Interrogarsi sull’aiuto

L’Osservatorio italiano sulla salute globale (Oisg), nel suo 3° rapporto, presenta lo stato del mondo letto attraverso uno dei diritti umani più basilari: la salute. Speciale attenzione è riservata agli aiuti umanitari, che alleviano i danni senza rimuovee le cause, e agli aiuti inteazionali, che spesso finiscono in tasche sbagliate o servono a fini diversi.

C ooperazione internazionale, diritto alla salute, salute globale, aiuti allo sviluppo, sistemi sanitari, quadro delle malattie, strategie, analisi critiche, possibili strade. Sono alcuni degli argomenti e degli spunti di riflessione che trovano spazio nelle oltre 350 pagine del 3° Rapporto dell’Osservatorio italiano sulla salute globale (Salute globale e aiuti allo sviluppo. Diritti, ideologie, inganni, Edizioni ETS, Pisa 2008).
«L’aiuto allo sviluppo in campo sanitario dovrebbe intervenire per fare fronte alle impressionanti diseguaglianze “globali” nella salute», si legge nelle prime righe della prefazione al volume. Diseguaglianze cui era stato dedicato il secondo Rapporto dell’Osservatorio italiano sulla salute globale e che trovano nuovamente spazio in questo terzo libro, dando un significato, rappresentando un obiettivo (la loro eliminazione) e impregnando i diversi aspetti dell’aiuto allo sviluppo e della situazione sanitaria mondiale, questa volta protagonisti del volume.

Lo sguardo alla storia
per capire
L’Osservatorio italiano sulla salute globale (Oisg, http://www.saluteglobale.it) è una rete di operatori e ricercatori che promuove il diritto alla salute a livello globale e fornisce strumenti di analisi e valutazione, quali, per esempio, i rapporti pubblicati periodicamente. Già nella prefazione al terzo Rapporto, a firma di Gavino Maciocco (Dipartimento di Sanità Pubblica, Università di Firenze) e Adriano Cattaneo (Istituto per l’Infanzia Burlo Garofolo, Trieste), vengono toccati diversi aspetti della salute mondiale e proposti elementi di stimolo alla riflessione, grazie anche a una veloce panoramica storica della situazione sanitaria nel mondo.
Questo a partire dal 1978, anno della Dichiarazione di Alma Ata, documento che, «sottoscritto da quasi tutti i paesi del mondo, segnava una svolta per le politiche sanitarie globali». Una svolta che avrebbe dovuto portare a buon fine l’impegno per una salute accettabile per tutti, con una scadenza prefissata e ben precisa (il 2000), con un risultato definito raggiungibile.
Così non è stato e, a 30 anni da tale Dichiarazione, il terzo Rapporto dell’Oisg traccia un quadro della situazione sanitaria e cooperazione in ambito sanitario; un quadro che, nelle speranze di quel documento di Alma Ata, avrebbe dovuto essere assai diverso e già da qualche anno: «Così, se nel 1978 appariva realistico l’obiettivo di garantire entro l’anno 2000 a tutti gli abitanti del pianeta il libero accesso ai servizi sanitari essenziali, poco tempo dopo ciò divenne un semplice miraggio per almeno l’80% della popolazione mondiale», scrivono ancora Maciocco e Cattaneo.
Ecco quindi che lo sguardo sul passato è di stimolo a muovere passi efficaci e adeguati da subito e a programmare il futuro. Non dunque, scorrendo i diversi capitoli del Rapporto, una carrellata disfattista della situazione attuale di salute globale e degli interventi di aiuto allo sviluppo posti in atto nel corso degli anni, ma un invito a conoscere la realtà del passato e quella presente e ad agire senza aspettare.
«Il destino di molte delle inaccettabili diseguaglianze nella salute globale, e dei sistemi sociali e sanitari che le sostengono, dipenderà dalle politiche che adotteranno negli anni a venire i paesi ad alto reddito» si legge ancora nella prefazione che, a partire da un articolo pubblicato sulla rivista medica Lancet (Stckler D, McKee M. Five metaphors about global-health policy. Lancet 2008; 372: 95), riporta subito dopo le «cinque possibili metafore sulla salute globale», con cinque possibili diverse impostazioni nell’aiuto allo sviluppo: una salute globale vista come politica estera, sicurezza, carità, investimento, salute pubblica. Gli autori pongono una domanda: «E se riuscissimo a far muovere il pendolo della salute globale verso la quinta metafora e la salute pubblica?».

Un tema,
tante declinazioni,
diversi autori
Il libro è il risultato del lavoro di 39 autori, che ha portato alla stesura dei diversi capitoli, suddivisi in due parti principali. Una prima sezione è espressamente dedicata al tema che dà il titolo alla pubblicazione, l’aiuto allo sviluppo in campo sanitario; la seconda parte presenta un aggioamento della situazione sanitaria mondiale, dal punto di vista delle politiche messe in atto, di alcune malattie e dei sistemi sanitari di quattro nazioni.
Nella prima parte, il tema dell’aiuto allo sviluppo in ambito sanitario viene affrontato nei suoi diversi aspetti, a partire ancora una volta, e prima di tutto, dall’evoluzione delle politiche sanitarie a 30 anni dalla Dichiarazione di Alma Ata. Nello scorrere delle pagine, attraverso aspetti storici, numeri, descrizioni, elementi economici, esempi, vengono approfonditi temi quali i livelli essenziali di assistenza, l’aiuto pubblico allo sviluppo, la cooperazione sanitaria.
In questi ultimi due ambiti, per esempio, viene fornito il quadro di «proliferazione e frammentazione nella cooperazione internazionale», ovvero l’aumento negli anni del numero di donatori (proliferazione) e delle attività finanziate da un donatore (frammentazione), e di come questi due aspetti abbiano reso maggiormente complicato lo scenario generale.
Ma vengono riportati anche dati sulle promesse non mantenute da parte dei paesi donatori, o sull’importanza della valutazione dell’efficacia degli interventi. A quest’ultimo tema viene dedicato, nelle pagine successive, un intero capitolo, che si occupa proprio dei possibili sistemi di valutazione degli interventi effettuati, considerando, per esempio ma non solo, la rilevanza, l’efficacia, l’efficienza, l’impatto e la sostenibilità.
Sezioni con panorami generali sulla situazione e sulle note dolenti o da migliorare si alternano dunque ad altre con possibili risvolti pratici, il tutto sempre con il supporto della letteratura. Inoltre, nel susseguirsi dei diversi capitoli, temi comuni vengono ripresi, approfonditi da altri punti di vista, allargati con prospettive differenti, con l’aiuto pubblico allo sviluppo come filo conduttore, su cui si agganciano e intrecciano i diversi elementi, presentati e poi ripresi nelle singole situazioni e contestualizzati nei vari ambiti.
Da un quadro generale della cooperazione sanitaria si passa, per esempio, a situazioni concrete quali la cooperazione italiana o quella cinese; dalle questioni in sospeso dell’aiuto allo sviluppo ai possibili esempi di valutazione prima accennati; dalle diseguaglianze nella distribuzione delle malattie sul pianeta e delle forze messe in campo come operatori sanitari all’approfondimento sulle migrazioni di personale sanitario, completato dal panorama del personale infermieristico straniero in Italia.
A proposito di tali diseguaglianze, si legge nel Rapporto, citando come fonte l’Organizzazione mondiale della sanità, come le Americhe con il 10% del carico mondiale di malattie abbiano il 37% di operatori sanitari del mondo e oltre il 50% della spesa sanitaria mondiale, mentre l’Africa, con il 24% del carico di malattie, abbia il 3% di operatori sanitari e meno dell’1% della spesa sanitaria mondiale.

Una visione complessiva:
dal generale al particolare
e ritorno
Tante informazioni, come si diceva, di tipo numerico, economico, di efficacia o meno, successo e insuccesso che mostrano la complessità dell’aiuto umanitario, di come questo abbia diverse sfaccettature e diversi elementi da tenere presenti, per trovare la strada per proseguire.
Nel capitolo intitolato Gli aiuti umanitari: tra carità, ideologia, inganno, si legge che «l’aiuto umanitario è per definizione un indicatore di insuccesso, perché arriva sempre quando il disastro ha già avuto luogo; il suo unico obiettivo è alleviare e ridurre il danno, a volte solo a breve termine». Un capitolo che conclude sottolineando: «Gli aiuti tendono gradualmente a rendere i paesi che ne dipendono incapaci di affrontare le proprie crisi. Inoltre, l’aiuto umanitario si focalizza spesso sul diritto alla sopravvivenza, dimenticandosi del diritto alla vita… L’aiuto umanitario infatti tende a soccorrere le popolazioni senza interrogarsi troppo sulla complessa rete di cause che portano alla crisi umanitaria. Non agisce, cioè, sui meccanismi che danno origine al bisogno di aiuti umanitari».
Una complessa rete di cause che le diverse pagine del libro desiderano approfondire, con i contributi, sia generali sia particolari, che si addentrano nelle realtà di paesi o di malattie, da cui emerge l’importanza di una visione globale, complessiva, che tenga conto dei diversi elementi e fattori in gioco. Una visione che, ritornando alla domanda provocazione posta nella prefazione, pensi alla salute globale come salute pubblica.
Il legame con la realtà di cui si sta parlando emerge poi forte dall’alternarsi di capitoli di approfondimento dei quadri generali e globali con quelli sia di applicazione a situazioni concrete sia di testimonianza di chi vive in prima persona l’aiuto allo sviluppo da ambo le parti. Vi sono infatti pagine dedicate alla visione di interventi sanitari, progetti da parte di chi li riceve, con esempi di esperienze in Nicaragua, Nepal, Guinea Bissau, Afghanistan, Mongolia. E subito dopo si succedono tre capitoli che riportano l’esperienza sul campo di tre organizzazioni non governative impegnate in ambito sanitario (Medici senza frontiere, Medici con l’Africa Cuamm ed Emergency), in cui viene espresso il loro punto di vista sull’aiuto allo sviluppo.
Ancora una volta esempi concreti cui il volume si richiama, accanto alle analisi, ai numeri presentati, alla realtà sanitaria nel mondo e alle possibilità di intervento.

L’aggioamento
sulla salute globale
Un quadro della salute e delle malattie che trova spazio anche nella seconda parte del Rapporto, specificamente dedicata ad attualità e aggioamenti sulla salute globale. In questa parte vi sono dunque informazioni sulla situazione sanitaria mondiale attuale, suddivise in tre ambiti ben definiti: le politiche di salute globale, lo stato di salute del mondo (con capitoli in particolare su: malaria, tubercolosi, e Aids; malattie dimenticate; malattie della bocca e dei denti; malattie cardiovascolari) e infine i sistemi sanitari (con un aggioamento sulla situazione in Stati Uniti, Cina, Cuba e Brasile).
Il quadro è complesso, ricco d’informazioni, spunti, stimoli, critiche, provocazioni, inviti. Materiale su cui riflettere in modo costruttivo, da cui partire per elaborare nuove strategie e progetti. Questo terzo Rapporto dell’Oisg, concludono nella prefazione Maciocco e Cattaneo, è dedicato agli studenti universitari di svariati corsi di laurea: non solo discipline sanitarie in genere, ma anche per esempio scienze politiche o sociologia, perché il tema è globale e, come si diceva, l’invito è ad affrontarlo da tutti i suoi punti di vista, con la salute e le malattie inserite nel contesto della vita, della società, del mondo e non disgiunte da tutti i fattori che le influenzano.
Il messaggio finale è positivo, e vuole ancora una volta fornire nuove spinte, nuovi impulsi, a partire proprio anche dagli studenti, in prima persona promotori di iniziative e interessati ai temi di salute globale: «Questa crescente sensibilità verso i temi della salute pubblica e della giustizia sociale è un segnale di speranza e un forte stimolo per la nostra associazione a proseguire e, se possibile, a incrementare, l’attività di analisi, di studio, di disseminazione e promozione». Una sensibilità e un’attenzione che portano ad aprire gli occhi sulla realtà. Una apertura che può portare allo studio e alla realizzazione di un aiuto allo sviluppo efficace, sostenibile e condiviso.

Di Valeria Confalonieri

Valeria Confalonieri




G8, non basti più

C’è un altro modo di pensare, e agire

L’incontro del G20 a Londra non è stato così negativo.
   Almeno a parole. Intanto la Commissione speciale
     delle Nazioni Unite propone un gruppo G192.
       Per togliere il monopolio decisionale al G8.

Poteva andare peggio, invece il G20, che si è svolto a Londra all’inizio di aprile, ha segnato, almeno nelle parole, un cambio di rotta.
Un invitato eccellente come il Segretario Generale dell’Onu Ban Ki Moon si è detto impressionato dal forte senso di unità e di solidarietà che ha caratterizzato l’incontro.
Il G20 è composto dai governi dei venti paesi più potenti del mondo: quelli che dalla seconda guerra mondiale guidano il sistema economico e quelli che sono entrati nel club in anni recenti, in virtù dei loro strepitosi tassi di crescita.
I primi non hanno saputo prevenire la crisi, i secondi non la sanno bloccare.
Finora i vari incontri dei «grandi» (G20, G7, G8) non hanno preso decisioni vere sull’economia e la finanza: i sorrisi e le foto di gruppo hanno mascherato a malapena la distanza delle posizioni e l’assenza di soluzioni condivise.
Un vuoto decisionale reso ancora più grave dalla presunzione di proporsi come l’unico luogo deputato a trattare i problemi economici del mondo.
Il G7 (allora G5) è stato inventato a metà degli anni Settanta, proprio quando le Nazioni Unite stavano mettendo a punto il progetto di un «Nuovo ordine economico internazionale».
La crisi petrolifera scoppiata nel 1973 aveva fatto vacillare il  modello di crescita senza limiti e messo in discussione i rapporti di forza tra paesi produttori di materie prime e paesi industrializzati.
I paesi più potenti, vedendo minacciata la loro posizione dominante, hanno deciso di avocare a sé ogni negoziato sulle questioni economiche e finanziarie. Il Fondo Monetario e la Banca Mondiale, governati da quegli stessi paesi, hanno avallato la decisione.
Il confronto e le decisioni sulla finanza e l’economia sono state definitivamente sottratti all’Onu e alle sue agenzie sul commercio (Unctad), il lavoro (Ilo), lo sviluppo (Undp), l’ambiente (Unep).
Il disastro in cui ci troviamo comprova che quella scelta non fu né efficace né lungimirante, ma proprio una congiuntura così drammatica ci impone di andare oltre le recriminazioni.
È in gioco la «stabilità e l’equità» delle relazioni economiche e finanziarie inteazionali, come ha ben intuito la Commissione speciale, costituita lo scorso gennaio dal presidente dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite e presieduta dal premio Nobel Joseph Stiglitz.
Il G8 rappresenta solo il 13% della popolazione mondiale e non può decidere per tutti i popoli del pianeta. Bisogna cambiare metodo, per questo la Commissione fa riferimento al G192, vale a dire a tutti i paesi membri dell’Onu: solo una proposta di riforma allargata e condivisa, infatti, può produrre un cambiamento reale e profondo.

La Commissione ha un programma di lavoro serrato che prevede il confronto con il G20 e il G8, l’interlocuzione con le principali istituzioni inteazionali, il dialogo con il settore privato e la consultazione della società civile.
Si stanno analizzando quattro grandi filoni:  regole finanziarie, questioni multilaterali, questioni macroeconomiche e riforma dell’architettura finanziaria globale, al fine di sottoporre una proposta di riforma all’high-level conference che si terrà al palazzo di vetro dall’1 al 4 giugno.
Lo scopo di questo processo – secondo il documento iniziale – è quello di «riportare la finanza alla sua funzione originaria per sostenere l’economia reale e gestire i rischi in modo più equo; modificare i sistemi e le strutture di regolazione verso meno speculazione e maggiore stabilità, sostenere con la finanza gli obiettivi dell’occupazione dignitosa e dell’economia verde».
Anche Banca Etica ha preso parte alla consultazione della società civile, a cui hanno partecipato circa cento grandi reti e organizzazioni inteazionali.
Il documento conclusivo di tale consultazione contiene, per così dire, le ricette della società civile per uscire dalla crisi; molte sono le questioni sollevate e altrettante le proposte avanzate: dall’abolizione del sistema bancario ombra, al divieto di utilizzare i derivati per beni vitali come il cibo e l’energia, dalla canalizzazione delle rimesse degli immigrati  per progetti sostenibili all’introduzione di tasse globali per finanziare gli obiettivi del millennio.

I suggerimenti di Banca Etica riguardano, in particolare, l’inclusione nella valutazione del rischio degli aspetti sociali ed ambientali (come fa la banca con il proprio modello di rating), prevedere negli accordi di Basilea un regime specifico per le imprese sociali e le cornoperative, ridurre la portata del segreto bancario, sostenere con una normativa adatta il microcredito e la microfinanza.
Non possiamo prevedere l’esito del processo in corso: navighiamo a vista in un mare in tempesta, ma l’incontro del G20 a Londra sembra andare nella giusta direzione:  maggiori controlli sui mercati finanziari, un limite ai paradisi fiscali, investimenti straordinari non solo per soccorrere le banche, ma per salvare i lavoratori e i cittadini più deboli. La stessa idea di un governo pubblico dell’economia, è rivoluzionaria dopo venticinque anni di liberismo selvaggio. 
Speriamo che il G8 che si terrà in Italia il prossimo luglio non faccia marcia indietro.

Di Sabina Siniscalchi

Sabina Siniscalchi




Consumare o essere?

Neoliberismo e pensiero unico / Riflessioni

Il pensiero unico, propagandato dai media, ha magnificato il sistema neoliberista («la follia spacciata per virtù») ed affossato ogni alternativa. Un sistema ingiusto e distruttivo, fondato sul libero mercato
e sul consumo privato, oggi chiede aiuto allo stato. E lo ottiene…

Abbiamo incontrato un economista e un operaio, due persone molto diverse per estrazione sociale, professione e percorso esistenziale.
Quello con Domingo Cavallo (vedi articolo) è stato un incontro con una persona di vasta cultura e preparazione, un fedelissimo dell’economia neoliberista, cioè di un’economia in cui domina il mercato con le sue leggi della domanda e dell’offerta e in cui lo stato deve limitarsi a svolgere poche e definite funzioni, senza interferire con la libera iniziativa dell’individuo. Marcelo Ruarte (vedi articolo), l’altra persona incontrata, è l’esatto contrario: un lavoratore, che ha lottato contro questo sistema neoliberista che, prima della sua ribellione, già lo aveva destinato alla disoccupazione o comunque ad una esistenza ai margini.

Partendo dalle loro risposte e dalle loro esperienze personali abbiamo cercato di offrire spunti di riflessione sul modello di economia e società che è in crisi profonda. E lo è ben da prima dello scoppio della bolla finanziaria, anche se fino a ieri la follia «era spacciata per virtù».
«Un banchiere è uno che vi presta l’ombrello quando c’è il sole e lo rivuole indietro appena incomincia a piovere». Parafrasando questa lapidaria ma azzeccatissima definizione di Mark Twain, avremmo potuto dire che il libero mercato e i suoi corollari (dogmi di fede, sarebbe più corretto dire) sono perfetti finché c’è espansione economica, mentre non vanno più bene quando c’è recessione. Ma la perifrasi non va bene. Perché la globalizzazione neoliberista in realtà ha funzionato soltanto per una piccola parte dell’umanità, checché ne dicano i commentatori dei giornali mainstream. 
«Nel capitalismo – ha scritto Frei Betto nell’Agenda Latinoamericana (1) -, l’appropriazione individuale, familiare e/o corporativa della ricchezza è un diritto protetto dalla legge. E l’aritmetica e il buon senso insegnano che quando uno si appropria, molti sono espropriati. L’opulenza di pochi dipende dalla povertà di molti. La storia della ricchezza nel capitalismo è una sequenza di guerre, oppressioni colonialiste, saccheggi, furti, invasioni, annessioni, speculazioni».
La crisi globale attuale non è una normale fase del ciclo economico (boom, stagnazione, recessione, ripresa). Non è uno squilibrio passeggero, ma strutturale (2).
«Il fondamentalismo del credo mercantile – ha scritto Paolo Cacciari – porta all’integralismo: non solo ogni oggetto, ma anche ogni creatura della Terra e ogni singolo processo vitale deve avere un padrone, deve essere asservito al processo produttivo, altrimenti il processo produttivo si inceppa» (3).
«Il nostro modello di sviluppo – scrivono Armaroli e Balzani – è fondato sulla circolarità forzata produzione-consumo: si producono merci per soddisfare bisogni, ma si producono anche bisogni per garantire la continuità della produzione delle merci. Queste devono essere rapidamente consumate per essere sostituite» (4).
Ora è tornato di moda lo stato, reclamato a gran voce. «Negli ultimi trent’anni – ha sintetizzato benissimo il sociologo portoghese Boaventura de Sousa Santos (5) -, si è consolidato il consenso attorno all’idea che lo stato è il problema e il mercato la soluzione; che l’attività economica è tanto più efficiente quanto più priva di regole; che i mercati globali sono sempre preferibili al protezionismo; che nazionalizzare è anatema, mentre privatizzare e liberalizzare è la norma. Intrigante è la facilità con cui (…) si passa da un’idea ad un’altra totalmente opposta. Negli ultimi mesi stiamo assistendo ad una di queste trasformazioni. All’improvviso lo stato è diventato la soluzione e il mercato il problema». In verità, una delle regole auree di questo capitalismo senza etica è sempre stata quella di «socializzare le perdite» (dopo aver incamerato i profitti – magari nascondendoli in qualche paradiso fiscale -, a danno dei lavoratori, dell’ambiente e della collettività).

Il dottor Domingo Felipe Cavallo e Marcelo Ruarte (e i lavoratori del Bauen) sono la personificazione di due modi opposti di guardare all’economia. Il primo vede nel sistema neoliberista l’unico dei modelli possibili; il secondo – come tanti – ha provato sulla propria pelle l’iniquità e la crudeltà dello stesso. Si è ribellato e ha tentato di percorrere nuove strade. Strade diverse che, dopo essere state a lungo demonizzate e ridicolizzate, l’attuale crisi globale potrebbe anche rivalutare.
«Viviamo in un sistema – scrive il Centro Nuovo modello di sviluppo -, che osanna la ricchezza come scopo di vita. A livello individuale le parole d’ordine sono carriera, eleganza, lusso. A livello di sistema produttivo l’imperativo è crescere, crescere, crescere. Contro ogni logica continuiamo a voler produrre di più e consumare di più. È la follia spacciata per virtù» (6).
L’attuale momento storico offre l’opportunità unica per ripensare il sistema e per operare una scelta di campo tra consumare o essere. Pur nella consapevolezza che il pensiero unico (secondo il quale «non c’è alternativa»), veicolato dalla maggior parte dei mass-media (7), è lungi dall’essere defunto.

Paolo Moiola


Note:
(1)  L’Agenda Latinoamericana 2009 di José Maria Vigil e Pedro Casaldáliga, vescovo emerito di São Félix do Araguaia (Brasile), è uscita con un titolo che fa storcere il naso (eufemismo) alle persone più tradizionaliste (o meno progressiste): Verso un socialismo nuovo. L’utopia continua.
(2)  Tonino Pea, A recessione estrema, rimedi radicali, settimanale Carta, 3 aprile 2009.
(3)   Paolo Cacciari, Pensare la decrescita. Sostenibilità ed equità, Edizioni Intra Moenia 2006, pagina 62.
(4)  Nicola Armaroli-Vincenzo Balzani, Energia per l’astronave Terra, Zanichelli 2008, pagina 6.
(5)  Riportato in Adista n. 44 del 25 aprile 2009.
(6)  Centro Nuovo modello di sviluppo, Guida al consumo critico, Emi, Bologna 2008.
(7)  C’è qualcuno che non si è mai unito alla vasta platea dei cantori del pensiero unico neoliberista e che oggi potrebbe farsi vanto delle proprie posizioni. Due nomi su tutti, uno italiano e l’altro straniero, con i loro ultimi lavori: Luciano Gallino, Con i soldi degli altri, Einaudi 2009; Ronald Dore, Finanza pigliatutto, Il Mulino 2009.

Paolo Moiola




Il sistema è sbagliato: meno mercato, più solidarietà

Neoliberismo e pensiero unico
Buenos Aires 2 / Incontro con i lavoratori dell’Hotel Bauen

Negli anni Novanta e successivamente allo scoppio della crisi, sotto lo sguardo del mondo finanziario internazionale (prima vestale, poi arpia), centinaia
di fabbriche argentine chiusero i battenti, buttando sulla strada migliaia
di persone con le rispettive famiglie.  Molte non si ripresero più, altre cercarono occupazioni diverse, altre ancora attesero tempi migliori. Una importante minoranza si ribellò al sistema e rimise in attività le imprese abbandonate dai proprietari. Nacque allora il fenomeno delle «fabbriche recuperate».
L’Hotel Bauen ed i suoi lavoratori sono protagonisti di una di quelle storie…

Buenos Aires. A poche centinaia di metri dal Congresso, affacciato sulla centrale Avenida Callao, sorge un palazzo di venti piani, tutto vetro e metallo verde scuro.  Quel palazzo ospita l’Hotel Bauen.
Entriamo in una hall spaziosa, elegante senza essere sfarzosa. Sulla parete che separa il bancone della reception dalla caffetteria è appesa una targa, molto sobria, che ricorda una tappa fondamentale nella storia recente di questo hotel. Leggiamo: «Empresa recuperada por sus trabajadores, 20 de marzo de 2003». Insomma, l’Hotel Bauen è un’impresa chiusa dai proprietari e riaperta dai lavoratori licenziati. Un avvenimento inconsueto nel mondo, ma abbastanza diffuso nell’Argentina post-2001.
Sotto la targa storica sta un quadro che raccoglie poesie di Juan Gelman, poeta e giornalista nato a Buenos Aires. Le liriche di Gelman sono una scelta azzeccata, non soltanto per la loro intrinseca bellezza, ma anche perché l’autore è stato una vittima della dittatura militare.
L’Hotel Bauen fu costruito sotto gli auspici di quel regime. Correva l’anno 1978 e la giunta militare argentina aveva organizzato i Campionati mondiali di calcio, come vetrina per legittimarsi agli occhi (colpevolmente distratti) del mondo. Un impresario vicino ai militari, Marcelo Iurcovich, approfittò delle proprie amicizie politiche e del momento favorevole per ottenere un prestito (mai più restituito) da una banca statale (Banco nacional de desarrollo, Banade) con il quale costruire l’hotel. Questo assunse il nome di Bauen, dall’acronimo della impresa del signor Iurcovich (Buenos Aires Una Empresa Nacional, Bauen). 
Venduto ad un gruppo cileno, a fine dicembre 2001, nel pieno della crisi economica argentina, il Bauen chiuse per fallimento. Ma qualcuno degli oltre 100 lavoratori gettati sulla strada non si arrese…

Come si lavora senza…
padroni
Marcelo Ruarte, un uomo distinto e con la barba grigia tenuta a pizzetto, è uno di loro. Ci accoglie in una stanza luminosa tappezzata di manifesti. Alcuni ricordano momenti della storia del Bauen e di altre imprese recuperate; altri ritraggono personaggi del presente (Hugo Chávez, Evo Morales, Fidel Castro) e del passato (Che Guevara).

Marcelo, all’entrata abbiamo letto una targa che celebra la nascita del nuovo Bauen. Ma l’inizio è stato un altro…
«Il Bauen fu propiziato dalla dittatura durante i mondiali di calcio. La manifestazione sportiva faceva parte di una strategia dei militari per far dimenticare la repressione e la tortura».

La storia di questo hotel ha avuto parecchi momenti drammatici…
«Quando il 28 dicembre del 2001 l’hotel chiuse: erano 21 anni che lavoravo nel Bauen. Il 21 marzo del 2003 occupammo l’hotel con l’aiuto del “Movimento delle fabbriche recuperate”, il cui slogan era “occupare, resistere, produrre”. Fu molto dura. Nessuno di noi era un militante. Eravamo lavoratori imprigionati da meccanismi che venivano da fuori: il neoliberismo, la globalizzazione. Una politica selvaggia e crudele che i nostri governanti adottarono a scatola chiusa».

Il Bauen ha quasi 200 camere e 500 posti letto… Riuscite ad essere competitivi sul mercato?
«A Buenos Aires ci sono le grandi catene alberghiere che hanno un altro progetto e un altro target. Noi dobbiamo fare leva sulla nostra storia di impresa recuperata».

In Argentina, le imprese recuperate sono oltre 200. Possiamo parlare di  una storia di successo?
«A noi va bene. Ma non è così per tutte le imprese recuperate. Il compagno che deve produrre un bene deve pagare le materie prime e non è facile se non ottieni credito sul mercato capitalista.
Per questo noi cerchiamo di creare un’altra economia: un’economia solidale, che rispetti la dignità delle persone. Ma non si tratta di un’economia per poveri, come qualcuno pensa».
Nel Bauen oggi lavorano 150 persone, riunite in cornoperativa di lavoro. È una impresa senza padroni, come dite orgogliosamente. I rapporti tra voi lavoratori come sono?
    «Non tutto funziona. Quando ci sono le assemblee, ci sono compagni che dicono: “io sono padrone di questo”. Inoltre, molti, nella quotidianità, non fanno il loro lavoro e il collega deve lavorare anche per lui.
Perché accade questo? È un problema di cultura del lavoro che si è instillata in molti: secondo costoro, niente si poteva fare senza padrone. Invece, il Bauen è la dimostrazione che si può fare e che si può fare addirittura senza capitale, se c’è la volontà. In questi tempi (e non sto parlando di Argentina) non c’è altro modo per riuscire».

Le imprese recuperate sono nate all’epoca della crisi argentina. Con le due presidenze Kirchner, prima Nestor ed ora Cristina, le cose sono migliorate?
«Le imprese recuperate nascono dalla caduta di De la Rúa, quando il presidente scappò in elicottero. Il governo di Kirchner non è il governo di Menem o il governo della dittatura, ma la legge di espropriazione non è ancora stata approvata (ha passato una sola commissione su 3).  Però noi siamo ancora qui e abbiamo dimostrato di saper generare occupazione e capitale».

Oggi il Bauen è un punto di riferimento anche per molti altri lavoratori, giusto?
«Sì, cerchiamo di aiutare. Per esempio, quando arriva un compagno a dire:  “non ci stanno pagando”, “vogliono portare via i mezzi di produzione”…, noi gli suggeriamo di… “aggrapparsi ai macchinari”. Perché spesso occorre una soluzione immediata e concreta. Non la burocrazia dei politici o la complicità dei sindacalisti».

Quando si parla di occupazione e di espropri, si corre il rischio di incappare nei rigori della legge, che salvaguarda sempre il diritto di proprietà privata. È stato così anche nel vostro caso?
«Infatti, noi non siamo titolari dell’immobile: davanti alla legge siamo illegali. Per questo chiediamo allo stato che diventi proprietario di questo edificio e ci permetta di continuare con i nostri progetti. Abbiamo investito oltre un milione di dollari, ma nelle assemblee qualcuno sempre domanda: perché continuiamo ad investire in un luogo che non è nostro? Adesso, per esempio, stiamo ristrutturando la piscina e l’esterno che, essendo di vetro e metallo, si è ossidato».

Nel luglio del 2007, il tribunale vi ha dato torto. Come spiega questa sconfitta?
«La giudice commerciale Paula Hualde che ha deciso sul Bauen ha fatto esclusivo riferimento alla proprietà privata: secondo la legge, la Mercoteles è la proprietaria dell’immobile. Alla giudice non importa che gli Iurcovich, proprietari della Mercoteles, costruirono l’hotel con i soldi dello stato, con la corruzione, l’amoralità.
Ricordo che, quando eravamo seduti attorno a questo tavolo, lei parlava del diritto alla proprietà privata previsto dalla Costituzione argentina (articolo 17) e noi  rispondavamo con il diritto al lavoro previsto dalla stessa Costituzione (articolo 14)».
A pochi passi da qui, su Avenida Corrientes, c’è il Bauen Suite Hotel appartenente alla Mercoteles della famiglia Iurcovich. Quella del Bauen sembra una telenovela con la famiglia Iurcovich  sempre protagonista…
«Il maggiore creditore del Bauen è lo stato, che prestò il denaro alla famiglia Iurcovich per costruirlo.  Quel credito iniziale, ricevuto dal Banco Banade, di proprietà statale, non fu mai restituito.
Una storia di complicità, corruzione, negligenza. Basti pensare che sono passati 30 anni dalla nascita del Bauen, 30 anni di clandestinità, perché non è mai stato abilitato come hotel!».

Oggi tutto il mondo si dibatte in una crisi economica che sembra una crisi strutturale e non ciclica come nel passato, che pensa al riguardo?
«Penso che la nostra debba essere una lotta per un sistema diverso, distinto da quella capitalista, trasparente, umano. Per questo noi cerchiamo di creare un’altra economia: un’economia solidale, che rispetti la dignità delle persone. Ma non si tratta di un’economia per poveri, come qualcuno pensa.
Il capitalismo non aveva altro destino se non quello che sta capitando».

E gli Stati Uniti?
«Spero che il presidente Obama abbia la forza e possibilità per agire diversamente dal suo predecessore».

In Argentina, la disoccupazione e la sottoccupazione rimangono alte, ma durante la crisi del 2001 si respirava aria peggiore, no?
«Ma Tucuman e Salta stanno combattendo contro la fame. La fame! E non occorre andare mille chilometri a nord. Basta muoversi qui, in periferia. Ci sono famiglie che sopravvivono nella precarietà. Con i figli che non possono avere un’assistenza medica adeguata perché gli ospedali pubblici sono al collasso, senza farmaci, senza strumenti. E lo stesso dicasi per l’educazione».
Dunque, voi siete fortunati perché almeno avete un lavoro. A casa portate un salario adeguato?
«No, ovviamente non abbiamo un salario sufficiente, ma sono soldi generati dal nostro lavoro, senza padroni. Tutti riceviamo la stessa cifra: circa 400 dollari al mese. Dobbiamo sempre ricordarci che siamo lavoratori e in quanto tali non possiamo sfruttare altri lavoratori. Dobbiamo salvaguardare la nostra origine. Altrimenti non ha ragione di esistere questa lotta.
Me entiendes?». 

Di Paolo Moiola

Storia dell’Hotel Bauen:
diritto di proprietà Vs diritto al lavoro

1978 – In occasione dei Campionati mondiali di calcio, viene costruito un hotel in Avenida Callao a poche centinaia di metri dal Congresso della Repubblica. L’Hotel assume come nome l’acronimo della impresa – B.A.U.E.N. che sta per «Buenos Aires Una Empresa Nacional» -, guidata da Marcelo Iurcovich, un impresario legato alla dittatura militare.

1997-2001 – L’hotel viene acquistato e gestito dal gruppo Solari, di origine cilena.

2001, 28 dicembre – Il Bauen viene chiuso per fallimento. Oltre 100 lavoratori rimangono senza lavoro.

2003, 21 marzo – Con l’aiuto del «Movimento nazionale delle imprese recuperate» – Movimiento nacional de empresas recuperadas, Mner -, un gruppo di lavoratori del Bauen occupa l’hotel ed inizia il suo recupero.

2004, giugno – Il Bauen viene riaperto al pubblico ed inizia l’attività.

2007, 20 luglio – La giudice commerciale Paula Hualde stabilisce che l’hotel deve essere sgombrato dalla cornoperativa di lavoratori che lo gestisce e deve passare alla società Mercoteles della famiglia Iurcovich.

2008-2009 – Il Bauen continua ad operare sotto la cornoperativa dei lavoratori, mentre la deputata Victoria Donda si è fatta promotrice di una Ley de expropiación (Legge di espropriazione), che affidi definitivamente l’hotel a chi lo ha salvato e dal 2003 lo gestisce.

Fonti: Diego Ruarte, responsabile Prensa trabajadores del Bauen; Elisabet Contrera, Negocio cinco estrellas, pubblicato in 2 puntate – 21 agosto e 22 agosto 2007 – sul quotidiano argentino Página 12.
Sito: www.bauenhotel.com.ar

Paolo Moiola

Paolo Moiola




Il sistema è giusto: mercato sì, stato no

Neoliberismo e pensiero unico
Buenos Aires 1 / Incontro con l’ex ministro Domingo Cavallo

A Buenos Aires, abbiamo incontrato Domingo Felipe Cavallo, economista di scuola neoliberista, plurilaureato, per tre volte ministro dell’Argentina. In questa intervista, Cavallo difende le scelte fatte nel suo passato di ministro, attacca i politici di oggi e conferma la validità delle tesi economiche neoliberiste, che mettono il libero mercato al centro di tutto. Nelle sue risposte non manca neppure qualche riferimento
ai bonos dello stato argentino, tristemente famosi anche tra migliaia
di risparmiatori italiani…

Vuoi ascoltare il reportage?
Un resoconto audio di questo incontro è disponibile sul sito
www.rivistamissioniconsolata.it. sezione “Ascolta”.
La trasmissione fa parte del programma radiofonico «Cartoline dall’Altra America»,
trasmesso dall’emittente Radio Flash di Torino e curato da Paolo Moiola.


Buenos Aires. Sui giornali si parla dell’ultimo libro di Domingo Felipe Cavallo. Proprio lui: l’ex ministro dell’economia divenuto famoso, nel bene e nel male, prima (1991) per la legge che istituiva la parità tra la valuta argentina e il dollaro statunitense e poi (2001) per aver bloccato nelle banche i soldi di tutta una nazione. Scriviamo al suo blog per chiedere un incontro. Qualche ora dopo siamo contattati dal solerte ufficio stampa che ci invita per il tardo pomeriggio nella sua casa alla Recoleta, uno dei quartieri più eleganti di Buenos Aires.
L’indirizzo al quale dobbiamo presentarci corrisponde a quello di una elegante villa.
Ci apre e ci dà il benvenuto un collaboratore del padrone di casa. Dopo pochi minuti veniamo accompagnati al primo piano. Entriamo in uno studio alle cui pareti fanno bella mostra di sé i diplomi di laurea di svariate università del mondo, tra cui ben 3 italiane: Bologna, Genova e Torino.
«Sono quasi tutte lauree honoris causa – ci spiega il nostro ospite appena entrato nello studio -. Quelle guadagnate sul campo – ce le indica con un cenno della mano – sono appese lì: Università di Harvard e Università di Cordoba».
Di ascendenze piemontesi, Domingo Felipe Cavallo è un personaggio che ha segnato – e non c’è timore di smentita al riguardo – la storia recente dell’Argentina e sul cui operato ancora oggi il dibattito è accesissimo, anche se i giudizi negativi o molto negativi sembrerebbero prevalere.
Faccia sveglia, voce decisa e squillante, modi cortesi, l’ex ministro ci fa sedere davanti alla sua scrivania, carica di libri e di qualche oggetto ricordo, come una statuetta del «toro rampante» simbolo della città di Torino.

Da Carlos Menem
a Feando De la Rúa

Dottor Cavallo, lei è un professore di economia, ma è diventato famoso come politico. Come preferisce essere chiamato?
«Sono prima di tutto un economista, attivo in ambito accademico».

La sua fama è però dovuta ai suoi periodi come ministro di questo paese. Qual è il suo consuntivo?
«Con De la Rúa non andò bene, soprattutto perché, all’epoca, ci fu molta gente che mi incolpò di tutti i mali dell’Argentina.
Però, con Menem – prima come ministro degli esteri e poi come ministro dell’economia – ho favorito un cambio che era assolutamente necessario per l’Argentina.
Con Menem fu un periodo di grandi riforme, in politica estera e in materia di organizzazione del sistema economico argentino. Con De la Rúa fu un periodo di crisi, dovuto a circostanze inteazionali sfavorevoli e con il paese che aveva accumulato una serie di problemi, che condizionarono molto il modo di affrontare la situazione. Inoltre, con la coalizione De la Rúa la mia posizione era molto debole, mentre con Menem fu il contrario, perché la sua coalizione di centrodestra appoggiava compattamente le riforme che si volevano introdurre.
Visto in prospettiva storica, il mio lavoro ha prodotto buoni risultati».

Lei parla con orgoglio del suo (lungo) periodo come ministro dell’economia durante la presidenza di Carlos Menem. Quali considera i suoi successi?
«È abbastanza semplice. Con Menem passammo da un’economia chiusa al mondo ad un’economia aperta con investimenti, commercio, buone relazioni inteazionali. Prima avevamo problemi non soltanto con la Gran Bretagna (per le Malvinas), ma anche con il Brasile, il Paraguay, la Bolivia, il Cile. Risolvemmo tutti questi conflitti. L’Argentina si integrò al mondo e questo fu il primo grande cambio.
Il secondo fu l’eliminazione dell’inflazione che era un problema cronico del paese e ultimamente si era trasformata in iperinflazione. Fino al 5.000 per cento all’anno! Dal 1991 in avanti inaugurammo un periodo di stabilità, simile alla stabilità europea e nordamericana, che durò 11 anni, precisamente fino al 2001.
Questi successi economici furono possibili anche perché avevo preparato il terreno durante l’anno e mezzo come ministro degli esteri».

Oggi un dollaro Usa vale oltre 3,5 pesos. All’epoca di Menem, la misura più famosa fu la parità cambiaria tra dollaro Usa e peso argentino. È ancora convinto della giustezza di quella decisione?
«Naturalmente sono convinto della sua giustezza! Ma è improprio spiegarla con l’equivalenza – 1 a 1 -del peso con il dollaro. La convertibilità consisteva nel fatto che gli argentini potevano convertire liberamente il peso in altre monete e utilizzare liberamente nei contratti e nelle transazioni la moneta che volevano. La parità del peso con il dollaro durò 11 anni, ma doveva terminare prima.  Infatti, quando nel 2001  entrai nel governo De la Rúa cercai di formalizzare un paniere monetario in cui entrasse anche l’euro. Ma ormai era tardi».

È abbastanza naturale chiedersi come si può avere una moneta nazionale di valore identico al dollaro (o altra valuta) quando un’economia è molto più debole dell’altra…
«Questo non ha niente a che vedere, perché la moneta è una convenzione. Non c’entra nulla con i livelli di produttività di un paese. Comunque, la convertibilità non avrebbe dovuto essere abbandonata.   Avendolo fatto, oggi l’Argentina si ritrova con un’inflazione annuale che supera il 20 per cento».

L’Istituto nazionale di statistica e censo (Indec) parla di un’inflazione ben inferiore…
 «È una delle tante barbarie commesse da questo governo. Ha distrutto quel prestigioso istituto, mettendolo in mano a funzionari che invece di fare statistiche corrette mentono per nascondere l’inflazione».

La crisi delle banche di questi mesi fa ricordare la crisi argentina del 2001, quando lei introdusse una misura altamente impopolare conosciuta come corralito. Ci furono manifestazioni di piazza e gli istituti di credito erano sotto assedio…
«Il corralito fu una misura necessaria per frenare la corsa al ritiro dei depositi bancari. Precisiamo una cosa, però: la gente non poteva ritirare il contante, ma poteva disporre dei propri risparmi con altri strumenti, come carte di debito, assegni, trasferimenti bancari. Sarebbe stato peggio se si fossero chiuse le banche. Poi, Duhalde e i suoi fecero cadere il governo di De la Rúa e instaurarono il corralón con l’obiettivo di appropriarsi del risparmio della gente, per alleggerire il debito pubblico e soprattutto quello privato dei grandi gruppi economici».

Può spiegarci in parole semplici in cosa si tradusse praticamente il corralón introdotto dal governo di Duhalde?
«Con la pesificazione dei depositi e la svalutazione del peso rubarono ai risparmiatori per avvantaggiare i grandi gruppi industriali, tra cui i principali gruppi editoriali del paese, che per questo tornaconto si prestarono all’operazione del governo, confondendo l’opinione pubblica e demonizzando il sottoscritto». 

Lei si riferisce al gruppo che fa capo al Clarín (il più grande quotidiano argentino, ndr)?
«Preferisco non fare nomi».

Quelle decisioni influirono anche sui bonos (bonds, in inglese, ndr) dello stato che erano stati venduti in tutto il mondo, in primis in Italia?
«Certo. Rubarono non soltanto agli argentini, ma a tutti quegli stranieri  che avevano confidato nell’Argentina. Insomma, agli italiani o agli altri stranieri che avevano investito i loro risparmi in bonos argentini decisero di restituire soltanto il 30 per cento del valore. Queste ragioni economiche furono il vero motivo del golpe istituzionale del dicembre 2001».

È difficile capire come mai un paese tanto ricco come l’Argentina abbia conosciuto (e conosca) la povertà…
«Inizialmente perché, dal 1940 agli anni Novanta, l’Argentina si isolò dal mondo. C’erano bassi salari e il loro valore era deteriorato dall’inflazione, che è il metodo ideale per fabbricare poveri. Con le riforme che noi facemmo nella decade del Novanta il panorama cambiò molto e in positivo.
Dal 1998 la povertà aumentò di nuovo, raggiungendo il massimo nel 2002, dopo la svalutazione di Duhalde. Poi si abbassò per fattori inteazionali, come il boom dei prezzi della soia, di cui l’Argentina è una grande esportatrice. Il problema è che il governo cominciò a distribuire i maggiori introiti non per investimenti produttivi o per occupare la gente, ma per motivi patealistici. Nestor Kirchner guadagnò in popolarità e riuscì anche a far eleggere la moglie come presidenta degli argentini. Adesso però la situazione è di nuovo grave, perché abbiamo recessione con inflazione».

Lei è conosciuto come uno strenuo neoliberista. Volendo essere sintetici, possiamo dire che le parole d’ordine del neoliberismo sono: molto mercato e poco stato?
«Guardi, questi non sono termini adeguati. Le economie possono essere di due tipi: o economie aperte (come sono quasi tutte le economie del mondo, Cina inclusa) o economie dove interviene lo stato. Per le prime non si può parlare di neoliberismo o liberismo, si tratta di economie di mercato, aperte, competitive, integrate al mondo, che cercano la stabilità dei prezzi, perché considerano che inflazione e deflazione siano eventi negativi per il funzionamento dell’economia.
Poi ci sono economie in cui lo stato – in maniera arbitraria ed imprevedibile – senza stabilire regole del gioco, ma attraverso decisioni autoritarie, tende a prendere la maggior parte delle decisioni economiche. Un caso estremo, storicamente finito, è stato quello del comunismo della Russia e della Cina all’epoca di Mao.
Sfortunatamente hanno adottato questo sistema dell’economia di stato molti paesi arretrati del mondo, tra cui molti latinoamericani: Venezuela, Bolivia, Ecuador, Nicaragua, Cuba (che è stata la prima). E purtroppo anche l’Argentina, che va nella direzione dello statalismo e dell’economia chiusa, invece di seguire l’esempio di Cile, Brasile, Perù, Uruguay e della maggior parte dei paesi centroamericani.
Riassumendo senza andare troppo lontani: in America Latina ci sono due classi di paesi. Quelli che avanzano verso il futuro e  quelli che stanno tornando al passato con il protezionismo e l’isolamento».

Lei è molto critico verso il suo paese e in particolare verso la gestione dei Kirchner. Perché?
«In primis, è compito dello stato fissare le regole del gioco dell’economia; quindi, occorre creare un regime monetario e farlo funzionare. In Argentina, oggi non si sa come si determina il valore della moneta e nessuno può trattare liberamente valute straniere (se non nei limiti fissati dal Banco centrale). Nessuno poi ha fiducia nella moneta nazionale, perché abbiamo un’inflazione annua del 20 per cento. In tutto questo lo stato argentino è assente. Come è assente nella difesa del diritto di proprietà. Così è stato, nel 2002,  per i risparmiatori argentini e per i detentori stranieri, in primis italiani, dei bonos, i titoli pubblici. Lo stato è dunque assente in una questione fondamentale.
 Al contrario, lo stato si intromette nelle decisioni di investimento delle imprese private, imponendo tasse distorsive ad un soggetto per favorire un altro. Questo tipo di statismo crea occasioni di corruzione e di privilegio. Purtroppo, è la filosofia che si sta imponendo in Argentina».
   
Secondo lei, cosa deve fare uno stato?
«Lo stato deve finanziare la scuola primaria e secondaria e buona parte dell’università. Deve provvedere un’assicurazione sanitaria a tutti i cittadini. Deve organizzare un sistema pensionistico e contro la disoccupazione. E soprattutto deve offrire ai cittadini un sistema di sicurezza, perché uno stato dove c’è crimine, si ruba e si uccide, dove non hai sicurezza fisica, è uno stato che non esiste.
Queste sono le funzioni su cui uno stato dovrebbe concentrarsi. Quando invece vuole sostituirsi al soggetto privato nelle decisioni economiche, sbaglia».
Ai tempi di Carlos Menem, in questo paese si privatizzò di tutto. Le privatizzazioni sono uno strumento adeguato?
«Dipende da ciò che si privatizza. Responsabilità dello stato è di finanziare un sistema di salute. Poi le prestazioni sanitarie possono essere foite dal pubblico o dai privati. Se lo stato proibisse di avere ospedali privati, commetterebbe un gravissimo errore, perché in genere questi offrono livelli di prestazioni migliori rispetto agli ospedali pubblici. La competizione tra pubblico e privato è importante. L’importante è che la popolazione abbia una copertura sanitaria.
Identicamente per l’istruzione: ci sono scuole pubbliche e scuole private. Quella pubblica è finanziata dallo stato, mentre quella privata può avere dei contributi se tiene basse le rette d’ingresso».

In Argentina, esiste una tradizione pubblica sia per il sistema educativo che per il sistema sanitario. Peccato che per scuole ed ospedali manchino sempre i fondi…
«Perché si stanno spendendo 10 mila milioni di dollari all’anno per sussidiare il trasporto urbano, l’energia, una marea di attività, indipendentemente dal costo di produzione. Sottraendo risorse finanziarie alla salute, all’educazione, alla sicurezza. C’è un cattivo utilizzo delle risorse pubbliche, cosa che non accadde nel decennio degli anni Novanta, quando lo stato si concentrò sui propri compiti fondamentali.
All’epoca, chi fece investimenti nei trasporti, nell’elettricità, nella comunicazione, nel petrolio? Il settore privato. Per questo vennero molti investitori dall’estero.
Dal 2002 non ci sono più stati investimenti e lo stato ha dovuto iniziare a costruire centrali elettriche, a sovvenzionare le perforazioni per il gas. Intervenendo sempre in maniera inefficiente ed ingiusta in settori che dovrebbero essere di competenza del mercato e dell’economia privata. Se non fosse intervenuto, oggi avrebbe molte più risorse da destinare alla salute, alla sicurezza, alla giustizia».

Dottor Cavallo, dal settembre 2008 paesi ultraliberisti come gli Stati Uniti e la Gran Bretagna stanno intervenendo massicciamente nell’economia. Questo è un dato di fatto innegabile…
«Sì, sta avvenendo, ma non ha niente a che vedere con un cambio di organizzazione economica, di sistema. Semplicemente, quando c’è una recessione è ovvio che lo stato debba tentare di aumentare la domanda effettiva attraverso l’applicazione di politiche fiscali e monetarie».

Se non si tratta di una revisione de facto del capitalismo, si tratta però di politiche  keynesiane, fino a poco tempo fa neglette dalla maggioranza degli economisti e dei governi…
«Quando le politiche keynesiane sono buone? Lo sono quando, in momenti di auge, di boom, sono ristrettive mentre sono espansive in momenti di recessione. Sono politiche compensatorie rispetto al ciclo economico.
Sfortunatamente quelli che si fanno chiamare keynesiani (e che io chiamo invece statalisti-populisti) applicano in periodi di boom politiche espansive, accumulando debiti invece che avanzi di bilancio con quelle fiscali, e producendo inflazione con quelle monetarie. Quando arriva la recessione, ovvero il momento in cui dovrebbero applicare politiche espansive, non le possono applicare, perché non hanno più credito e non possono creare moneta per non alimentare altra inflazione.
Oggi nel mondo – in Europa, Stati Uniti, Giappone, Cina, Brasile, Messico, Cile – è ragionevole che lo stato finanzi aumenti della spesa pubblica, diminuzione delle imposte e allentamento delle politiche monetarie. Ma non da parte di quei paesi che lo hanno fatto in periodi di boom, quando le politiche avrebbero dovuto essere di segno opposto. Ebbene, oggi questi paesi non possono affrontare la recessione, perché non hanno credito e hanno troppa inflazione. Ad esempio, Argentina e Venezuela, per rimanere qui in America Latina».

Dottor Cavallo, non ci ha spiegato le cause che, secondo lei, hanno prodotto questa crisi…
«Per le stesse ragioni per cui si sono prodotte le crisi finanziarie. Per un eccesso di ottimismo, soprattutto da parte dei banchieri.
Il mondo lo supererà in uno o due anni. Per l’Argentina sarà più lungo recuperare per colpa dell’attuale governo».

Nessun potere pubblico ha controllato le banche, il sistema finanziario, gli intermediari, gli speculatori…
«Sì, è mancata una regolazione.  Si doveva chiedere alle banche e agli intermediari finanziari di essere molto più conservatori di quanto non siano stati, pretendendo dai clienti maggiori garanzie, tassi più alti, periodi di credito meno lunghi.  Insomma, essere meno generosi. Però, in epoche di ottimismo generalizzato, i politici non vanno a porre freni alle banche. Al contrario, le spingono. Com’è successo negli Stati Uniti: gli stessi politici che oggi criticano, ieri spingevano il sistema ad offrire più credito e condizioni più favorevoli per comprare case. Insomma, in questo gioco di assegnare responsabilità per la crisi finanziaria, c’è moltissa ipocrisia».

Lei cosa dice ai suoi studenti di economia?
«Che studino. Che guardino alla storia e alla geografia. L’economia non si può studiare come una cosa matematica. È una materia sociale, complessa, in cui occorre guardare all’uomo nel suo contesto storico e geografico».

Corsi, conferenze, libri. Significa che lei non toerà più alla politica attiva?
«No, non vedo alcuna possibilità di tornare alla politica. Almeno per il momento». 

Di Paolo Moiola         

Domingo Cavallo,
ascesa e caduta di un profeta del neoliberismo     

1946, 21 luglio – Nasce a San Francisco, nella provincia di Córdoba.

1967-1977 – Si laurea in economia prima all’Universidad Nacional de Córdoba e successivamente all’Università di Harvard (PhD in Economics), negli Stati Uniti.

1978-1987 – È fondatore e direttore dell’«Instituto de Estudios económicos de la Fundación Mediterránea».

1982 – Viene designato presidente del «Banco Central de la República argentina».

1987 – Alle elezioni viene eletto deputato nazionale per provincia di Córdoba nelle fila peroniste.

1989-1991 – Il presidente Carlos Menem lo nomina ministro degli esteri, incarico che ricopre per circa un anno e mezzo.

1991-1996 – Sono gli anni – quasi 6 – come ministro (superministro) dell’economia del governo Menem.

1991, 27 marzo – Come nuovo ministro dell’economia fa votare la «ley de convertibilidad», in base alla quale si stabilisce un cambio fisso tra il dollaro Usa e la valuta nazionale (prima l’austral, poi il peso, la nuova moneta argentina). Inizia il periodo conosciuto come «el uno a uno». La legge rimane in vigore per oltre 10 anni azzerando l’inflazione ma producendo effetti alla lunga devastanti sul sistema industriale del paese.

1991, ottobre/novembre – Il governo Menem-Cavallo vara un programma di privatizzazioni, deregolazione economica e di flessibilizzazione del lavoro.

1997 –  Crea una propria formazione politica, «Acción por la República», e si candida come deputato, risultando eletto.

1999, novembre –  Si candida alla presidenza, ottenendo 2 milioni di voti e arrivando al terzo posto. Viene nominato presidente Feando De la Rúa.

2001, marzo – Il nuovo presidente Feando de la Rúa lo nomina ministro dell’economia.

30 novembre 2001 – Annuncia il «corralito», misura in base alla quale vengono stabilite severissime restrizioni al prelevamento di denaro dai depositi bancari. La misura produce una ribellione generalizzata, con manifestazioni di piazza («cacerolazos»).

19 dicembre 2001 – Dopo violente proteste di piazza si dimette da ministro. Il giorno dopo si dimette anche il presidente De la Rúa, che fugge ignominiosamente in elicottero dalla Casa Rosada.

2002-ad oggi – Professore visitante in alcune università degli Usa, si dedica alla pubblicazione di libri. E tiene conferenze in giro per il mondo.

FONTI: Domingo Cavallo con Juan Carlos de Pablo, Pasion por crear, Editorial Planeta, Buenos Aires 2001; per altre informazioni legate all’attualità si vada sul blog personale del protagonista: www.cavallo.com.ar

Paolo Moiola

Paolo Moiola




Intrecci di solidarietà

Italia

La storia di un lungo viaggio attraverso i sentirneri di carte bollate e di cavilli burocratici, raccontato da chi, per lunghi anni, è stata una presenza di consolazione nell’Ufficio di Pastorale Migrantes (Upm) di Torino. Un breve racconto a lieto fine, pieno di luci ed ombre, pregiudizi, paura, ma anche tanta tenacia e incrollabile speranza.

Conobbi Sandra nel luglio 2007; era venuta al nostro Centro, incinta di due gemelli, per chiedere un sostegno e un aiuto. Nigeriana, 28 anni di età, conviveva con un connazionale dal quale aveva avuto una bimba riconosciuta da entrambi.
Quando si trovò incinta di due gemelli, il convivente voleva che Sandra abortisse, ma lei rifiutò e lui se ne andò. 
La nuova vita che attendeva, per lei, donna africana, non poteva che essere portatrice di speranza e gioia: «La vita è di Dio e nessuno può toglierla», mi disse. Le sue convinzioni culturali e religiose non le consentivano di abortire. Per questo Sandra, ormai sola, con una bimba di due anni, al quinto mese di gravidanza, si rivolse al Centro Migranti.
Mentre si avvicinava la data del parto, oltre ai problemi della sopravvivenza si aggiunse anche quello dell’abitazione: doveva lasciare l’appartamento perché non poteva più pagare l’affitto!
Cominciammo le ricerche e, finalmente, trovammo per Sandra una sistemazione provvisoria, segnalando immediatamente il caso anche all’«Ufficio stranieri minori» del Comune di Torino che riuscì ad inserirla in una comunità nei dintorni del capoluogo: era il primo ottobre del 2007. Il 25 novembre, nacquero Daniel e David!
La gioia per la nascita dei bimbi fu grande, ma per Sandra i problemi si moltiplicarono: le era scaduto il permesso di soggiorno che aveva ottenuto a Brescia, dove aveva lavorato prima della gravidanza.
Incredibile, ma vero, per uno sbaglio nella compilazione dei moduli, la questura bresciana rifiutò il rinnovo. Si tentò il ricorso, ma l’avvocato non se ne interessò. I ricorsi costano e se non si possono pagare…! Tutto si arenò. Coinvolsi l’Ufficio Diocesano Migrantes di Brescia, che ci aiutò moltissimo, riuscendo a far accettare l’integrazione dei documenti.
Nel maggio del 2008, Sandra ebbe di nuovo tra le mani il sogno di ogni emigrante: il permesso di soggiorno, valido però solo fino a luglio del 2008.
Il rinnovo era condizionato dall’avere un lavoro sicuro, regolarizzato, che dimostrasse che l’interessata aveva un reddito compatibile per il mantenimento suo e dei figli: 10.300 euro all’anno, richiesto dalla legge.
Come poteva, questa donna nigeriana trovare un lavoro in breve tempo con tre bimbi, due dei quali di pochi mesi? Inoltre, di lì a poco avrebbe dovuto lasciare la comunità che la ospitava.
Furono momenti di desolazione per tutti. Dove e come trovare una struttura che accogliesse la famigliola, dal momento che era impossibile per la donna trovare un lavoro a tempo pieno, che rendesse diecimila euro? Dopo molte ricerche trovammo un’Associazione che se ne fece carico.
Ma il calvario di Sandra non era ancora finito. Purtroppo, la soluzione non fu ottimale per la carenza ed inefficienza nella gestione della struttura.
Sorsero altre difficoltà, sì da far pensare, che la cattiva sorte perseguitasse Sandra e i suoi piccoli. Il ritardo nel rilascio del permesso di soggiorno della questura di Brescia, generò un errore anagrafico nei documenti dei gemelli. Nati nel torinese, risultavano residenti in Nigeria, perché la madre è nigeriana e non aveva ancora la residenza a Brescia. Questo disguido impedì a Sandra di inserire i bimbi all’asilo nido municipale e di conseguenza di poter cercare e trovare un lavoro. L’irregolarità della sua situazione civile impediva anche all’assistente sociale di venirle incontro, visto che i quattro non risultavano residenti.
La situazione era veramente drammatica e Sandra era esasperata al punto da decidere di cercare qualcuno che portasse i bambini in Nigeria, presso la sua famiglia di origine, anche se poverissima, affinché lei potesse trovare un lavoro che le consentisse di vivere e di mandare parte dei soldi nel suo paese per il mantenimento dei figli. Cercai, senza sosta, un’altra struttura che potesse accoglierla e aiutarla. La Caritas di Asti rispose all’appello, capì la gravità della situazione e decise di farsene carico, accogliendo Sandra e i figli nella sua struttura: la sostenne e l’aiutò a risolvere i problemi burocratici negli uffici dell’anagrafe e in quelli della questura.
L’Associazione Amici Missioni Consolata di Torino da alcuni anni devolve un’offerta all’Ufficio Pastorale Migranti, per le donne in difficoltà; il mio pensiero corse immediatamente a Sandra, per cui presentai la sua situazione. L’Associazione accolse con entusiasmo e con tanta sensibilità la situazione di questa ragazza e se ne fece carico.
I vari interventi consentirono a Sandra di far fronte alle spese più urgenti per lei e per i bambini. Alcuni amici di Asti, poi, riuscirono a trovarle un lavoro, come badante, presso una famiglia. Anche qui, però, sorse una difficoltà: i datori di lavoro non volevano regolarizzarla. La regolarizzazione per Sandra era fondamentale, era la sola condizione posta dalla questura per poterle rinnovare il permesso di soggiorno.
Un intervento della responsabile della Caritas sbloccò la pratica e si riuscì ad ottenere la legalizzazione lavorativa. Per Sandra iniziò una nuova vita.
La nuova situazione le fece accantonare il progetto di rimpatriare i bambini. Inoltre, comprese che non era più sola, ma aveva una rete di persone, che Sandra chiama «famiglia allargata», che si occupava di lei e dei suoi figli.
La storia di Sandra è simile a quella  di centinaia di donne che si presentano al nostro Centro.
Quando la donna straniera non è guardata come «l’altra» o «la donna che sbaglia», quando c’è sinergia tra il pubblico e il privato e gli interventi di carità e di solidarietà s’intrecciano; quando sorgono persone disposte a dare voce a chi non ce l’ha, allora la speranza si riaccende e si comprende che un mondo diverso è possibile.
Dio, oggi come nei tempi antichi, sente il grido del suo popolo oppresso e sfruttato, se ne prende cura: lo libera, lo guida, lo protegge, lo consola e lo sostiene con la sua Provvidenza. Oggi, come ieri, non interviene da solo ma si affida a noi per continuare a compiere le sue grandi opere nello scorrere del quotidiano.

di Suor Maresa Sabena

Maresa Sabena




Volti, storie e speranze

Italia

Storie brevi, quasi delle istantanee di sofferenza e disperazione di donne in cerca di consolazione.

Mercy, nigeriana, viene portata in Italia a 14 anni e venduta da uno zio a trafficanti di esseri umani; messa sulla strada, viene recuperata dalla polizia ed è accolta in una comunità per minori; perde i contatti con la famiglia che ritrova solo dopo 6 anni, grazie all’interessamento e al lavoro di rete tra le congregazioni religiose. Ritrova la mamma e la famiglia che la credevano morta, sparita nel nulla. Commovente è stato il contatto telefonico tra madre e figlia dove le lacrime hanno dato spazio ad una profonda riconoscenza al Signore che veglia sui suoi figli come una madre.
Joy, 19 anni, primogenita di 8 figli, lascia la famiglia per aiutare i fratellini a frequentare la scuola. Durante il lungo ed estenuante viaggio attraverso il deserto del Sahara è violentata da tante persone dalle quali non può sottrarsi: rimane incinta.
Per sei mesi lavora sulla strada per pagare il grosso debito di 60 mila euro contratto, senza saperlo, con l’organizzazione criminale. Nessuno sa della sua gravidanza, tranne alcune persone di una «unità di strada» che la seguono e la convincono a lasciare la strada. Finalmente, viene accolta in una delle case-famiglia gestite da religiose e accompagnata con amore ad accogliere, se pur faticosamente, il dono della vita, frutto di  violenza e  umiliazione. È stata questa nuova vita che ha dato a questa donna consolazione e gioia. Ricordo il suo commento dopo la nascita della bimba: «Senza il vostro aiuto, non solo ora non ci sarebbe la mia bambina, ma non ci sarei più nemmeno io, perché la vita per me non aveva più senso».
Sonia, 18 anni appena compiuti, viene presa dalla strada, durante un controllo della polizia e portata al Cpt (Centro di Permanenza Temporaneo) di Roma, perché priva di documenti; in 15 mesi aveva fruttato alle sue tre sorellastre che l’avevano portata in Italia la somma di 55 mila Euro. Sulla strada, per la sua giovane età, era molto ricercata.  A Ponte Galeria incontra le suore che ogni sabato visitano il Centro e che, conosciuta la sua storia, cercano di aiutarla ad uscire dal giro. Viene accolta in una casa-famiglia e segue un programma di reintegrazione sociale. Quale consolazione più bella e più grande di quella di dare ad una giovane morta e distrutta dentro, la gioia e la voglia di vivere e di sperare?
Gloria, 22 anni appena compiuti, lavora sulla strada per pagare il grosso debito contratto con i trafficanti e sanzionato con i riti «voodoo», davanti allo stregone, prima di lasciare la Nigeria. Sulla strada uno dei «clienti» la vuole portare in casa, la ragazza rifiuta e l’uomo si vendica gettandola da un ponte: il suo corpo senza vita viene ritrovato il giorno dopo. Nonostante non abbia documenti attraverso i contatti con alcune suore nigeriane e l’interessamento delle medesime riusciamo a contattare la famiglia e a comunicare la triste notizia. Per l’anziano padre insieme alla grande sofferenza è stato di grande conforto e consolazione  sapere che qualcuno si era preso cura della figlia uccisa e l’ha sepolta in un paesino di montagna.
Jennifer, giovane donna di 27 anni e madre di due bambini lasciati in Nigeria, ha toccato profondamente la mia vita e il mio servizio missionario in Italia. Viene in Italia ed è costretta a vendere il suo corpo come oggetto di piacere  diventa una fonte di guadagno per i trafficanti.
Jennifer lavora in diverse città italiane e una notte, durante l’attesa dei clienti, lungo una delle tante strade dove sostava un’arma da fuoco la colpisce; rimane in coma per diverse settimane ed al risveglio si ritrova paralizzata agli arti inferiori perché un proiettile le aveva perforato il midollo spinale. Durante i lunghi mesi di degenza e di riabilitazione la visito sovente e la seguo. Jennifer chiede di ritornare a casa per rivedere i suoi bambini. Ritorna in Nigeria su di una sedia a rotelle.
L’anno seguente ero in Nigeria e andai a trovarla nella sua capanna, dove l’anziana madre l’assisteva. Non dimenticherò, la gioia, la sua sorpresa nel vedermi, ma soprattutto il sorriso carico di riconoscenza per la consolazione che la mia presenza portava in quella casa: non riusciva a credere che fossi proprio io!
Jennifer è mancata due mesi dopo la mia visita, il giorno di Pasqua: ha terminato di soffrire.
I miei racconti potrebbero continuare e disegnare gli anelli che formano la lunga catena della nuova schiavitù del 21º secolo, che imprigiona tante persone, ma che, come Missionaria della Consolata, cerco di spezzare offrendo ad ogni donna il dono della consolazione vera, della gioia di vivere e di amare, di cantare e danzare alla vita.
Termino questa condivisione accennando alle settimanali visite al Cpt di Ponte Galeria fatte insieme ad un gruppo di 15 religiose provenienti da 13 paesi diversi, che offrono un’assistenza pastorale e religiosa alle donne straniere, in attesa di espulsione, perché senza i documenti.
Il Centro ha una capienza di 180 posti letto e le donne che incontriamo ogni sabato vivono questa esperienza con sofferenza e a volte con disperazione; infatti, tutti i loro progetti per aiutare la famiglia vanno in frantumi perché vengono rimandate a casa a mani vuote e con l’umiliazione di essere state vendute, comperate e scambiate come merce.
La nostra presenza settimanale in questo Centro vuole donare a queste donne la possibilità di condividere un momento di preghiera e di riflessione affinché attraverso la ricchezza della parola di Dio, forza e sorgente di ogni consolazione, possano trovare il coraggio di sperare e, nonostante l’umiliazione e il fallimento, aprirsi a nuove opportunità che la vita può loro offrire.
La triste esperienza che hanno vissuto non può e non deve essere la fine, ma al contrario, deve mostrare loro che un avvenire di serenità e prosperità è ancora possibile.
Il nostro impegno e servizio ci chiede di donare la vera consolazione a quanti incontriamo nel nostro cammino quotidiano e toccare, così, il cuore e la vita di tante donne e dire: “La vostra schiavitù” è finita, anche voi siete consolate dall’amore di Dio e dalla nostra solidarietà e vicinanza.

Di suor Eugenia Bonetti



Eugenia Bonetti




Fine settimana a Castel Volturno

Italia

Missionaria della Consolata, di origine polacca, da più di quattro anni, presta il suo servizio apostolico a Castel Voltuo nella Parrocchia di Santa Maria dell’Aiuto, per gli immigrati. Qui operano i Missionari Comboniani affiancati dalle Suore Nigeriane del Sacro Cuore e alcuni laici volontari.

Arrivai a Castel Voltuo il sabato pomeriggio e cominciai a camminare lungo la strada principale. Scorto un mercatino improvvisato sul marciapiede della via Domitiana, mi avvicinai a quattro donne e altrettanti uomini, di nazionalità polacca, che vendevano oggetti di artigianato. Mi dissero che da due mesi giravano in questa zona, con la merce, ed abitavano nel loro piccolo furgone. Mi raccontarono come la crisi economica li aveva costretti a fare questa vita per guadagnare qualche euro: tutti speravano di poter tornare al più presto in Polonia. Toando verso la parrocchia incontrai tre giovani donne polacche: Elisabeth, Margherita ed Evelina. Erano arrivate il giorno prima dalla Polonia, con il solito pulmino settimanale. Mi raccontarono di aver letto su di un giornale, in Polonia, del viaggio-offerta che assicurava anche un lavoro, in Italia, il tutto per 200 euro. Una volta arrivate a destinazione, però, vennero «scaricate» a Castel Voltuo in una casa gestita da una «mediatrice» del lavoro, alla quale avrebbero dovuto versare un’altra somma di denaro per saldare il debito contratto per arrivare in Italia a inseguire il proprio sogno.
Questa è la storia del mio primo fine settimana passato per le strade della mia nuova missione. Castel Voltuo, in provincia di Caserta, è un paese che si estende per ventisette chilometri lungo il mare, attraversato in tutta la sua lunghezza dalla via Domitiana. Qui, vivono alcune migliaia di immigrati, la maggioranza proveniente dalla Nigeria e dal Ghana. La loro situazione è difficile, perché non riuscendosi a mettere in regola e trovare un lavoro, cadono molto spesso nelle mani della malavita organizzata che li usa come mano d’opera a basso prezzo nel traffico della droga e della prostituzione. Negli ultimi anni, dall’Est Europa, c’è stato un forte e costante afflusso di immigrati, tra cui parecchi polacchi, che settimanalmente arrivano in cerca di lavoro. In Polonia si pubblicizza che in Italia c’è la possibilità di lavorare e di guadagnare tanti soldi. Chi organizza questi viaggi fa pagare molto, sia il trasporto, sia l’indirizzo del presunto datore di lavoro. Queste promesse molte volte finiscono male a causa di tanti «imbroglioni» polacchi e italiani, che guadagnano a spese di chi è in cerca di un lavoro.
La Parrocchia di Santa Maria dell’Aiuto, gestita dai Missionari Comboniani costituisce un punto di riferimento per i Polacchi: qui si ritrovano e ricuperano la loro identità cristiana e nazionale, le principali festività religiose Natale e Pasqua sono celebrate secondo le tradizioni e diventano momenti di aggregazione e frateità. Molti immigrati polacchi, inoltre, chiedono di preparare i figli nati a ricevere il sacramento del Battesimo e di amministrare la Cresima a quelli che sono venuti con loro dalla Polonia. Non mancano poi, le giovani coppie, che chiedono di celebrare il matrimonio in chiesa. Qui vengo il fine settimana per prestare un servizio di pastorale missionaria tra le donne, le ragazze e i lavoratori del mio paese.
Oltre alle attività propriamente religiose, il mio compito è quello d’incontrare e ascoltare le persone che incontro lungo la strada, in parrocchia o nelle famiglie.
Sì, anche qui, c’è la missione «ad gentes», che ci spinge ad aprire gli occhi e il cuore e ad andare incontro alle persone accettando la loro realtà culturale, linguistica, religiosa e, soprattutto, a farsi carico della loro sofferenza, pronti ad accogliere e a consolare coloro che incontriamo sul nostro cammino.

di suor Krystyna Jaciow

Krystyna Jaciow




Insieme a zambujal

Portogallo

In uno dei quartieri più poveri e disagiati della periferia di Lisbona prende vita un’esperienza di lavoro comune che unisce missionari e missionarie, religiosi e laici, tutti tesi a portare una parola di speranza.

Una serie di grandi costruzioni giallastre e grigie alla periferia di Lisbona, a pochi passi dai modeissimi stadi di calcio del Benefica e dello Sporting, danno ospitalità a circa ottomila persone, esiliate in quest’angolo di Portogallo dalle loro condizioni di disagiati cronici. Reduci portoghesi mai arricchitisi dall’avventura coloniale si ritrovano come vicini di casa coloro a cui prima contendevano la terra mozambicana, angolana e di altri angoli di mondo. Capoverde è ben rappresentato in questo piccolo microcosmo di umanità racchiuso fra le mura sbrecciate dell’edilizia popolare portoghese, che comprende anche un buon numero di rom, cinesi e persone emigrate dai vari paesi dell’Est Europa. È Zambujal, il territorio che dal 2002 i missionari e le missionarie della Consolata, religiosi e laici, hanno scelto per impostare un lavoro di équipe che fosse una risposta evangelizzatrice alle varie frontiere ad gentes che si iniziavano ad aprire anche in Europa.
Abbandono scolastico, disoccupazione selvaggia, lavoro saltuario e precocità nel costituire una famiglia sono fenomeni quotidiani per molta gente che a Zambujal cerca un luogo in cui sopravvivere alla bene e meglio. Le sfide, per chi opera in questo quartiere sono il dialogo interculturale, la formazione di leader per la gioventù e gli animatori di comunità; senza ciò, il tessuto sociale sarebbe assolutamente impermeabile.
Invece, nel quartiere dello Zambujal, la consolazione si è diffusa rapidamente tra le persone che lo abitano. L’équipe missionaria ha saputo creare entusiasmo e in breve tempo lo sforzo di proporre una forma alternativa di vivere è stato concretamente condiviso da molti.  Ci sentiamo una grande famiglia: la gente ci invita a pranzare a casa  loro, ci vuole presenti durante le celebrazioni e le feste tipiche della loro terra d’origine. Le persone si confidano con noi e raccontano con semplicità e spontaneità i segreti della loro vita: hanno fiducia e, al contempo, cresce e si rafforza il loro senso di appartenenza.
Ho sempre creduto che i vari progetti a favore della gente devono formare leader locali, affinché la dipendenza dai missionari sia minima. In questo quartiere ciò avviene e i progetti di pastorale e di sviluppo sorgono uno dopo l’altro per iniziativa della popolazione, che inizia a realizzarli con autonomia e responsabilità.
Nella mia preghiera personale rifletto e cerco di comprendere il valore e il senso della mia presenza nel quartiere – a volte fugace, fragile e spesso segnata dalla stanchezza per altri impegni che mi sono affidati. Tuttavia, con grande meraviglia constato che Dio risponde alla mia preghiera attraverso le persone: ad esempio, quando sono più stanco, sono accolto con maggior attenzione e amicizia dalla gente; quando mi sembra di avere fatto poco, mi accorgo che le persone valorizzano quel poco che ho donato; quando dopo essere stato lontano per un po’ di tempo too la gente mi accoglie e fa festa.
La mia attività nello Zambujal mi ricorda che la missione è fatta soprattutto di presenza, vicinanza, accoglienza: sì, ci vogliono anche le opere, ma si realizza soprattutto attraverso la condivisione della vita che vale molto di più di tanti progetti. Il missionario lascia la sua terra di origine e va incontro alle persone: questo dà valore alla sua presenza là dove è stato inviato.
In diversi momenti della mia vita ho notato come sia importante prendere e sostenere delle iniziative insieme alla comunità, vivendo profondamente  lo spirito di famiglia. Questo spirito unisce anche la comunità eterogenea dello Zambujal: tutti siamo consolatori e al contempo consolati; tutti catechisti e catechizzati.
La gioia che vedo sul volto delle persone quando arrivo nel quartiere è una delle maggiori consolazioni che provo come missionario nella periferia di Lisbona. Rispetto molto le persone  anziane, mi consola la fiducia che pongono in me quando narrano e confidano le pene e le giornie della loro vita.
Gioisco e sono consolato anche dalle conversazioni in creolo, dalla  musica etnica suonata con tanta passione e, soprattutto, dal vibrare all’unisono per gli eventi giorniosi e anche quelli tristi della vita. Questo intrecciarsi di gesti e parole crea un forte senso di appartenenza che non guarda il colore della pelle, ma si fonda sul calore umano, che consola profondamente tutti.
Nello Zambujal la consolazione è attuale e vibrante, bisogna solo essere capaci di donarla e riceverla con umiltà e generosità.

Di Mario Linhares

Mario Linhares




Consolazione in… potenza

Italia

Già sede del noviziato dei Missionari della Consolata, la Certosa di Pesio è una casa di spiritualità, dove centinaia di persone ogni anno trovano riposo, pace e percorsi di rinascita umana e cristiana.

Le mura della Certosa potrebbero raccontare un’infinità di eventi di consolazione, alcuni dei quali si perdono nel tempo, nella storia secolare iniziata con la prima comunità certosina nel 1173. Ma stiamo sull’oggi, parliamo della consolazione che fra questi chiostri trovano religiosi e laici, persone in crisi e bisognose di pace… quanti cammini di redenzione si sono dipanati da questo centro di spiritualità.
Vorrei però accennare a tre storie di consolazione «in potenza». Mi riferisco a tre giovani: Ermanno, Pier Guido e Anna. In questo caso i nomi sono quelli veri, perché immagino sarebbero loro stessi i primi a voler condividere la loro personale storia di consolazione.
Ermanno, torinese, è un giovane molto vivace, intelligente, laureato a pieni voti in lettere. Inizia a seguire alla Certosa il cammino delle scuole di preghiera mensili, partecipa a degli incontri, approfitta di una guida personale del suo cammino di fede. Poco per volta scocca nella sua storia la chiamata alla missione, scopre i missionari della Consolata. Ora sta terminando i suoi studi teologici a Roma, presto sarà ordinato sacerdote missionario della Consolata e girerà il mondo a portare, a raccontare la consolazione di Maria alle genti.
L’altra storia segue la stessa falsariga: è quella di Pier Guido, un giovane di Cuneo, laureato a pieni voti in fisica all’università di Pavia. Anche lui matura questa chiamata alla missione, alle genti, a portare la consolazione del vangelo. Si trova oggi con Ermanno nel nostro seminario teologico di Roma. Si sta portando avanti con gli studi e partirà presto per un’esperienza in Mozambico. Speriamo sia presto ordinato sacerdote tra di noi.
Un’ultima storia che potrei ancora raccontare è quella di Anna, una ragazza come tante, che sente però forte dentro di se il senso della preghiera, dei fratelli, del dono. Frequenta la scuola di preghiera da noi alla Certosa, inizia un cammino di vita spirituale e matura nel suo cuore la decisione di partire per la missione, di essere dono ed aiuto per gli altri. Da un po’ di anni si trova in Brasile, tra i meninhos de rua, i bambini della strada, a vivere questo servizio per cui si sente chiamata come laica missionaria; chiamata a vivere una vita di amore, di tenerezza, di accoglienza per queste persone senza consolazione, con la disperazione nel cuore.
Sono storie semplici, umanamente parlando potranno apparire forse banali, ma mi sembra importante ricordare che una missione in Europa oggi non può prescindere da un richiamo forte alla spiritualità missionaria.  Sono storie che nel loro piccolo raccontano quanto la preghiera e quanto una casa che sia disponibile all’accoglienza dei giovani per aiutarli a pregare, a riflettere e ad approfondire il senso della vita, possa diventare, un luogo preferenziale di consolazione.

di padre Francesco Peyron

Francesco Peyron