dai suoi territori: uscire dalla discussione per andare alla prassi politica, uscire dalla tenda per andare alla città. Oltrepassare i semplici slogan o la parola d’ordine facile è un compito più arduo di ciò che appare. Il Forum è cresciuto molto (133 mila partecipanti, più di cinque mila organizzazioni), ora è necessario crescere nel mondo. Guardare verso chi sta fuori, a lato, al margine. Capire che è necessario tradurre, negli intervalli tra i forum, la ricchezza dei sei giorni di dibattito.
Basta guardare al Forum sociale mondiale di Belém del Parà. La sua realizzazione è avvenuta in due campus universitari enormi, che obbligavano a camminare molto. Ma altro tipo di esercizio è stato mettere insieme alle università, i quartieri di Guamá e Terra Firme, che sono una immersione reale in questo Brasile di contrasti. Favelas immense e poveri al bordo delle strade avrebbero dovuto interpellare maggiormente coloro che hanno partecipato al Forum, per superare la frontiera che separava queste realtà.
«Un altro mondo è possibile», ricorda lo slogan del Forum…

di Miguel Marujo


L’Arca di Noè non è disponibile …

Davanti all’estesa superficie a specchio del fiume Guamá, si è sviluppato il nono Forum sociale mondiale. Il luogo è stato per se stesso un simbolo del proposito di un evento così singolare: «un altro mondo è possibile». La vastità delle acque, il verde e l’esuberanza delle foreste sono una novità impressionante e, allo stesso tempo, scioccante. La ricerca di un mondo senza miseria, senza sfruttamento, senza fame, senza violenza fisica, dove esista comunione, solidarietà, frateità, e rispetto dei diritti di tutte le persone senza distinzione, si scontra però con la più nera e gridante realtà della miseria, rispecchiata nelle favelas e nel commercio informale che pullula in questo paradiso terrestre.
L’Amazzonia è una enorme regione del pianeta, ricca di biodiversità dove, come qualcuno scrisse, «la vita scorre attraverso i fiumi, respira attraverso la foresta, canta attraverso gli uccelli, si dona attraverso i frutti, sogna, soffre e spera attraverso il cuore umano, parla e adora nelle diverse lingue dei popoli amazzonici». In Belém ci siamo sentiti parte del pianeta blu, più vicini gli uni agli altri. L’armonia della natura, ferita dall’uso e abuso senza regole e senza rispetto, penetra nella nostra pelle e denuncia la situazione privilegiata di pochi ottenuta al costo del sangue della maggioranza. Lo stato del Pará porta un carico di problemi drammatici – la deforestazione, l’inquinamento dei fiumi, la moltitudine dei poveri e degli sfruttati, dei Sem terra e altri -, ma la stessa sostenibilità del pianeta è pericolosamente posta a rischio. La minaccia è grande. Come ha allertato Leonardo Boff: «Oggi noi non abbiamo più l’Arca di Noè, che salva alcuni e lascia morire  quelli in eccesso. O noi salviamo tutti o moriamo tutti».
La presenza massiccia di forze di sicurezza nella città e nei locali del Forum non ha oscurato un clima caratterizzato dalla spensieratezza e da una contentezza facile e contagiosa. A Belém, si è respirata un’allegria spontanea e una comunicazione facile tra persone che rispecchiano l’incontro di razze e popoli, provenienti dai vari continenti. Si è formato un ambiente cosmopolita, in contrasto con il Forum di Nairobi, accentuatamente africano, sebbene ci fosse un’allegria e colore che nulla hanno da invidiare a Belém. Di entrambi questi eventi resta la sensazione che è necessario andare oltre la rotta del tanto agognato «altro mondo», che nel frattempo da «possibile» è passato ad essere «necessario e urgente».

di Elisio Assunção

Per la «differenza», contro l’«indifferenza»

La ragione di questo titolo deriva da una delle molte realtà che abbiamo sperimentato nel Forum sociale mondiale (Fsm) di Belém, cioè che è possibile una globalizzazione alternativa e che è possibile unire i movimenti sociali e le Organizzazioni non governative (Ong) per lottare per un mondo più giusto e solidale. È stato in questo contesto, che ho sentito e vissuto l’Fsm del 2009 come un’alternativa effettiva per affrontare le cause sociali, i problemi che preoccupano l’umanità in generale e i popoli che soffrono in particolare.
Il Forum è dunque uno spazio aperto di incontro per l’approfondimento, la riflessione, il dibattito democratico delle idee, per la formulazione di proposte, per il libero scambio di esperienze e per l’articolazione di azioni efficaci. È su queste basi che l’Fsm riunisce entità e movimenti della società civile, che si oppongano al neoliberismo e al dominio del mondo da  parte del capitale o di qualche forma di imperialismo. Ho verificato che un indefinito numero di movimenti sociali, popoli indigeni e Ong inteazionali sono impegnati nella costruzione di una società planetaria incentrata sull’essere umano. Tutti, a viva voce, hanno ricordato che non ha senso, oggi, vivere in un mondo con tanta disuguaglianza e indifferenza.
Dal Forum di Belém sono emerse, in vari pannelli di discussione, proposte che aiutano a dibattere su alternative per costruire una globalizzazione solidale. Ovvero una globalizzazione che, rispettando i diritti umani universali e l’ambiente, si appoggi su sistemi e istituzioni inteazionali democratiche al servizio della giustizia sociale, della uguaglianza e della sovranità dei popoli. Questo significa garantire a tutti gli abitanti del pianeta Terra l’applicazione dei diritti fondamentali, che cominciano con il diritto alla terra, a un tetto, alla salute, al lavoro e all’educazione. Per raggiungere questo obiettivo noi tutti dobbiamo lavorare anche per finanziare questi progetti.
Sono uscito da questo Fsm del 2009 con la speranza che ci sono elementi nuovi e ottimistici rispetto alle alternative. E perfino in termini di lotta, dato che, quello che era impensabile soltanto dieci anni fa, cioè unire in un unico spazio uomini e donne per discutere l’utopico, oggi è stato realizzato. In tutto il mondo abbiamo movimenti che, pur abbracciando il pianeta intero, hanno radici locali create attraverso le proprie lotte e propri sistemi di economia solidale. Partendo da questi soggetti locali stiamo costruendo un nuovo ordine internazionale, più flessibile, più ampio, nel quale i movimenti sociali e i movimenti di cittadini di tutto il pianeta abbiano l’opportunità di dimostrare all’Umanità che un altro mondo è possibile. Un mondo differente, ma contro l’indifferenza.

di Beardino Silva

J. Patias, M. Marujo, E. Assunçao, B. Silva




Sull’utilità delle prediche

Antonio Rovelli

A che servono i Forum sociali mondiali? Per esempio, che resta dopo le giornate di Belém? Soltanto parole, buoni propositi, sogni, come dicono i suoi detrattori? Oppure dal Forum si esce con la consapevolezza che nel mondo c’è una grande ricchezza di donne, uomini e idee da valorizzare?  

Belém. Antonio Rovelli, missionario della Consolata, fondatore della Scuola per l’alternativa, è venuto al Forum, dopo aver partecipato a quello di Nairobi, nel 2007.

Si dice che a Belém i protagonisti siano stati, in ordine casuale: la foresta amazzonica; gli abitanti delle Americhe, ovvero i popoli indigeni; i brasiliani, con i loro problemi e le loro speranze; i presidenti latinoamericani progressisti. Padre Antonio, è d’accordo con questa visione?
«Mi è piaciuta l’espressione di Americhe. Identicamente, io sono convinto che occorra parlare di Afriche. Dunque, qui a Belém abbiamo incontrato diverse Americhe, con proprie e specifiche ricchezze. Pensiamo ai popoli indigeni, ai movimenti sociali e a tutte quelle realtà. Quanto alla presenza di tutti quei presidenti (che si auto-definiscono progressisti), la scelta di venire a Belém è positiva. Ma fino a che punto scendono dal palco da cui parlano? Fino a che punto accettano di cambiare radicalmente anche le loro politiche economiche per far sì che i diritti degli indigeni e dei movimenti sociali siano rispettati? Questo secondo me è tutto da vedere. Per questo è bene che i movimenti sociali ed indigeni continuino a stare alle calcagna dei loro leaders, perché non si dimentichino delle promesse che hanno fatto loro».

Un esempio?
«Accenno soltanto al Brasile. Alla politica degli agro-combustibili che sta distruggendo la foresta e alla permanenza dei grandi latifondi a causa della mancanza di una politica agraria che tenga conto dei diritti dei Senza terra e dei popoli indigeni. Insomma, ci sono delle contraddizioni. Cioè occorre stare attenti che ciò che i presidenti scrivono con la mano, non venga cancellato con il gomito».

Evo Morales, presidente della Bolivia, ha parlato di chiesa, con evidente riferimento ai problemi avuti nel suo paese con la gerarchia cattolica. Come prete, qual è la sua opinione al riguardo?
«Prima di tutto dividerei la chiesa gerarchica, quella dei vescovi e delle conferenze episcopali, dalla chiesa delle comunità di base, di chi si fa orante della parola di Dio, ossia missionari, laici, preti, religiosi che camminano a fianco dei movimenti sociali e dei popoli indigeni. La chiesa gerarchica purtroppo sta dimenticando il cammino che è stato fatto da alcuni vescovi che si sono fatti portavoce delle istanze dei poveri (alcuni dei quali sono stati uccisi: come Oscar Romero in Salvador, Juan Girardi in Guatemala). E oggi mancano, a livello gerarchico, voci profetiche conosciute che fanno opinione.
Dunque, un’altra chiesa è auspicabile. E lo è sicuramente, per chi ascolta i poveri e per chi lavora in mezzo alla gente. D’altra parte, parlare in nome di o farsi voce di chi non ha voce, è giusto fino ad un certo punto. È bene che siano gli stessi soggetti a portare avanti le proprie istanze e lotte, facendo sentire la propria voce».

Da Nairobi a Belém. Portare il Forum in questa regione del Brasile è stata una scelta azzeccata?
«La scelta di Belém è stata strategica. Ed è strategico il luogo, l’Amazzonia, per il suo patrimonio umano, naturale e culturale. Qui troviamo un concentrato di ricchezza che il mondo può custodire o distruggere».

A Belém sono venuti i rappresentanti di centinaia di popoli indigeni. Come valuta questa presenza?
«Secondo me, è l’elemento qualificante di questo Forum».

Nel momento in cui gli indigeni vengono visti e trattati alla pari…
«Assolutamente. Non devono essere trasformati in oggetto per le nostre fotografie, da mostrare alla nostra gente quando si torna a casa. Un parallelo lo posso fare con i popoli nomadi del nord del Kenya. Quando arrivano i turisti, loro si mettono a danzare davanti alle macchine fotografiche…».

Dunque?
«È una ricchezza che deve essere compresa, valorizzata, con la quale bisogna camminare. Quello indigeno è per noi un mondo difficile da catalogare. Dobbiamo farci guidare da loro, che hanno una forza e un coraggio di lottare, che purtroppo sono venute a mancare nel nostro mondo. Ad esempio, per i popoli indigeni la terra è questione di vita o di morte. È parte integrante della loro esistenza. È come un vestito che portano addosso, è come l’aria che respirano».

La salvezza dell’Amazzonia deve passare esclusivamente attraverso i popoli che la abitano?
«Io sono stato molto colpito dalla diversità di questi popoli, dalla loro forza, persone che sono state picchiate, torturate… Il coraggio di queste persone dobbiamo condividerlo con gli altri. D’altra parte, io penso che da soli i popoli indigeni non potranno portare ad un cambiamento. Dovranno unirsi ad altri movimenti sociali, del mondo del lavoro, del mondo agricolo per diventare una forza propositiva che un giorno possa arrivare ad occupare i posti di potere. Così il mondo potrà essere diverso».

Peccato che la maggior parte dei media mondiali continui a descrivere il Forum come una manifestazione folcloristica…
«Mi ha tolto la parola di bocca. Per molti media importanti il Forum attira e incuriosisce soltanto se descritto come un fatto folcloristico».

E dunque?
«I problemi devono essere risolti a livello globale. Se il nostro mondo cosiddetto ricco non accoglie questo mondo che si sta affacciando timidamente, ma con forza, finiremo con il perdere tutti».

di Paolo Moiola

Vuoi ascoltare l’intervista?
Questo brano è parte di una lunga intervista trasmessa nell’ambito del programma radiofonico «Cartoline dall’Altra America», trasmesso da Radio Flash (www.radioflash.to) e curato da Paolo Moiola. L’intervista completa è disponibile sul sito
www.rivistamissioniconsolata.it.

Paolo Moiola




Intanto, a Davos, si elabora il lutto

M come media: c’è Forum e Forum

Negli stessi giorni di Belém, molti dei responsabili della crisi mondiale – speculatori, finanzieri, banchieri, magnati, amministratori delegati, politici ed economisti neoliberisti – si sono incontrati a Davos per parlare di economia, autornassolversi e chiedere aiuto agli stati nazionali. Nella città svizzera non si sono fatti vedere i rappresentanti degli Stati Uniti, primi responsabili del disastro. Ma come hanno raccontato i due eventi – Davos e Belém – i media italiani? Così…

Belém. Paulo Pereira Lima, giornalista e direttore di Viração (1), rivista brasiliana per i giovani, ha un atteggiamento molto didattico. I ragazzi, seduti in circolo, lo ascoltano con attenzione. Hanno tutti meno di 18 anni e provengono da quartieri disagiati di Belém. Indossano una maglietta con la scritta Curso de comunicacão popular (Corso di comunicazione popolare). «Per le giornate del Forum sono diventati giornalisti», spiega Paulo. Ogni giorno, nel tardo pomeriggio, c’è la riunione di questa redazione particolare per fare il punto sulla giornata e preparare quella seguente.
Già, i media. Ma come è stata fatta l’informazione nei giorni del Forum?
Che si dice del Forum in Italia?, chiedo al mio collega. «Poco o nulla. Ah, c’è stato un giornale gratuito, Metro, che l’altro giorno ha pubblicato in prima pagina una foto da Belém, ma poi l’articolo era costituito da poche righe, come d’altra parte consuetudine per questo tipo di media (2)». Vado in sala stampa per scrivere e mettere in rete il mio disappunto.
Così:«Belém, 29 gennaio 2009. Ieri, tutte le volte che ho fatto tappa nella sala stampa allestita nell’Università nazionale, ho cercato su internet qualche articolo che dicesse una parola o due sul Forum di Belém, contemporaneo a quello di Davos. Ebbene, sui siti on-line di Repubblica e Corriere, vale a dire i due primi quotidiani del nostro paese, non ho trovato nulla.
Sarò distratto o stanco per questo intercalare di sole e piogge torrenziali, ho pensato (invero con poca convinzione). Quello che invece i due quotidiani riportavano erano vari pezzi sul Forum economico della città svizzera. Un evento importante, ma certamente non più di quello di Belém, dove al posto di banchieri, politici e magnati ci sono indigeni, operai e studenti. Una bella compagnia di gente che pagherà la crisi prodotta dai famosi ospiti di Davos. Ma ecco la ciliegina sulla torta confezionata dai media nostrani.
Sul sito del Corriere ho letto un articolo su quella riunione, articolo firmato Danilo Taino (3). In esso si parlava di strapotere degli stati nazionali? Ma come?, mi sono chiesto tra me e me. Pensavo che la crisi fosse stata originata, sì dallo strapotere, ma del libero mercato.
Nello stesso articolo si parlava di egoismi nazionali. Egoismi nazionali? Pensavo che l’egoismo fosse quello dei capitalisti, dei finanzieri, dei banchieri, dei magnati, che hanno lucrato su tutto (compreso il nulla) per anni, infischiandosene del bene comune, della società, dell’ambiente, dello stato nazionale.
Meglio chiudere qui. L’umidità dell’Amazzonia mi gioca brutti scherzi. Sicuramente oggi leggerò qualcosa di diverso. O no?» (4).
No, la mia speranza risulta vana. Sui giornali italiani più importanti (per diffusione) non trovo nulla neppure nei giorni seguenti. In compenso, trovo altri articoli sul Forum di Davos, peraltro distrutto con intelligente ironia (ed un pizzico di sarcasmo) da Loretta Napoleoni: «Quest’anno il meeting dei superglobalizzati è stato molto più sobrio del solito, quasi fossero tutti in lutto».
«Quelli che dovrebbero spegnere il fuoco – scrive ancora l’economista italiana – non sono pompieri professionisti, ma sono gli stessi bambini che fino a poco tempo fa giocavano con i fiammiferi. Su entrambe le sponde dell’Atlantico i signori della deregulation, che ha messo in ginocchio il capitalismo moderno, presiedono le commissioni che dovrebbero affrontare la crisi» (5).

Insomma, riassumendo: i media nazionali non hanno parlato di Belém, ma hanno parlato di Davos, anche se non troppo, probabilmente perché il lutto (per il crollo dei miti: il libero mercato, l’impresa, la finanza creativa) non è stato ancora elaborato. Allora, per dare una spiegazione alle scelte giornalistiche, proviamo a pensare male (che forse ci avviciniamo alla verità).
I giornali più importanti appartengono ai grandi gruppi industriali e bancari (6). Ovvero a quei gruppi di potere che, direttamente o indirettamente, in misura maggiore o minore, sono corresponsabili della crisi e che da questa oggi vogliono uscire con l’aiuto degli stati nazionali (cioè dei cittadini-contribuenti), ma senza cambiare i paradigmi della globalizzazione neoliberista che stanno alla base del sistema e del suo fallimento. Proprio ciò che da sempre chiedono invece i Forum sociali mondiali. Come forse racconteranno i ragazzi del «Corso di comunicazione popolare», che a Belém hanno sperimentato cosa significa fare i giornalisti. Liberamente ed esibendo con orgoglio il proprio pass.

Di Paolo Moiola                                


(1) Vedi: www.revistaviracao.org.br.
(2) Quotidiano gratuito Metro, 28 gennaio 2009, pagg. 1-2.
(3) Vedi: Corriere della Sera, del 28 gennaio 2009.
4) Pubblicato sul sito: www.gennarocarotenuto.it
(5) Loretta Napoleoni, Davos, parole in libertà, settimanale Internazionale, 6 febbraio 2009; Loretta Napoleoni, Il falò del capitalismo, settimanale Internazionale, 20 febbraio 2009.
(6) Sulla proprietà dei media italiani, si legga l’ottimo dossier pubblicato sul mensile Altreconomia, febbraio 2009.

Paolo Moiola




LA FORZA DELL’ENTUSIASMO

Ignacio Ramonet

Belém, 29 gennaio 2009. Gioalista di fama mondiale, tra i fondatori del mensile internazionale Le Monde Diplomatique, amato-odiato per le sue idee progressiste, Ignacio Ramonet è stato fin dall’inizio un sostenitore del Forum social mundial. Lo avviciniamo a conclusione dell’incontro pubblico tra Evo Morales, Feando Lugo, Rafael Correa e Hugo Chávez.  

Inacio Ramonet, oggi si sono incontrati 4 presidenti latinoamericani diversi da tutti gli altri. Che significa?
«Questa è una data fondamentale nella storia del Forum. Qui comincia una nuova tappa. Fino ad oggi il Forum aveva avuto una certa reticenza verso la partecipazione dei dirigenti politici. Prima aveva partecipato solamente Chávez, però a lato della manifestazione. E Lula, nella stessa maniera. Oggi però, invitati dalle organizzazioni sociali, sono intervenuti quattro presidenti latinoamericani, che hanno risposto alle domande dei movimenti. Questo dialogo è molto importante, perché i presidenti hanno riconosciuto il debito intellettuale nei confronti del Forum. Hanno ammesso di aver appreso e di essere tornati nei loro paesi con le idee assorbite qui. Se il Forum non ha oggi l’importanza che aveva nel 2001, possiamo però dire che esso si prolunga quotidianamente in Venezuela, in Ecuador, in Bolivia, in Paraguay, in Brasile. In tutti questi paesi i movimenti sociali oggi sanno come relazionarsi con i governi che stanno trasformando le società».

In Europa, i media più importanti hanno parlato più di Davos che di Belém…
«In verità, io ho osservato che una parte della grande stampa europea (certamente non la stampa italiana, vedere articolo a lato, ndr) ha parlato più di Belém che di Davos. E ha detto due cose. In Belém esiste entusiasmo, dialogo e la convinzione che da qui possono nascere idee per affrontare la crisi. Inoltre, per la prima volta in Davos esiste un pessimismo che non era mai esistito prima. Senza contare che nella città svizzera sono andati soltanto due presidenti latinoamericani – il messicano Felipe Calderón e il colombiano Alvaro Uribe – contro i cinque che sono venuti a Belém. Comunque, a causa della crisi è normale che in Europa si parli di Davos. La differenza è che qui si stanno proponendo soluzioni, mentre nel Forum economico c’è la consapevolezza che qualcosa non ha funzionato nel proprio sistema.  
Altra osservazione: a Davos non è andato alcun rappresentante dell’aministrazione statunitense. Per la prima volta nella storia. Insomma, non è da Davos che usciranno soluzioni per questa crisi».  

di Paolo Moiola

(L’audio di questa intervista è disponibile sul sito)

Paolo Moiola




«Partendo dal piccolo, partendo da noi»

Antonio Feandes

Icoroasí (Belém). Portoghese, missionario della Consolata, Antonio Manuel de Jesus Feandes è il responsabile dell’istituto per l’America Latina. Ai Forum di Belém è riuscito a portare un folto gruppo di persone: missionari, missionarie, ma anche laici, giornalisti ed operatori televisivi.  

Padre Antonio, brevemente una sua opinione sui forum, che si sono svolti nella città amazzonica.
«Già il fatto che le persone si radunino per scambiarsi opinioni e per condividere esperienze, è una cosa molto positiva. Abbiamo bisogno di scambio. Anche le piccole esperienze sono grandi, perché fanno processo. In secondo luogo, è confortante il fatto di sapere che non siamo soli al mondo a voler costruire qualcosa di diverso, che non siamo gli unici matti che la pensano così. Il terzo punto che voglio sottolineare è che ci sono esperienze molto valide dal punto di vista ideologico, del pensiero e sociale da parte dei popoli indigeni. Nel piccolo, nella chiesa e in tutti gli ambiti si può costruire e si può cambiare».

Incontro, scambio di idee… tutto bene. Ma, dal punto di vista pratico, come piccole comunità indigene, movimenti alternativi, Ong possono intervenire per cambiare la direzione del mondo. Se questa direzione va cambiata.
«Certo, questa è una utopia. Ma sono cose in cui non dobbiamo mai smettere di credere. Considerando la mia esperienza, credo che nel piccolo è possibile cambiare. Io ho l’esperienza con il popolo indigeno e ho visto che si può cambiare, magari non dal punto di vista teologico, ma si può cambiare. Per riassumere, non si può aspettare che cambino le strutture…».

Per «piccolo» intende anche la singola persona?
«Sì, il singolo è al primo posto. Al secondo, ci sono le piccole comunità, dalla famiglia al condominio, dal sindacato agli organismi religiosi, dai partiti politici alle Ong. Tutti devono essere coinvolti, per fare una rete tra piccolo e grande negli spazi in cui una persona vive e lavora ogni giorno. Poi c’è l’ambito internazionale, importantissimo, per la costruzione di ambiti collettivi e alternativi. Questo per me è un terzo passo da fare. Però se non si fa il primo, tutti gli altri non hanno senso. La casa si comincia a costruire dalle fondamenta: la chiesa, le Ong sono il tetto visibile, ma le fondamenta cominciano dalla singola persona, cominciano da te».

Gli indios sono stati i grandi protagonisti di questo Forum svoltosi quasi in casa loro, considerando che Belém è una città amazzonica. Secondo lei, la loro presenza è stata qualificante o è mancato qualcosa?
«Io credo che manchi sempre qualcosa. Per esempio, una cosa che manca sempre agli indigeni è di vederli nella loro interezza. Noi li vediamo o dal punto di vista folclorico o nella lotta per la conquista della terra, dimenticando tutta la loro parte spirituale, la parte di organizzazione comunitaria, i loro legami. Gli indios non possono essere visti in aspetti frammentati. Anche nel forum non siamo riusciti a cogliere la loro ricchezza e complessità, evidenziando sempre singoli aspetti. Perdendo l’identità complessiva dell’indigeno, con la sua religiosità e spiritualità».

Lei ha lavorato per anni in Brasile. Come lo ha trovato?
«Ho trovato solo una parte del Brasile, Belém».

Obiezione giusta. Questo non è un paese, ma un continente. Però lei ha vissuto qui e può fare una comparazione con gli anni precedenti, quando alla guida non c’era un presidente come Lula.
«Dal punto di vista degli occhi, fa sempre bene guardare il Brasile: c’è la natura, c’è l’Amazzonia, ci sono le bellezze fisiche delle donne, c’è molto con cui appagare la vista. Ma, a parte questo giudizio estetico, a me è sembrato che il popolo brasiliano dal punto di vista politico non sia cresciuto. Il governo Lula non ha aiutato la gente. Credo che questo benessere apparente che sembra ci sia nel paese, non ha portato la gente a crescere».

La sua è una critica severa. Possiamo tradurre con «troppo assistenzialismo e patealismo»?
«Credo di sì. Penso che continua a vivere  con questo enorme problema. La coscienza politica delle comunità di base è svanita. Lo vedo in molte cose come, ad esempio, per quanto riguarda l’ecologia.
Una città come Belém doveva essere molto più pulita con tutta questa natura. In generale, c’è poca coscienza ecologica e gli stessi partiti politici hanno perso coscienza civile».

Lei è un uomo di chiesa. Come vede la sua istituzione ovvero, fuor di metafora, «un’altra chiesa è possibile»?
«Lo ha detto anche Evo Morales, no?».

Morales ha detto «possibile», ma anche «necessaria», avendo in mente la situazione della sua Bolivia, dove la chiesa ufficiale non lo ha mai appoggiato molto…
«La chiesa dovrebbe essere più vicina alla gente. Le nostre strutture di governo, oggi, non si avvicinano o non vogliono avvicinarsi ai problemi reali delle persone. Abbiamo delle belle teorie, ma nella pratica forse non ci crediamo o non abbiamo le possibilità, anche perché la struttura della chiesa è molto chiusa. Ad esempio, dovrebbero avere il loro spazio le donne, le donne indigene, il popolo della città, come quello della campagna. Questo vale non soltanto per i vertici, ma anche per la base della chiesa: non siamo abbastanza attenti alla realtà, alle sofferenze per andare in Vaticano a reclamare più attenzione per le diversità».

Guardare di più alle diversità quindi…
«Sì, quanto più la chiesa è diversa tanto più si avvicina alle persone».

In base a questa sua ultima risposta, un commento sul Forum teologico e della liberazione, che si è svolto prima del Forum sociale.
«Il Forum teologico e della liberazione è sempre uno spazio importante, perché ci apre al confronto. Però, manca sempre la teologia fatta dalle basi. Mancano le persone che fanno teologia. Manca il coinvolgimento di tutta la gente, della città e della campagna. Credo che dare spazio a queste realtà sia fondamentale. In un forum teologico c’è bisogno di ampliare gli spazi di rappresentanza».

Quindi, per riassumere: meno Boff e meno professori universitari e più gente comune?
«Boff certamente, ma anche teologie che si applicano quotidianamente tra la gente semplice, che è necessario ascoltare».

di Paolo Moiola

Paolo Moiola




«CAMBIARE LA LOGICA DEL SISTEMA»

François Houtart:

Belém, 29 gennaio 2009. Sono sul palco, uno accanto all’altro: Evo Morales, l’indio, presidente della Bolivia; Feando Lugo, il vescovo, presidente del Paraguay; Rafael Correa, l’economista, presidente dell’Ecuador; Hugo Chávez, il militare, presidente del Venezuela. All’inizio della conferenza, Chávez saluta con parole di stima ed affetto François Houtart, seduto in platea. Alla fine della giornata, il prete belga, classe 1925, membro del consiglio internazionale del Forum, sale sul palco ad abbracciare il presidente venezuelano. Magari qualcuno si sarà domandato, attonito e probabilmente inorridito: «Ma come fa quest’uomo di chiesa a stimare questo “dittatore”?». In attesa di trovare una risposta al mistero, scambiamo alcune battute con il professor Houtart, alias padre François, sempre sorridente e disponibile (1).

Padre Houtart, lei è uno dei fondatori del Forum. Come è cambiata in questi anni questa manifestazione?
«È cambiata nel senso che il Forum ha potuto costruire una coscienza collettiva, sempre più universale. È fondamentale continuare su questa strada: formare una coscienza universale. Soprattutto in questo periodo di crisi del capitalismo, che è una crisi senza lotta di classe. Il problema è come alimentare una lotta popolare e sociale per trasformare la logica del sistema».  

Lei è rappresentante personale di Miguel D’Escoto (2) nella Commissione dell’Onu, incaricata di studiare la crisi…
«Sono membro della Commissione delle Nazioni Unite diretta da Joseph Stiglitz. È chiaro, però, che questa Commissione propone una regolazione del sistema e non una sua trasformazione, un cambiamento».

Come sta avvenendo anche nel Forum di Davos, contemporaneo a questo…
«Non tutto il mondo è cosciente della necessità fondamentale di cambiare la logica del sistema capitalista. La crisi è finanziaria, energetica, alimentare, climatica, sociale. Questa è una crisi totale».

Forum di Belém e Forum di Davos. Anche lei riscontra una diversità di trattamento da parte dei media?
«Sì. I media folclorizzano il Forum sociale mondiale. Per loro soltanto il Forum di Davos è serio. Il fatto è che noi non abbiamo potere nei media».

I responsabili della crisi ora chiedono aiuto a quegli stessi stati nazionali che prima tenevano lontani come la peste. Non è una palese contraddizione?
«No! È la logica del sistema. Lo stato deve intervenire soltanto per salvare il capitalismo. Lo stato capitalista è al servizio del capitalismo. Pertanto, il problema è come costruire un altro stato che abbia una base popolare e obiettivi alternativi agli attuali. Le alternative esistono».

Lei è un prete. Come si sta comportando la chiesa davanti ai problemi che solleva la crisi. Sta facendo abbastanza?
«No, non sta facendo abbastanza! Le dichiarazioni ufficiali, quando ci sono, sono deboli e superficiali, molto superficiali. E comunque rimangono nel solco della regolarizzazione del sistema».

Questa speranza di un cambio può trasformarsi in realtà concreta e tangibile?
«È una speranza realista. Come arrivarvi? Occorre mobilizzare la coscienza collettiva, altrimenti il sistema si riproducerà fino alla propria distruzione. Se si arriverà alla coscientizzazione, allora il cambio sarà possibile».

Ma quando? Domani o in tempi biblici?
«Ci sono tempi diversi. Un tempo immediato e un tempo più lontano. L’importante è mantenere la coerenza» (3).

di Paolo Moiola

(1) François Houtart è un ospite fisso di MC. Sue interviste sono state pubblicate nell’aprile 2002 (a cura di Paolo Moiola) e nel luglio 2006 (a cura di Marco Bello).
(2) Miguel D’Escoto, nicaraguense, prete, sandinista, è presidente dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite dal settembre 2008.
(3) Il 31 ottobre 2008, Francois Houtart aveva presentato una relazione sulla crisi – «Le monde a besoin d’alternatives et pas seulement de régulations» – davanti all’Assemblea generale delle Nazioni Unite.

Paolo Moiola




Terra, terra delle mie brame

l’Amazzonia, la terra e il protagonismo degli ultimi

A Belém, per una volta, gli ultimi (alcuni tra gli ultimi) sono diventati protagonisti: i popoli indigeni e i Sem terra. Diversi, ma entrambi legati ad un unico destino: la terra. I primi per difendere i propri territori ancestrali dalle mire dei molteplici usurpatori; i secondi per riuscire (finalmente) ad avere un pezzo di terra con cui vivere. Intanto, nel paese degli immensi latifondi e delle incredibili ingiustizie, il «Forum per la riforma agraria» sostiene una campagna scandalosamente rivoluzionaria: limitare la proprietà privata della terra.  

Nel campus dell’Università agraria di Belém c’era una delle tende – «tende tematiche» sono state chiamate – più frequentate: la «Tenda dos povos indigenas», la tenda dei popoli indigeni.
Al Forum sono arrivati i rappresentanti di 120 etnie indigene, in maggioranza dell’Amazzonia. Si aggiravano in piccoli gruppi per le strade del campus. Si lasciavano fotografare volentieri, perché non erano una mera attrazione (antropologica, turistica, estetica), ma protagonisti, alla pari degli altri partecipanti. E, alla pari degli altri, anche loro fotografavano e filmavano.  
In America Latina vivono circa 44 milioni di indigeni, rappresentando il 10 per cento della popolazione totale della regione. In Amazzonia, un territorio di oltre 6 milioni di chilometri quadrati diviso tra 9 paesi (Brasile, Bolivia, Colombia, Ecuador, Perù, Venezuela, Suriname, Guyana francese e Guyana), le terre indigene rappresentano circa il 27 per cento del totale.
Per gli indigeni, il Forum sociale è stata l’occasione per parlare del loro modo di vedere il mondo (cosmovisione), dei loro problemi e dei diritti negati. Ma anche l’occasione per parlare dell’Amazzonia, il più importante ecosistema del mondo (per la foresta vergine, la biodiversità, l’acqua dolce), la cui sopravvivenza è in grave pericolo. Secondo gli esperti, negli ultimi 40 anni  è stato distrutto il 17 per cento delle foreste amazzoniche e un altro 17 per cento è molto degradato (1).

ABelém erano presenti sia i rappresentanti dei popoli indigeni che quelli dei Sem terra. Che cosa accomuna questi soggetti, altrimenti tanto diversi? Un comune destino: la terra. I primi – soprattutto i popoli dell’Amazzonia –  si trovano a lottare per la difesa delle proprie terre ancestrali dall’occupazione da parte di usurpatori (tagliatori di alberi, allevatori, coltivatori di riso o soia, minatori, ma anche multinazionali dell’agrobusiness e della farmaceutica) e per il loro riconoscimento giuridico (demarcazione e titolazione legale); i secondi, invece, lottano per avere un pezzo di terra con cui vivere.
In Brasile, paese ricchissimo di risorse agricole, domina il latifondo: il 2,8% dei proprietari terrieri possiede il 56,7% delle terre coltivabili. Questo si traduce in un modello di agricoltura capitalista, fondata sulla monocoltura e sull’esportazione, un modello incapace di soddisfare le esigenze alimentari di tutta la popolazione brasiliana, oltre che foriero di pesanti conseguenze sul piano sociale.
Per questo il Forum nazionale per la riforma agraria e la giustizia nel campo (Forum nacional pela reforma agraria e justiça no campo, Fnra), che raggruppa 48 organizzazioni, ha promosso una campagna per limitare la proprietà privata della terra.
Perché – si legge nel sito – è illegittima e ingiusta «la concentrazione di immense aree nelle mani di poche persone e gruppi, quando la maggioranza della popolazione si trova esclusa» (2). Dal punto di vista pratico, i promotori propongono l’introduzione nella Costituzione federale di un comma (articolo 186, comma V) in cui alla proprietà privata della terra si stabilisca un limite di 35 «moduli fiscali» (3). L’emendamento costituzionale inciderebbe solamente su poco più di 50 mila proprietari di terra, ma produrrebbe conseguenze rilevanti. Si creerebbe infatti una disponibilità di oltre 200 milioni di ettari di terra per le famiglie accampate, senza spendere risorse pubbliche per l’indennizzo dei proprietari.

Anche la chiesa cattolica brasiliana partecipa attivamente alla Campagna con alcune sue organizzazioni: il Consiglio indigenista missionario (Conselho indigenista missionario, Cimi), la Commissione pastorale della terra (Comissão pastoral da terra, Cpt) e la Caritas brasiliana. Dom Tomas Balduino, vescovo emerito di Goiás, consigliere della Cpt e figura storica delle lotte per la terra in Brasile, non è tenero con il governo del presidente Lula, perché si è allineato sulle posizioni dell’agrobusiness, che è contrario agli interessi dei Sem terra e degli indigeni.
Il religioso cattolico non usa eufemismi per spiegare il dramma del latifondo: «Alla base vi è il vecchio e nefasto concetto della proprietà come un diritto assoluto. Così esso è insegnato dogmaticamente nella maggior parte delle scuole di diritto e, purtroppo, risiede nella testa di un gran numero di giudici».

Nella «Campagna per la limitazione alla proprietà della terra» si parla di lavoratori rurali senza terra e di comunità tradizionali (ovvero afrodiscendenti di schiavi liberati (4), popolazioni rivierasche e popoli indigeni propriamente detti). L’«unità nella diversità» è stata richiesta anche nelle dichiarazioni finali dei popoli indigeni (5), redatte dopo la conclusione del Forum di Belém. Un auspicio che, però, non trova ancora concretizzazione nella realtà.
«È – spiega l’antropologa Silvia Zaccaria – un nostro vizio mettere insieme lotte sociali come sono quelle dei Sem terra e lotte culturali-cosmologiche (nel senso di diversi modi di vedere il mondo) com’è per i popoli indigeni. La verità è che tra Sem terra e popoli indigeni manca un progetto strategico e politico condiviso. Per il momento, unire le due realtà è più una speranza e un desiderio della chiesa cattolica che una effettiva realtà». 
Un problema non da poco, considerando la consistenza degli avversari e della sfida. Perché la storia insegna che i potenti hanno sempre saputo approfittare delle divisioni tra poveri, scatenando conflitti in cui, alla fine, ad uscire vincitori sono sempre i soliti.

Di Paolo Moiola  

(1) Si legga il rapporto 2009 dell’United Nations Enviroment Programme (Unep/Pnuma) dal titolo: «GeoAmazzonia». Il rapporto è scaricabile gratuitamente dal sito: www.unep.org.
(2) Il sito della «Campagna per il limite alla proprietà della terra»: www.limitedapropriedadedaterra.org.br.
(3) Il «modulo fiscale» è una misura di riferimento stabilita dall’Istituto nazionale di colonizzazione e riforma agraria (Incra), che definisce l’area minima sufficiente per fornire il sostentamento a una famiglia di lavoratori e lavoratrici rurali. Esso varia da regione a regione ed è definito per ogni municipio a partire da vari parametri, come per esempio la situazione geografica, la qualità del suolo e le condizioni di accesso al territorio.
(4) Il termine brasiliano è: «quilombolas».
(5) Le dichiarazioni sono leggibili sul sito della Coiab («Coordenação das Organizações Indígenas da Amazônia Brasileira»), il Coordinamento delle organizzazioni indigene dell’Amazzonia brasiliana (www.coiab.com.br) e su quello della Coica («Coordinadora de las Organizaciones Indígenas de la Cuenca Amazónica»), il Coordinamento delle Organizzazioni indigene della conca amazzonica (www.coica.org.ec).

Paolo Moiola




Un mondo altro, diverso, nuovo: da «possibile» a «necessario»

B come Bélem

A Belém, nell’Amazzonia brasiliana, si è tenuta la nona edizione del «Forum sociale mondiale». Ora che il mondo attraversa una crisi epocale, per gli «altermondisti», un tempo ridicolizzati (soprattutto dai media e dai politici), è il momento delle rivincite. Ma anche di sfide. Impegnative.

In meno di un decennio è diventato l’incontro per antonomasia dei movimenti sociali del mondo. Per la sua nona edizione, il «Forum sociale mondiale» è tornato in Brasile, da dove nel 2001 era partito. All’epoca, la città ospitante fu Porto Alegre, nello stato di Rio Grande do Sul. Quest’anno invece il Forum si è spostato a Belém, nel nord-est del paese latinoamericano.  
Volendo trovare una frase che descriva la capitale del Pará, potremmo dire che a Belém non mancano né l’acqua né i manghi. Gli alberi di mango sono ovunque, anche lungo le vie del centro, tanto che frequentemente i grossi frutti cadono sulle auto e sui passanti. Quanto all’acqua, il clima equatoriale porta abbondanti piogge quotidiane quasi tutto l’anno. Ma soprattutto Belém è inserita in un sistema fluviale unico e maestoso. La città è bagnata dal Rio Guamá e si affaccia sulla Baia do Guajará. A sua volta, l’intera zona è parte della vastissima area occupata dalle foci del Rio delle Amazzoni (Rio Amazonas), il più grande fiume del mondo.
Data la sua posizione geografica, Belém è la porta d’entrata per l’Amazzonia, considerata il principale ecosistema del pianeta, ma anche il più minacciato. Proprio l’Amazzonia e i suoi popoli indigeni sono stati tra  i principali protagonisti di questa edizione del Forum, svoltasi in coincidenza con una crisi – finanziaria ed economica, ma anche ambientale, energetica, alimentare e sociale -, che sta scompaginando il mondo e quelli che, soltanto fino a ieri, erano considerati i suoi capisaldi ideologici: il libero mercato e la globalizzazione.

Ufpa o Ufra? Non è uno scioglilingua o un gioco di parole, ma la sigla delle due università di Belém, che hanno ospitato il nono Forum sociale mondiale:  Ufpa sta per «Universidade Federal do Pará», Ufra per «Universidade Federal Rural da Amazonia». Le due università sono strutturate come campus, sono cioè cittadelle autonome, con strutture ad hoc, grandi spazi, negozi, proprie strade intee e addirittura due porticcioli, da cui in 15-20 minuti si può passare dall’una all’altra con barche che solcano il Rio Guamá.
«Vai alla Ufpa o alla Ufra?», è stata dunque una frase d’obbligo nelle giornate del Forum, perché gli eventi – convegni, seminari, dibattiti, laboratori, feste – erano distribuiti sui due campus universitari, molto estesi e distanti qualche chilometro l’uno dall’altro, costringendo pertanto i partecipanti a scegliere in anticipo dove andare.

È vero che i numeri non sempre sono significativi, ma qualche indicazione la danno. A Belém sono arrivate 133.000 persone, provenienti da 142 paesi. Sono giunti i rappresentanti di 5.808 organizzazioni, delle quali 4.193 dell’America Latina, 489 dell’Africa, 491 dell’Europa, 334 dell’America Centrale, 155 dell’America del Nord e 27 dall’Oceania. Per questo variegato pubblico sono stati organizzati ben 2.600 laboratori e seminari (probabilmente troppi, è stato da più parti osservato).
Insomma, numeri importanti che hanno fatto scrivere ad Alejandro Kirk dell’Agenzia Ips: «Screditato tante volte dai mezzi di comunicazione come un carnevale di sinistra fatto di sogni, sesso e marijuana, politicamente impotente, il Forum pare essere vivo e combattivo».

Le due cittadine universitarie che hanno ospitato il Forum sono cresciute al confine con Terra Firme, un quartiere di 100.000 abitanti, povero e con problemi di violenza. Per il Forum il bairro (barrio, in spagnolo) è stato ripulito, le strade principali riparate, l’acqua fatta arrivare nelle case, la polizia triplicata. Contraddizioni del Brasile, metafora delle contraddizioni del pianeta, dove più mondi, molto anzi troppo diversi tra loro (a dispetto della tanto reclamizzata globalizzazione), convivono con sempre maggiore precarietà. Il mondo dei ricchi, il nostro mondo, per difendere il proprio (indifendibile) stile di vita e modello di sviluppo, ha alzato barriere (fisiche, legislative, mediatiche), che però non resistono alle spinte estee, sempre più forti. Oggi il crollo della filosofia neoliberista e del sistema da questa costruito ha messo a nudo tutte quelle contraddizioni – economiche, sociali, ambientali, politiche – che fin dalla loro nascita, nel 2001, i Forum sociali avevano evidenziato, spingendo e lavorando per la costruzione di qualcosa di diverso sotto lo slogan «un altro mondo è possibile», tanto deriso dai media mondiali.
Ebbene, ora quel mondo altro, diverso, nuovo più che possibile è diventato necessario. Sul come arrivarvi la discussione è aperta. Il Forum di Belém, come tutti i forum che lo hanno preceduto, ha dato il suo contributo. Con la differenza che questa volta, forse, le indicazioni provenienti dai movimenti della società civile e dai popoli indigeni saranno ascoltate più che negli anni passati. Forse.   

Di Paolo Moiola    

Gli obiettivi del Forum

DIECI PASSI VERSO IL «BUEN VIVIR»

         Questi sono gli obiettivi attorno ai quali si sono sviluppati gli incontri, i dibattiti e i laboratori del «Forum sociale mondiale» di Belém:

1. «Per la costruzione di un mondo di pace, giustizia, etica e rispetto verso le spiritualità diverse; per un mondo libero da armi, specialmente quelle nucleari.
2. Per la liberazione del mondo dal dominio del capitalismo, delle multinazionali, della dominazione imperialista, patriarcale, coloniale e neocoloniale e dei sistemi diseguali di commercio, attraverso la cancellazione del debito estero dei paesi più sfavoriti.

3. Per l’accesso universale e sostenibile ai beni comuni dell’umanità e della natura; per la salvaguardia del nostro pianeta e delle sue risorse, con speciale riguardo per l’acqua, i boschi e le risorse energetiche rinnovabili.

4. Per la democratizzazione e l’indipendenza della conoscenza, della cultura e della comunicazione; per la creazione di un sistema comune di conoscenza e abilità attraverso lo smantellamento dei diritti di proprietà intellettuale.
5. Per la dignità, diversità e garanzia della eguaglianza di genere, razza, etnia, generazione, orientamento sessuale e per la eliminazione di tutte le forme di discriminazione e di casta (discriminazione basata sulla discendenza).
6. Per la garanzia dei diritti economici, sociali, umani, culturali ed ambientali, specialmente dei diritti all’alimentazione, alla salute, all’istruzione, alla casa, ad un impiego e un lavoro degni, alla comunicazione, alla sicurezza alimentare e alla sovranità.
7. Per la costruzione di un ordine mondiale la sovranità, l’autodeterminazione e i diritti dei popoli, includendo le minoranze e gli immigrati.
8. Per la costruzione di un’economia democratica, di emancipazione, sostenibile e solidale, centrata sui popoli e basata su un commercio giusto ed etico.
9. Per la costruzione e l’ampliamento delle strutture e delle istituzioni politiche, economiche e democratiche a livello locale, nazionale e globale, con la partecipazione del popolo alle decisioni e il controllo degli affari pubblici e delle risorse pubbliche.
10.Per la difesa dell’ambiente (l’Amazzonia e tutti gli altri ecosistemi) come fonte di vita del pianeta terra e per le popolazioni ancestrali del mondo (indigeni, afrodiscendenti, tribali e fluviali), che esigono i loro propri territori, idiomi, culture ed identità, giustizia ambientale, spiritualità e diritto alla vita».

A leggere questi obiettivi, certamente si può evidenziare che si tratta di un elenco molto generico, a volte ripetitivo e superficiale, spesso utopico. Ma è innegabile che, al tempo stesso, esso contenga molte verità incontestabili. Da queste alternative e da queste proposte potrà svilupparsi quel «buen vivir» per tutte e tutti che, alla fine, è il grande augurio del «Forum social mundial» di Belém.

Pa.Mo.


Cronistornira del Forum sociale mondiale

Le 9 volte del Forum:

– primo Forum:
25-30 gennaio 2001, a Porto Alegre (Brasile)
– secondo Forum:
31 gennaio-5 febbraio 2002, a Porto Alegre (Brasile)
– terzo Forum:
23-28 gennaio 2003, a Porto Alegre (Brasile)
– quarto Forum:
16-21 gennaio 2004, a Mumbai (India)
– quinto Forum:
26-31 gennaio 2005, a Porto Alegre (Brasile)
– sesto / settimo Forum:
gennaio 2006, a Caracas (Venezuela) e Bamako (Mali)
– ottavo Forum:
gennaio 2007, a Nairobi (Kenya)
– nono Forum:
27 gennaio -1 febbraio 2009, a Belém (Pará, Brasile)

Paolo Moiola




Cana (3) Un vangelo, tanti autori

Il racconto delle nozze di Cana (3)

Il racconto delle nozze di Cana è un momento centrale del quarto vangelo perché annuncia, anticipandola, «l’ora della glorificazione» di Gesù, cuore della teologia di Giovanni. Il racconto si colloca nella tradizione profetica, perché Gesù moltiplica il vino, come Elia moltiplicò la farina e l’olio per la vedova di Sarepta (1Re 17,7-16) e come Eliseo moltiplicò l’olio per una vedova (2Re 4,1-7) e i pani per il popolo (2Re 4,42-44).
Scopo di questa rubrica biblica è aiutare i lettori a leggere la parola di Dio in modo più approfondito, anche se in un linguaggio semplice, che tenga conto dei risultati della scienza esegetica, senza scadere nel tecnicismo, è importante che prima percorriamo le stesse tappe, attraverso le quali il vangelo si è formato fino a raggiungere il testo che oggi abbiamo in mano, e in secondo luogo cerchiamo di individuare la figura dell’autore, che ci aiuterà a capire il motivo e la finalità del racconto delle nozze di Cana, il «primo dei segni» che Gesù fece all’inizio della sua carriera di rabbi, riportato solo nel quarto vangelo.
Per il vangelo di Giovanni, come persinottici, l’identificazione dell’autore o degli autori è sempre un problema aperto, anche se ormai, alla luce di studi complessi, si possono tirare se non tutte, almeno alcune conclusioni definitive. Oggi la critica biblica attribuisce con sufficiente certezza la redazione finale dei rispettivi scritti a Marco e Luca; la questione si complica un po’ per Matteo e Giovanni, due opere particolari, che hanno visto un processo formativo complicato, che è impossibile solo sfiorare nello spazio di un articolo divulgativo. Prima però è necessaria una parentesi che apriamo e chiudiamo con la nota.
Imparare a pensare come gli antichi
Quando parliamo dell’«autore» di un libro, oggi siamo spinti a immaginare una persona seduta alla scrivania intenta a comporre a mano, o al computer, una storia «ordinata», organizzata sulle fonti con puntiglioso riferimento alle date, ai luoghi e alle persone. Oggi si dispongono anche delle video registrazioni che fanno vedere «quel momento» passato come se fosse contemporaneo: si possono ascoltare le parole e pure «vedere» la persona che parla, anche se morta.
Dobbiamo dimenticare tutto questo, quando prendiamo in mano un vangelo o un libro antico; al contrario dobbiamo cercare di documentarci sui metodi di trasmissione delle opere. Per noi è difficile immaginare che, al tempo dei vangeli, solo pochissime persone sapevano leggere e scrivere e che non esisteva la stampa, né la carta come la possediamo oggi. Nei tempi antichi i testi scritti erano pochi e per di più su materiale fragile e costoso come il coccio, papiro, pelli di capra, ecc.
I vangeli canonici, compreso quello di Giovanni, nella loro stesura definitiva non sono opera di un solo autore, ma sono il risultato di un lungo processo e anche di molte mani di persone di generazioni diverse. È evidente che nello spazio di un articolo non possiamo dare conto di tutte le ipotesi e di tutti gli studi che sono sterminati, ma possiamo garantire di offrire una sintesi onesta e corretta dei risultati condivisi dalla quasi totalità degli studiosi.
Per dare una risposta alla domanda «chi è l’autore del quarto vangelo?», bisogna procedere per gradi e percorrere i singoli momenti con attenzione, ripercorrendo brevemente le diverse tappe.

Nota
Il problema della ricerca biblica sui vangeli si è complicata da quando, nel 2007, la Rizzoli ha pubblicato il primo volume di una riflessione biblico-teologica di papa Benedetto xvi dal titolo «Gesù di Nazaret». Il papa ripassa i momenti salienti della vita di Gesù attraverso i vangeli, collocandosi sul binario tranquillo della tradizione e facendo alcune riserve su alcuni metodi di esegesi. È importante dire una parola su questo libro, che sta generando molti problemi nella chiesa, anche a livello di studio e di ricerca.
Fin dalla sua comparsa il libro è diventato un «testo di riferimento» per la catechesi nelle parrocchie e la predicazione dei preti, che si sentono tranquilli dal punto di vista dell’ortodossia, in forza dell’assunto «se lo dice il papa!», nonostante il papa stesso abbia scritto che il «libro non è in alcun modo un atto magisteriale, ma unicamente espressione della mia ricerca personale del “volto del Signore” (Sal 27,8). Perciò ognuno è libero di contraddirmi» (p. 20).
Ci troviamo di fronte a una confusione enorme: il papa dice che il suo è un libro «qualsiasi», che può essere criticato come qualsiasi altro libro; dall’altra parte molti fedeli e operatori pastorali lo prendono come «testo sicuro», anche in contrapposizione ad altri libri di persone più competenti del papa, che non è esegeta o teologo biblico. Il fatto che in Italia nessun biblista o teologo abbia recensito criticamente il testo del papa, la dice lunga sul condizionamento che esso sta producendo. Sarebbe opportuno che si ritornasse al vecchio codice (1917) che per queste ragioni vietava ai papi di scrivere libri opinabili: i papi, infatti, devono parlare per magistero.
A quanto mi risulta solo il cardinale Carlo Maria Martini, biblista di fama internazionale e già direttore del Pontificio istituto biblico, ne ha parlato in una conferenza a Parigi, dichiarando con molta schiettezza che dal punto di vista esegetico, il libro è pieno di inesattezze e anche errori e che comunque non vi si trova il Gesù dei vangeli, ma il Gesù che piace al papa, che «non è esegeta, ma teologo… non ha fatto studi di prima mano per esempio sul testo critico del Nuovo Testamento». Secondo Martini, c’è un problema fin dalla copertina, dove sono abbinati il nome di Joseph Ratzinger e quello, a caratteri cubitali, di Benedetto xvi che sovrasta l’altro: «È il libro di un professore tedesco e di un cristiano convinto, oppure è il libro di un Papa, con il conseguente rilievo del suo magistero?» (Sede dell’Unesco a Parigi, 23 maggio 2007; cf testo integrale su Il Corriere della Sera 24-5-2007). Lo stesso concetto egli ribadisce in una recensione su La Civiltà Cattolica (C. M. Martini “Gesù di Nazaret” di Joseph Ratzinger – Benedetto xvi in La Civiltà Cattolica, quaderno 3768, II [2007] 533-537).
Per quanto ci riguarda, il libro del papa si pone anche la questione dell’autore del quarto vangelo e quindi sul suo valore storico. Egli rifiuta alcune interpretazioni (Rudolf Bultmann), ne condivide parzialmente altre (Martin Hengel), non ne prende in considerazione molte altre, ma giunge a una «sua» conclusione: «Lo stato attuale della ricerca ci consente perfettamente di vedere in Giovanni, il figlio di Zebedeo, il testimone che risponde con solennità della propria testimonianza oculare identificandosi anche come il vero autore del Vangelo» (p. 252).
Accogliendo l’invito del papa stesso a una critica serena, rilevo, per quanto mi concee, che questa è l’opinione di Joseph Ratzinger, ma non è affatto una certezza nel campo degli studi, anzi è una tesi ormai superata. Nella nostra ricerca non terremo conto del «Gesù di Nazaret» secondo il credente Ratzinger, perché appartiene più al versante della meditazione spirituale edificante che della esegesi biblica. Con ogni dovuto rispetto. (Fine Nota)

Prima tappa: da Gesù agli apostoli
a) Gesù vive in Palestina tra il 6/7 a.C. e il 30 d.C. per un totale di circa 36 anni, di cui gli ultimi tre o due pubblici, perché li impiega predicando come un rabbino itinerante dentro e fuori la Palestina. Egli non lascia scritto nulla, anzi l’unica volta in cui abbiamo testimonianza che scrisse qualcosa, scrisse sulla polvere per terra, durante il processo alla donna adultera (Gv 8,8).
b) Dopo la morte di Gesù e la sua risurrezione, gli apostoli, superata la paura e lo smarrimento, si mettono a «predicare» in pubblico per convincere che Gesù di Nazaret è il messia atteso da Israele (cf At 2,1-47). La prima predicazione degli apostoli si rivolge agli ebrei e il contenuto di essa è solo e quasi esclusivamente il «mistero pasquale», cioè la passione, morte, risurrezione, ascensione (glorificazione) di Gesù e il dono dello Spirito Santo. Gli apostoli non si preoccupano di scrivere.
c) Qui si colloca la prima tappa della «tradizione/trasmissione» del vangelo: la tradizione orale che si tramanda da persona a persona, da generazione a generazione. Chi parla descrive quello che crede e la propria esperienza con la passione di chi vuole convincere gli ascoltatori, non con la freddezza dello studioso a tavolino.
Anche l’apostolo Giovanni ha cominciato a predicare in Palestina, da dove con ogni probabilità si è trasferito in Asia Minore, nell’attuale Turchia, con epicentro Efeso, dove c’era un gruppo di giudeo-cristiani che viveva all’interno di una comunità di origine greca. Qui infatti aveva operato l’apostolo Paolo circa 30 anni prima, dimorando per quasi tre anni a Efeso (dal 53/54 al 56/57).
In questo contesto «plurale», l’apostolo Giovanni è l’iniziatore, il primo anello di partenza della tradizione giovannea, che lentamente si andrà formando sul suo insegnamento e sulla sua predicazione. È probabile che a Efeso, dopo la distruzione di Gerusalemme e l’espulsione dei giudei (70 d. C.) si costituisca un’autentica «scuola giovannea», che riflette e sviluppa la predicazione che fa riferimento all’apostolo Giovanni, che è così l’iniziatore di una corrente o scuola, ma non l’autore materiale del vangelo come oggi lo possediamo.

Seconda tappa:
dagli apostoli alla vita della comunità
La comunità è una realtà viva, che si struttura attorno alla fede in Cristo: essa celebra la liturgia, testimonia con la vita, subisce persecuzioni e naturalmente raccoglie testimonianze su Gesù o liste parziali di miracoli, insegnamenti, parabole per scopi immediati come la liturgia o la catechesi. Nel vangelo di Giovanni, per esempio, si trovano solo sette miracoli (già il numero sette è emblematico, perché simbolico), che l’autore preferisce chiamare «segni», per riportarsi a un livello più profondo che non sia quello esteriore del miracolistico eclatante. Tutti questi «sette segni» sono costruiti in modo diverso da quelli narrati nei vangeli sinottici. Ecco di seguito l’elenco:
1. le nozze di Cana (Gv 2,1-11);
2. guarigione del figlio del funzionario romano (Gv 4,46-54);
3. guarigione del paralitico alla piscina di Betesda (Gv 5,1-18);
4. moltiplicazione dei pani (Gv 6,1-14);
5. guarigione del cieco nato (9,1-41);
6. risurrezione di Lazzaro (11,1-42);
7. pesca miracolosa (Gv 21,1-14).
Tutti questi «segni» hanno lo stesso schema: sono dialogati, c’è sempre un’azione, un crescendo che si sviluppa a volte in discorso lungo e articolato come nella moltiplicazione dei pani, un intermezzo e infine una lenta risoluzione verso la conclusione positiva. È evidente anche al lettore più sprovveduto che non ci troviamo più di fronte al «fatto storico» nudo e crudo, come possiamo intenderlo noi oggi.
Bisogna capire che le prime comunità cristiane hanno avuto una vita travagliata anche sul piano della fede e non hanno capito chi fosse Gesù da subito, ma hanno elaborato lentamente una «cristologia» che ha fatto fatica a prendere piede, in mezzo a eresie, rifiuti, contrapposizione di gruppi, di idee che spesso culminavano in reciproche scomuniche o esclusioni. Dai testi possiamo rilevare, e gli studi lo confermano, che la comunità che fa capo all’apostolo Giovanni, è una comunità divisa, frantumata, lacerata da divisioni, come lo sono anche quelle di Paolo (v. 1Gv 2,18-27; 4,1-6; 2Gv 7-11; 3Gv 9-11; per Paolo: 1Cor 1,10-16). Non bisogna lasciarsi ingannare da quanto scrive Luca: «Tutti i credenti stavano insieme e avevano ogni cosa in comune» (At 2,44), perché non rispecchia la realtà primitiva, ma idealizza ciò che dovrebbe essere la comunità.
Negli ultimi decenni del sec. I d.C. (80-90) le comunità sono abbastanza strutturate e hanno una vita propria e sviluppano un livello di riflessione avanzata, dove ormai  il dato storico è, se non abbandonato, per lo meno superato. Ciò è logico anche perché non c’è più il contesto originario, che all’evangelista non interessa più. Con ogni probabilità, indipendentemente dal contesto storico e geografico originario, tutti questi «segni» sono stati raggruppati in una raccolta «pronto uso» per la catechesi o per la liturgia.
In Giovanni, per esempio, a differenza dei sinottici che riportano decine di parabole (basta pensare a Matteo che sul tema del «Regno di Dio» ne riporta sette e tutte raggruppate nel capitolo 13), ne troviamo solo due che non si trovano negli altri vangeli: la parabola del «Pastore bello» (Gv 10,1-16) e quella della vite e i tralci (Gv 15,1-8): tutte e due queste parabole sono legate alla formula di auto rivelazione divina «Io-Sono», di cui parleremo in altra rubrica. A questo secondo livello della trasmissione, si cominciano, dunque, a possedere scritti parziali, omogenei e indipendenti per uso personale o comunitario, senza ancora un progetto organico.

Terza tappa: la 1a edizione scritta del vangelo
La terza tappa del lungo cammino formativo del vangelo è quella che gli studiosi, unanimemente, chiamano la tappa della prima edizione del vangelo scritto. Fino ad ora ci siamo trovati di fronte a figure singole o collettive anonime, che identifichiamo genericamente con il termine «comunità», non avendo altri riferimenti precisi. Da questo momento, da quando cioè il vangelo appare nella prima stesura scritta si può parlare di un singolo autore, cioè dell’evangelista che comunemente indichiamo con un nome: «Vangelo secondo Giovanni».
Tra gli studiosi c’è unanimità su questo punto: nella comunità giovannea vi erano due persone con lo stesso nome: uno è l’apostolo Giovanni che possiamo definire la «fonte» da cui ha origine il fiume della tradizione orale; e l’altro è Giovanni l’evangelista, presbitero dell’Asia Minore, figura eminente di teologo, a cui risale la prima edizione del vangelo scritto che è all’origine del vangelo attuale. L’esistenza di due persone con lo stesso nome ha creato una grande confusione d’identità, come testimonia anche lo storico antico sant’Eusebio (Storia ecclesiastica 2,31,3; 3,39,6) che parla dell’esistenza a Efeso di due tombe diverse per due Giovanni distinti.

Quarta tappa: la 2a edizione scritta del vangelo
La quarta tappa della trasmissione del vangelo di Giovanni è la pubblicazione della seconda edizione di un nucleo di scritti, più ampia e più organica della prima con aggiunte che riflettono situazioni nuove di epoche più recenti. Sembra, per esempio, che nella comunità giovannea vi fossero problemi ad accettare la figura di Pietro come autorità: il quarto vangelo, infatti, presenta la fede del discepolo prediletto sempre come superiore a quella di Pietro (cf Gv 13,23; 20,4.8; 21,7). Anche san Paolo ha conflitti spesso feroci con Pietro (cf Gal 2,11-14).
All’interno di questa dialettica, in epoca posteriore una mano diversa dalla prima aggiunse il capitolo 21, dove a Pietro si attribuisce la funzione di «pastore» che non ha riscontro in tutto il vangelo precedente (cf Gv 21,5-7).
Un altro esempio si trova nel racconto del cieco nato (Gv 9): l’evangelista annota che i genitori prendono le distanze dal figlio guarito «perché avevano paura dei giudei» (Gv 9,22), annotazione che non fa alcun problema, ma ciò che segue immediatamente sì, perché l’evangelista aggiunge una spiegazione di natura storica: «Infatti, i giudei avevano già stabilito che, se uno lo avesse riconosciuto come Cristo, venisse espulso dalla sinagoga» (Gv 9,22-23). Questa notizia non può che essere di molti anni dopo, posteriore al 90 d.C., quando i giudei espulsero definitivamente i cristiani dalla sinagoga. Un autore diverso dall’evangelista ha aggiunto queste parole, proiettando al tempo di Gesù una situazione drammatica del suo tempo.
La tensione tra giudei e cristiani alla fine del sec. I era tale che gli ebrei composero una apposita «maledizione» (in ebr. birkat hamminìm – benedizione [contro] gli eretici) aggiunta alla preghiera ufficiale, detta delle «diciotto benedizioni» per stanare i giudei che erano diventati cristiani e che erano considerati eretici.

Quinta tappa: la 3a edizione scritta del vangelo

L’ultima tappa della trasmissione del testo del vangelo di Giovanni corrisponde alla terza edizione scritta del vangelo come testimonia un papiro datato intorno al 120-130, trovato in Egitto vicino al Cairo in una casa privata (papiro Rylands, scoperto nel 1896) che riporta due piccoli brani della passione: Gv 18,31-33 e 37-38). Questo piccolo papiro è di somma importanza perché ci dice che all’inizio del sec. II il vangelo di Giovanni come lo abbiamo oggi circolava anche in Egitto, fuori della Palestina, lontano da Efeso, segno che il testo era ormai definito e utilizzato; ne consegue che il testo definitivo, cioè la terza edizione scritta, deve collocarsi come data probabile negli ultimi due decenni del sec. I.
Nel frattempo anche gli altri tre vangeli si sono affermati, sedimentati nella tradizione e nella liturgia, viaggiando insieme, ma sviluppando quattro prospettive degli stessi eventi, quattro angoli di visuale per uno stesso progetto: la fede nel Signore Gesù. Intoo al 150 d.C. i quattro libretti che camminavano separati, furono messi insieme, cuciti in un solo volume e da quel momento la comunità dei credenti, fino a noi, hanno tra le mani un solo libro con cinque volumi: i quattro vangeli canonici e gli Atti degli Apostoli.
Fin qui la storia complessa, che abbiamo semplificato oltre ogni umana tolleranza, per dire che il vangelo di Giovanni non si può attribuire alla mano di un solo autore, ma alla vita, alla testimonianza, alla liturgia e alla fede di una comunità, dove vivevano alcune personalità di spicco, autorevoli e degni di stima che ci hanno tramandato non la vita di Gesù, che è impossibile scrivere, ma solo quei fatti sufficienti «per la nostra salvezza» (Dei Verbum, 11; cf Gv 20,30-31; 21,24-25).

Chi è l’autore del quarto vangelo?
Alla luce di quanto abbiamo detto, dobbiamo superare la nostra convinzione che autore e scrittore siano la stessa persona. Per quanto ci riguarda possiamo dire:
1. L’apostolo Giovanni, il figlio di Zebedeo, è l’autore del quarto vangelo come l’antenato sta al pronipote. Egli è autore perché la sua predicazione e testimonianza stanno all’origine della tradizione giovannea; prima in Palestina e poi in Turchia, a Efeso; qui altri hanno ripreso contenuti e testimonianza di Giovanni e l’hanno sviluppata, integrando, arricchendo e incarnandolo.
2. L’apostolo Giovanni non è autore come possiamo intenderlo noi oggi, perché non ha confezionato alcun libro e non vi ha messo il sigillo del copyright. La sua testimonianza di e su Gesù si è diluita nel tempo, diventando vita di una comunità, che non ha mai pensato di tramandarci un testo da museo, ma l’annuncio giornioso che Gesù è il Messia, il Figlio di Dio (cf Mc 1,1). Di lui, come autore nel senso che abbiamo spiegato, parlano sette testimonianze al di fuori del NT (Ireneo di Lione, Papia di Geràpoli, il Canone muratoriano, il Prologo monarchiano, Clemente Alessandrino e tutti sono databili tra il II e III secolo).
3. Il quarto vangelo in cinque testi parla di un «discepolo che Gesù amava» (Gv 13,23; 19,26; 20,2; 21,7.20) e in altri due di un «altro» discepolo non meglio identificato (Gv 1,35-40 e 18,15). Probabilmente si tratta di due persone diverse. Il primo appellativo potrebbe essere dato dallo scrittore del vangelo che ricordando il suo maestro, l’apostolo Giovanni, ne parla anche con affetto, mettendo in evidenza la sua familiarità particolare con il Signore. Nello stesso tempo «il discepolo che Gesù amava» può anche estendersi a tutti coloro che entrano in contatto con Gesù nella fede e lo accolgono come Figlio di Dio, per cui partecipano alla vita d’amore del Signore come i lettori che siamo noi. Le due interpretazioni si integrano a vicenda.
4. Avviandoci alla conclusione, possiamo dire che la «voce» che ha dato origine al vangelo, attraverso la predicazione, è quella di Giovanni l’apostolo; una voce così forte e potente che si estese presto in tutto l’Oriente dove, in Turchia, trovò un discepolo che la raccolse e la volle divulgare ancora di più, fissandola per iscritto perché molti altri ne potessero usufruire.
5. Egli non si limitò a riportare la «voce», ma insieme ad essa raccolse la sua eco, aggiunse testimonianze che integrò con altre fonti dando corpo al testo come è arrivato fino a noi. Questo evangelista scrittore non è palestinese, ma con ogni probabilità un greco che aveva assorbito la cultura multietnica di Efeso, si era imbevuto anche di un «sapere» giudaico, vivendo all’interno di una comunità mista fino al punto da fare del giudaismo lo sfondo culturale e ambientale del suo vangelo, come cercheremo di mettere in rilievo studiando il racconto delle nozze di Cana.
6. Questo vangelo è indirizzato sia ai cristiani provenienti dal giudaismo, sia a quelli che provengono dall’ellenismo, ai quali l’autore presenta un vangelo che educa alla maturità della fede. Chi ha incontrato Gesù per la prima volta come un catecumeno (vangelo di Marco), ed è poi diventato un discepolo di Gesù (vangelo di Luca), divenendo anche un catechista (vangelo di Matteo), ora può bere alla fonte spirituale e contemplativa del quarto vangelo. Senza fretta perché in Gv ogni parola ha un significato ovvio e uno nascosto, che bisogna cercare, ruminare, centellinare e assaporare, lasciando alla Parola, attraverso le singole parole, la possibilità di depositarsi nell’intelligenza e nel cuore, per diventare alimento e bevanda di vita: «Io-Sono il pane della vita; Io-Sono la vite, voi i tralci» (Gv15,5).  (continua – 3)

Di Paolo Farinella

Paolo Farinella




Pace sì, ma a modo nostro

Alla scoperta di … paesi, storie, persone: Mozambico (4.a puntata)

Si può essere missionario e guerrigliero? Qualcuno lo ha fatto. E oggi continua a mettersi al servizio dello sviluppo del suo paese. Nella formazione e nella politica. Incontro ravvicinato con un missionario sui generis.

Padre Filipe José Couto, missionario della Consolata, classe 1939. Dopo studi in Italia è stato un allievo modello all’università di Münster, in Germania, dove ha ottenuto il dottorato in teologia. Rientrato in Mozambico, nonostante ottime possibilità di carriera accademica in Europa, è costretto ad andare in esilio in Tanzania, dove entra in contatto con il Frelimo (Fronte di liberazione del Mozambico), in lotta per liberare il paese dal Portogallo.
Dopo l’indipendenza Couto riprende gli studi e ottiene un secondo dottorato, in scienze sociali, e poi insegna in Tanzania e a Londra, filosofia, teologia e logica matematica.
Nel 1996 è nominato rettore della neonata Università Cattolica del Mozambico, fondata da un altro padre della Consolata, Francesco Ponsi, ma di proprietà dei vescovi.
Dal 2007 è magnifico rettore dell’Università Eduardo Mondlane, l’istituzione universitaria più importante del paese. Filipe Couto conosce tutti i dirigenti del partito al governo, il Frelimo, e molti ministri erano dei giovani «tirati su» da lui durante la guerra di liberazione.
Vestito trasandato, capelli scompigliati, ha negli occhi un guizzo geniale. Eteo provocatore, sembra sempre duellare con il suo interlocutore: «Fate pure le domande, tanto Missioni Consolata è da anni che non pubblica le cose che dico io».

Padre Couto, come ha deciso di fare la lotta armata?
Penso che la gente esageri sulla mia storia. Non capita che si decida da un momento all’altro di andare a fare la lotta per la liberazione. Esistono delle circostanze in cui uno deve trovare la via per salvare la pelle. Nel mio caso, agli inizi degli anni ’70, se eri nel Nord del Mozambico, dovevi uscire e andare in esilio. Il fatto di scappare e arrivare dove c’era il nucleo del Frelimo, di aver vissuto con loro, ha portato a un certo percorso.
Quando sono uscito dal paese ero missionario della Consolata. In Tanzania ero con i rifugiati, mi sono trovato con altri confratelli, con i quali ho avuto contatti e solidarietà. Non c’è un taglio netto tra il fatto di essere missionario ed essere uno che è andato con i rifugiati e poi ha raggiunto il Frelimo, ha lavorato con esso e vi continua a lavorare in certe cose necessarie per lo sviluppo del paese. Sono state decisioni molto pragmatiche.

Perché lasciò il Mozambico?
Io non credo di aver avuto idee politiche molto chiare, ma c’era qualcosa di fondamentale. Io sono mozambicano, se c’è una proposta per un governo di persone del nostro paese, allora opto per quel governo. Ma eravamo colonia portoghese. In quel tempo, dire queste cose o insegnarle agli altri, anche solo parlarne, diventava scomodo. Arriva un momento in cui tanti con le tue stesse idee stanno scappando. Erano passati due anni dalla mia laurea in Germania. Cominciavo a fare il lavoro nelle parrocchie.

Ci racconti i primi anni nel Frelimo, lei prete in un movimento di rivoluzionari marxisti.
Quando sono entrato, era già stato ucciso Eduardo Mondlane (fondatore del movimento nel 1962, e ucciso nel ’69, ndr). C’era dentro il partito un’aria di purificazione e di determinazione della linea. Eduardo aveva fatto il Fronte radunando tutti. Era arrivato il momento di decidere come lottare per l’indipendenza e con quali obiettivi.
Primo. Era chiaro che si sarebbe dichiarata l’indipendenza solo se fossimo stati in grado di occupare, con il sistema della guerriglia, tutto il Mozambico. Secondo: che tutti potessero dire o giustificare che la guerra con le armi era una delle maniere fondamentali per arrivare alla liberazione.
Terzo. Chiunque si unisse, pur avendo studiato fuori (Germania, Italia, Usa o paesi comunisti) doveva avere un principio: il Mozambico è unico e dobbiamo risolvere i problemi del paese secondo le necessità e il contesto dello stesso.
Quando sono arrivato ho notato che c’era un certo sospetto. Il padre cattolico e il pastore protestante erano entrati in conflitto con gli altri ed erano usciti. Allora decisi ancora per la via pragmatica: mi occupai di questioni sociali, umanitarie, educazione, agricoltura. Ma mai di religione. I miei compagni della Consolata conoscevano questa scelta.

Come è cambiato l’attivismo politico dei giovani, oggi rispetto agli anni della lotta per l’indipendenza?
Durante la guerriglia non era un tempo di analisi, né di discussione, era un momento di emergenza. I capi, il comitato politico-militare, il comitato centrale, i nuclei, decidevano e si eseguiva.
I bambini che erano nelle nostre scuole, nelle zone liberate, dovevano imparare. I giovani di 18 anni dovevano lavorare nel campo, o fare il servizio militare, oppure li mandavamo a studiare (come l’attuale ministro della Difesa). Facevano le cose che dicevamo loro di fare. Era un’epoca di sintesi e decisione e non di analisi.
I giovani di adesso cominciano a entrare in un clima di discussione. Occorre lasciarli parlare, avere le proprie idee. Non è facile. Bisogna avere molta attenzione. Credo che sia una nuova epoca in cui dobbiamo educare i giovani alla libertà, alla critica e autocritica, alla solidarietà, ecc. Di queste cose parlavamo poco. Per noi era importante come organizzarci nel caso di bombardamento aereo, dove nascondere i bambini, dove scappare. È un’epoca diversa.

Gli studenti universitari di oggi sono interessati alla politica?
All’epoca la politica era semplice. Dicevamo ai giovani: state combattendo contro il colonialismo portoghese, contro lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo. Adesso invece il messaggio è piuttosto: il paese è grande, ci sono diverse opportunità, c’è molto da imparare, abbiamo bisogno di medici, ingegneri, veterinari, piloti, ecc. Poi spieghiamo loro che se imparano, le opportunità sono grandi, ma allo stesso tempo le responsabilità anche maggiori. Inoltre il mondo è aperto: se vogliono possono andare all’estero a studiare. Poi se pensano di tornare vedremo cosa si può fare.
Quello che è politica nel senso di difesa, sicurezza, è meno sentito. Il giovane non fa più attenzione, c’è un altro clima.

Qual è la qualità degli allievi delle università mozambicane?
Seguendo la mentalità europea, per avere qualità devi avere un formatore con pochi allievi. Noi invece diciamo se hai solo 10 allievi non ne trovi 2 buoni, ma se ne hai 100, forse ne trovi 3. Quindi l’università deve fare il possibile per far entrare tutti e poi selezionare chi hai dentro.
Con la quantità potrai avere una buona élite. Ma come fai a formare tanti con poche risorse? Facciamo il primo ciclo di tre anni, il secondo di due e il terzo di tre. Durante il primo vediamo i migliori e decidiamo su chi vale la pena investire. Ma valutiamo anche quelli che non sono eccellenti. Alcuni sono meno buoni ma hanno altre capacità.
La qualità è quello che la società pretende: abbiamo quella internazionale e quella nazionale, ovvero di gente che lavora qui. Dobbiamo avere le due, la qualità intellettuale che va all’estero e quella che rimane qui da noi.

Il paese ha raggiunto una pace stabile dopo quasi 30 anni di guerra civile. È un esempio a livello africano. Come è stato possibile?

Io ho un’opinione diversa dalla comunità di Sant’Egidio (uno degli attori della mediazione, ndr.). La gente pensa che il Mozambico sia un caso speciale, e che l’incontro di Roma (cfr. MC gennaio 2009), con i mediatori sia stato decisivo per la pace. Afonso Dhlacama (capo della Renamo, formazione guerrigliera contro il governo dopo l’indipendenza fino al 1992, ora partito politico, ndr.) ha firmato, così la guerra è finita. I soldati sul campo hanno obbedito.
Si dice che la comunità di Sant’Egidio, qualche vescovo, qualche missionario hanno fatto la pace.
È successo che a un dato momento, dopo la guerra coloniale e la partenza dei portoghesi, la popolazione ha visto che le cose non andavano tanto meglio. Hanno iniziato a pensare: quelli che sono a Maputo, Samora Machel (primo presidente del paese, ndr.), Filipe Couto, stanno diventando grassi mentre noi abbiamo fame. Quindi in molti hanno raggiunto l’opposizione.
Noi, d’altronde quando siamo arrivati al potere, avevamo un’idea un po’ romantica della realtà. Abbiamo visto a Maputo gente senza lavoro, ubriachi, prostitute. Noi volevamo fare una società pulita. Abbiamo preso tutta questa gente e l’abbiamo mandata nella provincia meno popolata, che per caso è dove sono nato, il Niassa. Pensavamo: stanno con la natura, facciamo dei campi e faremo l’uomo nuovo. Voleva essere un’operazione di produzione, ma è stata un fiasco. Sono andati laggiù, non avevano coperte, né da mangiare, né un posto in cui vivere. Pensavamo che avrebbero improvvisato, come avevamo fatto noi durante la guerra. La gente diceva: qui non abbiamo niente, voi siete peggiori dei portoghesi, allora andiamo con l’opposizione.
La Renamo nasce all’estero, ma nel paese dicono alla gente: vi daremo vita migliore di Samora, Chissano, Couto che sono comunisti.
Ma in quel tentativo anche loro non hanno dato molto. Hanno mangiato tutti gli animali del Gorongosa (famoso parco naturale, ndr.), facendo scomparire elefanti e bufali. A un dato momento hanno capito che non è con il fucile che si va avanti, bisogna ricomporre la situazione.
All’origine della Renamo ci sono quei portoghesi che sono rimasti nel paese e sono andati in Rhodesia, al tempo di Jan Smith o nel Sudafrica dell’apartheid. Ma da soli non avrebbero avuto grande successo se noi non avessimo sbagliato la nostra maniera di agire con le persone. Abbiamo imparato più tardi.
Il guaio nostro, della Frelimo, è che impariamo sbagliando, però poi correggere non è facile.
Credo che la pace sia arrivata perché abbiamo tutti imparato che sparando è peggio, non sparando si può fare qualcosa di più. L’esercito governativo e i guerriglieri, a un dato momento convivevano. Anche in Sudafrica, Mandela era uscito di prigione. Lo Zimbabwe era diventato indipendente. C’era una congiuntura favorevole, la cosa si doveva risolvere in modo pacifico.

Il Mozambico ha una crescita economica del Pil intorno al 7% annuo, ma le condizioni sociali restano pessime, soprattutto in ambito rurale. Come si spiega questa incoerenza?
Chi ha detto che l’economia sta crescendo? La Banca mondiale e gli altri dicono che lo Zimbabwe non cresce, il Mozambico invece sì. Perché? Se vai in Zimbabwe oggi, troverai strade migliori, nei villaggi bambini che vanno a scuola, meglio vestiti che da noi. Di notte puoi passeggiare dove vuoi. Si dice che i sindacalisti sono tutti in prigione. Perché non si dice che il re dello Swaziland mette la gente in prigione?
La questione di dire che l’economia qui cresce, dipende molto da chi lo dice.
È vero che nelle città si vive bene: belle macchine, benzina, si può comprare quello che si vuole…, ma questo è artificiale, perché il paese è diventato il bambino più bello del Fmi, della Bm. Mentre lo Zimbabwe è diventato la pecora nera.
In Zimbabwe, le università, le statali di Harare, di Bulawayo, la privata, sono le migliori dell’Africa sub equatoriale. Hanno i migliori professori e sfoano i migliori studenti. In Botswana buona parte dei docenti sono zimbabweani. Hanno 90 mila studenti e ne laureano ogni anno 11 mila.
Lo Zimbabwe ha meno Aids che qui, anche se ha avuto meno aiuto. Ha esportato carne alla Ue, da qui niente. Tutto questo con 10 anni di boicottaggio. È vero l’agricoltura è andata sotto, è andata agli zimbabweani. Solo il 40% dei campi sono sfruttati.

Secondo lei si tratta di una pace stabile?
Quando una persona impara a camminare? Quando prova, cade e poi ci riprova. Qui da noi basta che io gridi un po’ vengono con il latte: divento un bambinone che non cresce. Non credo che il mio paese sia in buone condizioni. Pace sì, se vuol dire che non spariamo.
Ma la situazione può esplodere, da una cosa da niente. Non c’è stabilità, secondo me.
Dov’è l’esercito? Non lo abbiamo. È stato smobilitato. Siamo andati da un estremo all’altro. Prima c’era un esercito guerrigliero. Se un giorno allo Swaziland venisse voglia di entrare in Maputo, può farlo, perché siamo pacifici!
Noi, a chiunque venga, diciamo sempre di sì. Non siamo i padroni di casa. Nello Zimbabwe, se vuoi fare qualcosa, non ci riesci, perché c’è un esercito. Dobbiamo andare piano a giudicare. Sono contento che non si spari, che ci sia libertà religiosa, ma sono molto preoccupato. Noi stiamo ricevendo solo, non esportiamo…

E la lotta alla corruzione?
Si dice che c’è corruzione, che la giustizia ha fatto arrestare il ministro dell’Inteo, ma ci si domanda fino a che punto faremo questa lotta veramente. Riusciremo a farcela? Stiamo dicendo che la corruzione deve essere combattuta, ma non stiamo riflettendo su come è iniziata.
Eravamo un unico partito. Ci hanno detto: dovete avere il multipartitismo, entrare nel Fmi, nella Bm, attuare il liberalismo economico. Verranno le Ong e loro vi detteranno quello che dovete fare. Noi avevamo i nostri salari, relativamente bassi. Le Ong hanno iniziato a pagare salari spropositati.
Finito il progetto, noi non siamo stati capaci di dare queste cifre.
Inoltre: quando entra 100 con le Ong, quanto rimane in Mozambico e quanto ritorna con le Ong?
La corruzione dipende da noi, in parte, ma anche dalle Ong, Bm e Fmi.
Se si confronta un ospedale dove c’è una Ong con uno statale, come efficienza è meglio il primo. Ma i soldi da dove vengono?
Il paese è pieno di esempi come questo e fino a che non riusciamo a regolamentare, non saremo i padroni di casa. Ci vorrà molto tempo.
Joaquim Chissano (presidente dal 1986 al 2005, ndr) era un buon diplomatico. Ha fatto in modo che la gente parlasse bene con il mondo esterno. Dobbiamo andare dietro le quinte e vedere la realtà. Non è quello che molto spesso si pensa.
Adesso abbiamo Armando Guebuza: non è diplomatico, non stava sempre all’estero. Fu ministro dell’Inteo, poi ha iniziato a fare affari. È pragmatico. Vedremo cosa succede.

Cosa possono fare i mozambicani per avere uno sviluppo endogeno?
C’è un movimento politico positivo che dice: recuperiamo l’autostima, iniziamo a fare un servizio militare obbligatorio organizzato. Facciamo in modo che la gioventù faccia sport nelle scuole, nei distretti. Che siano poli di sviluppo. Rimettiamo un po’ di lavoro a scuole. Si è tolto tutto, dicendo che non si possono far lavorare i bambini, ovvero non posso insegnare loro a scopare la casa, questo è il concetto nuovo di libertà che è entrato dopo il trattato di pace.
Ci stiamo ricostituendo, ma può darsi che a molta gente non piaccia.
Molti preferiscono che siamo quei bambini che chiedono alla mamma il cioccolato o le mammelle per succhiare. Sono pochi che vogliono vedere un Mozambico emancipato.
Nel giorno in cui il Mozambico comincerà a dire a voce alta le cose che vogliamo fare, come riorganizzare il ministero della Difesa e quello dello sport, allora inizieremo a essere bambini cattivi.

Il governo del Mozambico conta otto ministri donne, tra cui la premier, che diventano 13 con i viceministri. Come siete arrivati a questo?
Forse ho dei pregiudizi: io ho sette sorelle e solo due fratelli. Quindi sono più solidale con i miei cognati che con le mie sorelle, perché credo che da noi ci sia una dittatura delle donne (risata)!
Scherzi a parte è un buon risultato. Durante la guerriglia contro il Portogallo i soldati che catturavamo erano tutti uomini. Da noi, invece, le donne facevano il servizio militare e c’era un distaccamento femminile per il combattimento. Abbiamo iniziato a parlare di emancipazione della donna alla nostra maniera. Questo è il frutto.
Era perché quelle hanno preso anche il fucile. Non sto dicendo se è un bene o un male, dico che questo ha fatto in modo che si parlasse di emancipazione.
Oltre al primo ministro, già ministro delle finanze, abbiamo la ministra della funzione pubblica, che controlla tutti i ministeri. Alla difesa, non avrei paura a mettere una donna, ne abbiamo alcune che andrebbero bene. 

di Marco Bello

Marco Bello