Consolazione è donna

Spagna

Malaika è una parola swahili che significa «angelo». È anche il nome di un Centro di dialogo e scambio tra fedi e culture diverse che i laici missionari della Consolata spagnoli hanno creato a Málaga. Due di loro ci raccontano la storia di un «angelo» colombiano e di un gruppo di donne da consolare.

Siamo a Málaga, nel Sud della Spagna: una città che si vanta di essere accogliente, terra di transito e  incontro di civiltà e che oggi riceve persone di molte nazionalità diverse. C’è chi per turismo viene a lasciare palate di soldi alla Costa del Sol, chi invece cerca la speranza di un lavoro sicuro e un futuro migliore.
Il Centro di dialogo interculturale e interreligioso «Malaika» nasce qui nel 2005; si interessa soprattutto al fenomeno migratorio, diventando ben presto un punto di riferimento per la città di Málaga nell’accoglienza dello straniero.
Le sue attività si sviluppano in modo particolare su due livelli. A livello individuale, Malaika offre orientamento e accompagnamento  per facilitare al singolo una miglior integrazione nel tessuto sociale cittadino e una più approfondita formazione interculturale a tutte le persone o istituzioni interessate a questo tema. A livello sociale, invece, si propone come un luogo di incontro che favorisce le relazioni interculturali e il mutuo scambio tra la popolazione migrante e quella locale. 
Anno 2006. A Malaika intrecciamo un rapporto stretto con un gruppo di boliviani con i quali riusciamo a organizzare varie attività. Lavorando gomito a gomito ci rendiamo conto di una grande inquietudine all’interno della loro comunità: tre giovani donne boliviane si sono suicidate in uno spazio di tempo molto breve. Impera la preoccupazione e si discute sui motivi che hanno portato a questa serie di atti: la situazione familiare delle tre donne, il lavoro che manca, il contesto ostile in cui molte volte i migranti sono costretti a vivere, ecc. ecc. La cosa peggiore è che, in confidenza, alcune amiche mi rivelano frasi inquietanti che stanno diventando ormai sempre più ricorrenti: «Chissà che non sia stato il modo migliore per risolvere i loro problemi», «sono così sfinita che anche io ho pensato di farlo in alcuni momenti».
Bisogna fare qualcosa. Sappiamo troppo bene come questo tipo di «soluzione finale» possa diventare contagioso. È la Provvidenza a venirci incontro e darci una mano, nella persona di Magali Adriana, arrivata di recente dalla Colombia dove, ci rivela, lavorava con un gruppo di supporto per donne maltrattate e i loro figli. Lei stessa, in passato, aveva vissuto traversie di questo genere e aveva sempre trovato importante poter dare un po’ di consolazione a persone in difficoltà. In Spagna la vita le sta mostrando la sua faccia più dura: qui tutto ciò che ha fatto un tempo sembra non contare niente, nessuno la riconosce per chi veramente è. Sta cercando un lavoro come collaboratrice domestica perché da tempo non riesce più a mandare soldi ai figli rimasti a casa e che stanno studiando, ma sente di essere chiamata anche a fare altro, che la soddisfi in pieno.
Grazie alla presenza e all’entusiasmo di Magali nasce l’idea di formare un gruppo di donne per lavorare su temi come l’autostima, le reti di appoggio sociale, la famiglia, le coppie miste, la società spagnola, ecc. Iniziamo a spargere la voce con associazioni e con immigrati, ricevendo incoraggiamenti e candidature: dalla Bolivia, Colombia, Argentina, Marocco. L’inizio non è facile. Non è infatti normale che queste donne manifestino le loro sofferenze più profonde in pubblico. Per questo cerchiamo l’aiuto di due psicologi, laici missionari della Consolata, che diventano responsabili del gruppo. Si cominciano gli incontri e il gruppo poco a poco prende confidenza, la profondità delle condivisioni aumenta, e le donne cominciano a volersi incontrare più spesso. Si organizzano momenti divertenti dove si cucinano piatti tipici, si balla, si ride e si scherza. L’ambiente si carica di amicizia, la solitudine si allontana dalle loro vite e i momenti di incontro sono ormai numerosi. Con la crescita dell’autostima e il rafforzamento delle reti di contatto alcune donne si iscrivono a corsi professionali; altre, trovano  il lavoro che non riuscivano a conseguire; altre ancora si inseriscono in circoli di immigrati e danno una mano nelle varie attività. Alcune (anche se senza documenti in regola) trovano il coraggio di denunciare abusi nel proprio lavoro. 
Trascorsi vari mesi, alcuni uomini legati alle donne del gruppo chiedono o sono invitati a partecipare alle loro attività, creando di fatto un gruppo misto, ormai perfettamente autonomo. I membri sono diventati volontari di Malaika, si sentono a casa e ci danno una mano nelle nostre attività.
Magali ha finalmente trovato una ragione in più per cui vivere. Si sente consolata da questa opportunità che le è stata offerta di rendersi utile in ciò che sa fare. Ma non soltanto lei ha beneficiato di questa piccola «avventura» del nostro Centro. Grazie a Magali e a questo gruppo di donne un po’ di consolazione è arrivata anche a noi che lavoriamo a Malaika e riceviamo affetto e amicizia di persone che hanno condiviso con noi un breve istante della loro vita. Per non parlare della consolazione ricevuta dalle donne stesse. Le inquietanti frasi di disperazione che tanto ci avevano preoccupato tre anni fa, oggi non sono che un lontano ricordo.

di Silvio e Pilar Testa

Silvio e Pilar Testa




Rafforzata e consolata

Spagna

Suor Marisa Isabel Soy, argentina, dopo avere lavorato in Bolivia e in Liberia, ora si trova in Spagna, a Madrid, dove le missionarie della Consolata svolgono un servizio di animazione missionaria e pastorale parrocchiale. Inoltre, suor Marisa, collabora in un progetto a favore dei Migranti.

Ousmane ha circa quarant’anni ed è uno dei tanti migranti proveniente dall’Africa Occidentale che ha attraversato il mare per cercare una vita migliore a Madrid, in Spagna.  Un lavoro da pescatore che non riusciva più a mantenere e sfamare una famiglia numerosa: ecco cosa c’è alla base del sogno europeo di Ousmane. L’ho conosciuto  grazie al «Progetto RAPA» (Rete di appoggio per l’Africa, creata dai Gesuiti spagnoli con cui da due anni collaboro), organizzazione che aiuta i migranti ad inserirsi nella realtà spagnola. Un lavoro che svolgo volentieri, riconoscente per il tanto bene che ho ricevuto dalla gente africana, durante i miei anni trascorsi in quel continente.
Ousmane, arrivato circa un anno fa dal Senegal, è ospite di un centro di accoglienza temporanea. Prima dell’attuale crisi economica, era facile per chi arrivava in Spagna trovare un lavoro, avere in breve tempo i documenti in regola ed ottenere il permesso di soggiorno. Ora, anche in Spagna la situazione è difficile per cui gli ospiti del Centro non trovando lavoro, restano all’interno della struttura. Questa situazione rende i migranti tesi e a volte  anche violenti. Per questo, noi che lavoriamo nel RAPA ci siamo proposti di «personalizzare» l’accompagnamento, offrendo a ciascuno la possibilità di dialogare e allentare così le tensioni. Migliorare la comunicazione con gli ospiti del Centro ci ha anche permesso di conoscere le motivazioni che hanno indotto queste persone a lasciare i loro Paesi, nonché di cogliere le loro capacità lavorative e aspirazioni, aiutandoli così meglio  nella ricerca di un impiego.
Curiamo anche la formazione personale e professionale degli ospiti, offrendo corsi di lingua spagnola e avviamento professionale.
Attraverso i programmi del Centro RAPA ho conosciuto e seguito da vicino Ousmane. Mi ha colpito la sua salda fede in Allah, che lo aiuta ad affrontare con calma e serenità la situazione di emergenza e solitudine in cui si trova.
Mi impressiona anche la sua riconoscenza per tutto ciò che riceve: la sua sofferenza più grande è quella di non poter mandare, come vorrebbe, aiuti economici alla sua famiglia.
Spesso, mi chiede di pregare per lui e di aiutarlo a trovare un lavoro. Purtroppo, oltre alle molteplici difficoltà burocratiche, un test medico ha diagnosticato a Ousmane un diabete, per cui deve seguire una dieta speciale e sottoporsi a controlli sanitari regolari, cosa che complica ancor di più la sua situazione di migrante senza permesso di soggiorno. Tuttavia, niente di tutto questo mina la fede di quest’uomo. La sua presenza serena e senza pretese è per me il segno palpabile che Dio è con lui.  In questo mondo del consumo e delle apparenze, dove questi fratelli vivono raccogliendo le «briciole» del nostro spreco, mi sento consolata accompagnando i passi di coloro che, come Ousmane, non contano e sempre vengono lasciati ai margini della società: per questa esperienza rendo grazie a Dio e mi sento rafforzata nella mia vocazione di Missionaria della Consolata.

Di suor Marisa Isabel Soy

Marisa Isabel Soy




Volti e storie di consolazione

Introduzione

Rubo il titolo di questo editoriale all’articolo di Suor Eugenia Bonetti, missionaria della Consolata, da anni impegnata ad offrire «consolazione di strada» a giovani donne impigliate nelle maglie della tratta e avviate a uno squallido futuro di prostituzione. Forse inconsapevolmente Suor Eugenia ha colto lo spirito con cui i missionari e le missionarie della Consolata, attraverso la Commissione Europea di giustizia, pace ed integrità del creato (Gpic), hanno pensato e organizzato questo dossier, pubblicato integralmente o in parte da tutte le nostre riviste.
Dietro le quinte di questo lavoro ci siamo noi, missionari in ricerca,  tesi a scoprire un volto europeo della consolazione da offrire al continente che più, nel passato, è stato fornitore di risorse umane e materiali.  Oggi, l’Europa si scopre invece sempre più terra di missione e quindi da guardare con occhi differenti rispetto al passato. Con quali occhi?

Ridefinire con coraggio la nostra presenza missionaria in Italia e in Europa non è facile. Le sfide nuove che l’analisi congiunturale svela impietosamente davanti al nostro sguardo ci scopre indecisi, frenati, «vecchi» di età e di idee, incapaci di scrollarci di dosso uno stile della missione ad gentes che non è più. Come i pozzi di petrolio anche i nostri bacini di drenaggio economico e vocazionale stanno offrendo valori molto diversi rispetto al passato. Tuttavia, invece di rischiare la scoperta di alternative missionarie, di nuovi stili di presenza o di una nuova spiritualità missionaria incarnata nell’oggi europeo, tendiamo a giocare in difesa, continuando ad offrire vecchie soluzioni a interrogativi nuovi e diversi.
L’incontro dei missionari che operano nei settori di animazione e di giustizia e pace, tenutosi a Fatima lo scorso febbraio, ha espresso l’esigenza di dare una scrollata al nostro modo classico di essere presenti oggi in Europa.  Nel contempo, ha rivelato anche i dubbi, le contraddizioni, le difficoltà che quotidianamente si incontrano nel camminare verso un autentico cambio di paradigma per il nostro stile di essere e fare missione.
Per una volta, però, abbiamo deciso di non «spararci in un piede», torturandoci con cifre e statistiche , ma di raccontare in tutta semplicità ciò che noi facciamo. Come in ogni cammino di conversione vorremmo iniziare a valorizzare ciò che già è presente, realtà,  applicando a noi stessi uno dei postulati della missione, che ci dice che ogni attività di evangelizzazione nasce essenzialmente da una storia che viene narrata.

Il risultato l’avete fra le mani: un piccolo approccio, minimalista ma sincero, alla realtà della nostra missione oggi in Italia, Spagna e Portogallo. Andrebbe corroborato con altri dati, con analisi, riflessioni e progetti… Lo faremo, e anche sulle pagine delle nostre riviste avrete modo di verificare i risultati di tale lavoro. Oggi, però, quello che vogliamo offrire sono le storie di consolazione che suore, padri e laici, figli della Consolata e dell’Allamano, vivono personalmente o di riflesso negli ambienti in cui operano. Alcuni temi emergono con decisione e segnano un interesse specifico, una traccia di cammino che già si è voluta intraprendere: la questione femminile, le periferie urbane, il macrotema della migrazione… ma dietro le quinte di questi grandi scenari si aprono domande di senso su altri aspetti della nostra presenza: quale pastorale, quale animazione, quale stile?

Un fattore pare essere certo: la missione oggi, anche in Europa, è e deve essere una missione di insieme. Molte delle storie che qui trovano spazio narrano relazioni pastorali feconde, dove i carismi degli istituti religiosi si fondono con quelli più propri del mondo laicale, formando un abbozzo di stile di missione che deve ormai essere tenuto presente se si vogliono trovare nuovi ambiti e nuove modalità ad gentes nel nostro continente.
Ancora una volta, sporgendoci idealmente dal coretto del santuario della Consolata in cui il nostro fondatore, il beato Giuseppe Allamano, soleva ingaggiare lunghe «conversazioni spirituali» con la vergine Maria ci rivolgiamo a lei, madre di ogni consolazione, per avere ispirazione e luce.

di Ugo Pozzoli

Ugo Pozzoli




Prigionieri delle montagne

Viaggio in un paese quasi… senza storia

Nato artificiosamente 80 anni fa come una delle 5 repubbliche sovietiche dell’Asia Centrale, dichiaratosi indipendente nel 1991, il Tagikistan
è da sempre uno stato povero, con scarse risorse e difficoltà di comunicazione. La crisi economica mondiale ne aggrava la situazione.

Occorre molta determinazione per arrivare fino a qui, in Tagikistan. Montuoso per il 93% del territorio, alla fine di tutte le strade, una specie di budello, non ci si capita per caso né lo si attraversa di passaggio verso altre destinazioni. Unici accessi non montuosi sono dall’Afghanistan e Uzbekistan, due frontiere difficili, per ragioni diverse; via aria i voli sono pochi e costosi.
Anche muoversi al suo interno è impresa non da poco. Non appena la neve comincia a scendere, la circolazione sugli alti valichi s’interrompe e il paese si spezza in tre parti: la regione sud occidentale con al suo centro Dushanbe, quella di Khujand al nord e il Goo Badakhshan a oriente. Tutte queste regioni sono facilmente accessibili da territori che stanno al di fuori dei confini nazionali, ma al loro interno si trovano divise da poderose dorsali montane.
Quando nel 1895 l’impero russo e quello britannico arrivarono finalmente a un accordo sul confine in Pamir tra le loro rispettive zone d’influenza, si stabilì che esso dovesse seguire il corso del fiume Pianj: la riva destra con il Badakhshan e la provincia orientale dell’Emirato di Bukhara rimaneva sotto protettorato russo, quella sinistra avrebbe fatto parte dell’Afghanistan sotto protettorato inglese. Ma proprio sulla bassa riva sinistra correva la strada di collegamento tra l’est e l’ovest del Badakhshan, che in tal modo rimase in territorio afghano. Una strada alternativa attraverso i monti fu costruita solo nel 1940.
Allo stesso modo, il naturale collegamento tra Dushanbe e Khujand, le due città principali del Tagikistan, passa per la pianura uzbeka. Questo è il percorso che segue la ferrovia. Volendo rimanere all’interno del territorio nazionale si è costretti a valicare i due passi di Anzob (3.372 m.) e Shahristan (3.351 m.). Bisognò aspettare fino al 1935 per avere una strada vera e propria che s’inerpicasse fino a quelle altezze, prima c’erano soltanto mulattiere.
Come nasce un paese…
improbabile
Prima dell’epoca sovietica il Tagikistan non era mai esistito come formazione politica indipendente; questi territori avevano sempre costituito la periferia di stati i cui centri erano o nelle pianure irrigue a nord delle montagne, o negli altopiani a sud. Solo a metà degli anni ‘20 esso fu costituito come entità amministrativa, quando il governo bolscevico decise di dare un nuovo assetto ai governatorati del Turkestan e della Steppa, assegnando un proprio territorio a ogni popolo presente all’interno dell’ex impero zarista. Nacquero così, inizialmente, tre repubbliche socialiste, che presero il nome di altrettante etnie: Turkmenistan, Uzbekistan e Kazakistan; al loro interno furono, poi, disegnate delle regioni autonome per le etnie considerate minoritarie.
Così facendo si applicava un principio astratto a una realtà non corrispondente: il concetto di nazionalità era del tutto estraneo alla storia, alla religione, alla cultura dei popoli centroasiatici. In Asia Centrale non c’erano mai state nazioni, ma entità statali multietniche, dove la consapevolezza etnica era inesistente; il senso d’identità era dato dall’appartenenza a una famiglia estesa, o a un clan, e dalla comune fede islamica. Il principio base di distinzione dei gruppi era lo stile di vita nomade, o sedentario: nomadi erano i kazaki, i turkmeni, i karakalpaki, i kirghizi, tutti popoli di origine turco-mongola; sedentari erano gli uzbeki turchi, che avevano col tempo abbandonato le proprie tradizioni nomadi, si erano sedentarizzati e vivevano da secoli in strettissimo contatto con i tagiki iranici, gli abitanti originari della regione e sedentari da sempre.
Dividere questa regione in base a criteri etnici, in cui gli stessi interessati faticavano a riconoscersi, era impresa impossibile, che scontentò molti e lasciò ampie fette di popolazione al di fuori dei nuovi confini nazionali. Ci fu a chi andò bene, come agli uzbeki, o benissimo, come ai kazaki, e a chi toccò una fetta troppo piccola, come ai tagiki, che videro i loro principali centri di cultura, le città di Bukhara e Samarcanda, rimanere in territorio uzbeko.
Alla regione autonoma del Tagikistan, ritagliata nel 1924 all’interno della repubblica dell’Uzbekistan, andarono la provincia orientale dell’ex emirato di Bukhara, la più arretrata e remota, e il Pamir. In mancanza di meglio, assurse a dignità di centro amministrativo un villaggio, poco più di un centinaio di case d’argilla lungo la strada carovaniera per Samarcanda, sede di un mercato che si teneva il lunedì: Dushanbe in tagiko significa, appunto, lunedì.
Nel 1929 il Tagikistan si staccò dall’Uzbekistan per diventare la settima Repubblica socialista sovietica. Essendo quasi interamente montuosa, per renderla economicamente più agibile in quell’occasione vi fu inglobata la città di Khujand e una fetta di pianura circostante, appartenute in precedenza all’Uzbekistan.
rischio disintegrazione
Finché esistette l’Urss, questa strana repubblica poté godere il vantaggio di trovarsi all’interno di uno stato multietnico che, di fatto, ricreava le condizioni originarie. I confini erano esclusivamente amministrativi e in nessun modo poteva essere tagliato il cordone ombelicale con le altre parti dell’Unione. Per andare a Khujand si saliva sul treno a Dushanbe, si faceva un tratto in Uzbekistan, poi in Turkmenistan, ancora in Uzbekistan e si rientrava in Tagikistan. Nessun visto, né dogana.
Inserito nel sistema economico dell’Unione, poco importava che non ci fossero riserve energetiche proprie e scarseggiassero i terreni agricoli: il gas vi era portato dall’Uzbekistan, il grano dalla Russia e dal Kazakistan. Furono impiantate industrie che potevano funzionare solo in un ambito interrepubblicano, come l’enorme fabbrica d’alluminio di Tursunzadè, una delle più grandi dell’Urss, dove la materia prima arrivava da altre repubbliche. Inoltre, come zona montana e depressa, il Tagikistan riceveva consistenti sovvenzioni federali.
La fine dell’Urss significò la brusca interruzione dei canali linfatici che tenevano in vita la repubblica, la quale si ritrovò a dipendere totalmente dai vicini, senza via d’accesso, senza energia, senza cibo. Tutti i vizi che stavano all’origine del suo concepimento furono d’improvviso evidenti: isolamento, scarsità di risorse agricole ed energetiche, frammentazione del territorio e difficoltà delle comunicazioni intee.
Le conseguenze della fine del sistema sovietico sono state molto più gravi che in tutte le altre parti dell’Unione. Il Tagikistan dovette affrontare una guerra civile che rischiò di mandarlo in frantumi, col nord pronto alla secessione e quasi imprendibile dietro a due poderosi bastioni montani; il Badakhshan pericolosamente isolato. I tagiki considerano un miracolo che la loro repubblica continui a esistere.
Sono passati 12 anni dalla fine del conflitto. Il Tagikistan di oggi è un paese tranquillo, dove gli orrori della guerra sembrano ormai appartenere al passato. Nel presente, però, rimane tutto il resto.
paese ricattato
A sei anni dalla mia prima visita in questo paese i segni di un miglioramento delle condizioni di vita sono ancora esigui. Non credo si possa annoverare tra di essi la comparsa di una sporadica edilizia di lusso, per non parlare del gigantesco palazzo presidenziale, ufficialmente chiamato Palazzo del Popolo, con evidenti segni di megalomania, in un’ampia area nel centro della capitale; sono, piuttosto, segni di una ricchezza proveniente dai profitti illeciti del traffico di droga, o dall’uso irresponsabile delle risorse nazionali. È noto che il presidente e membri della sua famiglia controllano i settori più produttivi dell’economia tagika.
Per la stragrande maggioranza degli abitanti l’esistenza continua a essere molto dura e la dieta giornaliera rimane a pane e tè. Anche se dal 2000 il Pil tagiko ha segnato una crescita dell’8-10% annuo, rimane molto inferiore agli ultimi anni sovietici. Inoltre, tale crescita, più che da un equilibrato sviluppo economico, è in buona parte motivata da fattori estei: la ripresa, dopo la cacciata dei talebani, del traffico di droga dall’Afghanistan, che ha nel Tagikistan uno dei maggiori canali di esportazione, e il boom economico in Russia e Kazakistan, che ha assicurato maggiori possibilità d’impiego ai lavoratori stagionali provenienti dalle ex repubbliche sovietiche. Si calcola che circa un milione di tagiki lavori in questi due paesi e che le loro rimesse alle famiglie costituiscano circa il 40% del Pil. Ciò fa sì che nel paese circoli parecchio denaro non prodotto da attività svolte al suo interno.
Girando per negozi e bazar di Dushanbe, ho subito notato che i prezzi dei beni, anche di prima necessità, erano del tutto sproporzionati agli stipendi medi di 30-40 euro. Si paga l’equivalente di due euro per un fascicoletto scolastico, un euro per un chilo di pomodori! Quando ho chiesto il prezzo di un biglietto aereo per Mosca, mi sono sentita rispondere che era valido solo per i due-tre giorni successivi, perché la quotazione era aggiornata di continuo secondo il prezzo del carburante.
La maggiore disponibilità di denaro nelle famiglie, grazie alle rimesse dall’estero, porta a una maggior domanda di beni di consumo, causando un aumento di inflazione e importazioni: quasi tutte le merci, infatti, passano dall’Uzbekistan, che impone alte tasse doganali, a cui si aggiungono i pedaggi non ufficiali estorti dalle guardie di frontiera. 
Ancora una volta, il Tagikistan paga il prezzo di una posizione geografica infelice, che lo rende dipendente per la sopravvivenza da uno stato confinante. Fino a quando la situazione in Afghanistan non cambierà e l’Uzbekistan rimarrà l’unico plausibile collegamento col mondo esterno, il Tagikistan sarà soggetto ai ricatti del vicino, che non perde occasione di far valere il proprio monopolio. È capitato che le autorità uzbeke abbiano deciso unilateralmente la sospensione, o la decurtazione delle foiture di gas; o che abbiano chiuso senza spiegazioni e senza preavviso tutti i posti di frontiera per più giorni. Un episodio del genere è accaduto alla fine dello scorso novembre, proprio durante il mio soggiorno nel paese.
dipendenza energetica
Il governo non assicura i servizi essenziali alla popolazione, eccetto l’istruzione pubblica, la cui qualità è in peggioramento per mancanza di risorse e per la fuga degli insegnanti dalla scuola, scoraggiati dagli stipendi troppo bassi. L’assistenza medica non è garantita; l’acqua non è potabile nemmeno nella capitale; i rifiuti non vengono raccolti: nelle strade in prossimità dei cassonetti si formano grossi mucchi di spazzatura cui di tanto in tanto gli abitanti danno fuoco. Nelle città l’illuminazione scarseggia e spesso viene a mancare: i più accorti si portano sempre appresso una pila tascabile.
A Dushanbe questo è stato il primo inverno in cui la foitura di energia elettrica è avvenuta con limitate interruzioni. Nelle città di provincia e nei villaggi, invece, l’elettricità viene erogata per 7-8 ore al giorno, mattino e sera. Da quando l’Uzbekistan ha ridotto drasticamente le foiture del gas, in tanti casi l’elettricità rimane l’unica fonte di riscaldamento, soprattutto nelle città.
Quest’anno l’inverno è stato relativamente mite, ma lo scorso anno il freddo fu feroce e i tagiki si ricordano con terrore di come tremavano nelle loro case gelate. Pur di ottenere un po’ di calore, gli operai della grande fabbrica di Tursunzadè trafugavano le scorie lasciate dalla lavorazione del minerale d’alluminio, che bruciano, sì, in modo simile al carbone, ma sono nocive e possono causare gravi malattie.
Le interruzioni dell’elettricità causano anche seri danni alle attività della gente: negli uffici si fermano i computer, nei laboratori le macchine e apparecchiature, gli artigiani smettono di lavorare, le pompe di benzina di erogare carburante.
Sembra un paradosso che un paese all’ottavo posto nel mondo per risorse idriche non riesca a far fronte al proprio fabbisogno di energia elettrica. Ai tempi sovietici per il riscaldamento si usava il gas e le centrali elettriche servivano in gran parte per alimentare l’industria. Da quando è diventato indipendente il Tagikistan non è stato in grado di finanziare da solo la costruzione di altre centrali. Per le grandi opere pubbliche è costretto a contare sull’aiuto di altri paesi.
Inizialmente aveva fatto affidamento soprattutto sulla Russia, che a tutt’oggi rimane per i tagiki il principale riferimento, per diversi motivi: le è riconosciuto un ruolo primario nella fine della guerra civile; è la meta privilegiata dei lavoratori stagionali; è il primo partner commerciale.
Da parte sua, la Russia ha in Tagikistan forti interessi strategici: innanzitutto quello di assicurare il controllo della frontiera afghana, da cui viene la minaccia del terrorismo islamico e del traffico di droga, che potrebbe avere un effetto destabilizzante su tutta l’area centroasiatica, per lei d’interesse vitale. Fino a poco tempo fa la frontiera era controllata dai militari russi; adesso ci sono i tagiki, ma i russi rimangono come consiglieri militari e mantengono nel paese un’intera divisione motorizzata.
Recentemente, però, altre potenze regionali hanno cominciato un’attiva collaborazione col governo tagiko e si stanno conquistando un importante spazio economico. Accanto alla Russia, che ha in cantiere le centrali elettriche di Rogun e Sangtuda 1 sul Vakhsh, ora anche l’Iran è impegnato nella costruzione di una centrale, quella di Sangtuda 2, sullo stesso fiume. Se completate esse potranno dare al Tagikistan una certa tranquillità energetica.
Oltre all’indipendenza energetica, è di assoluta priorità assicurare collegamenti permanenti tra le varie regioni, anche nella stagione invernale. Proprio in questo campo l’assistenza tecnica e finanziaria di Cina e Iran si sta rivelando preziosa. La prima sta costruendo un tunnel sotto il passo di Shahristan e una società iraniana ha da poco ultimato il tunnel Esteqlol (Indipendenza), sotto il passo di Anzob. In tal modo, tra qualche tempo sarà finalmente possibile viaggiare tutto l’anno tra le due maggiori città del Tagikistan.
è arrivata la crisi
Nel 2004 il Tagikistan ha festeggiato l’80° compleanno della capitale Dushanbe. È una città giovane, non molto estesa, con ampi viali, moltissimo verde e un’invidiabile cerchia di montagne a farle da contorno. Nonostante ciò, l’aria è densa per il fumo che sale dai roghi dei rifiuti non smaltiti dall’amministrazione cittadina. Solo il vento e la pioggia riescono a togliere il pesante odore di bruciato.
Il centro ha conservato la sua impronta staliniana, in cui predomina il neoclassico, lo stile ufficiale negli anni ‘30 del secolo scorso. Ci sono i palazzi governativi, l’imponente teatro dell’opera, la filarmonica, teatri di prosa, tutti quasi sempre chiusi. La fine dell’Urss ha avuto una pesante ricaduta anche sulla vita artistica e culturale della città.
In mancanza di altri luoghi d’intrattenimento, nei giorni di festa gli abitanti si ritrovano nei parchi cittadini. Le donne, giovani e meno giovani, indossano vestiti lunghi, dai colori sgargianti, con i fazzoletti a fiori calcati sulla fronte e annodati dietro la nuca; gli uomini, invece, hanno in prevalenza abiti scuri. Passeggiano in gruppi numerosi: amiche, amici, intere famiglie, molti con le macchine fotografiche, e si concedono qualche ora di distensione. Facce sorridenti: Dushanbe la domenica ha un sapore di normalità.
Ben diverse erano le facce dei passeggeri, per lo più uomini, che ho visto in aeroporto mentre m’imbarcavo per Mosca. Consegnavano i bagagli al check in e poi, con fare incerto come di chi non sa dove andare, finivano per accalcarsi davanti alla strettornia del controllo passaporti.
Mentre aspettavo il mio tuo, un ragazzo mi ha superato ed è andato a occupare un passaggio che doveva rimanere libero. Quando mi sono rivolta a lui per avvertirlo, ho visto i suoi occhi smarriti, la sua espressione timida e ho capito: quel ragazzo non aveva mai messo piede in un aeroporto, arrivava probabilmente da qualche villaggio e andava a Mosca a cercar lavoro per mandare tutti i mesi un po’ di soldi ai famigliari. Era lo stesso sguardo disorientato che adesso leggevo sulle facce di tanti passeggeri. Molti di loro lasciavano le loro case per cominciare un viaggio il cui esito era incerto, ma che certamente sarebbe stato pieno di fatica e umiliazioni.
Ai lavoratori stagionali in Russia spettano i mestieri più umili e duri. Ma questo è il male minore: spesso ricevono una paga molto inferiore a quella dei russi e può capitare che non la ricevano affatto, se non possono far valere un regolare contratto; il datore di lavoro sa che, anche se insolvente, resterà impunito.
La recente crisi, che ha colpito duramente anche la Russia, ha peggiorato la loro condizione. I cantieri, dove i tagiki e altri stagionali costituiscono tutta la bassa manovalanza, hanno cominciato a chiudere, lasciandoli senza paga e senza impiego. Molti saranno costretti a tornare; tra chi rimarrà la concorrenza sarà più dura e la paga scenderà ancora. Tante famiglie rischiano di perdere la loro unica fonte di reddito.
È così che la crisi finanziaria sta arrivando anche in Tagikistan, dove non ci sono né capitali, né borse. Sta arrivando veloce, a dispetto della sua lontananza e delle inaccessibili montagne. 

Di Bianca Maria Balestra

Bianca Maria Balestra




«La chiesa siamo noi»

Mozambico: finalmente i laici protagonisti

La chiesa mozambicana ha fatto uno straordinario percorso dagli inizi degli anni ‘70 a oggi. Con la «Chiesa ministeriale» si è attuato un modello in cui
i laici sono veramente protagonisti. Secondo i principi del Concilio Vaticano II. E come le prime comunità cristiane. Un cammino oggi confrontato a nuove sfide. La maggiore è l’invasione della cultura occidentale.  Un esempio anche per la chiesa italiana.

«Sto facendo il corso per imparare, approfondire la vita spirituale, liturgia, catecumenato, bibbia… Per portare la buona novella agli altri fratelli, affinché anche loro intraprendano il cammino della luce».  È Matheus Andres Mal che parla e siamo a Guiúa (Inhassoro) nel sud del Mozambico. Con sua moglie e altre 13 famiglie, ha iniziato un anno fa il corso di formazione per catechisti, al Centro di promozione umana di Guiúa.
Matheus viene dalla parrocchia Santa Ana Maimelane, ed è animatore da alcuni anni della comunità Santa Maria Macopane. Il consiglio pastorale l’ha «inviato» per formarsi e diventare catechista.
«I laici sono i pilastri della chiesa, se vengono a mancare loro cosa succede? – si chiede Sandro Faedi, missionario della Consolata in Mozambico fino al 2008.  – Senza di loro non siamo niente, diventiamo solo il clericalismo esportato dall’Europa».
In Mozambico assistiamo, da quasi quarant’anni, a un particolare percorso che fa la chiesa, definito come «chiesa ministeriale» ovvero, come sottolinea Onorio Matti, missionario dehoniano e studioso del fenomeno, «chiesa famiglia, chiesa comunione».
Per le origini occorre risalire al Concilio Vaticano II, che spinge i laici ad avere un ruolo attivo nella chiesa, per una chiesa di comunione ispirata alla Trinità, non strutturata in modo piramidale ma, orizzontale, di popolo.

Le origini

Sono i primi anni ’70, il Mozambico è ancora colonia portoghese, ma infuria la guerra di liberazione. In quel periodo un gruppo di giovani missionari illuminati e formati al concilio inizia a riflettere su questo «Nuovo modello di chiesa». Anche il giovane vescovo di Nampula dom Manuel Vieira Pinto dà un notevole impulso alla riflessione. Il sistema di oppressione del periodo coloniale fa pensare al modello delle «Comunità ecclesiali di base» dell’America Latina, che si sviluppano in quegli anni nell’ambito della Teologia della liberazione. Il percorso sarà un adattamento al contesto africano e, più in particolare, alla cultura dei popoli del Mozambico.
Si considera che la nascita delle cosiddette «Piccole comunità cristiane ministeriali» (Pccm) avvenne in concomitanza con l’indipendenza del paese (1975), anche se, in realtà, si tratta di un processo che durò alcuni anni e quindi non è identificabile con una data precisa.
«Le comunità ecclesiali di base latinoamericane e le Pccm mozambicane coltivano e sviluppano in comune il valore della uguale dignità e delle differenti funzioni dei battezzati e quindi della responsabilità e corresponsabilità che si traducono in servizio. Affermano il dono dello Spirito che è dato a ciascuno per cui il popolo può accedere alla parola dal basso senza doverla sempre e solo ricevere dal presbitero» ricorda padre Onorio nella sua tesi: Storia e prospettive future delle piccole comunità cristiane ministeriali in Zambezia (2007).
Un’altra fonte per la riflessione di quegli anni fu la nuova teologia africana, nello specifico quella congolese elaborata alla facoltà teologica di Kinshasa (Repubblica democratica del Congo). I testi africani criticavano i missionari che all’epoca trattavano la gente come bambini e pretendevano di «svuotare la mente dell’africano per introdurvi idee cristiane», senza alcun adattamento del cristianesimo nelle culture locali. C’è in essi un superamento del vecchio modo di fare missione e le basi per quella che fu, più tardi, definita «inculturazione».
Nulla di così nuovo, in realtà nelle Pccm, perché i principi sono quelli delle prime comunità cristiane (dagli Atti degli Apostoli e lettere di S. Paolo): comunione, condivisione e corresponsabilità.
Nelle Pccm, infatti, ogni battezzato ha un ruolo attivo, di servizio gratuito alla comunità di appartenenza. Il modello si contrappone e sostituisce quello del missionario che ha al suo servizio un catechista principale, scelto da lui e retribuito per vari incarichi. Il passaggio prevede un cambio di mentalità, non solo della gente, ma anche della gerarchia ecclesiastica e per questo fu lento e non privo di problemi.
La Chiesa ministeriale mozambicana resta però originale nella sua realizzazione concreta, difficile trovarla altrove, se non nei paesi confinanti dove viene «esportato» dagli stessi esuli del Mozambico.

Appoggio ufficiale

Il lavoro preparatorio e la sperimentazione del nuovo modello di chiesa riceve approvazione ufficiale e appoggio del clero nella prima Assemblea nazionale pastorale, Anp (Beira, settembre 1977), che ha proprio il tema: «Cercare piste comuni di orientamento pastorale nelle
comunità cristiane e suoi ministeri a partire dalla  esperienza vissuta e condivisa, interpellati dalla forza dello Spirito e dai rapidi e profondi cambiamenti in corso nel nostro paese». Le Anp sono il momento più alto di riflessione della chiesa mozambicana tutta: durante una settimana tutti i delegati delle diocesi (vescovi, presbiteri e laici) si incontrano e scambiano idee su tematiche che sono state preparate, con incontri a livello diocesano, per alcuni anni.
Il tema sarà poi ripreso nella seconda Anp a Maputo (dicembre 1991): «Consolidare la Chiesa locale». Mentre la terza e ultima Anp (Matola, 2005), prevederà ampi spazi all’analisi e la valutazione del percorso fatto, ma anche alcune idee su come «rifondare» le Pccm negli anni postconflitto (la guerra civile finisce nel 1992 e questo cambia il contesto).
Le tre Anp sono quindi i pilastri stessi del cammino fatto dalla Chiesa ministeriale e sanciscono e confermano la scelta, anche ufficiale, in questo senso.
Matheus ha 34 anni ed  è commerciante di professione: vende galline e capre. Nella sua comunità è animatore: «Faccio la catechesi e ho anche altri incarichi». Dopo il corso di formazione di un anno a Guiúa «il servizio che svolgerò sarà quello di formatore degli altri membri della parrocchia, provenienti dalle diverse comunità, che vogliono impegnarsi. Questa è la mia vocazione, fare germogliare il frutto che c’è negli altri». Anche sua moglie Cecilia ha seguito il corso: «Animavo la liturgia della gioventù, non ero catechista, mentre ora lo sono diventata grazie al corso. Avrò il compito di animare le donne, sempre nella carità e condivisione». I padri sono a 22 chilometri dalla comunità Santa Ana. Ecco che i laici sono chiamati a svolgere ruoli essenziali: «Quest’anno sono anche diventato ministro dell’eucaristia, e potrò quindi distribuirla». E aggiunge: «Con l’aiuto di Dio, vorrei annunciare la parola nella mia comunità, affinché tutti quelli che sono lontani, riescano ad avvicinarsi a Gesù Cristo», ma ribadisce «desidero anche che tanti fratelli abbiano la possibilità di venire a Guiúa a seguire questo corso e imparare, perché ”la messe è tanto grande e i lavoratori sono pochi”».

I laici «davvero» protagonisti

Sul vasto territorio delle parrocchie nascono e si moltiplicano le comunità. In ognuna di queste i cristiani, corresponsabili, eleggono i propri incaricati dei diversi ministeri.
I ministri eletti da tutti mantengono questo ruolo di norma per un anno, in modo tale che il maggior numero di cristiani possano partecipare. Fanno eccezione gli incarichi per i quali occorre una formazione specifica e sono quindi più difficilmente rimpiazzabili. Si tratta del catechista, dell’animatore della comunità e del ministro della parola.
Altri ministeri per la liturgia sono: lettore, incaricato del commento delle letture, incaricato dell’eucaristia, animatore del canto, della musica della danza. In seguito si aggiungono il ministero della famiglia, dell’ecumenismo, dei giovani, degli ospiti, di giustizia e pace.
Scelto il ministro, con un procedimento democratico e partecipativo, tra le persone di particolare integrità riconosciuta dalla comunità, questi riceve il mandato dall’équipe missionaria durante la celebrazione domenicale. Alla festa di Pentecoste, i mandati sono rinnovati. Il ministero può anche essere revocato in caso di cattivo comportamento del ministro.
Un concetto, non sempre facile da applicare, è che il servizio è gratuito, in quanto «servizio alla comunità» e non permanente, affinché leadership non diventi esercizio di potere.

Formazione: necessità primaria

Elias Mehama è di Mecanhelas, nella provincia Nord del Niassa. Ha 46 anni, in un paese dove l’aspettativa di vita è di 42. Ha viaggiato tre giorni con la moglie e tre figli per raggiungere Guiúa. Mentre ne ha lasciati altri cinque a casa, che saranno accuditi dai parenti. Al Centro di promozione umana, lui e la moglie Sabina, seguono il corso da catechisti.
 «Sto studiando diverse materie che mi aiuteranno nel mio servizio e che dovrò trasmettere agli altri fratelli della mia parrocchia» ci racconta. Al rientro sarà anche lui formatore di catechisti e animatori anche di altre comunità che fanno capo alla sua parrocchia.
«I laici hanno molte responsabilità nella nostra comunità. La parrocchia è molto grande, conta 130 comunità e un solo padre. Difficile visitarle tutte. Si fa un programma per andare in due comunità al giorno. Il sacerdote ha un lavoro enorme».
E continua: «Per le celebrazioni della domenica, quando non c’è il missionario, interviene l’animatore principale che fa “la celebrazione della parola”.  L’eucaristia la va a cercare (di solito a piedi ndr) il nostro ministro preposto e poi la distribuiamo».
Fin dalle origini delle Pccm si avverte come necessità quella della formazione. Nascono tre centri specifici: il Centro catechetico Paolo VI ad Anchilo (Nampula) per il Nord del paese, il Centro di formazione di Nazaré (Beira) per il centro e il Centro di promozione umana di Guiúa per il Sud.
Il nome del centro di Guiúa fondato nel 1972 dai missionari della Consolata (che ancora oggi lo gestiscono) si ispirava alla enciclica Populorum Progressio di Paolo VI, dove si legge: «È necessario promuovere un umanesimo totale», ricorda padre Francisco Lerma, responsabile del centro per diversi anni.
È costituito da una trentina di casette dove ogni famiglia può ricostituire il suo focolare, e diversi locali con aule per formazione, sale, cappella, biblioteca. Ma anche un centro sanitario, la residenza dei formatori. Intoo al centro ci sono campi utilizzati per alcune attività.
La giornata formativa è intensa. Alle sei del mattino le coppie si ritrovano nel fondo valle di fianco alla missione dove ogni famiglia ha un orto da coltivare.
Poi iniziano le ore in aula. Oltre a liturgia, Bibbia, pastorale, si impara storia del Mozambico, diritti umani, cittadinanza. E poi materie più pratiche: tecniche agricole, informatica, taglio e cucito. Alcune materie sono frequentate da donne e uomini insieme, per altre la frequenza è separata. Le donne, inoltre, accudiscono la casa e i figli, mentre gli uomini continuano la formazione.

Guerra e martirio

Ma il centro non ha sempre vissuto momenti facili. Il 13 settembre 1987, in piena guerra civile, i guerriglieri della Renamo (per la situazione politica si veda MC gennaio 2009) attaccarono la missione. Il catechista Manuel Peres fu assassinato e 36 altri laici furono fatti prigionieri. Di alcuni non si seppe mai più nulla.
Il centro fu quasi chiuso: annullati i corsi biennali per famiglie, vi si tenevano formazioni per aggioamento di una o tue settimane. Indirizzati a famiglie e non a individui.
La necessità di laici formati è evidente, così a fine 1991 si valuta, a livello diocesano, se riaprire il centro. Si decide per un’azione coraggiosa e nel marzo del 1992 quindici famiglie giungono a Guiúa per una formazione annuale. Ma ecco che il 21 marzo ancora la Renamo attacca il centro. Questa volta in ventiquattro furono brutalmente massacrati, alcuni dopo interrogatori e torture (vedi box). Altri furono deportati.
Nel 2002 padre Sandro Faedi solleva di nuovo la questione della mancanza di catechisti preparati:
«Quelli che avevano sostenuto la chiesa durante il tempo della persecuzione (dopo l’indipendenza, ndr), stavano diminuendo per età o decesso. I catechisti sono anche formatori di animatori, quindi tutta la struttura della parrocchia e delle comunità ne soffriva».
Padre Faedi ne parla con il vescovo dom Alberto Setele, dicendo che in nessuna parte del Mozambico si fanno più questi corsi.
Il vescovo acconsente a cercare una persona che possa riaprire il centro di Guiúa: un teologo con esperienza. Le persone contattate non si resero disponibili. Il vescovo allora insiste con Faedi: «Sarai tu a riaprire il centro catechetico».
«Arrivai a Guiúa dalla missione di Vilankulos. All’inizio consultai tutti coloro che avevano già fatto corsi in passato per avere consigli su come organizzarlo». Finalmente il corso inizia con quattordici famiglie nel 2003. Si decide per corsi residenziali di un anno.
 La scelta è quella di formare solo famiglie: «Vogliamo formare la famiglia cristiana: lui e lei, uno dei due catechisti, ma entrambi coinvolti nel cammino di fede e testimonianza. La condivisione di vita di queste famiglie cristiane a Guiúa, con le difficoltà, ma soprattutto la comunione di preghiere, lavoro, riflessione. Poi sono “seminati” nel loro villaggio».
I formatori sono missionari, e missionarie, ma anche laici, tra i quali catechisti che hanno già seguito il corso.
Parte della formazione è svolta in lingua, xitwha, mentre fondamentale è pure l’alfabetizzazione in portoghese.
«Ho avuto molte soddisfazioni da questa missione» ricorda Faedi «Uomini e donne che hanno lasciato tutto per un anno, per affrontare una vita diversa. Uomini rudi, abituati al lavoro nei campi che devono mettersi a studiare». E continua: «Quando li richiamavo per fare il corso agli altri, vedevo che erano cresciuti a livello intellettuale, teologico, di impegno cristiano, vita famigliare. Una crescita umana e religiosa». La comunità che li ha scelti e inviati ne accudisce la casa e il campo (talvolta i figli) durante la loro assenza.

CURA DELLA FAMIGLIA

«Nella mia comunità siamo più di 800 cristiani» ricorda Elias Mehama. «Abbiamo molti catechisti, animatori principali, animatori di carità, animatori di economia, laici delle famiglie. Ognuno ha un ruolo definito. Questi ultimi, ad esempio, aiutano le famiglie, quando ci sono problemi, affinché non divorzino e vivano in pace». Figura che sarebbe quanto mai utile anche nelle nostre comunità.
«L’animatore di economia, invece, controlla il denaro dell’offertorio, organizza la raccolta».
Nella celebrazione della parola «ci sono parti che spettano agli animatori e altre al sacerdote, che noi non tocchiamo. Occorre una formazione per sapere questo. Fino ad arrivare alla comunione ai propri colleghi. Io ho imparato anche questo al corso di Guiúa» conclude Elias.

Vero socialismo

Dopo l’indipendenza il Frelimo sceglie il marxismo-leninismo e avvia una campagna di nazionalizzazione. Missioni e opere (scuole, dispensari) sono tolti ai missionari, molti dei quali devono concentrarsi nelle città, altri lasciano il paese. Il fatto di avere un tessuto laico attivo e strutturato, le Pccm, salva la chiesa mozambicana. Molti missionari che tornano nei territori abbandonati in seguito a un ammorbidimento delle posizioni del governo, sono stupiti di trovare una chiesa vivace e le comunità che si sono moltiplicate. Non si assiste a divisioni di tipo famigliare o clanico, come è tendenza in Africa, ma il modello «democratico» di gestione della Pccm è sopravvissuto e si è sviluppato.
Con le Pccm «nasce veramente la chiesa locale con la coscienza di esserlo. La chiesa mozambicana fino all’Indipendenza era troppo caratterizzata e condizionata dalla cultura europea e coloniale. La gente era passiva, viveva sottomessa al missionario come ad una autorità civile, viveva nella paura dello stato di polizia vigente e soffriva un cronico complesso di inferiorità». Scrive Onorio Matti, e continua: «Nel loro ambito, le Pccm hanno dimostrato una esemplare capacità di autogestione, di corresponsabilità, di condivisione e di comunione, realizzando in piccolo, buona parte del modello di società socialista che non solo è fallita ma, purtroppo, ha prodotto il suo contrario, un basso livello di senso civile, di responsabilità  e partecipazione sociale con l’aggravante di un processo crescente e incontrollabile di corruzione a vari livelli».

Futuro incerto

Il Mozambico di oggi, e quindi anche la sua chiesa, si confronta con l’invasione culturale dei «non valori» occidentali. Quella che, padre Matti, definisce senza mezzi termini: «L’irruzione dell’Occidente attraverso i mass media in una società indifesa. Tutto questo chiede un rinnovamento del metodo e dei contenuti della pastorale e dei relativi testi che bisognerebbe saper riscrivere con la stessa fantasia e intelligenza, entusiasmo e forza, volontà e capacità di allora».
A fianco di un bisogno e domanda di spiritualità, si assiste a una pericolosa tendenza al ritorno al clericalismo, il che rappresenterebbe una involuzione.
Nelle parrocchie torna ad avere un’importanza predominante il parroco, che accentra e dirige: «Figura e autorità centrale da cui tutto e tutti devono dipendere». I laici rischiano di diventare meri esecutori dei suoi ordini e non attivi ministri eletti dalla comunità e che a essa devono rendere conto.
Ancora Onorio Matti propone un «antidoto» a queste derive: «Quello della formazione spirituale rimane un punto carente e da colmare nel cammino delle Pccm. Bisogna coltivare di più la formazione spirituale del catechista, dell’incaricato della parola e del responsabile della comunità. Solo la solidità spirituale nella fede permette di attraversare i tempi difficili». 

Di Marco Bello

MASSACRO IN MISSIONE

La Chiesa ministeriale del Mozambico conta i suoi martiri. Tra gli altri i 24 di Guiúa.  A livello diocesano si era fatta la scelta coraggiosa di riaprire il centro di formazione, dopo oltre quattro anni di chiusura. Era la notte del 22 marzo 1992 e mancavano poco più di sei mesi alla fine della guerra.  Suor Thérèse Balela, francescana missionaria di Maria, congolese, era arrivata a gennaio e faceva parte dell’équipe che avrebbe dovuto organizzare le formazioni.  Testimone diretta di quella tragedia racconta.

«Era la vigilia dell’inaugurazione del centro. I ribelli della Renamo sono arrivati sulla montagna e vi hanno fatto il loro accampamento. Preparavamo la cerimonia di apertura della formazione e pensavamo che fossero militari, giunti per assicurare la sicurezza.  Verso l’una di notte ho sentito un gran frastuono: battevano sulle porte e le finestre delle case dei catechisti. Dopo 20 minuti ecco i primi spari:  avevano ucciso Carlos un catechista, arrivato tra i primi.  Voleva scappare e gli hanno sparato alla schiena. La mia consorella mi ha detto di spegnere le luci. Ma i ribelli dicevano:  “abbiamo visto che siete qui, uccideremo tutte le suore e i padri”.
Ho chiuso tutte le consorelle nella mia camera e mi sono barricata in casa. Io pensavo che in quanto straniera, non mi avrebbero ammazzata.
I ribelli avevano preso tutti i catechisti ed erano scesi alla nostra casa. Erano sempre più furiosi perché non riuscivano a entrare. I padri Andrea Brevi, che era il direttore del centro, e John Njoroge, del Kenya erano a casa loro e dormivano.
Sono scesa in cappella, ho preso il santissimo dal tabeacolo e ho salito le scale: parlavo con il sacramento. I ribelli intanto dicevano: “sei là e ti uccideremo”».

«Facevano delle domande ai catechisti e questi rispondevano: “siamo appena arrivati, non sappiamo nulla”.
Nel frattempo si sono sentiti altri spari. Era l’esercito regolare che si avvicinava.  “Andiamo perché il Frelimo sta arrivando” dissero e partirono con i catechisti e i loro bambini. Sono andati a tre chilometri, nella foresta, dove li hanno massacrati.
Il mattino sono rimasta in casa, tutte le suore erano molto giù di morale e non parlavano. Io volevo andare dai padri. Le suore mi hanno detto che c’era pericolo di mine. Intanto un neonato di cui avevano ucciso la madre era stato gettato sulla nostra strada. Sono andata a recuperarlo e ho visto arrivare i missionari. Il padre ha preso la macchina ed è andato in città ad avvisare il vescovo. Intanto un bambino di 7 anni è arrivato piangendo e mi ha detto “hanno ucciso tutti i nostri genitori. Mi hanno inviato a dirvelo affinché andiate a recuperare i cadaveri”.
Abbiamo soccorso quel bimbo e più tardi, con una scorta militare mandataci dal governatore siamo andati sul posto.
Abbiamo visto tre cerchi: le mamme in un cerchio, i papà in un altro e i bambini in un terzo. Tutti uccisi alla baionetta. Ho trovato quattro piccoli che succhiavano i seni delle loro mamme. Erano gli unici superstiti. Erano feriti ma si salvarono: adesso sono grandi e sono ancora con noi. Hanno ucciso i bambini, e altri li hanno portati con loro per il trasporto di munizioni e viveri. Abbiamo recuperato almeno sette bambini di quelli deportati, quando siamo andati nelle basi per il programma di riconciliazione, alla fine della guerra.
Due famiglie di catechisti si salvarono. Un uomo con moglie e due figli si nascosero nella fossa della latrina, un’altra famiglia trovò riparo nel bagno in casa. Oggi prestano ancora il loro servizio».

a cura di Marco Bello

Sui martiri di Guiúa Mc aveva già pubblicato un servizio nel marzo 2002. Padre Francisco Lerma ha scritto «I martiri di Guiúa», 2001.

Marco Bello




Minoranze etniche: problema eterno

Intervista a mons. Peter Nguyen Van Nhon, vescovo di Dalat

I montagnard (montanari) come li chiamarono i francesi,
o nguoi dan toc (popoli etnici) come li chiama il governo,
o degar (figli delle montagne) come si definiscono
essi stessi, rappresentano una quarantina di gruppi aborigeni, sospinti dai vietnamiti nelle zone
montagnose del paese. In buona parte cristiani e da
sempre gelosi della loro libertà, sono stati oggetto
di persecuzione e continuano a subire abusi dei loro
diritti umani da parte del governo comunista.

Gioiello della regione degli altipiani centro-meridionali, Dalat è forse la più famosa città vacanziera del Vietnam: le acque del lago in cui si rifrangono le colline che la circondano, abitate da etnie di montagnard, ricordano più i paesaggi provenzali che non le giungle tropicali vietnamite. Non è un caso che furono proprio i colonialisti francesi a sviluppare questo centro montano, favorito da un clima unico e terreni fertili, soprannominandolo «La piccola Parigi» e dotandolo di una Torre Eiffel in miniatura.
Qui vive la più alta concentrazione di cattolici di tutto il Vietnam: un abitante su quattro è battezzato. Incontriamo Peter Nguyen Van Nhon, vescovo della diocesi, nella sua residenza in riva al lago Xuan Huong. Consacrato prete a 29 anni, dal 1991 regge la diocesi che lo ha visto nascere e crescere. Dal 2007 è anche presidente della Conferenza episcopale del Vietnam.

Monsignor Peter, vorrei iniziare la conversazione parlando della chiesa incontrata in Vietnam: mi è parsa molto più libera e indipendente da quella dipinta dai mass media in Occidente; confrontata poi con quella in Cina, l’autonomia che si respira qui è davvero sorprendente. È solo una mia impressione?
Non conosco a fondo la chiesa cinese per fare un confronto, ma è vero che oggi la chiesa cattolica vietnamita è piuttosto libera. Devo comunque anche aggiungere che forse lei ha visto solo una parte della realtà cattolica vietnamita, quella che, effettivamente, gode di una certa libertà nella vita religiosa. Nel Vietnam ogni diocesi vive una situazione differente a seconda dei rapporti tra i vescovi e i preti con le amministrazioni locali. Sulla base di queste relazioni, anche individuali, la situazione può cambiare radicalmente.

Mi è sembrato che i rapporti tra chiesa e amministrazioni locali si stratifichino su tre livelli distinti: un dialogo problematico con le amministrazioni del Nord Vietnam, un attrito in via di limatura con le amministrazioni delle province abitate da minoranze etniche, un confronto più aperto e vivace con le amministrazioni del Sud Vietnam.
In effetti è così. Nel Sud i rapporti sono più lineari e meno conflittuali, perché c’è sempre stata una costante presenza della chiesa all’interno della società. Nel Nord i rapporti sono problematici semplicemente perché si stanno evolvendo, dopo decenni di stasi. Nelle province delle minoranze etniche, invece, siamo ancora piuttosto lontani dalla risoluzione dei problemi e il dialogo è ancora problematico.

Ho visitato anche le chiese di Sa Pa e Kontum, dove di fatto la situazione è più critica che altrove, però mi sembra sostanzialmente migliore di quanto mi ero prospettato.
Ha ragione, la situazione di Sa Pa e Kontum forse è la peggiore di tutta la nazione. Lì i fedeli appartengono a minoranze etniche e i rapporti con il governo vietnamita sono sempre stati molto difficili.

Vuole dire che, più che per la convivenza ideologica, le difficoltà incontrate dalla chiesa in Vietnam derivano da una problematica sociale più profonda tra vietnamiti e etnici, che ha coinvolto anche la chiesa senza che questa ne fosse direttamente responsabile.
Sì, la chiesa ha ereditato una situazione già tesa che si è acutizzata in due fasi: una prima fase ideologica, secondo cui la religione è l’oppio dei popoli, e una seconda fase che si concretizzava in un rifiuto delle regole governative da parte delle minoranze etniche, specialmente negli altipiani centrali.

È l’annoso problema dei montagnard, oggi meno acuto di qualche anno fa, ma sempre presente nell’agenda dei diritti umani.
Penso che il cuore del problema stia nella diversità dello stile di vita e dell’ambiente in cui le culture tribali e Kinh (i viet) si sono sviluppate. Vede, nella foresta la società è molto più libera che nelle comunità più organizzate, come quelle in cui vivono i Kinh, i quali, dovendo organizzarsi in spazi più ristretti e delimitati, hanno bisogno di leggi che regolino la convivenza. I tribali, invece, non hanno bisogno di tali regole: la giungla permette loro di vivere in modo autonomo, ma il governo vietnamita, dovendo controllare le popolazioni etniche, ha imposto le proprie leggi. Questo non è accettato dalle minoranze etniche, che rifiutano l’imposizione legislativa e, quindi, il controllo delle autorità centrali.

C’è però il problema delle alleanze storiche tra montagnard e europei, continuato anche dopo la liberazione con il Fulro, movimento indipendentista appoggiato dagli Usa.
Durante la guerra sembrava che i montagnard accettassero l’influenza francese prima, e statunitense poi. In realtà i montagnard sono stati sfruttati dai colonizzatori francesi e dagli americani in funzione anticomunista. Dopo la fine della guerra, nel 1975, gli Stati Uniti rafforzarono il Fulro (Fronte unito di liberazione delle razze oppresse), ma non penso che qualcuno abbia mai veramente pensato che un movimento così piccolo e isolato potesse raggiungere gli obiettivi di indipendenza prefissati. Piuttosto, il Fulro serviva agli Stati Uniti per «disturbare» il Vietnam durante la guerra fredda. Oggi il movimento non esiste più, ma il nome è tuttora utilizzato dal governo vietnamita per identificare qualunque persona o gruppo che compiono atti illegali e criminali.

Tuttavia negli Stati Uniti esiste ancora una Fondazione montagnard guidata da Kok Ksor, che si prefigge, tramite la lotta armata, la creazione di uno stato montagnard.
Kok Ksor non è in grado di costituire una minaccia per il Vietnam. Non ha i mezzi finanziari, né armi e neppure gli uomini per organizzare una resistenza contro il Vietnam. Il suo è un movimento che non si è espanso al di là degli Stati Uniti e oggi, con la nuova collaborazione diplomatica e economica tra Hanoi e Washington, non penso abbia un futuro.

E la chiesa vietnamita, da parte sua, cosa sta facendo nel campo dell’inculturazione?
Lei è stato a Kontum e avrà certamente visto la cattedrale e il campus, costruiti secondo l’architettura montagnard. Penso che quello sia un tipo di inculturazione, ma non esiste solo quello, perché la chiesa si è impegnata in questo campo in tutto il Vietnam. Siamo nel paese da 500 anni e quindi abbiamo acquisito un’ottica vietnamita. Un esempio concreto di come la chiesa cattolica si sia fatta vietnamita, lo si può vedere a Ninh Binh, a un centinaio di chilometri da Hanoi, dove c’è la chiesa di Phat Diem, costruita secondo l’architettura del tempio buddista cinese a pagoda.

Oltre all’estetica e all’architettura, quali passi sono stati compiuti nel campo liturgico per innestarsi nella cultura locale?
Sin dai primi anni della loro missione, i gesuiti hanno tradotto le preghiere secondo i canoni letterari e musicali vietnamiti. Nelle zone tribali i preti cercano sempre di imparare le principali lingue etniche. Le assicuro che non è compito facile, visto che per molte popolazioni non esiste una lingua scritta. Anzi, tra i montagnard è stata proprio la chiesa a codificare la lingua scritta, pubblicando libri di letteratura, leggende, racconti, fiabe e di storia per evitare la morte delle culture più deboli. Inoltre nelle case vietnamite buddiste e taoiste esiste l’usanza di avere un altare. Questa usanza è stata mantenuta anche dalle famiglie cattoliche, nelle cui case si trova sempre un altare con la croce e la Sacra Famiglia. La stessa pietà filiale presente nella vita famigliare tradizionale vietnamita, viene tradotta nelle famiglie cattoliche in rispetto verso i propri genitori, che si traduce in un rafforzamento dei vincoli di parentela e di fedeltà coniugale.

Il Vietnam è stato diviso per due decenni. In che modo questa separazione ha influito sull’evoluzione della chiesa cattolica vietnamita?
Non c’è alcuna differenza nella fede, anche se dal 1945 al 1975 la vita dei cattolici nel Nord è stata durissima a causa della guerra. Viceversa, la chiesa del sud ha avuto un decorso storico meno critico e forse per questo è riuscita ad accettare con più facilità la spiritualità del Concilio Vaticano II. Devo però aggiungere che, sebbene il Vietnam fosse diviso in due parti tra il 1945 e il 1975, in realtà la chiesa era una. La diversità a cui lei accennava prima, non era una diversità nella fede, ma si rispecchiava unicamente nelle relazioni diplomatiche.

Dopo la liberazione e unificazione, i rapporti tra chiesa e governo hanno avuto due fasi: nella prima, tra il 1975 e il 1990, tali rapporti erano tesi, nella seconda si sono registrati segnali di apertura: come pensa evolverà il dialogo con Hanoi?
Nessuno può conoscere cosa ci riserverà il futuro, specialmente in un paese socialista. Nel 1986 è stata introdotta la doi moi (innovazione) ma da allora, e sono passati più di due decenni, molte cose sono rimaste immobili. In quanto cattolici dobbiamo continuare a dialogare con il governo socialista nello spirito del vangelo secondo il Concilio Vaticano II.

Quando non è possibile dialogare?
Talvolta abbiamo l’impressione che il dialogo stagni, è come se fosse una conversazione tra sordi; ma anche allora dobbiamo perseverare. Abbiamo imparato che nella storia ci sono tempi adatti al dialogo e tempi in cui invece il dialogo stenta a decollare.

Questo periodo come lo classificherebbe?
Oggi le opinioni della chiesa sono ascoltate dal governo.

Quindi potrebbe essere un periodo propizio per sviluppare rapporti diplomatici tra Vietnam e Santa Sede: come sono le relazioni tra il governo e la Conferenza episcopale vietnamita?
Possiamo dire che il governo è convinto che, se il Vaticano è il «capo» della chiesa cattolica, la Conferenza episcopale vietnamita non è altro che un organismo nato per realizzare i progetti del Vaticano in Vietnam. Secondo il governo la Conferenza episcopale vietnamita agisce come diretta emanazione del Vaticano.

Beh, la Conferenza episcopale vietnamita non potrebbe andare contro il Vaticano; ne nascerebbe un caso internazionale. Se non sbaglio la chiesa patriottica cinese è in rotta con la Santa Sede perché sottomettendosi alle direttive dello stato, si rende indipendente da essa.
Le faccio un esempio: quando ci sono state le manifestazioni ad Hanoi per sollecitare il rimpossesso dei terreni ecclesiastici confiscati dal governo vietnamita negli anni Cinquanta-Sessanta, i fedeli cattolici si sono riuniti per pregare pubblicamente con delle candele in mano. Immediatamente il governo ha voluto sapere se questa manifestazione fosse stata ordinata direttamente dal Vaticano o se fosse, invece, un’idea della chiesa locale. Quando si è dimostrato che il Vaticano non aveva in alcun modo organizzato il raduno, l’amministrazione vietnamita si è tranquillizzata e ha lasciato che i fedeli continuassero le loro dimostrazioni.

Parliamo della diocesi di cui è a capo: Dalat. Questa è una città completamente differente dalle altre in Vietnam: un centro montano costruito apposta dai colonizzatori francesi per le loro vacanze che è riuscito a mantenere un’atmosfera rilassante. Come si è svolto l’inserimento di Dalat nel mondo socialista dopo la liberazione? Faccio difficoltà a immaginarmi un regime duro e autoritario come lo è stato in altre parti del paese.
Dopo il 1975, per un decennio la situazione politica è stata dura e difficile. In questi anni la diocesi ha perso chiese, l’università cattolica è stata requisita, così come il Pontificio collegio Pio X e tutte le scuole primarie e secondarie gestite dalla chiesa cattolica. Ma è anche vero ciò che afferma lei, che a Dalat l’avvento del nuovo governo non ha imposto drastici cambiamenti come in altre regioni. Questo perché, nella regione il 25% della popolazione è cattolica, inducendo le autorità ad assumere un atteggiamento più aperto verso la chiesa.
Infine non dimentichiamo l’aspetto climatico, che influisce sul carattere della popolazione. Il clima di Dalat è considerato uno tra i più belli dell’intero paese. Per questo la città è sempre stata sede di università e di scuole. L’atteggiamento della popolazione si riflette in questo clima gentile e il fatto che vi sia un’alta concentrazione di istituti scolastici permette di avere un’elevata scolarizzazione. Forse anche per questo il governo di Dalat si è sempre mostrato tollerante sia verso la chiesa sia verso le minoranze. 

Di Piergiorgio Pescali

Piergiorgio Pescali




Nel fascino della croce

Spiritualità di Guglielmo Massaia, nel bicentenario della nascita

L’8 giugno 1809 nasceva Guglielmo Massaia, il grande apostolo dei Galla.
Di lui conosciamo e  ammiriamo le eroiche avventure, la creatività e la genialità con cui ha saputo unire evangelizzazione, promozione umana e attività scientifica. Poco o nulla sappiamo, invece, della sua spiritualità, saldamente fondata sull’amore a Cristo Crocifisso.

Nel presentare l’epopea del Massaia si è indugiato molto sull’aspetto umano e umanitario, sull’attività scientifica ed evangelizzatrice del protagonista, senza tenere nel debito conto la forza ispiratrice, propulsiva, direi dirompente della sua attività. Nell’intrepido missionario cappuccino si è visto l’uomo intraprendente e geniale nel crearsi quasi dal nulla metodi, lingue, strumenti indispensabili di lavoro, nell’aprirsi vie fino allora sconosciute e lottare in condizioni di solitudine quasi disperata, contro le forze avverse della natura e degli uomini ottusi e ingrati.
Mentre si è sottovalutata, o addirittura ignorata, l’alta spiritualità del prelato che, trasformando la sua croce pettorale da oggetto-simbolo in realtà, l’aveva piantata nel suo cuore di apostolo, da fargli scrivere: «Ho dato la vita alle missioni fino alla morte, e per me è lo stesso lasciarla qui o là… Purché, prima di morire, mi venga fatto di piantare la croce e circondarla del fuoco evangelico».
C’è una certa affinità tra Guglielmo Massaia e Paolo di Tarso, sia per temperamento e vicissitudini subite, che per una robusta spiritualità della croce. Infatti nei molti suoi scritti il Massaia fa proprie le idee madri della teologia paolina sulla «superscienza» e «superpotenza» della croce, vivendo le perentorie affermazioni di Paolo: «Quanto a me non ci sia altro vanto che nella croce del Signore nostro Gesù Cristo, per mezzo della quale il mondo per me è stato crocifisso, come io per il mondo» (Gal 6,14).
«campo di meditazione»
Il 24 giugno 1879, finivano i suoi 33 anni di evangelizzazione, per ordine dell’imperatore Johannes iv, che lo avvierà sulla via dell’esilio; con il cuore lacerato il Massaia scriveva nelle Memorie: «Ho celebrato la mia ultima messa nella cappella di Fekerièghemb avanti il gran crocifisso, campo delle mie meditazioni, il quale ebbe sempre tanta virtù da cambiare le mie più dure prove di spirito in un mare di consolazione. Buon Gesù, esclamai, sarà dunque vero che io non vedrò più questo Calvario che tante volte avete cambiato in Tabor!».
Quel «campo» non lo limitava alle sue personali «meditazioni», ma lo allargava pure ai suoi intimi che condividevano la sua spiritualità, concludendo le sue lettere con le seguenti espressioni, ripetutissime: «Vi abbraccio nel santo Crocifisso», «abbracciandovi strettamente nel santo Crocifisso, nostra unica consolazione e conforto», «vi lascio ai piedi del Crocifisso, nostro divino padrone e maestro» e altre frasi simili.
Negli Statuti per i monaci del vicariato Galla (1854) il Massaia prescrive: «Dalla consacrazione sino al fine del Pater noster, coloro che assistono alla messa, inginocchiati e con le braccia distese, s’immagineranno di trovarsi sopra il Calvario ai piedi della croce con Maria ss. e offriranno a Dio l’incruento sacrifizio per la conversione dei peccatori e degli infedeli redenti col sangue di Gesù Cristo».
Passando dagli atti di culto alla vita di ogni giorno, gli Statuti indicano la passione di Cristo come un superlativo stimolo alla pratica delle virtù più eroiche; perciò esortano il monaco ingiuriato di «ricordarsi che lo stesso accadde a Gesù nostro Signore avanti a Caifa e Anna, e seguire quindi gelosamente il suo esempio, osservando il più scrupoloso silenzio».
La pedagogia della croce dava i suoi frutti, come testimonia l’esempio di uno di quei monaci, abba Jacob: questi, a differenza di padre Cesare da Castelfranco, seppe resistere alle lusinghe del re del Kaffa, che gli proponeva di cambiare religione e sposare una delle sue figlie. «Mia sposa è la croce; prima dovete pensare ad affiggermi su di essa, come il mio Signore» rispose il monaco.
L’apostasia del padre Cesare fu un grave colpo per il Massaia: «Poco mancò che non mi costasse la vita: furono per me tre anni di lacrime e di venerdì santo, prima di arrivare a celebrare una pasqua consolante». Prima di mandargli le ammonizioni canoniche, in vescovo depose la lettera «sotto il corporale, sotto i piedi del buon Gesù» durante la celebrazione del sacrificio del Calvario. In un’altra lettera all’ex-missionario gli confessa di aver offerto la vita per vedere la sua conversione: «Vi assicuro che sarò consolato di morire quel giorno che avrò tale consolazione». E la conversione sincera di padre Cesare fu davvero per il Massaia una pasqua di risurrezione, preceduta dal penosissimo Calvario.
«In questo segno vincerai»
A tale aspetto essenziale della spiritualità del Massaia non era certo rimasto estraneo il culto che gli etiopi nutrono per la croce: le donne cristiane abissine recano il tatuaggio della croce in fronte e i sacerdoti sul dorso delle mani, mentre in ogni casa cristiana domina il simbolo della redenzione.
L’Etiopia è detta terra di Maria e della croce. Ad essa è dedicata la festa nazionale del «Maskal», dell’esaltazione della croce, il 27 settembre, celebrazione in cui si mescolano motivi religiosi, civili, culturali e folcloristici, per ricordare il ritrovamento della croce da parte dell’imperatrice Elena, madre di Costantino, che aveva ricevuto l’assicurazione: «In questo segno vincerai».
Anche per il Massaia la croce fu un segno di vittoria in vari casi inspiegabili. Un giorno, di fronte a una ricca maga nel Kaffa, pronunciò il breve esorcismo del «Christus vincit…», toccando segretamente la sua croce pettorale nascosta sotto le vesti, e quella fuggì a rompicollo.
Un’altra volta, contro gli abitanti di Celia che si erano rifiutati di concedere la pace a quelli di Lagamara, il vescovo fece piantare tante croci sui confini che i nemici furono sconfitti dallo spavento.
Ma la sua più rilevante vittoria resta il fatto che con la croce egli sia riuscito a conquistare spiritualmente tante anime ostili e a realizzare il paradosso a lui tanto caro e ripetuto spesso nei suoi scritti: ogni vittoria divina è la conseguenza logica di una sconfitta umana.
Nell’ultima fase della sua missione, quando i fedeli cattolici si dichiarano disposti a difenderlo dalle probabili violenze dell’imperatore Johannes iv, il vescovo missionario taglia corto con questo discorso: «Figli miei, vi ringrazio di tutte le vostre simpatie e attaccamento alla missione cattolica, ma dobbiamo intenderci bene, affinché non accada poi di pentirci a vicenda: io non sono venuto qui per fare la guerra e guadagnarmi un regno, ma unicamente per insegnare il vangelo di Cristo… Io non ho bisogno di soldati, ma di figli… Se Cristo è morto, non è morto perché vinto; ma all’opposto, quando noi saremo vinti dai nostri nemici, allora noi saremo vincitori di essi, ed essi entreranno nelle nostre file».
Fuoco, sangue, martirio
Il Massaia non si stanca di ribadire concetti che hanno stretta attinenza con la croce e devono necessariamente essere posti alla base di una evangelizzazione efficace: fuoco, sangue, martirio. Sembra addirittura essee ossessionato.
Scrivendo nel novembre 1847 al procuratore generale, padre Felice Fenech da Lipari, dichiara esplicitamente di essere «non solo missionario, ma di uno spirito tutto fuoco per le missioni»; e aggiunge che tale spirito è un’urgenza per tutta la chiesa. Personalmente non può «riposare tranquillo, fin tanto che i quattro quinti del genere umano corrono la via di perdizione e in un terzo del globo non scorre il Sangue adorabile di Cristo».
Ed è proprio l’urgenza della missione «che mi ha convinto ad abbandonare l’amata provincia monastica per dedicarmi alle missioni, e sono pure i sentimenti di cui vorrei fosse inondato tutto il mondo cattolico; per cui, fino a tanto che avrò fiato e voce, non lascerò di parlare persuaso anche di compiere una parte della missione che per tremendo decreto di Dio sta sulle mie spalle. Quando solamente mi riuscisse di accrescere il capitale del fuoco apostolico di una sola scintilla, io sarei molto fortunato».
In una lettera scritta al Comboni, nel 1865, pur incoraggiandolo ad attuare il suo Piano di rigenerazione dell’Africa, non manca di prospettare difficoltà, persecuzioni e perfino la morte, concludendo: «Il martirio nell’Africa non è martirio di sangue, ma piuttosto martirio di cuore e di tribolazione; e quindi per gli apostoli di energico volere e di paziente fatica, l’evangelizzazione dell’Africa non è a dirsi per nulla difficile; anzi molto semplice toerà a coloro che vi lavoreranno con semplicità.
Carissimo, dopo 18 anni di apostolato tra gli africani, parlo con cognizione di causa: l’Africa è difficile per chi, educato nella nostra patria al fasto e alle delizie, non sa vestire la semplicità e povertà degli etiopi, per renderli doviziosi. Questa è quasi l’unica difficoltà; che però non è tale per i discepoli di Cristo».
Scrivendo il 20 gennaio 1883 al confratello Luigi Gonzaga Lasserre da Morestel, appena consacrato vescovo, il Massaia rivela con tono confidenziale: «Essere consacrato vescovo vuol dire essere sposato alla chiesa di Cristo, per la quale dovete essere disposto a dare il vostro sangue, se occorrerà. Ecco il mio consiglio netto, consiglio che io ho sempre praticato e lo pratico ancora: ogni giorno, celebrando la santa messa o nelle vostre preghiere, rinnovate sempre l’atto di sacrificio della vostra vita in unione con quello fatto da nostro Signore sul Calvario, e che rinnova in modo incruento ogni giorno misticamente nella santa messa, quando dite in nome suo: Hoc est corpus… hic est calix… Se potete, abbiate un desiderio di morire per lui; se poi siete debole, dite un fiat voluntas tua. Con questo esercizio guadagnerete tutta la gloria di martire ogni giorno, anche vivendo cento anni… Vi lascio ai piedi del crocifisso nostro Signore».
«Vescovi delle missioni
vittime e non sposi»
Il Massaia aveva sperimentato in sé la ripugnanza ad accettare il peso dell’episcopato e vi si era piegato solo quando il suo vicario generale, padre Andrea da Arezzo, lo aveva persuaso «che l’episcopato di un missionario è più peso che onore… un vincolo di più al martirio dell’apostolato». Lo stesso ragionamento faceva a quanti si opponevano a essere da lui consacrati vescovi, come nel caso di Giustino de Jacobis. Questi, prefetto della missione dell’Abissinia, rifiutava ostinatamente di essere consacrato vescovo. Dopo averle provate tutte per controbattere le sue obiezioni, il Massaia riuscì a convincerlo quando, con «una forte parlata di risentimento», sentenziò che «i vescovi delle missioni sono vittime e non sposi… Tanto bastò – racconta il Massaia – e contro ogni mia aspettazione si gettò per terra, mi domandò perdono, e finì per dirmi di fare di lui ciò che Iddio mi avrebbe ispirato».
La funzione, svolta con estrema semplicità sul lido di Massaua la notte del 7 gennaio 1849, rimase indelebile nella mente del consacrante: «De Jacobis accettò, direi quasi, con un certo trasporto di piacere, quando l’episcopato si presentò a lui nudo totalmente e spogliato persino della sua maestosa cerimonia, e si presentò nel suo vero senso di sommo sacerdozio coronato di spine con Cristo nel Pretorio e crocifisso con lui sul Calvario».
Con gli stessi argomenti Massaia riuscì a piegare padre Felicissimo Cecino da Cortemilia, suo ex-alunno e poi collaboratore, riluttante all’episcopato, diceva, per scarsità di scienza. «Caro mio – troncò netto il vicario apostolico dei Galla – non è tanto la sapienza quella che ci manca, ma l’umiltà e lo spirito di sacrifizio; né io, nel consacrarvi vescovo, penso coronarvi di rose, ma di spine e crocifiggervi con nostro Signore. Dunque lasciate ogni questione e lasciatevi guidare da me».
«Mi glorio
della croce di Cristo»
Il Massaia ricevette molte onorificenze (tutte custodite nel Museo etiopico «G. Massaia» di Frascati), ma la vanità non riuscì mai a sfiorarlo, come testimoniano i suoi scritti. Nel 1876, alla corte di Menelik, ricevette la croce di commendatore dell’Ordine mauriziano, conferitagli dal re Vittorio Emanuele II; dopo aver sottolineato che tale onorificenza non gli era dovuta e non l’aveva mai sollecitata, concludeva: «La croce a cui io avevo qualche diritto, era quella del Calvario pura e netta, della quale non sono stato degno».
Nel 1879 re Umberto I gli conferì la croce di grand’ufficiale dello stesso Ordine; ma l’anno seguente, quando gli fu recata a Frascati, la ricusò garbatamente. Pochi giorni dopo ne rivela la ragione scrivendo a un confratello: «Il mondo cammina a gran passi verso il paganesimo, perciò ha creduto di vedere in me un gran viaggiatore più che un missionario di Cristo… ha creduto con ciò di essermi riconoscente; e io come uomo civile debbo essere loro grato… ma nel tempo stesso resta in me vivissimo il dovere di far loro conoscere la massima evangelica, perché, educato alla scuola del nostro Signore Gesù Cristo e del nostro serafico padre san Francesco, non soglio riempirmi la pancia di vento, ma di buon pane macinato e cotto ai piedi della croce».
Anche la croce pettorale gli ricorda lo stretto legame con il mistero del Calvario e della sofferenza universale, come scrive nel 1867 all’amico esploratore Antonio Thompson d’Abbadie, per ringraziarlo della croce pettorale e relativa catena d’oro che gli aveva donato: «Senza aver l’aria di voler diminuire la riconoscenza dovuta a sì caro amico per il regalo suddetto, mi permetta di farle osservare, che alla mia persona non era dovuta una croce d’oro, ma di ferro e di spine, perché il missionario deve seguitare Cristo sulla via del Calvario… Comunque, con l’oro si può comprare del grano per i nostri poveri, che non sono pochi, e sotto questo riflesso mi è doppiamente cara, perché cangiato in pane, l’oro diventa pietra preziosa e vero diamante; sia dunque benedetto lei e la di Lei consorte; come pensano a me, Dio pensi a voi…».
«Obbediente
fino alla morte di croce»
Temperamento forte e per nulla arrendevole, immerso nella solitudine più totale, derivante dall’isolamento geografico e, soprattutto, da incomprensioni e accuse da parte dei superiori di Roma, il Massaia arrivò a dare le dimissioni. Eppure, da quel Dio umiliato e immolato, abbandonato pure dal Padre, egli seppe trovare le espressioni più confacenti per dialogare con i superiori (sia pure con difficoltà ma con dovuto rispetto) e la forza di arrendersi ai loro comandi.
In una lettera inviata a Pio ix, significativamente datata «In festa Exaltationis S. Crucis 1860» (14 settembre), egli confessa di essere spesso tentato di tornarsene in convento, «persino di fae qualcheduna grossa» per essere «messo a riposo». E continua: «Qualche volta ai piedi del Crocifisso, sfogando le mie malinconie, dicevo fra me stesso: che tutto il mondo mi dimentichi e anche mi calpesti è poco, perché l’uomo evangelico deve urtare la corrente del mondo… Ma che Roma, la sposa vivente del Crocifisso, la nostra madre comune per cui tanto ci affatichiamo, ella ci dimentichi, ella ci disprezzi… Questo silenzio assoluto, questo vedersi gettato come un aese inutile in un angolo della casa senza nessun segno di pensiero per noi… Ravvolgendo fra me ai piedi dell’altare queste malinconie, non una volta, ma parecchie volte mi vennero delle idee, che a prima vista mi parevano tentazioni… Per il passato non è mai stato mio costume di criticare i superiori… presentemente però la cosa mi pare accompagnata da segni tali, che il nascondere a vostra santità, avrei paura di violare i sacri doveri di figlio che mi legano a lei… Non è lo spirito di partito che mi fa parlare, ma il puro amore della Santa causa, e mentre scrivo tengo il Crocifisso nelle mani raccomandando a lui ogni parola che scrivo».
Inutilmente il Massaia aveva chiesto che tale lettera venisse distrutta. Anzi, cinque anni dopo, quando il grande missionario ripresentò le dimissioni, il prefetto di Propaganda fide, card. Alessandro Baabò, fece riferimento a quella lettera per piegare la volontà granitica del Massaia, invitandolo a riconsiderare, «ai piedi del Crocifisso», la decisione presa.
«Ho cercato di tranquillarmi e spogliarmi dell’amor proprio – rispose il Massaia -, per quanto mi è stato possibile, ed esaminare la cosa avanti al Crocifisso, come ella mi diceva… Ella mi conosce che io non sono tanto facile a convertirmi e a pervertirmi di nuovo…. Ma tenga per base una massima ogni qual volta dovrà fare qualche calcolo sopra di me: un comando dei superiori per me è più forte di un cannone, mi farà star quieto, mi ammazzerà, e mi getterà nel fango e nella polvere; la ragione è, perché, quanto bramo di dire liberamente la verità anche ai superiori, altrettanto poi mi è cara la convinzione e disposizione di morire mille volte per la fede e per l’ubbidienza alla chiesa e di ciò ella ne ha avuto prove sufficienti per il passato, senza che mi trattenga nel portare prove».
Così l’apostolo dei Galla rimase appeso alla croce della sua missione per altri 15 anni, cioè fino alle dimissioni definitive presentate a Leone xii il 23 maggio 1880, in seguito all’espulsione dall’Etiopia: e ciò «per l’amore e per il sangue di nostro Signore Gesù Cristo, l’unico che mi tiene in questi paesi, non per altro che per sgravare l’obbligo di apostolicità che gravita sopra tutta la chiesa».
Calvario e Santo Sepolcro
Il Massaia avvertì il richiamo della Città Santa e vi compì quattro pellegrinaggi, polarizzando sempre più la sua attenzione sul Calvario e il Santo Sepolcro. Dal primo viaggio (aprile 1851) riportò, come souvenir, lo storico bastone con l’impugnatura di radica d’olivo del Getsemani, che lo accompagnò in tutti gli spostamenti africani, per ricordargli a ogni passo una stazione di via crucis.
Nel secondo pellegrinaggio (marzo 1864) promise sopra il Santo Sepolcro di non lamentarsi più dei suoi «gravi disgusti… perché come missionario deve fare due parti: una di maestro, che è la minima, e l’altra di vittima pacificatrice in continuazione del sacrificio del Calvario».
Per il terzo viaggio (maggio 1866), fu invitato come concelebrante alla consacrazione dell’ausiliare di Gerusalemme; la vigilia della partenza da Gerusalemme, passò «tutta la notte» nella basilica del Santo Sepolcro, dividendo il tempo tra il Calvario e il Sepolcro stesso.
Sulla via dell’esilio, si fermò nella Città Santa per oltre un mese per stare «accanto al sepolcro di nostro Signore con la Maddalena – racconta – per vedere se mi riesce di vedere una volta il volto del mio caro Padrone». E sembra che gli si sia proprio disvelato il martedì santo, 23 marzo 1880, come scrisse due giorni dopo in una lettera: «L’altro giorno ho celebrato la santa messa sul Calvario… dopo ho voluto sentire una messa di ringraziamento; ma, arrivata all’Agnus Dei, caddi svenuto e passai qualche minuto immobile e come morto. Poi, sollevato dai circostanti, mi rinvenni e conobbi per mia disgrazia d’essere condannato a vivere ancora qualche tempo. Oh, quanto sarebbe stato bello per me morire sul Calvario, dopo aver portato la croce per ben 35 anni di miserabile missione! Ma fui indegno di tanto onore e la mia gran messa, incominciata con Cristo e per Cristo nella mia consacrazione vescovile, non è ancora arrivata all’Ite missa est».
La causa di quell’incidente va ben al di là del deliquio dovuto all’estrema debolezza fisica, ma lascia intravedere una dimensione mistica, come il Massaia scrive nelle Memorie: «Quel fatto lasciò in me un non so quale incantesimo, che ancora oggi mentre scrivo, più di sei anni dopo, il solo presentarsi alla mia mente il caso di allora mi causa una crisi tale che non posso spiegare, senza ricorrere al fascino del luogo santo. Bisogna confessare, che in una persona che abbia fede, il pensiero del Calvario produce sempre un effetto che non posso spiegare e che serve molto a ravvivare il mio spirito nella meditazione». 

Di Antonino Rosso

CRONOLOGIA

1809    8 giugno: nasce a Piovà d’Asti (ora Piovà Massaia); è battezzato lo stesso giorno con i nomi: Lorenzo Antonio.
1824-1826: frequenta il seminario di Asti.
1826    6 settembre: a Torino veste il saio cappuccino, assumendo il nome: Guglielmo.
1832    16 giugno: ordinazione sacerdotale a Vercelli.
1834    cappellano all’Ospedale Mauriziano di Torino.
1836    insegna filosofia e teologia a Moncalieri-Testona.
1846    nominato vicario apostolico dei Galla (12 maggio), consacrato vescovo (24 maggio), salpa da Civitavecchia (4 giugno) e sbarca a Massaua (28 ottobre), dove incontra, il 26 novembre, Giustino De Jacobis, prefetto dell’Abissinia.
1847    25 novembre: esiliato da Ubiè, capo del Tigrè.
1849    7 gennaio: a Massaua consacra vescovo Giustino De Jacobis.
1850    aprile: parte da Massaua per Aden, Suez, Marsiglia; raggiunge Roma e torna a Marsiglia.
1851    da Marsiglia passa in Terra Santa, raggiunge l’Egitto e risale il Nilo, travestito da viaggiatore, con il nome di Giorgio Bartorelli.
1852    21 novembre: legato a un otre traghetta il Nilo Azzurro, entra nel Galla, si stabilisce in Asandabo.
1854    aprile: fonda la missione dell’Ennerea.
1855    maggio: fonda la missione del Kaffa.
1859    3 maggio: a Ennerea consacra vescovo coadiutore Felicissimo Cecino.
1861    agosto: esiliato dal Kaffa, ripara nell’Ennerea, poi si stabilisce a Lagamara, quindi nel Gudrù.
1863    maggio: inizia il viaggio per l’Europa. 
1864    torna in Europa dove rimane fino al 1867, incontrando varie personalità religiose e politiche in Italia e in Francia.
1868    marzo: su invito del re Menelik II raggiunge Liccè, capitale dello Scioa, dove fonda le missioni di Fekerièghemb e Finfinnì, la futura Addis-Abeba.
1875    14 febbraio: a Escia consacra vescovo Taurino Cahagne, suo successore.
1879    nominato Grand’Ufficiale dell’Ordine Mauriziano e accreditato dal governo italiano plenipotenziario del trattato italo-scioano.
    3 ottobre: è esiliato dall’imperatore Johannes IV.
1880    a tappe forzate giunge al Cairo disfatto; sosta alcuni mesi in Medio Oriente, giunge a Roma, è ricevuto in udienza da Leone XIII (7 settembre) e inizia la stesura delle sue memorie, lavorando anche 15 ore al giorno.
1884    febbraio: termina di scrivere le sue memorie.
    10 novembre: Leone XIII lo crea cardinale.
1889    6 agosto: muore a S. Giorgio a Cremano (NA)

LA VERA FELICITA’

I n un momento particolarmente critico della sua missione nel Kaffa, l’11 ottobre 1860, il Massaia scriveva all’ex-alunno e confidente, padre Pier Maurizio da Cossato, la seguente lettera, in cui rivela il segreto della felicità sicura e stabile: il totale abbandono nel Padre, espresso dal mistero della croce e vissuto dal Figlio di Dio.
«Ho ricevuto la vostra carissima e grata lettera: fra i 30 e più studenti che ho allevato, voi siete il solo che mi scrivete; tutti gli altri si sono dimenticati di me… Poiché vi ho sempre amato, e vi amo tuttora, io non cambio linguaggio con voi e tanto più ora che mi vedo invecchiato, distrutto dalle fatiche e vicino a lasciare questo mondo.
Voi dite che questo mondo è crudele, ma sapete voi che cosa è il mondo? Il mondo è il cuor vostro, figlio mio; e appunto diventa crudele, perché non avrà forse ancora saputo riposare bene in Dio… Persuadetevi, figlio mio, che trovando la vera bussola della carità divina, potrete trovare anche tutta la tranquillità in questo mondo. Io vedo che questi selvaggi, e io stesso divenuto mezzo selvaggio, dormiamo sulla nuda terra saporitamente, mentre i delicati d’Europa non possono riposare sopra un monte di piume, di cotone e lana; non è il letto, ma sibbene la diversa disposizione del dormiente che si fabbrica dei bisogni a capriccio.

C osì è il caso nostro; parlando di me stesso, quando ero in convento, io trovavo o tutto buono o tutto cattivo, secondo come stava il mio cuore; presentemente frammezzo a questi selvaggi… in mezzo ai pidocchi, pulci, cimici e altri insetti infiniti che non si conoscono in Europa, e che tormentano la povera umanità, pure basta un momento di fervore che tutto scompare, tutto pare dolce e soave; un tantino che Iddio ritiri la mano, subito compare un vero inferno; cosa volete di più? Persuadetevi di questo, attaccatevi al vero elemento di felicità e sarete felice… Iddio, che mette l’equilibrio ai cardini cosmologici, è quello l’unico che deve ricomporre l’equilibrio del cuore e non altro… Umiltà, figlio mio, e tutto verrà dietro con la benedizione di Dio; io credevo di farmi dotto studiando, ma ho veduto che si guadagna di più meditando, e non cose sublimi, no, il Crocifisso.
Del resto, figlio mio, io sono sempre quello, perché Iddio è sempre lo stesso e la sua parola creatrice e ricreatrice dei cuori non si cambia. Sto occupandomi qui, aspettando che il Padrone mi chiami alla gran cena; il lavoro che faccio, se piaccia o non piaccia a Dio, non lo so e non mi curo di saperlo, purché sciens et volens non faccia ciò che dispiace a lui, anzi, mi sforzi di fare la sua volontà per quanto so e posso.
Dalla mia entrata in questi boschi abbiamo qualche anima che conosce Iddio, un bel numero mi ha preceduto nel riposo eterno di quelli che prima non ci pensavano, una certa quantità di cristiani vi sono che incominciano a temere Iddio; un raggio di luce evangelica è stato gettato in questi luoghi di tenebre; Iddio farà il resto, e noi non sappiamo nulla di più. Vi abbraccio nel santo Crocifisso, e lasciandovi ai piedi di nostra Madre Maria santissima godo rinnovarmi,
aff.mo fra’ G. Massaia, vescovo

Antonino Rosso




Cari missionari

Ricordando
padre Bertaina

Carissimi missionari,
voglio esprimervi il mio cordoglio per la scomparsa del vostro confratello padre Giuseppe Bertaina, barbaramente trucidato a Nairobi lo scorso gennaio. Sono sicuro che il Signore lo ricompenserà per tutto il bene che ha fatto nei 30 anni trascorsi in Kenya; nello stesso tempo sono sbigottito al pensiero che in questo paese esistano persone che, anziché provare dei sentimenti di riconoscenza verso chi li ha tanto beneficiati, non trovino di meglio che organizzare simili nefandezze.
Quindi se da una parte spero che il nostro Signore Gesù Cristo tocchi il cuore di questi assassini e li porti sulla strada del ravvedimento, della conversione e della riparazione, per quanto è possibile del male fatto, dall’altra spero che le autorità kenyane vadano fino in fondo nelle indagini e dopo aver fatto piena luce sull’accaduto, infliggano ai colpevoli la giusta punizione. Cordialmente.
Francesco Rondina
Fano (PU)

Uno stato d’animo…
e conversione

Spettabile Direzione,
ho avuto modo di leggere, come faccio spesso, alcuni articoli del numero di aprile e mi sono convinto a scrivere questo messaggio. La ragione: cercare di mantenere un equilibrio nel mio modo di intendere la religione e le missioni.
Come si fa a essere missionario cattolico, critico verso i colonizzatori e poi avallare, per il Mozambico, praticamente quello che hanno fatto gli inglesi colonizzando l’Australia con deportati e prostitute, ovviamente contro la loro volontà (ma i casi della storia anche recente sono purtroppo numerosi), riconoscendo poi che è stato un errore perché, tra l’altro, si è «deportato» propri concittadini senza di che coprirsi o ripararsi e nutrirsi almeno nei primi tempi? Vedi «Pace sì, ma a modo nostro» (M.C. 4/2009, p. 22).
Perché sbilanciarsi tanto nel sottolineare l’ incontro di Belém, opponendolo a quello di Davos (sicuramente non frequentato da aspiranti santi), sottolineando la presenza di 4 capi di stato di cui 3 «populisti», che a quanto sembra non sono poi così diversi da altri capi di stato che operano anche pro domo loro e dei loro partiti. Non è il caso di comprendere le ragioni delle due organizzazioni o del potere che hanno preso i vari personaggi e di chiarire i pregi e i difetti delle loro decisioni, di non buttare nell’ immondizia tutto (vedi articolo «Pace sì»), quanto fatto da Ong, Bm ecc… non siamo tutti degni di conversione?
E poi la politica per un cattolico è il mezzo per cambiare il mondo o il mezzo è prioritariamente la testimonianza e l’azione positiva verso chi ne ha bisogno, sia povero che ricco.
Spero di aver ben rappresentato con poche parole il mio stato d’animo. Grazie per l’attenzione.
Pierangelo Giubasso
Via e-mail

Capiamo il suo stato d’animo, ma non ne afferriamo le ragioni. Nell’articolo citato, padre Couto dice semplicemente che il suo paese, il Mozambico, avrà stabilità e pace solo quando camminerà con le proprie gambe. Sul Forum sociale di Belém (ignorato dai media nostrani) non c’è alcun sbilanciamento: siamo anche noi convinti che «un mondo nuovo» (diverso da quello sostenuto a Davos) «è possibile e necessario». E per realizzarlo (siamo d’accordo con lei, signor Pierangelo), abbiamo tutti bisogno di conversione.

Buonismo
o cattivismo

Spettabile Redazione,
l’articolo di Ugo Pozzoli sul numero di marzo 2009 della vostra rivista M.C. è un preoccupante e chiaro messaggio della malafede buonista e della resa antipatriottica alle sciagure di una immigrazione voluta senza le necessarie regole. Se il termine cattivismo usato da Maroni può ritenersi infelice, non per questo deve essere pretesto per argomentazioni inaccettabili. Le opere di misericordia sono dei principi a cui tendere, ma chi governa deve essere efficiente e adeguato. Le lagne sempre a favore degli stranieri sono vomitevoli e non se ne può più.
Tra le affermazioni dell’articolo si enfatizzano le «risorse» che però pesano notevolmente sui bilanci di assistenza pubblici e volontaristico. Si afferma con palese malafede che la criminalità degli stranieri è pari a quella degli italiani, menzogna! Gli stranieri se sono il 10% della popolazione e producono il 40% della criminalità vuol dire che delinquono 6 volte più degli italiani che sono il 90% della popolazione.
Affermare che leggi diverse ecc. ecc. e rassegnarsi a un fenomeno «che nessuno può arrestare», come voi scrivete, è una vigliaccheria, per fortuna rara, che non ispira chi da italiano si batte per far funzionare al meglio per «tutti» (stranieri compresi) la nostra società.
Sono un vostro lettore da 50 anni, ma ultimamente non mi trovo d’accordo con i vostri orientamenti sociopolitici. Buon lavoro e cordiali saluti. Conto nella pubblicazione.
Giulio geom. Zinni
Bergamo

Prima di tutto ci congratuliamo, signor Zinni, per essere da 50 anni fedele lettore di Missioni Consolata. E speriamo che continui, nonostante la nostra «malafede bonista e antipatriottica». Nell’editoriale citato, come in tutti gli articoli pubblicati sulla nostra rivista, cerchiamo di leggere (e aiutare a leggere) la realtà alla luce del vangelo, schierandoci dalla parte dei poveri e degli oppressi, sull’esempio di Cristo Gesù e non di miopi ideologie politiche.
In fatto di «patriottismo», come cristiani, e ancora più come missionari, riteniamo che «ogni terra è nostra patria e ogni patria è terra straniera» (Lettera a Diogneto 5).
Circa la «malafede» sulla criminalità degli stranieri, la invitiamo a rileggere l’articolo citato: si dice chiaro che agli «immigrati clandestini sono attribuiti i 4/5 (quattro quinti) dei crimini commessi da stranieri presenti sul nostro territorio, mentre c’è quasi parità tra italiani e «stranieri che hanno regolato la loro posizione».

DESTRA E SINISTRA …PIANTATELA!

C ari missionari, la questione delle impronte digitali da prendere ai piccoli rom (cfr. M.C. 2/2009 p. 6) come quella dell’obbligo di denuncia dei clandestini da parte dei medici curanti, come quella dell’indulto, come quella delle «ronde», sta creando all’interno del mondo cattolico l’ennesima spaccatura e questo è un male perché, anche di fronte a questo tipo di problemi, i cattolici dovrebbero compattarsi non dividersi.
Non ce la sentiamo di sposare le tesi della dottoressa Benedetta Rossi di Bologna? D’accordo, ma qualche grossa responsabilità la cultura di «sinistra», della «tolleranza» o «progressista» ce l’ha, e io sono convinto che riconoscere questo sia nell’interesse della stessa sinistra.
A tutte le persone che hanno tuonato e continuano a tuonare contro le decisioni del governo Berlusconi in materia di immigrazione, sicurezza, lotta alla clandestinità e soprattutto lotta alle scarcerazioni facili, vorrei domandare: siete sicuri che sia di sinistra difendere a oltranza i giudici, anche quelli che sono manifestamente compiacenti verso mafia, camorra e n’drangheta, anche quelli che impiegano otto anni a scrivere una sentenza, anche quelli che concedono arresti domiciliari, libertà vigilata, affidamento ai servizi sociali agli stupratori, ai lanciatori di massi dai cavalcavia, ai serial killer, a chi brucia i clochard per «battere la noia», a chi si mette alla guida dopo aver tracannato alcol e droghe a più non posso, a chi non esita a fracassare le ossa alla vecchietta di novant’anni per mettere le mani su 400 euro di pensione?
Vi sentite davvero tanto «progressisti», tanto «aperti», tanto «democratici» quando gridate allo scandalo per le pene contenute inflitte al tabaccaio o al giornielliere che spara dopo essere stato minacciato, ricattato, percosso, rapinato, ridicolizzato per la seconda, quarta, ottava, sedicesima volta da delinquenti incalliti, pluripregiudicati e pluriscarcerati, e tacete, o addirittura cercate di screditare, chi rifiuta di tacere quando un giudice, in nome di una delirante concezione della laicità dello stato, esige la rimozione – altrimenti non ci metterà piede e non lavorerà, pur continuando a percepire il suo stipendio – non crocifisso dalle aule del tribunale?
Vi sentite veramente continuatori della tradizione del Movimento operaio e magari anche interpreti dello spirito del Concilio Vaticano II, quando vi trincerate dietro slogan come «il carcere non serve», «il carcere è inutile, anzi controproducente», «bisogna prevenire e integrare, non reprimere»? E se invece fosse proprio una giusta ed equilibrata azione repressiva ciò che manca per dare credibilità ed efficacia ai programmi di educazione e prevenzione del crimine? E poi, se alcuni luoghi di detenzione sono da tutti riconosciuti come «carceri-modello», perché non dovrebbero diventarlo anche gli altri?

E voi, cari amici di Pdl, della Lega Nord e della Nuova democrazia cristiana, se è vero come è vero che servono nuove carceri, costruitele e fate entrare in funzione quelle già costruite, ma non ancora operative a causa delle solite pastornie burocratiche.
Se ci sono dei giudici che continuano, con ripugnante disinvoltura, a lasciare o rimettere in libertà i più spietati tra i criminali – italiani e stranieri – provvedete alla loro immediata rimozione e fate in modo che a prendere il loro posto siano persone leali, corrette, responsabili che il loro posto se lo sono guadagnato onestamente, senza frodare, senza truffare, senza corrompere, senza ricattare.
Smettete di prendervela con il «disfattismo e l’immobilismo di sinistra» e contro lo «statalismo di stampo comunista», perché dopo gli ultimi responsi delle ue, queste scuse non tengono più. Se ci sono dei problemi all’interno della vostra coalizione, risolveteli, ma piantatela di dare la colpa dell’inefficienza del nostro sistema giudiziario, ai verdi, ai vetero marxisti, ai no global, perché queste forze sono state sfiduciate dall’elettorato, in Parlamento non hanno neppure un rappresentante, quindi non hanno alcuna possibilità di opporsi alle vostre decisioni o di ostacolare i vostri progetti.
Piantatela anche con la storia dei clandestini che devono essere «tutti espulsi», mentre chi viene a lavorare seriamente deve essere accolto a braccia aperte, perché non tutti i clandestini sono criminali e non tutti gli stranieri – come del resto gli italiani – con un regolare contratto di lavoro sono persone brave e oneste; al contrario, le cronache sempre più spesso ci presentano i casi di spacciatori, ladri, teppisti, stupratori, assassini, che nel posto di lavoro avevano sempre dato prova di serietà, competenza ed efficienza…
Vi ringrazio per l’attenzione.
Bartolomeo Ghigri
 Fano (PU)




«Dagli all’immigrato»

(sempre la solita solfa)

Vorremmo non tornare sempre sullo stesso argomento. Vorremmo… ma non si può. È l’attualità, quella stessa attualità che noi, scrivendo su un mensile, siamo costretti a rincorrere senza mai raggiungere, che si impone e detta l’agenda, che oggi dice ancora una volta immigrati e sicurezza.
Parlare del Sud del mondo, come alcuni dei nostri lettori vorrebbero facessimo, stendendo un velo di pietoso quanto omertoso silenzio su quanto sta avvenendo oggi in Italia, significherebbe tradire quei popoli che con la nostra vocazione ci siamo impegnati a servire. Li abbiamo incontrati là, li ritroviamo qui… e a volte non ci riconoscono più per quello che un tempo dicemmo loro di essere. Il cristiano, ancor più se sente sulla propria pelle il fuoco della missione, non può fare scena muta di fronte al continuo aumentare di segnali di intolleranza, ingiustizia e strisciante razzismo che continuano a insinuarsi, giorno dopo giorno, nell’arena politica, nei media e, logicamente, nelle conversazioni da bar. Chiaramente bisogna fare attenzione a non lasciarsi impigliare nelle reti di chi strumentalizza il discorso immigrazione a scopi elettorali; affrontare il dibattito a partire dal modello «destra-sinistra» vuol dire infilarsi nel vicolo cieco della retorica, dalla quale è difficile uscire con proposte concrete che non siano una semplice reazione ad una posizione espressa dalla controparte. Anzi, sarebbe bene che dichiarazioni e prese di posizione non diventino appannaggio esclusivo delle forze politiche, pronti per essere convertiti in spot elettorali. Noi cristiani, per esempio, cosa abbiamo da dire? Noi, uomini e donne che si emozionano nel leggere la parabola del buon Samaritano, persone invitate ad essere benevolenti, chiamate a scorgere e rispettare in ogni uomo quella scintilla divina che crediamo possedere? Cosa ci sentiamo di esprimere? Ci accontentiamo di ripetere il verbo del nostro politico di riferimento o puntiamo a far echeggiare il Verbo, sine glossa, senza compromessi?

Il mondo cattolico è un mondo variegato. C’è sicuramente chi, anche tra i nostri lettori, approva l’operato del Goveo, reclama ancor più sicurezza, si fiderebbe delle ronde civiche come ulteriore mezzo di protezione del cittadino. Sono quei lettori che ogni tanto ci bacchettano per il nostro «buonismo», visto come segno di paura e di lassismo nei confronti dell’avanzata dell’onda migratoria. Sono i cristiani con cui parla Bossi, che si dice fine ascoltatore della sua gente, grande esorcista delle loro paure. Va preso atto di come tale opinione nasconda una legittima preoccupazione, un’inquietudine che interpella le forze politiche a trovare misure adatte a fronteggiare una situazione di non facile soluzione. Non si può però lasciare che alcune percezioni della realtà si enfatizzino a tal punto da trasformarsi in proclami xenofobi. Come missionari sentiamo impellente la necessità di prendere posizione. Occorre farlo prima che, come molte volte succede, mille bugie si trasformino in una inscalfibile verità. Abbiamo dalla nostra l’arma delle denuncia, ma anche quella efficacissima del racconto. A lungo termine, la narrazione delle esperienze di incontro con l’«altro» darebbe forza a chi, nonostante tutto, si ostina a ricordare casi di molti ex-clandestini, ora cittadini integrati, ottimi lavoratori; o a chi, come era solito fare don Tonino Bello, legge la storia dell Mediterraneo come culla dell’accoglienza e non si ritrovano in questo atteggiamento da buttafuori bullo che il Goveo ha ultimamente assunto. Vorremmo davvero non tornare sullo stesso argomento, ma qualcosa ci dice che saremmo invece costretti a farlo.

Di Ugo Pozzoli

Ugo Pozzoli




UNA BASE MILITARE NATO FRA I MONASTERI SERBI

Kosovo /2

Il 17 febbraio 2009 merita attenzione: è l’anniversario della proclamazione unilaterale d’indipendenza del Kosovo. In proposito, vorrei esprimere una mia riflessione, un punto di vista in grande contrasto con quelli già visti e sentiti.
Gli albanesi kosovari hanno festeggiato, entusiasti, il primo compleanno dello «stato più giovane d’Europa»: molti però non sanno, accecati dalle menzogne e dall’odio, che oggi non è un giorno per giornire, ma per provare vergogna. In primo posto bisogna vergognarsi della presenza della base militare Nato fra i templi. È come entrare armati nella chiesa o con le scarpe nella moschea. Nell’anno 2008, dedicato ai diritti umani, sono stati calpestati i diritti fondamentali di uno stato e dei suoi cittadini. Alla fine, si parla della nascita di uno stato nuovo, che in realtà esiste da secoli.
Kosovo e Metohija sono il cuore di uno stato antico, più antico di molti paesi dell’Unione europea e molto più antico degli Stati Uniti. Questo stato si chiama Serbia. Lo sapevano anche gli antenati di quelli che oggi festeggiano, perché vivevano da secoli insieme ai serbi, dividendo il comune destino della burrascosa storia balcanica e gli avvenimenti storici, in cui erano a volte alleati, a volte avversari, ma rispettando entrambi l’umanità e il coraggio gli uni degli altri. Per umanità si intendeva onestà, capacità di mantenere la parola data, rispetto per gli anziani, pietà per i deboli e gli indifesi, generosità. Per coraggio si intende capacità di difendere con la propria vita i valori principali della stessa, fra i quali la fede e la libertà erano al primo posto.
Chiediamoci tutti, quelli che festeggiano e quelli chiusi in un doloroso silenzio, quanto è rimasto, ai discendenti, dell’umanità e del coraggio degli antenati? Se ci fosse un po’ più di umanità e coraggio d’ambo le parti, si potrebbe vivere insieme: non solo rispettarsi, ma anche amarsi a vicenda, perché il sincero amore per il proprio paese comprende l’amore per la natura viva e morta del paese, soprattutto per la gente che ci vive. Allora potremmo edificare un futuro veramente migliore, senza «occupatore» né «liberatore».

Sono passati i tempi in cui i valori umani si difendevano usando la forza (per questo lotta, la parte civilizzata dell’umanità), perciò l’attuale governo serbo usa esclusivamente mezzi diplomatici e legislativi per difendere il valore più grande dello stato serbo, che sono Kosovo e Metohija. Ma non sono passati i tempi in cui la vita umana si  dedica alla difesa dei valori più grandi, anche se molti, anzi troppi, vivono senza valori significativi.  
Ogni serbo in cui sono ancora vivi i valori degli antenati, spenderà la sua vita, le sue energie e le sue risorse fisiche, intellettuali e spirituali per difendere il Kosovo e farlo tornare nel grembo della Serbia.
Lo faremo tornare soprattutto con l’amore. Amare il Kosovo e tutti gli uomini di buona volontà che ci vivono. L’amore è l’arma più potente, che non uccide, al contrario, dona la vita eterna. Questo vuol dire che la prima preghiera di ogni fedele sia dedicata al Kosovo, la prima parola che insegnerà la madre al proprio figlio, sia Kosovo, la poesia più bella del poeta sia dedicata al Kosovo, la lezione più importante a scuola sia sul Kosovo, l’obiettivo più importante del governo sia di mantenere l’integrità territoriale del nostro paese, in cui il Kosovo ha un posto particolare.

La Vecchia Serbia, di cui molti re erano santi, era uno stato dal quale la chiesa non era separata. Nel Medioevo, costruire le chiese e i monasteri era «l’investimento» migliore per ogni famiglia benestante. Così il Kosovo, la Vecchia Serbia, fu oata da tantissimi monasteri e chiesette. Non esiste in Europa un territorio così piccolo con un così grande numero di templi, anche se il tempo e i nemici dei cristiani sistematicamente li distruggevano.
Cosa dobbiamo fare ancora per soddisfare le richieste dei potenti di questo mondo, per unirci con altri popoli dell’Unione europea? Rassegnarci che tutto questo patrimonio spirituale e culturale venga perduto per sempre? Questo si aspettano da noi gli europei cristiani?
«Gli stati che hanno appoggiato la spaccatura della Serbia, hanno dimostrato di non conoscere gran parte della storia del continente europeo, che è strettamente legata al cristianesimo. Il disinteresse per la sorte delle chiese e monasteri ortodossi in Kosovo è la loro rovina culturale. Il comportamento, nel caso del Kosovo, ha dimostrato che molti in Europa non vogliono proteggere la dimensione spirituale nella vita degli europei. Se questa tendenza prevale, allora l’Europa sarà condannata al caos e ai conflitti» (Patriarca Alessio II in «Ortodossia», 1-15 agosto 2008, p.6).
Il Kosovo non ha nessuna valenza spirituale per i potenti della terra. Essi non hanno nessun rispetto per quello che è santo ai popoli. In mezzo ai templi kosovari adesso c’è la base militare Nato, che 10 anni fa bombardava quella regione e la Serbia e il Montenegro, per 78 giorni. Con le bombe all’uranio impoverito seminarono morte e future malattie, inquinarono il suolo, acqua e aria, distrussero l’economia e tutto il resto con l’operazione militare chiamata «Angelo Misericordioso». Portarono enorme danno al popolo serbo e albanese. Le vittime umane, malattie che aumentavano vertiginosamente negli ultimi 10 anni, per loro erano solo «effetti collaterali» per portare la «democrazia», il «progresso» e la «pace». In quella regione «pacifica», però, da 10 anni i serbi vivono nell’enclave.

Alcuni paesi cristiani, fra cui anche l’Italia, hanno riconosciuto lo strappo del Kosovo. Non è possibile che i governi di quei paesi non conoscano la storia, non sappiano che la parola Metohija significa «possedimento della chiesa», non rispettino la proprietà privata, nei loro paesi intoccabile. Allora perché l’hanno fatto? Sentiremo le loro motivazioni quando saranno chiamati a rispondere al Tribunale internazionale per la Giustizia.
L’Assemblea della Serbia oggi ha chiesto al governo di sporgere denuncia al Tribunale internazionale contro gli stati che hanno riconosciuto l’indipendenza della nostra Provincia Meridionale. A questo stesso Tribunale la Serbia chiede se è conforme alle leggi inteazionali la proclamazione unilaterale d’indipendenza da parte degli organi di autogestione locale in Kosovo.
Il presidente serbo continua a ripetere che la Serbia, rispettando le leggi inteazionali, difenderà i propri legittimi interessi davanti al Tribunale internazionale della Giustizia.
Kosovo e Metohija sono parte del territorio serbo in base alla Costituzione della Repubblica Serba, la dichiarazione delle Nazioni Unite e secondo molte risoluzioni, di cui anche la 1244.
Se il governo della nostra regione Trentino Alto Adige, che ha uno status speciale, decidesse una secessione, dopo un referendum in cui la maggioranza della popolazione la approva, l’Italia lo permetterebbe? Chi delle due parti in conflitto avrebbe un sostegno dall’Europa?

di Snežana Petrović

Snezana Petrovic