Dove gli aiuti… aiutano davvero
INTRODUZIONE
Un giornalista non è solo un rigoroso traduttore di informazioni, ma anche un cantastorie. La voce di chi non ha voce. Gli occhi di chi non può o non vuole vedere. Ha la possibilità e la capacità di potersi fermare. Fermarsi a riflettere, osservare, parlare, ascoltare e ascoltare. E questo ho scelto di fare per sei mesi di vita in Tanzania.
Il mio rapporto con il Tanzania è stato da subito viscerale. Il 15 dicembre 2007 la prima sensazione è stata di soffocamento. Un vento caldo, umido mi ha bloccato le narici e i polmoni, ma il cuore era tornato a casa.
«Inside Tanzania» non è solo un reportage. Ma un esperimento di sei mesi di vita a Mbagala, periferia di Dar Es Salaam, e in altri slum musulmano-integralisti, vivendo la quotidianità e gli effetti della cura antiretrovirale su malati di Aids/Hiv. Insieme. Come loro e con loro. Questo era il mio obiettivo.
Un progetto di reportage nato nel luglio 2007 con la mia collega Alessandra Sinibaldi per indagare come mai nonostante la mole mondiale di fondi stanziati da qualsiasi tipo di associazione, ente o struttura grande e piccola per progetti in Africa, questa terra continuasse a morire inesorabilmente. Un’inchiesta sulla cooperazione internazionale decentrata e non, laica e religiosa.
Avevamo passato un mese a girare fotografando e lavorando senza freni. Interviste, riprese, traduzioni, visite, libri, incontri nei villaggi con musulmani, cristiani, protestanti, malati, dottori e scatti e scatti.
Pur disponendo di enormi risorse le organizzazioni inteazionali non riescono a raggiungere risultati soddisfacenti sia nel campo dello sviluppo che nella lotta all’Aids in Africa. Missionari e missionarie, invece, con scarsissimi aiuti e senza la ribalta mediatica, riescono a fare autentici miracoli a favore della popolazione. Lo evidenzia una giovane giornalista nel suo documentario «Inside Tanzania», elaborato
in sei mesi di vita africana.
S ono tornata in Tanzania il 15 dicembre 2007, stavolta sola. Alessandra ha dovuto subire un intervento al ginocchio.
Il soggetto del reportage era lo stesso: indagare come vengono investiti e impiegati i fondi inteazionali per la cura dell’Aids. Ma per fare ciò dovevo prima di tutto rendere «protagonisti», nel reportage e nella mia vita, la gente dei villaggi. Dovevo diventare una di loro. Rassicurarli e farmi conoscere.
Sono stanchi di essere fotografati da jeep cariche di bianchi, che scattano per riportare a casa la foto del poverissimo africano. Ormai è un rito per molti volontari di onlus o associazioni fare il cosiddetto «giro turistico» per i villaggi, mascherato anche dal termine «eco-turismo» ora estremamente di moda, ma pochi sono gli esempi di eco-turismo nel senso etimologico.
I masai sanno dai loro fratelli impiegati nei villaggi turistici e davanti a resort, rigorosamente vestiti con gli indumenti tradizionali e costretti a scimmiottare la loro cultura per affascinare il turista, che molti bianchi realizzano foto che poi vendono a riviste, quindi vogliono essere pagati.
Per sei mesi con la gente
La maggior umiliazione per un fotoreporter è pagare il suo soggetto. È la via più semplice e veloce per non instaurare nessun tipo di contatto o fiducia, ma dalle foto questa sensazione salta agli occhi.
Ho vissuto nella periferia più degradata, colpita da quella piaga che sta «fucilando» l’Africa da decenni. Senza acqua, senza luce, in «case» con lastre di lamiera infuocate, dove solo delle coraggiosissime missionarie operano la loro evangelizzazione. Nei campi, nelle moschee e madrase, davanti a un piatto di polenta e fagioli e davanti a un piatto vuoto, su stuoie, negli ospedali e nei dispensari.
Ho vissuto sei mesi della mia vita seguendo famiglie che mi hanno accettato come figlia, sorella e amica, nella loro speranza di guerra all’Aids, scoraggiandomi e entusiasmandomi con e per loro. Vivere sei mesi, nella stagione più calda dell’anno, nella zona più calda, e satura di persone non è stato facile! Ma la voglia di raccontare attraverso la mia macchina e la mia stessa pelle questo spaccato di vita vera era più forte di qualsiasi malaria, malattia o paura.
Incontri con realtà… speciali
La curiosità, l’interesse giornalistico e, prima ancora, la voglia di capire e raccontare mi hanno fatto girare gran parte del Tanzania, indagando e scoprendo le realtà molteplici di cooperazione. Ho conosciuto realtà di fede profonda, di ritmi di vita scanditi dalla parola di Dio.
Da un Dio che scuote il corpo e la mente sostenendoti in lavori massacranti di aiuto gratuito.
E ho visto realtà di egoismo e superficialità che sembrano giocare con la vita delle persone e con i soldi dei fondi mondiali. Ho conosciuto anche grandi associazioni come il «Cuamm», «Medici con l’Africa», il cui personale medico è attivo anche in strutture governative.
Uno di questi medici è Mario Battocletti, medico chirurgo, presso l’ospedale governativo di Iringa, a cui fa capo più di un milione di persone. Mario vive a Iringa con sua moglie e i suoi tre bambini. Quando sono andata a casa sua, ho scoperto un grandissimo professionista con il sogno di lavorare in Africa e salvare vite. Ed è quello che fa da mattina a sera, scontrandosi con la realtà confusa e purtroppo corrotta della società e dell’ospedale. Ma non si arrende.
Poi ci sono i laici missionari e singoli volontari che fanno tanto e lo fanno senza rumore, ma con creatività, ingegno e impegno. Più osservavo, giravo, conoscevo, e più sentivo che questo reportage stava diventando una missione. Una missione di informazione non solo sul Tanzania, stato sconosciuto se non per la bellezza dei suoi parchi e delle sue spiagge, ma sul mondo dei missionari che operano in un continente a noi ancora sconosciuto seppure ne siamo assuefatti.
Assuefatti all’idea che i media ci hanno sempre proposto e continuano a propinarci, alla convinzione che come l’Iraq, l’Afghanistan, sono realtà irrisolvibili ma per quali fattori? Perché? Conosciamo solo il bimbo con la mosca nell’occhio e la pancia gonfia, la guerra in Somalia, i bambini soldati, le violenze in Congo, Ruanda, Darfur e le meravigliose spiagge di Zanzibar, Pemba, Sharm e Marsa Alam!
Tra stereotipi e disinformazione
Chi conosce l’Africa (non me ne vogliano i grandi esperti di geopolitica, cultura e tradizioni) è chi legge i giornali missionari che attraverso le voci, le testimonianze di missionarie, missionari, volontari e operatori di pace, che vivono trenta, quaranta, settanta anni la realtà, hanno la voglia e la pazienza di fermarsi ad ascoltare, aiutare e poi raccontare.
Chi vive la quotidianità dei giornali, degli special televisivi ha imparato attraverso esponenti del mondo dello spettacolo, i noti «ambasciatori» a donare un euro attraverso l’sms all’Africa che non va mai avanti… a quell’Africa che muore di fame sempre e comunque. All’Africa fatta di uomini e padri che schiavizzano le mogli e i figli pur di non lavorare, a un popolo che muore di Aids perché superficiale e poligamo.
E poi veniamo a scoprire che tutto il denaro mandato tramite sms, per il Darfur o per le famiglie colpite dallo tsunami non è mai arrivato a destinazione. È bloccato in una banca belga o svizzera, ma è solo questione di tempo, recita la smentita sui giornali, ma come non c’era un’emergenza?
A me verrebbe da dire «tanto ci sono i missionari che, attraverso amici, parenti, benefattori e l’animazione, sono in grado di aiutare la gente, anche senza milioni di dollari!».
Allora due sono le cose o i missionari, avendo la corsia preferenziale di dialogo con Lui, riescono a moltiplicare i soldi, come Qualcuno moltiplicava i pesci, o sono angeli straordinari prestati a noi comuni mortali per insegnarci a vivere.
E l’interrogativo dominante: «Ma come mai, sono decenni che mandiamo, mandiamo e rimandiamo soldi attraverso queste grandi associazioni e la situazione è degenerata in un’emorragia acuta? Il dato certo è che se ne sono sentite tante. E la gente non si fida più o, se si fida, è perché la comunicazione di quella associazione è stata fatta seguendo le teorie e le tecniche migliori della comunicazione di massa.
Una comunicazione che ha screditato e criticato in maniera velata ma fin troppo efficace, per anni, la cooperazione religiosa di congregazioni presenti da decenni che dopo sessanta, settanta, cento anni ora sembrano non essere più in grado di insegnare, curare e aiutare. Io da conoscitrice del mondo giornalistico la spiegherei attraverso due fattori.
Primo fattore: sono religiosi. E in Italia sappiamo che qualsiasi persona sia religiosa o legata alla chiesa, da sempre sinonimo di sfarzo e di eccesso, non va più di moda. Pensateci!
È vero che ci sono tanti laici che hanno una fede profonda, ma se siamo arrivati alla società attuale, sarà colpa dell’economia che non va, dei nostri governanti che non sanno fare il loro lavoro, dei media che attraverso la pubblicità presentano modelli sbagliati…, ma sarà anche colpa nostra, che abbiamo perso di vista i valori fondamentali di dignità, onestà e serietà e li abbiamo sostituiti con la corsa frenetica al raggiungimento del denaro.
Una carissima amica missionaria, di una saggezza stravolgente, mi disse un giorno: «Voi andate avanti seguendo la regola delle tre S: sesso, successo e soldi». Noi giovani, usciti da poco dalle università, non possiamo che confermare che il fine delle lauree è guadagnare, guadagnare per permettersi tutto.
Il secondo fattore per cui attualmente i missionari non hanno più il successo di una volta è che non sono dottori. Sono poche le vocazioni. Poche le missionarie dottoresse e i missionari dottori laureati. In un dispensario in capo al mondo, in una zona dove non c’è luce, acqua, ma solo povertà e malattia ci sono suore missionarie settantenni, solo infermiere, che lavorano 15-18 ore al giorno, insegnando e formando praticamente Clinical Officer, capaci di sostituirle un domani, ma per i nostri dottorini e dottori delle Ong, non vanno più bene. «Non sono preparate. Sono superficiali» mi sono sentita ripetere.
Dove finiscono gli aiuti?
Potrei fare un elenco delle strutture inteazionali e associazioni che operano in Tanzania con metodologie e scopi diversi dai missionari. Ma non è il mio obiettivo.
Con il mio reportage non ho affatto intenzione di osannare solo le missionarie della Consolata, poiché ho incontrato tante congregazioni cattoliche; mi ha molto colpito, per esempio, la realtà delle missionarie della Carità, le suore di Madre Teresa, che accolgono orfani anche con gravi handicap e anziani. Anche i protestanti anglicani e luterani, le associazioni di laici missionari o volontari fanno tanto e bene.
Mi ha lasciato molto perplessa invece, il fatto che in uno stato dove il 10% della popolazione nasce con handicap fisici e mentali, nonostante la massiccia presenza delle Ong e associazioni di aiuto, non ci sia in tutto il Tanzania una struttura di ricovero per bambini, ragazzi e adulti che abbiano forti handicap mentali e fisici, una sorta di Cottolengo.
Anzi le suore del Cottolengo ci sono in Tanzania, ma anziché mantenere il carisma che hanno in Italia, con il lavoro straordinario che portano avanti, in Tanzania si occupano della pastorale… forse anche il carisma oltre oceano subisce un cambiamento climatico, fisico!
Ma non posso, inoltre, non sottolineare la diffidenza motivata delle persone quando si parla di offerte, donazioni e aiuti economici a istituti religiosi che magari sembrano sconosciuti o inaccessibili materialmente, perché talmente impegnati sul campo che sono fuori dalla comunicazione on-line, telefonica satellitare e per principi propri, fuori dalla pubblicità capillare.
Mai nessun missionario della Consolata manderà cartoline, foto di bambini tristi e malati, a tutti gli italiani, augurando loro buon natale, buona pasqua, buona festa della mamma e del papà… per colpire il cuore e le menti degli italiani, popolo statisticamente tra i più sentimentali e sensibili al mondo in materia di aiuto, nonostante il materialismo dominante, direbbe qualcuno!
Non sarò certo la prima a fare scornop o a dichiarare che istituzioni mondiali come l’Unicef, spendono l’85% delle loro entrate tra pubblicità e stipendi, lo stesso vale per la Croce Rossa e una miriade di associazioni, grandi e piccole, che ci mandano bollettini, cartoline, e-mail… chiedendo offerte.
Con ciò non voglio dire che queste grandi realtà non abbiano fatto nulla di concreto negli anni, anzi! Il punto è però un altro: se si hanno a disposizione dieci, venti, cento milioni di dollari e l’85% viene investito non nell’istruzione, nella lotta all’Aids e alla malaria (che, non dimentichiamo, in Africa provoca la morte di un bambino ogni 5 minuti, ma piuttosto in stipendi, pubblicità, trasporti e tutto ciò che riguarda la gestione dell’istituzione, è evidente che non riusciremo a fermare un bel niente, a cambiare nulla.
Ci saranno solo progetti che partiranno e avranno un iter di due anni, cinque anni, fino al momento in cui ci saranno i soldi decisi e stanziati. Il progetto non sarà rifinanziato e il dottore di tuo a capo, andrà via e tutto toerà come prima. Secondo lo stesso Mario Battocletti: «Il problema è la non cooperazione tra le realtà private in primo luogo tra loro, e poi con quelle statali. Non c’è una programmazione di governo, ma è pur vero che sempre più spesso ogni Ong tende a fare autonomamente e quindi c’è una dispersione di aiuti».
Un approccio diverso
Altra cosa che mi ha fatto riflettere e decidere di farmi portavoce dei missionari e in particolare delle missionarie della Consolata, attraverso un reportage che fosse una missione di sensibilizzazione e informazione sulla realtà troppo scomoda delle grandi strutture di cooperazione, è la vita stessa e le strutture dei missionari rispetto alle altre. A livello igienico, sanitario, lavorativo ho visto e fotografato dispensari e centri gestiti da missionari, in villaggi senza acqua e luce, che non hanno nessuna carenza rispetto alle strutture delle Ong. Certo minor personale, ben pagato, logicamente non come quello delle «grandi», ma di gran lunga superiore alla paga stabilita dal governo.
I ritmi sono diversi. In un dispensario non c’è orario. A Mbagala, periferia di Dar Es Salaam, il dispensario delle missionarie della Consolata visita quotidianamente dalle 500 alle 600 persone. Non ho mai visto suor Franca Lidia Cochis, la suora che lo gestisce, mandar via qualcuno. Ho sentito invece dalle due di notte, passi silenziosi di mamme che si mettevano in fila, dopo aver percorso 20-30 km per far vedere i loro bambini alla sister, perché l’umanità è diversa. L’approccio e la cura sono diversi. Lo staff professionalmente competente visita, prescrive, fa iniezioni e dà le stesse medicine a prezzi inferiori.
Suor Franca Lidia, con un immaginabile sforzo, gira tutta Dar Es Salaam per comprare le medicine a prezzi inferiori dai Medical Store. Perché lo fa? Non ha uno stipendio. Non è più giovanissima. È guidata solo dalla fede e dalla scelta che ha fatto cinquant’anni fa, quando ha deciso di diventare una suora missionaria della Consolata.
Cambiare: si può e si deve
Non ho visto uffici e centri delle Ong nei villaggi di periferia delle grandi città, degradati e difficili per motivi di ordine non solo sociale e sanitario ma anche religioso, fatta eccezione per la zona di Iringa, realtà in cui c’è una maggiore concentrazione di strutture di cooperazione e sviluppo. Una consistente presenza di tali uffici l’ho vista, invece, nella parte ricca di Dar Es Salaam, davanti all’Oceano Indiano, dove la vita è altissima rispetto alla media della popolazione e il mare è un incanto. Ma questa scelta sarà stata solo una coincidenza!
In una delle proiezioni del documentario con il quale sto girando l’Italia, con lo stesso scopo di sensibilizzare sulla realtà anche difficile e traumatica nella quale operano i missionari, perché è giusto non far vedere sempre e solo il bambino con la mosca negli occhi, ma in troppi pensano che la vita del missionario sia affascinante, in posti bellissimi, con ritmi di vita molto più tranquilli dei nostri, con meno preoccupazioni; allora il mio obiettivo è anche scuotere la gente, dicevo che mi ha colpito un commento di un padre. «Siamo tutti missionari. Dal momento del battesimo, siamo tutti missionari».
Io non pretendo e non posso dare risposte e soluzioni ai problemi riguardanti il bisogno di fondi economici per la cura antiretrovirale o per le strutture dei missionari, ma mi chiedo e vi chiedo: nel momento in cui scegliamo di lavorare nell’ambito della cooperazione è perché abbiamo interesse e obiettivi a realizzare qualcosa che sia di aiuto a quello stato e alla sua gente perché in difficoltà.
Quindi possiamo anche declinare l’invito a lavorare seguendo le norme e gli standard mondiali di marketing e pubblicità. Proviamo a fare i missionari! Abbiamo famiglie, figli da mantenere, non possiamo lavorare gratuitamente perché la vita è altissima, è chiaro e noto a tutti. Non dico di fare solo i volontari, ma anziché andare in una parte del mondo per fare carriera o ridurre gli anni che ci avvicinano alla pensione o per guadagnare quattromila, settemila euro al mese, con progetti destinati a salvare la vita di esseri umani, grandi e piccoli, fermiamoci a un guadagno di mille, mille e cinquecento euro e il resto investiamolo nella totalità del progetto.
Per molti sarà un’utopia. La certezza è che continuando così non aiuteremo nessuno ma continueremo solo a riempirci la bocca di Africa, aids, malaria e morte, alimentando il binomio Africa=morte e a disperdere i fondi.
Un esempio…
Ho conosciuto una coppia di italiani a Dar Es Salaam che mi ha colpito particolarmente: un medico italiano, fisioterapista, Augusto Zambaldo, che dirige il reparto di riabilitazione dell’ospedale Ccbrt (Comprehensive Comunity Based Rehabilitation, Centro riabilitativo su base comunitaria del Tanzania) che lavora nell’ospedale specializzato per problemi alle ossa (Ccbrt, Comprehensive Community Based Rehabilitation Tanzania), costruito da una Ong tedesca, ottimo dal profilo medico, e sua moglie Laura, una graziosissima insegnante.
Augusto Zambaldo vive da più di 20 anni in Tanzania con la sua famiglia. Ha lavorato per anni prima in Kenya e poi in Tanzania in strutture ospedaliere anche di missionari, preferendo vivere con uno stipendio molto più basso rispetto alla media dei suoi colleghi, con ritmi di vita altrettanto massacranti, animato solo dalla voglia di aiutare e sapeva di essee in grado.
Le figlie sono nate in Kenya, hanno studiato in Tanzania e ora una frequenta l’università in Italia. Augusto e Laura hanno scelto la strada più difficile. Non sono diventati mai ricchi, materialmente, ma credo che le emozioni che hanno vissuto in questi decenni sono state un’immensa ricchezza. Le difficoltà non sono state e non sono poche soprattutto per l’equilibrio familiare.
Mi raccontavano che una delle figlie voleva tornare in Italia, perché la scelta di vivere in Tanzania aiutando gli altri, non era la sua, ma la loro, gli ripeteva. È normale che una ragazza giovanissima, nata e cresciuta in Africa, una volta arrivata in Italia, dove tutto sembra possibile e realizzabile con minor sforzo, voglia vivere nel bel paese!
Augusto e Laura erano in crisi perché significava separarsi, dopo una vita vissuta sempre l’uno al fianco dell’altro. Augusto non concepiva l’idea di lasciare tutto e tornare, ma non poteva nemmeno dire di no a sua figlia. Il lavoro di un medico in quei posti è una missione. E per Augusto lo è.
Laura aveva deciso di tornare in Italia per stare vicina alla figlia, ma Augusto sapeva che un figlio ha bisogno di entrambi i genitori. Non so cosa ha poi deciso Augusto, ma qualsiasi sia stata la sua scelta credo proprio che non sia stato semplice.
Di Romina Remigio
Romina Remigio