Cana (1) Un matrimonio senza sposi

Il racconto delle nozze di Cana (1)

D opo avere concluso la lettura e il commento della parabola del «figliol prodigo» di Lc 15 che ci ha accompagnato per oltre un anno, con questo numero iniziamo la presentazione e il commento del racconto delle «Nozze di Cana» riportato solo nel vangelo di Giovanni nei primi undici versetti del capitolo secondo.  

Immettere ed estrarre
Spesso il testo del racconto viene sfalsato perché letto fuori dal suo contesto originario che noi invece vogliamo recuperare e rispettare. Di solito il brano viene usato nei matrimoni perché, si dice, è il testo che fonda il matrimonio come sacramento a motivo della presenza di Gesù. Diciamo subito che questa lettura è superficiale e non rispecchia affatto il testo in sé, né l’intenzione dell’autore, il quale non intende esporre una riflessione articolata del matrimonio cristiano come si è sedimentato dal sec. x d.C. nella teologia della chiesa e nella cultura occidentale, per altro, ovviamente, inesistente al tempo di Giovanni.
Non ribadiremo mai abbastanza il pericolo che corriamo sempre di far dire alla Scrittura quello che è frutto della nostra mentalità e della nostra esperienza, invece di estrarre fuori il senso proprio dai testi come sono e letti nel loro naturale contesto, che è semitico, orientale, greco-ellenistico. Il primo modo di leggere la Scrittura, di norma basato solo sulle traduzioni che sono quasi tutte addomesticate, si chiama «eis-egèsi» perché «immette dentro» significati che il testo non ha; il secondo metodo invece è quello corretto e si chiama «ex-egèsi», perché studia il testo come è e «tira fuori» da esso, quanto più è possibile, il senso vicino alla mentalità e all’intenzione dell’autore.
Per questo lavoro è necessario trovare tempo, non avere fretta, ruminare le parole, assaporarle, quasi una centellinazione di un bicchiere di un vino d’annata fino a percepie il colore, la densità, la trasparenza, il retrogusto, la corposità, la vivacità: in una parola «la bellezza».
Viviamo in un tempo in cui le parole sono inflazionate (si parla di 90 milioni di sms al giorno solo in Italia) e mai come in questi tempi si è vista una carenza di comunicazione: abbondano e straripano le parole morte, manca il silenzio che dà corpo e vita al suono delle parole vitali. All’eccesso di parole corrisponde una deficienza di attenzione e di profondità: tutto scorre e rotola in superficie, pochi ormai si fermano a leggere in profondità. Dilaga la stupidità, che nasce dalla superficialità, e viene meno «l’intelligenza», cioè la capacità di «intus-lègere – di leggere dentro» gli avvenimenti, i fatti, le persone, i sentimenti, le emozioni, la preghiera, la liturgia, Dio.

Un modo nuovo per leggere la Storia
Entriamo subito nel cuore delle questioni, tanto per dare un saggio, mettendo in fila, anche in modo disordinato, le prospettive che il racconto racchiude per farcene un’idea e superare almeno il livello della superficialità sapendo che dobbiamo riprenderle tutte, fino ad esaminare il racconto parola per parola se vogliamo cogliee l’intensità e i riferimenti ai testi dell’AT di cui il racconto vuole essere un commento cristologico.
L’autore intende presentare la persona di Gesù e lo fa da ebreo che conosce l’AT, il Targum come ascoltato nella sinagoga e l’esegesi giudaica del «midràsh». Lo sposalizio di Cana è solo un espediente che permette di conoscere più profondamente la personalità di Gesù di Nazaret. Il racconto, infatti, è carico di una cristologia elevata: la posta in gioco non è un banale matrimonio, ma la risposta alla domanda cruciale che attraversa tutto il IV vangelo: «Chi è Gesù?».
L’autore del vangelo ci accompagna per mano e ci conduce in un viaggio di «conoscenza» dentro la storia ebraica, dentro il cuore stesso di Dio che si rivela e si manifesta nella stessa storia, la storia del suo popolo Israele, e lo fa da giudeo che ha creduto in Gesù e lo ha riconosciuto come Messia. Nel racconto di Cana vuole mettere in rilievo l’alleanza del Sinai che tutta la letteratura biblica presenta come uno sposalizio (cf p. es., Is 54,5; 62,5; Jer 2,2; 3,1; Ez 16,23; Os 1-3 e tutta l’allegoria del Cantico dei Cantici) per dirci che Gesù riprende il tema della nuzialità come dimensione della nuova alleanza nel suo sangue.

Un matrimonio senza la sposa
Rileviamo subito che nel racconto si parla di uno sposalizio, come ve ne saranno stati tanti al tempo di Gesù e come ve ne sono tanti anche ai nostri giorni. Tutti hanno lo stesso schema, gli stessi elementi, lo stesso andamento: festa, sposa al centro dell’attenzione, sposo nervoso, invitati, regali, organizzazione e infine banchetto con ubriacatura finale.
Nel racconto del quarto vangelo, però c’è qualcosa che non quadra. Anche il lettore più superficiale si accorge subito che manca la «sposa»: essa addirittura non è nemmeno nominata. Lo sposo poi è citato di passaggio e solo per rilevare la brutta figura che ha fatto nel non sapere prevedere il numero degli invitati e l’esito del banchetto. La stessa collocazione a «Cana» è problematica perché sono tre i villaggi con questo nome, di cui uno anche nel Libano meridionale, che si contendono le nozze: tre villaggi per una sposa assente. L’archeologia e specialmente lo studio delle fonti letterarie hanno dimostrato, ormai definitivamente che il villaggio delle nozze di Cana non è quello che usualmente i pellegrini visitano, ma un oscuro posto distante circa sette km, abbandonato e dimenticato.
L’intervento della madre di Gesù è centrale e non può essere solo la preoccupazione di una donna di buon senso che cerca di rimediare a una difficoltà. Per questo non era necessario scrivere un vangelo. La madre che chiede di porre rimedio alla brutta figura è fuori luogo, perché sia lei che il figlio sono invitati e non responsabili del banchetto. L’intervento di Maria viene spesso interpretato come una intercessione «matea» che si fa carico dei bisogni degli altri, dimostrando così come si possa manipolare un testo con la teologia mariana «di poi», immessa a piene mani nel vangelo che invece vuole dire tutt’altro.
Dietro la richiesta della madre ci deve essere un altro motivo logico, un motivo profondo che tenteremo di scoprire. Le giare di pietra sono un altro «enigma»: perché sei? perché «di pietra»? In Gv nulla è superfluo, perché tutto ha un senso preciso e puntuale. Se non lo comprendiamo, è per nostra ignoranza.

Una rilettura cristiana dell’Esodo
Cercheremo di dimostrare che il racconto delle nozze di Cana è un «midràsh» cristiano che ha lo scopo di svelarci una parte della complessa personalità di Gesù, riprendendo alcuni testi dell’AT che acquistano così il valore di eventi premonitori e anticipatori. Scopriremo così che i primi cristiani leggevano gli eventi nuovi riguardanti Gesù di Nazaret come «Scrittura» all’interno dell’altra grande «Scrittura» giudaica, che era la Toràh scritta (Pentateuco) e orale (Targum, Midràsh).
Due sono i fatti più importanti della storia biblica a cui il racconto delle nozze di Cana si riferisce: l’alleanza stipulata ai piedi del monte Sinai, descritta nel capitolo 19 dell’Esodo, e il «segno» della prima piaga (le acque del fiume Nilo trasformate in sangue) che colpì l’Egitto come è descritta in Esodo al capitolo quarto. In questo contesto si capisce la prospettiva di Giovanni.
Nei testi dell’AT si parla di confronto tra fede e incredulità, tra il faraone ostinato e Mosè il credente, allo stesso modo, a conclusione del racconto delle nozze di Cana, l’autore ci svela il suo obiettivo: l’intervento di Gesù che muta l’acqua in vino durante un banchetto nuziale «fu il principio dei segni compiuti da Gesù; egli manifestò la sua gloria e i suoi discepoli cominciarono a credere in lui» (Gv 2,11).
Questa conclusione è la chiave interpretativa di tutto il racconto e di tutto il vangelo: il rapporto tra incredulità e fede, tra accoglienza di Gesù e rifiuto della sua persona, il conflitto tra luce e tenebra, come si esprime lo stesso autore nel «prologo» (Gv 1,1-8). Dalla banalità di uno sposalizio a una prospettiva universale della vita.

Gesù e Mosè: la discriminante della fede
Per l’autore del quarto vangelo, Gesù si trova nella stessa situazione di Mosè appena dopo l’esperienza del roveto ardente (Es. 3), quando Dio ha intenzione di rimandarlo in Egitto a portare il suo messaggio al Faraone perché liberi il popolo d’Israele. Mosè oppone una difficoltà: «E se non mi credono e non ascoltano la mia voce?» (Es 4,1). Dio allora istruisce Mosè che in questo caso deve fare tre «segni» in un crescendo drammatico culminante nell’acqua del Nilo trasformata in sangue (Es 4,9), come nelle nozze di Cana l’acqua è trasformata in vino.
Un altro elemento importante è il tema del vino, perché in tutta la tradizione biblica e giudaica è simbolo della Toràh e anche dell’alleanza in prospettiva messianica, come testimoniano alcuni apocrifi dell’AT, di cui parleremo più avanti. Narrando il «fatto» di Cana, l’autore ci scaraventa di peso nel cuore stesso della storia della salvezza, che ha il suo fulcro e il suo epicentro nell’alleanza del Sinai a cui Israele è giunto dopo avere attraversato tutte le fasi dell’incredulità del faraone e della sua corte: fu un confronto titanico tra la non-fede e la fede, tra la lettura dei «segni» come accaduti nella storia e la cocciutaggine di volerli addomesticare a proprio vantaggio come fa il faraone, tra la libertà dei figli di Dio e la schiavitù dei figli degli uomini.
Le nozze di Cana ci svelano il volto autentico del Dio che Gesù è venuto a mostrarci: il volto di un Dio innamorato che non smette mai di innamorarsi.
Quanto detto finora ci sembra sufficiente a stuzzicare la curiosità su un brano del vangelo, le nozze di Cana, molto conosciuto, ma poco approfondito a livello popolare. La nostra intenzione è di fare un commento che tenga conto di tutte le ricerche bibliche più aggiornate, espresse in un linguaggio non specialistico, ma divulgativo: per questo motivo diamo in questo numero una bibliografia essenziale, per fare anche capire che dietro ogni puntata vi è la giorniosa fatica di un lavoro di ricerca e di confronto e dare anche lo spessore dell’impegno che testimonia l’importanza della Parola e la serietà con cui deve essere accostata e mangiata (cf Ez 2,8; 3.1). Solo così anche per noi essa sarà «dolce come il miele» (Ez 3,3).
Lo scopo nostro è divulgare la Parola di Dio, in obbedienza all’invito di donna Sapienza a quanti sono inesperti: «Venite mangiate il mio pane, bevete il vino che io ho preparato» (Pr 9,4-5).

Il quarto vangelo: una fittissima foresta
Prima però di cominciare la presentazione e il commento del brano che riporta il racconto delle nozze di Cana (Gv 2,1-11), è necessario dire qualcosa sul quarto vangelo e sul suo autore, così non navigheremo a vista, ma avremo una panoramica di riferimento, una coice che per necessità sarà essenziale, ma sufficiente a darci il quadro generale entro cui ci muoveremo.
Il quarto vangelo, attribuito dalla tradizione a un certo Giovanni, è come un bosco fittissimo, dove una volta entrati se non si conoscono bene i sentirneri, si rischia di girare a vuoto senza andare da nessuna parte o anche di andare nella direzione opposta: «Solo quando noi, dopo aver percorso a lungo un sentirnero, ci rendiamo conto che i nostri passi non portano da nessuna parte, oppure in una direzione che non è quella che vogliamo, cominciamo a maturare in noi la convinzione di dover fare a ritroso il cammino, per riguadagnare il punto da cui sia possibile ritrovare l’orientamento. Questa osservazione non si applica solo a coloro che attraversano un bosco o iniziano a scalare una montagna» (G. Ruggieri, Cr St 21 [2000] 1), ma anche a chi si avventura a entrare nella selva di sentirneri e percorsi, incastonati nel quarto vangelo come innumerevoli e fitti alberi di una immensa foresta. Per entrarvi bisogna essere dotati di una mappa minuziosa ed essere attenti a ogni minimo particolare, che, a volte, all’occhio dell’inesperto sembra futile o insignificante, mentre è la chiave per capire l’insieme.

Il iv vangelo: un enigma dietro l’altro
«Il Vangelo di Giovanni è una collezione di enigmi»  (G. Ravasi, Il Vangelo 5) e «ha un qualcosa di enigmatico, che non trova riscontro in nessun altro libro del Nuovo Testamento» (H. Strathmann, Il Vangelo 9). Enigma ed enigmatico sono un sostantivo e un aggettivo molto pertinenti a definire il quarto vangelo, per sintetizzae in una parola il fascino e le difficoltà di approccio. Mano a mano che ci si addentra al suo interno, più che le certezze aumentano gli interrogativi.
Un’altra espressione, ormai corrente «vangelo spirituale», espressione antica e divenuta ormai abituale. Di «vangelo spirituale», infatti, parla Eusebio di Cesarea (Storia Ecclesiastica, VI,14,7) che, a sua volta, riferisce la testimonianza di Clemente Alessandrino, morto verso il 200: «“…Da ultimo Giovanni, vedendo che negli altri vangeli era messo in luce l’aspetto umano della vita di Cristo, obbedendo all’invito dei discepoli e divinamente ispirato dallo Spirito Santo, compose un vangelo che è spirituale”. Questo riferisce Clemente» (cf anche G. Ravasi, Il Vangelo 5).
L’esegeta olandese H. van den Bussche e l’americano R. E. Brown pongono ambedue l’espressione addirittura come sottotitolo al rispettivo commento che porta lo stesso titolo: Giovanni. Commento al Vangelo spirituale (v. bibliografia).
Un’altra definizione è «vangelo del presbitero, quello che al cristiano maturo e contemplativo dà una visione unitaria dei vari misteri della salvezza» (C. M. Martini, L’itinerario 8). Ognuna di queste definizioni è vera, ma incompleta, perché nessuna di esse esaurisce la profondità e l’intensità del pensiero dell’autore espresso nelle parole del vangelo.
Ogni parola ha un significato diretto e immediato che è quello del vocabolario, ma dietro il senso ovvio ognuna di esse nasconde un significato misterioso o «significato secondo» che bisogna cercare e scoprire con pazienza, preghiera e passione.
Lo stesso evangelista ci invita a rimanere sulla sua Parola per essere suoi discepoli, conoscere la verità e diventare liberi (cf Gv 8,31). Rimanere sulla Parola significa essere saldi e radicati su di essa come la casa costruita sulla roccia (cf Mt 7,24-25) per penetrae l’anima e il cuore che solo con lo studio si può realizzare: la Parola di Dio è come un’innamorata che esige tempo e attenzione, riguardo e passione.

Attenti ai segni
Abbiamo già accennato che il versetto conclusivo del racconto delle nozze di Cana ci informa che ciò che accadde allo sposalizio fu «il principio dei segni» (Gv 1,11) e un lettore attento non può non restare stupito di fronte alla prima conclusione del vangelo dove leggiamo: «Gesù in presenza dei suoi discepoli fece molti altri segni che non sono stati scritti in questo libro. Ma questi sono stati scritti perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio e perché, credendo, abbiate la vita nel suo nome» (Gv 20,30-31).
Il vangelo prende l’avvio dal «principio dei segni» che è anche l’inizio della fede dei discepoli e si conclude con l’accenno ad alcuni «segni» finalizzati alla fede del lettore che così inizia a diventare discepolo che testimonia colui in cui crede.
Nel vangelo di Giovanni non bisogna mai fermarsi alle apparenze, perché esse sono sempre occasione per un trabocchetto, dove ci si impiglia facilmente. Per impedire di inciampare dal prossimo numero cominceremo con una presentazione sintetica del quarto vangelo e cercheremo di capire chi ne è l’autore.    (continua – 1)

Di Paolo Farinella

Paolo Farinella




Teologia Macua: Dio è donna

L’utopia di un grande missionario

In un villaggio del profondo Niassa un’équipe di religiosi e laici porta avanti una missione di frontiera. Italiani e africani, uomini e donne. Ma soprattutto incontro tra tradizione biblico-cristiana e teologia tradizionale macua. Come coniugare le diverse categorie? Come arricchirsi gli uni con gli altri nella propria fede? Lavorare per l’inclusione, contro l’esclusione. Farsi evangelizzare evangelizzando. Un laboratorio umano e spirituale che dura da 30 anni. Ma è sempre all’avanguardia.

Maúa (Niassa). Occorrono circa sei ore per arrivare a Maúa partendo da Lichinga, capitale del Niassa e unico aeroporto della vasta provincia nel Nord del Mozambico. Dopo 200 km di strada asfaltata se ne percorrono ancora oltre un centinaio di sterrata, di cui buona parte in una foresta vergine, incontaminata, interrotta ogni tanto da una montagna di roccia, come un sasso gigantesco e lucido che sorge dal nulla. Panorama spettacolare.
A Maúa non c’è la luce elettrica e non arrivano neppure le onde elettromagnetiche del telefono cellulare …
Qui un’équipe di missionari della Consolata ha fondato il «Centro de investigaçao macua-xirima» (centro culturale o di studio) allo scopo di entrare nel mondo xirima (o sirima) e stabilire con esso, uno «scambio di doni». L’etnia macua (pronuncia macùa) è la più numerosa in Mozambico (circa 47% della popolazione) ed è presente in quattro province: oltre il Niassa, Cabo Delgado, Nampula e Zambésia. Fa parte della famiglia bantu, ed è a sua volta divisa in vari sottogruppi linguistici, tra cui il xirima.
La casa dei religiosi e i locali del centro sono una struttura semplice, integrata con il resto delle costruzioni della cittadina.
Padre Giuseppe Frizzi* è in Mozambico dal 1975. È un biblista (laureato all’università di Münster, in Germania) che si è messo a fare l’antropologo. Ma è soprattutto un missionario, come lui stesso sostiene, che persegue la strada per fare il missionario nel modo che gli sembra più giusto nel contesto in cui si trova.
Quando si sta con lui si percepisce quel qualcosa che ti dice di essere al cospetto di un grande. Gigante anche in semplicità. Timido, quasi dimesso, difende con fermezza, ma senza alcuna arroganza, le sue idee. Convinzioni elaborate e maturate su una solida base: un lavoro di oltre 30 anni. Idee spesso osteggiate, dentro e fuori della chiesa. Con tutta probabilità perché sono molto avanzate rispetto al pensare comune.
Con lui lavorano suor Silveria Casiraghi, missionaria della Consolata inossidabile, il sempre allegro fratel Gerardo Secondino e il giovane patre venezuelano Leonel Toledo, insieme a un’équipe di laici macua.

Un metodo lungo  e partecipativo

«La lingua macua-xirima era una tradizione totalmente orale, la tramandavano gli anziani, la sera intorno al fuoco. Poi i missionari della Consolata hanno cominciato a scrivere qualcosa – racconta suor Silveria. – Quando padre Frizzi è arrivato ha ripreso in mano quanto era già stato fatto, poi ha iniziato a incaricare delle persone e, fuori, nelle grandi comunità, si sono formati dei gruppi».
«Ho iniziato a fare questo lavoro verso il 1980. A causa della guerriglia (sulla situazione politica cfr. MC gennaio 2009) non potevamo uscire, così gli animatori venivano a portarmi informazioni. Non solo relative alla pastorale ma anche alla cultura. Ero a Cuamba, fu un periodo di sei anni. Raccoglievo materiale tradizionale, canti religiosi. Abbiamo pubblicato un libro di 741 canti. Erano già presenti ma bisognava sistematizzarli in un contesto liturgico sacramentale». Così padre Frizzi ci racconta i primi anni del suo lavoro con i macua.
«Poi ho potuto frequentare i riti, soprattutto quelli terapeutici. Riti molto lunghi.
Un aspetto è la conoscenza dell’erbario, ma è il rito stesso che indica le medicine da trovare. Non c’è una cura prefabbricata. Nel rito, ammalato, famiglia, medico sono ispirati da fattori o sogni».
Nel 1987 Frizzi si trasferisce a Maúa e costituisce un gruppo di collaboratori: sono animatori e catechisti, che vivono nelle comunità. Partecipano a riti, si fanno raccontare proverbi. Scrivono tutto su dei quadeetti. Poi portano il materiale al centro, lo trascrivono nel computer. Incontriamo Ruffino che legge su un quaderno appunti in xirima, e Fausto che ascolta e scrive tutto su un computer portatile (alimentato con il solare), rigorosamente in xirima.
Poi improvvisano una traduzione grezza in portoghese. Il padre rivede tutti i testi nelle due lingue: «In seguito discutiamo, chiamiamo chi ha fatto il rito descritto per chiedere dettagli. Si fa una riflessione e si amplia il testo. C’è un dialogo intenso di équipe».
Dopo anni la metodologia si è raffinata. «In un mese ogni collaboratore porta un mezzo quaderno zeppo. È nata così la lingua scritta – continua suor Silveria -. Padre Frizzi ha già trovato la grammatica, l’ha perfezionata, l’ha completata. Siccome è una lingua bantu l’ha arricchita. I proverbi, le favole, la vera sapienza la raccoglie così, dalle persone stesse».
In questo modo ha tradotto l’intera bibbia, pubblicato il catechismo, libri di canti e di proverbi, scritto il dizionario completo. Nel 2008 nasce la sintesi del lavoro di questi anni: «Biosofia e biosfera Xirima». È un librone di 1.785 pagine, bilingue portoghese e macua.
Vuole essere la «visione sistematica della cultura xirima».  «Abbiamo voluto inserire il vocabolo nel suo contesto sia linguistico sia culturale. È il tentativo di presentare il mondo macua nella sua completezza: quello che amo chiamare il palazzo» continua padre Frizzi.

Un «edificio» complesso

I missionari e i laici macua hanno raccolto elementi della cultura in tutti questi anni, preparando i mattoni. Hanno poi cercato di sistematizzarli e completarli, costruendo dei muri. Ora si è arrivati all’edificio: la descrizione di una cultura complessa.
Come è stato possibile questo enorme lavoro?
«Uno degli ingredienti è la stabilità. Questa non è sinonimo di staticità, anche se può diventare comodità. Ma dà la possibilità di attingere, penetrare nel cuore di un popolo e quindi conoscere le radici. Essere ammessi in questo mondo non è facile, occorrono anni di amicizie. Vogliono sapere se tu entri per curiosare e poi sparlare o se c’è una empatia: tu vuoi entrare per partecipare, fare tua questa esperienza».
Tutto questo portando avanti anche la pastorale?
«La pastorale è sempre stata la base. Dà le fonti migliori e il materiale più autentico. Solo in seguito si può passare a una rielaborazione teoretica di un’esperienza. Non il contrario.
La pastorale concreta è sempre stata l’ispirazione. Dopo c’è la riflessione di équipe e si passa di nuovo alla pastorale come apertura, inculturazione, applicazione, suggerimenti … questo è il processo».
Come si arriva alla vera inculturazione?
«L’inculturazione è possibile se si ha il numero del cellulare di un popolo. Il punto di partenza è che Dio ha parlato a questa gente. La parola Muluko (Dio) non è importata, né dall’islam né dal cristianesimo. È la “casa dell’essere”,  indica un cammino storico che non è conosciuto. Dio ha camminato con questo popolo.
La messe è grande ma gli operai sono pochi. Se c’è la messe esiste un cammino già fatto. Il missionario più che seminare dovrebbe essere un mietitore: raccoglie o riassume coscientemente quello che Dio ha già operato con loro.
La visione teologica di Dio già nella storia prima dell’evangelizzazione, aiuta a entrare in un contesto culturale differente. Prima di tutto con rispetto: non seminare se è già stato seminato o non estirpare quello che già c’è e ha già un processo di maturità teologica storico-salvifica.
Il processo non è traumatico: se scopro la mateità di Dio in questo popolo (vedi oltre, ndr) non posso considerarla una deviazione o una perversione religiosa o teologica. Ma è un interrogativo potente alla mia fede impostata sul modello biblico-occidentale di tipo patriarcale. C’è un’alternativa di modelli che si possono coniugare insieme. Invece di escludersi come spesso avviene nella nostra società.
Inculturazione oltre a essere un interrogativo, è uno scambio di doni, ovvero la possibilità di allargare i propri orizzonti.
“Essere evangelizzati prima di evangelizzare”. Evangelizzati da quell’evangelio pre-evangelico. C’è già una presenza di Dio. Questa presenza è un imperativo categorico, che il missionario deve scoprire e rispettare, entrando così lui stesso in un processo di evangelizzazione che porta alla pienezza».
Padre Frizzi evangelizzato dal popolo macua.

Tutto parte dalla lingua

La lingua matea è la prima chiave di accesso a una cultura. Proprio per questo padre Frizzi e la sua équipe hanno basato tutto sul macua-xirima. E dopo tanti anni anche il governo del Mozambico ha capito che occorre valorizzare le lingue matee e nel 2004 ha fatto un passo importante introducendole nei primi tre anni di scuola primaria. Il 2008 è stato dichiarato «L’anno delle lingue matee».
A lato pratico vuol dire che c’è bisogno di insegnanti e operatori formati nelle diverse lingue presenti nel paese. L’Università cattolica del Mozambico, Facoltà di Educazione, a partire da quest’anno, introdurrà un corso di etnologia e antropologia in stretta collaborazione con il centro di investigazione di Maúa. E anche l’Università Eduardo Mondlane (la statale più grande del Mozambico) ha chiesto di collaborare.
Perché la lingua matea è così importante?
«Fino ad oggi a scuola c’è un trauma iniziale, dovuto alla lingua, alla cultura matea che si deve lasciare. Si esige un salto epocale a un bambino. La capacità creativa dei bambini è calata. Adesso governo, scuola e università chiedono materiale e appoggio da parte nostra. Non si tratta di rinchiudersi in un contesto etnico, ma valorizzare queste radici per poi lanciare il futuro adulto nel mondo.
Se il ragazzo entra nella scuola portando tutto il suo capitale culturale, domani i rami saranno autentici, i frutti non saranno rachitici se le radici sono salde.
Non capisco il boicottaggio di alcuni missionari o della chiesa che gridano a un ritorno al passato: si tratta di percepire la tradizione, valorizzarla e inserirla in un contesto nazionale.
Parlando solo portoghese si dimentica tutto il cammino che Dio ha fatto con questo popolo. Si suppone, con tutti i preconcetti e le conseguenze negative».
Questo vale per tutta l’Africa dove c’è una lingua franca, dei colonizzatori e una lingua matea.
«L’una non esclude l’altra, ma si implicano completandosi. La lingua franca necessita della lingua matea, delle sue radici, della sua località e individualità per vivere e sopravvivere, così pure la lingua matea necessita della franca per dilatare i suoi orizzonti culturali».

Il dio materno

La società macua, pur essendo bantu, è matriarcale e matrilineare. Il primo passo per entrare in contatto con essa è la conoscenza del mito delle origini, fondato sul monte Namuli, una montagna reale che si trova nel distretto Gurúé, in provincia di Zambésia.
«Il macua-xirima crede che tutto viene dal seno materno di Dio: Dio è la matriarca – genearca che dalle cavee del monte Namuli, ha generato tutto e tutti.  Tutto e tutti è là che devono ritornare. Non c’è in pratica un taglio ombelicale, ma un ciclo: tutto esce da Dio per poi ritornare al suo seno matriarcale» scrive padre Frizzi.
Adriano Saide, catechista e formatore al Centro culturale ci racconta: «Noi tutti macua siamo originati dal monte Namuli, è la nostra madre. Nella grotta al suo interno appaiono figure simboliche. Una figura di donna: vuol dire che è una madre e noi abbiamo fiducia in essa, perché è un’immagine che dà la vita: è quella che può avere un figlio e lo sa far crescere: per noi è uno spirito.
Il monte è sacro. Quando le persone muoiono, ritornano attraverso il monte Namuli».
Oltre a Muluko, il Dio matriarca, quale posto ha Gesù Cristo nella cultura macua-xirima?
«In una famiglia nascono figli, se si ammalano viene avvisato lo zio materno. È lui che decide tutto quello che concee i nipoti, figli della sorella. È una caratteristica di questa società matriarcale. Ecco che Gesù è “lo zio materno”,  atata, una figura fondamentale. Inoltre Gesù è mediatore: da lui passano tutte le tribolazioni dell’umanità. E Gesù le assume e le risolve.  “Yesu atatani namuku”, ovvero: Gesù mediatore e medico.
La Madonna è diventata puiyamuene, la matriarca. Entra immediatamente nel contesto culturale dei macua.
È proprio questa l’inculturazione: registrare un processo teologico emergente. Si favorisce la spontaneità di questa cultura, senza pensare che sia tutto negativo o creando barriere, ma dando al cristiano la possibilità di esprimersi spontaneamente nelle sue categorie. Da qui escono queste nuove sintesi teologiche. Possono anche essere soluzioni limitate, però accompagnare il processo e favorirlo, stimolarlo dovrebbe essere l’attività principale del missionario».

Riti di Iniziazione

Un rito fondamentale è quello dell’iniziazione, che esiste sia per le donne sia per gli uomini. Come è entrato il cristianesimo in questo?
«Un tempo era totalmente tradizionale. Poi essi stessi iniziarono a togliere qualche elemento che sembrava non più efficace nel contesto politico, sociale o cristiano.
Poi hanno creato una “commissione d’iniziazione” formata da catechisti e animatori, che hanno dato la responsabilità del viaggio (perché di viaggio si tratta) alla parrocchia. Il capo (regolo) è sempre presente e svolge il suo ruolo.
La parrocchia garantisce una forza morale per evitare gli abusi. La libertà liminare tipica dell’iniziazione c’è. Ma ci possono essere esagerazioni.
Lo scopo del viaggio iniziatico è allargare gli orizzonti, non solo promuovere il ragazzo o ragazza alla maturità matrimoniale, ma anche civile e inserirlo in un contesto allargato. Il Mozambico non è solo Maúa. C’è una settimana di formazione in cui si parla anche del nuovo contesto politico, della nazione, che va al di là dell’etnia macua. Lingua, salute, igiene, aids, lavoro e anche catechismo, liturgia, sono tutti temi affrontati».
Lei ha scritto che la società xirima non è sessista, e che non ha bisogno di scoprire il pianeta donna.
«Il centro è la donna, che ha in mano la vita. L’iniziazione è un’orchestrazione di questo tema: garantire vita e abbondanza di vita il più possibile.
L’uomo è il complemento di una società matriarcale: deve fecondare, lavorare, nutrire, vestire e soprattutto occuparsi della morte. Deve essere capace di seppellire: se c’è l’elemento negativo nella società deve garantire che la vitalità sia preservata.
Il rito iniziatico dei ragazzi finisce con un rito di morte: come seppellire i parenti, come togliere tutte le negatività perché la vitalità che detiene la donna sia feconda.
L’uomo è un’appendice al servizio della donna, ovvero della vita. Il ragazzo è preparato alla polarità morte, mentre le ragazze alla polarità vita».

«Mangiare insieme»

Il rito della makeya è il rito cardinale della religiosità e teologia xirima. Recita il dizionario realizzato dal Centro studi di Maúa.
«Nella famiglia ci può essere una tristezza, un sogno negativo. La mamma fa la makeya alla porta della casa oppure ai piedi dell’albero sacro.
Gettando a terra la farina si invoca Dio (materno) Muluku tramite gli antenati famigliari, che sono i mediatori. Nella teologia xirima Dio non è il sole che elimina tutte le stelle: è la luna (matriarcato, lunare, notturno). Questo significa che accetta la mediazione, convive con le stelle, non è solitario ma è solidale. Quindi entra in relazione con la comunità attraverso i morti. Se l’uomo vuole chiedere a Dio un favore o ringraziarlo, passa attraverso questa mediazione.
Non è un sacrificio, non si santifica, si tratta di creare un convito: una stuoia dove ci si siede e si mangia. Adorare, sacrificare: queste sono categorie bibliche o cristiane. Presso i macua no. La categoria principale è “mangiare insieme”,  è una comunione che si mangia insieme. Potrebbe essere una rivalutazione profonda dell’eucarestia. Loro la desiderano e la distribuiscono, anche se non hanno sacerdoti. Il castigo peggiore che si può fare a una comunità è sospendere la distribuzione la domenica.
C’è l’offerta in Gesù Cristo: la tradizione biblica si esprime così. La tradizione macua è invece:  “mangiare insieme”».
Allora qual è il dialogo tra le due? «Questo è il processo che si deve promuovere. È qui la nuova azione missionaria, non più un annuncio che prescinde, ma assumersi le categorie e coniugarle insieme».
Completato questo enorme lavoro sulla Biosofia e Biosfera, cosa assorbe adesso le sue energie?
«Dobbiamo essere attenti per vedere che sintesi, che teologia sta sorgendo.
Sto registrando i canti nuovi scritti in questi 20 anni. Ci danno una radiografia della teologia emergente, latente. Adesso ci sono molti canti alla Trinità, che prima non esistevano. Come spiegarla ai macua? Vediamo che proposte ci sono da parte loro. La mariologia l’ho già rielaborata. Superare un po’  la visione del semina verbi: non raccogliere solo i mattoni, ma anche la parete, o magari il suo contesto di costruzione finale. Che sintesi teologica cristiana si può dedurre da questa cultura, accompagnando quello che loro stanno vivendo? E io che fede posso realizzare insieme a loro arricchendomi della loro fede? Evangelizzati ed evangelizzandi da entrambe le parti. Come scambiarci i doni a livello di fedi? Quali i punti forti della teologia emergente e come inserirli dove c’è più debolezza da parte nostra? È un po’ un’utopia, ma sempre in questo atteggiamento di ascolto». 

Di Marco Bello

Cuore Macua

Un proverbio macua dice: «Nonostante il cammino sia tortuoso, se il cuore lo desidera, arriverà alla meta». È la sintesi efficace di una ricerca che abbiamo appena concluso a Maúa, uno studio antropologico e psicologico del processo di evangelizzazione inculturata tra i macua-xirima. Il cuore è il protagonista principale dello studio nel senso che ne è l’oggetto e il soggetto. Ne è l’oggetto perché lo studio si rivolge soprattutto alla componente affettiva, del pathos della persona e del popolo, cercando di comprendere come questa componente viene coinvolta nel processo di evangelizzazione. E ne è pure soggetto, perché il viaggio in cui ci siamo inoltrati col popolo xirima non consiste in una mera speculazione accademica, bensì in un’esperienza di vita che coinvolge non solo il pensare e il fare, ma anche e fondamentalmente l’intuire e il sentire.

Le cure tradizionali
I processi terapeutici macua-xirima costituiscono occasioni particolari di reimmersione nelle tematiche iniziatiche, pertanto di approfondimento e consolidamento delle istanze educative basilari. La costruzione dell’edificio rituale terapeutico si svolge ancora attorno al principio namulico (il mito delle origini, vedi articolo, ndr), cantato, danzato, detto, visualizzato, drammatizzato. Il mito viene così non solo raccontato ma soprattutto rivissuto nel rito. Calato e incarnato nella situazione attuale del malato e dell’ambiente che lo circonda, ne diviene chiave interpretativa, iniettandovi speranza. Il malato si sente partecipe di una storia più grande, di una rete di relazioni di influenza reciproca, che sostengono e illuminano il cammino individuale e comunitario salvandolo dall’anonimato e insieme inserendolo in una epopea comune che trascende il tempo, il luogo e le condizioni particolari senza svalutare gli elementi contingenti, anzi, conferendo loro un significato sacro.
Una caratteristica delle cure tradizionali xirima è di tener conto in ogni momento della molteplicità e dell’unità che caratterizzano l’esistenza umana: la terapia non riguarda un organo malato ma la persona tutta nelle sue componenti antropologiche, nel suo pensare, sentire e agire, nei suoi aspetti più consci e meno consci, nelle sue relazioni col mondo visibile e invisibile. Riguarda il gruppo di appartenenza, perché la malattia di un individuo non si risolve in un fatto privato, ma ha legami causali con la comunità. In questo senso, la terapia xirima è personale e allo stesso tempo sociale e cosmica; è medica e allo stesso tempo psicologica e religiosa; è cura e allo stesso tempo è educazione e preghiera. 

Il cuore
Per il xirima, il cuore (murima) non indica semplicemente un organo. Il murima è considerato il centro della personalità, sede dei desideri, degli affetti, delle decisioni. La tradizione xirima abbonda di testi sul murima considerato in questa accezione più ampia di coscienza individuale. I molti proverbi ci illuminano sull’importanza del murima nell’antropologia macua-xirima (vedi box).
Il xirima è consapevole che il cuore merita molta attenzione nei processi educativi: educare a pensare e ad agire non basta, perché «il pensiero non supera il cuore» ed è il cuore a «comandare», a «compiere il bene», a «contenere molte cose», a conferire alla persona la tenacia per arrivare là dove desidera, ad amare, oppure a cambiare direzione secondo i venti, a ritirarsi pieno di vergogna, a pietrificarsi in una avarizia che somiglia alla morte. Educare se stessi, allora, significa saper «ingannare» il proprio cuore, orientarlo, senza mai spegnee i desideri. Significa renderlo flessibile, duttile e capace di adattarsi, come quello di Dio che sa «cambiare colore» a guisa del camaleonte. Il cuore non si compra, non ha prezzo; il cuore buono viene paragonato poeticamente a una luna interiore, con tutta la carica simbolica, femminile e matea, che la luna riveste nel mondo xirima. A ragione, allora, la sapienza xirima incoraggia a guardare non tanto al volto (bello o meno) dell’altro, ma al suo cuore, a quella dimensione interiore che lo rende pienamente persona: in verità, la persona è il suo cuore.

L’ombra
La persona è costituita da tre componenti: corpo (erutthu), ombra (eruku) e spirito (munepa). Il corpo è assieme all’ombra, mentre la persona è viva. Quando la persona muore, la sua ombra è con il suo spirito. La componente dell’ombra si rivela come quell’elemento di unione tra corpo e spirito, quella dimensione intermedia, fluida, mobilissima della persona, capace di armonizzare le altre due componenti, integrandole e orientando le energie dell’essere alla missione che gli è stata affidata. In questo senso, l’eruku rappresenta la parte più forte ma anche più vulnerabile della persona. Un eruku positivo e vitale si traduce in una persona che fa e promuove il bene in sé e attorno a sé. Un eruku indebolito è alla radice di molti problemi personali, tra cui gli stati depressivi, e di molte difficoltà interpersonali. Di fatto, l’attività del terapeuta tradizionale macua è prevalentemente rivolta alla fortificazione e rivitalizzazione dell’eruku, così come l’attività dello stregone è rivolta alla mortificazione, all’indebolimento quando non addirittura alla sottrazione di questo elemento vitale.
L’eruku xirima entra facilmente in dialogo con ciò che da altre parti del mondo si chiamerebbe pathos, sfera emotiva, subconscio. Le porte della sapienza macua sembrano davvero aperte al dialogo con altre sapienze. L’esperienza macua è particolarmente recettiva alla questione dell’educazione olistica della persona e a un’educazione che abbia il dovuto riguardo alla componente del sentire. Si aprono delle piste di dialogo interdisciplinare sull’evangelizzazione.
L’attenzione alle «cose del cuore» è almeno tanto importante quanto l’attenzione alle «cose dello spirito» o a quelle della mente e del corpo. E questo vale per l’individuo come per la cultura.

Simona Brambilla
(missionaria della Consolata, dopo alcuni anni
di permanenza a Maúa ha scritto una tesi di dottorato in psicologia sull’argomento, di prossima pubblicazione)

Marco Bello




Cari missionari

Missionario troppo… nascosto

Cari missionari,
sono un vostro lettore e ricevo da diversi anni la vostra rivista e mi congratulo con voi per gli ottimi servizi, le rubriche ecc. Ma non vi scrivo per congratularmi con voi, perché non ne avete bisogno.
Nel 1997, il fratello di padre Giuseppe Richetti (morto in Kenya nel 1992 e sepolto a Nazareth, Nairobi) mi accompagnò, insieme ad altre persone, presso la vostra missione di Rumuruti, in Kenya, dove conobbi padre Mino Vaccari, che da alcuni anni aveva iniziato la costruzione di una chiesa ed altre opere; durante quel viaggio è nata l’idea di costruire un asilo, una scuola, il pozzo, le case per gli insegnanti ecc.
Con l’aiuto del comune di Fiorano Modenese e di tante altre brave persone del nostro comprensorio (Spezzano, Maranello ecc.) sono stati raccolti i fondi necessari per le costruzioni e anche per innumerevoli adozioni a distanza e ho visto, anno per anno (da allora sono andato a Rumuruti per 5 volte), che le opere sono state realizzate ed anche un numero considerevole di bambini sono stati aiutati.
Noi abbiamo dato i fondi e gli amici di Olgiate Molgora (Lecco) hanno contribuito con la mano d’opera e altri aiuti materiali, ma chi ha cornordinato tutto questo è stato padre Vaccari con i suoi collaboratori.
Anche se questo missionario non gradisce riconoscimenti o pubblicità, mi sembra doveroso ricordarlo nella vostra rivista per tutti i meriti che ha, magari con un piccolo articolo e qualche foto.
Non vi sto ad elencare tutti i pregi di questa persona perché certamente li conoscete meglio di me, ma sarebbe bello per tutte le persone della zona che ricevono la vostra rivista, leggere qualcosa sulla missione di Rumuruti e fare vedere l’articolo ad amici per convincerli ad aderire a nuove adozioni o a donazioni pro Rumuruti.
Non voglio certo dare consigli su come impostare il giornale, perché certamente avrete da far conoscere fatti e avvenimenti molto più importanti, ma, ripeto, sarebbe bello leggere qualcosa sulla missione di Rumuruti. Mi è gradito l’incontro per porgere a voi, ai vostri collaboratori e a tutti i padri della Consolata i miei più sentiti auguri di Buon Natale e felice e prospero anno nuovo.
Enrico Bigi
Formigine (MO)

Grazie, signor Bigi, per questa testimonianza sul nostro confratello padre Mino Vaccari e sulla sua attività apostolica a Rumuruti. Di Rumuruti abbiamo parlato in un articolo pubblicato sul numero di luglio-agosto scorso: il missionario è appena menzionato; siamo d’accordo che meriterebbe molto di più; che qualcuno raccontasse più a lungo la sua vita missionaria; ma di padre Vaccari, purtroppo, non abbiamo neppure una foto nel nostro archivio.

Siamo tutti  
sconcertati

Egregio Direttore,
ho letto con notevole sconcerto l’articolo «ai lettori» sulla rivista Missioni Consolata del mese di settembre u.s., che avalla il parere di Famiglia Cristiana riguardo alla catalogazione dei bambini rom. Bravo!
Si vede che all’estensore dell’articolo va bene che siano mandati a pulire i vetri ai semafori, in mezzo ai pericoli del traffico (e non solo…), a rubare nelle case per l’impossibilità della minore età. E a scippare per le strade! Che non vadano a scuola e che vengano disconosciuti dai loro cari genitori quando incappano nelle forze dell’ordine: evidentemente questi esemplari sistemi educativi li preparavano a un «ottimo» avvenire di delinquenza in cui pare li veda bene un certo peloso buonismo di marca PD, che purtroppo sta inquinando parte del mondo cattolico e certa sua stampa. Se le nostre riviste la vedono così, tanto vale che ci abboniamo al Manifesto o all’Unità che, almeno per le loro balzane idee, non vanno a scomodare la religione.
Far «prevalere la compassione sulla legge»? Ma il medico pietoso fa la piaga cancrenosa e, da modestissima pecorella del gregge, mi pare che nei vangeli si propongano chiaramente la compassione, l’amore del prossimo e l’educazione affettuosa, ma severa.
Il suddetto buonismo propugna per tanto l’integrazione, ma come si può fare senza l’educazione e la scuola? Con l’identificazione dei bambini, i genitori verranno finalmente costretti a riconoscere le loro responsabilità e, debitamente supportati, ad indirizzare meglio la vita dei loro figli.
Inoltre, la via indicata da Gesù Cristo per la carità e l’amore fra i popoli, non mostra alcun bisogno di affratellarsi con gli atei, eredi di Marx, Stalin e compagnia (a meno che non lo si faccia per sadismo o per occupare uno scanno in parlamento…) per fare del bene. Consideriamo poi l’inscindibilità tra diritti e doveri a cui tutti si devono attenere, immigrati o europei che siano.
Date a Cesare… Non so poi dove sia il «mondo ecclesiale rassegnato e atrofizzato dalla paura», in quanto bastano le esortazioni di Sua Santità e le attività svolte proprio dal mondo ecclesiale, che non è certo asserragliato in una torre ebuea di paura e isolamento, ma che anche non raramente, nel seguire la parola di Cristo, egisce per i fratelli bisognosi anche a rischio della propria vita. Qui non è il caso di stracciarsi le vesti invocando la libertà di stampa ma non si deve travisare la realtà insolentendo l’operato della chiesa e dei suoi ministri.
Distintamente.
Benedetta dott.sa Rossi
Bologna

Siamo anche noi sconcertati per questa reazione all’editoriale del settembre 2008. Non ci va affatto bene che i bambini rom non vadano a scuola e che siano spesso sfruttati in tante maniere. Ma non crediamo che prendendo le loro impronte digitali si risolva il problema; anzi, crediamo che tale schedatura sia una forma di discriminazione rispetto a tutti gli altri bambini d’Italia e del mondo. E in questo concordiamo solidali con Famiglia Cristiana.
La difesa degli ultimi, degli emarginati, degli sfruttati… non è «buonismo», ma è «la via indicata da Cristo»; forse anche Lui rimane sconcertato nel constatare che tale via è più battuta da certi «eredi di Marx…» che da tanti «atei devoti» che usano la religione per i propri interessi.

Errata corrige

Caro Direttore,
ho visto l’articolo sul femminicidio in Messico, in effetti è venuto bene. Unica piccola osservazione: quando si parla del film Bordertown, ispiratosi al femminicidio, è stato sostituito il nome di Antonio Banderas (come avevo scritto io) con Martin Sheen… Ma Banderas era giusto, soprattutto perché dico che il giornalista da lui impersonato muore, non Sheen che fa il direttore del giornale. È veramente una pignoleria, ma mi sentivo di scrivertelo per chiarezza.
Daniele Biella
Milano

È vero. Nella storia narrata in Bordertown, a morire per la verità non è l’editore del Chicago Sentinel, impersonato da Martin Sheen, ma il capo-redazione del giornale locale El Sol de Juarez, impersonato da Antonio Banderas. Chi ha corretto l’articolo è stato tratto in inganno dalla locandina, in cui è messo in evidenza l’attore Sheen, invece di Banderas. Ce ne scusiamo con l’autore dell’articolo e con i nostri lettori. 

Collaboratore premiato

I l Centro Santa Maria alla Rotonda della Fondazione don Gnocchi di Inverigo (Como) ha organizzato il Concorso letterario «Scrivere d’altro», seconda edizione, sulle tematiche relative alla figura e all’opera di don Carlo Gnocchi nel 51° anniversario della morte.
Il Concorso era riservato a quanti, giornalisti, operatori culturali, o semplici estimatori, abbiano inteso richiamare la figura e l’opera del compianto sacerdote venerabile servo di Dio don Carlo Gnocchi. Sono pervenuti alla segreteria del Concorso 52 elaborati tra professionisti e dilettanti. La giuria era formata da 10 membri provenienti dalle istituzioni civili e religiose, dal giornalismo, dall’imprenditoria, e ha proceduto in due moduli separati con votazione a maggioranza alla designazione dei vincitori delle due sezioni: la 1a sezione riservata a giornalisti, pubblicisti e quanti praticano la comunicazione come attività professionale; la 2a sezione è invece stata riservata solo a scrittori dilettanti.
Il vincitore della 1a sezione è risultato Eesto Bodini con l’articolo «Il dolore degli innocenti», già pubblicato su Missioni Consolata nel dicembre 2006 – Torino. La giuria ha attribuito il premio con la motivazione che recita testualmente: «L’articolo illustra con esemplare completezza il progetto di ricostruzione umana di don Carlo Gnocchi. È un ottimo contributo alla conoscenza della sua figura, elaborato in forma coesa e convincente».

P ersonalmente, come segretario del Concorso letterario e come operatore della Fondazione don Gnocchi, desidero esprimere il mio apprezzamento a Eesto Bodini per la rigorosità scientifica con la quale ha esposto il profilo della figura di don Carlo, sotto tutte le sfaccettature che hanno accompagnato ed esaltato le sue azioni verso i più piccoli e i più bisognosi, alla ricerca di quel riscatto dalle brutalità della guerra vissute nella campagna di Russia e con l’obiettivo di ricostruire la dignità della persona.
Non voglio dilungarmi nel parlare di Eesto Bodini come comunicatore sociale nel campo della medicina, di cui altri possono parlare diffusamente per conoscenza più diretta, desidero invece sottolineare l’aspetto più profondo e determinante sulla sua attività giornalistica, centrato proprio dal suo attaccamento alla figura di don Gnocchi.
Le vicende della sua infanzia lo hanno forgiato ad affrontare gli stessi temi della sofferenza e del suo senso nella vita quotidiana degli uomini. Don Carlo ha dato una risposta di fede che animava il fuoco delle sue iniziative di carità, per noi, e sicuramente per Eesto, il dolore e il suo significato, tema centrale della vita e dell’opera educativa di don Carlo, hanno segnato e accompagnato le vicende personali e professionali del vivere quotidiano.
Tutto questo per me traspare e si evince dai numerosi articoli e interventi di Eesto Bodini, tesi alla diffusione dei valori che la figura di don Carlo Gnocchi ha lasciato in eredità a tutti.
Silvio Colagrande
(direttore Fond. don Carlo Gnocchi di Inverigo, CO)

Tutta la redazione di Missioni Consolata si felicita con il signor Eesto Bodini e lo ringrazia per la sua preziosa e apprezzata collaborazione.




Attentti al gorilla

Non sarà che davvero «il troppo stroppia»? Che senso ha la moda, promossa dalle grandi istituzioni inteazionali e ormai consolidata, di istituire quantità incredibili di giornate di sensibilizzazione, se non addirittura intere annate dedicate a tale e talaltro problema?
La domanda nasce dalla contemplazione di un qualsiasi calendario che riporti in bell’ordine tutte le varie iniziative volte a puntare i riflettori sull’uno o l’altro aspetto del nostro vivere insieme e del nostro ambiente. Viene ormai difficile pensare che il disperdere energia in così tanti obiettivi diversi possa sortire alcun effetto. Gioate mondiali, continentali, nazionali indette dalle organizzazioni più svariate si intersecano con programmi annuali, quinquennali, decennali, in un’orgia di date, eventi, incontri sui temi più svariati. Alcune giornate si sdoppiano e si moltiplicano nel tentativo di rispettare le esigenze di calendario di ognuno. Vista la difficoltà di orientarsi in tale babele, dato per scontato che ad un eccesso di offerta sempre segue un senso di stanchezza da parte di chi fruisce, viene da chiedersi a cosa serve proclamare l’istituzione di una giornata o di un anno dedicati ad un certo tema.

L’Onu, nel disperato quanto sterile tentativo di promuovere il conseguimento dei pretenziosi otto obiettivi del Millennio è una delle organizzazioni più provvida di iniziative. Il 2009 è stato proclamato dalle Nazioni Unite, anno internazionale della riconciliazione, dell’astronomia, dello studio dei diritti umani (in realtà si tratta di un biennio che racchiude interamente le celebrazioni per il 60° anniversario della Dichiarazione del ‘48) e delle fibre naturali. A dirla tutta il 2009 è pure l’anno internazionale del gorilla. Dove sono le priorità? Che benefici portano le pie esortazioni del Palazzo di vetro? Come si possono verificare i risultati di tali indizioni? Non sarà che l’intenzione di dedicare un anno a tutto non si risolva in un niente di fatto?
A queste forme di impegno ormai non credo più. L’anno scorso è girato in rete un testo molto bello del teologo e attivista brasiliano Frei Betto: «Felice anno nuovo, rendi nuovo il tuo anno». Se non si lavora sulla persona a poco serve sensibilizzare le istituzioni; è sufficiente leggere il tono generalista del testo di proclamazione dell’anno internazionale della riconciliazione e confrontae i buoni propositi con la sterilità dei risultati di fronte a quelli che sono i nostri normali contesti di conflitto, iniziando da quelli familiari. L’anno veramente importante è quello marcato dal desiderio personale di conseguire, responsabilmente, un piccolo obiettivo che ci consenta di migliorare le nostre relazioni con l’ambiente e con gli esseri che ci circondano, umani e non. Per coloro che credono la cosa assumerà, ovviamente, anche connotazioni religiose; per chi non crede si colorerà di un senso di profondo rispetto per ciò che ci circonda. Sono convinto che di simili piccole risoluzioni potrebbero essere contenti – e persino avvalersene per quest’anno e gli anni a seguire –   anche i gorilla.

Di Ugo Pozzoli

Ugo Pozzoli




Il missionario viaggiatore

Anno paolino

Paolo di Tarso è il grande missionario viaggiatore. Si calcola che abbia percorso più di 15.000 km per le strade dell’impero romano, che aveva reso più sicuri i viaggi per mare e sviluppato una fitta rete stradale che collegava Roma alle regioni più lontane dell’impero: i missionari cristiani poterono così portare il nome di Gesù nelle varie regioni dell’impero.
La seconda parte degli Atti degli Apostoli si concentra soprattutto sull’attività missionaria di Paolo, rappresentata sotto forma di tre viaggi missionari, più un quarto come prigioniero da Cesarea a Roma. Ognuno di tali viaggi è caratterizzato da un discorso chiave di Paolo riguardante vari aspetti della missione: predicazione ai giudei nella sinagoga di Antiochia di Pisidia (Atti 13,16-41); predicazione ai pagani nell’Areopago di Atene (17,22-31) e addio ai presbiteri di Efeso a Mileto, vero testamento pastorale dell’apostolo (20,17-38).

Il primo viaggio (Atti 13,1-14,28) inizia ad Antiochia di Siria, ove era nata una vivace comunità cristiana tra i pagani greci: questa comunità invia in missione il cipriota Baaba e Paolo (13,1-3). Salpati da Seleucia sulla costa siriana, attraversano l’isola di Cipro e giungono alle coste meridionali dell’Anatolia, oggi Turchia; toccarono le città di Attalìa, Perge, Antiochia di Pisidia, Iconio, Listra e Derbe e ritornarono al punto di partenza.
All’inizio del viaggio il nome di Baaba viene sempre prima di Saulo; poi sembra sia questi a prendere il comando della spedizione: da 13,9 il nome Saulo viene sostituito con quello di Paolo, quasi che, all’incontro col mondo pagano, egli preferisca usare il nome romano, Paulus, invece di quello ebraico, Saulo.
La strategia è sempre quella di rivolgersi prima agli ebrei, mostrando come Gesù adempie le profezie messianiche: il discorso nella sinagoga di Pisidia è il modello di tale evangelizzazione. Poi, anche a causa della scarsa risposta degli ebrei, Paolo e Baaba si rivolgono sempre più ai pagani e sono stupiti dalla loro risposta positiva al loro annuncio. Rientrati ad Antiochia essi condividono con la comunità la loro esperienza (Atti 14,27).

Il secondo viaggio missionario (Atti 15,36-18,22) inizia con la separazione tra Paolo e Baaba. Baaba e Marco ripartono per Cipro; Paolo, con il nuovo compagno Sila, attraversa Siria e Cilicia e raggiunge Listra, dove accoglie con sé Timoteo, che avrà un ruolo molto importante nelle missioni di Paolo. Percorsa l’Anatolia centrale, essi raggiungono la città di Troade, sulla costa settentrionale del Mar Egeo. «E qui si ebbe di nuovo un avvenimento importante: in sogno vide un macedone dall’altra parte del mare, cioè in Europa, che diceva, “Vieni e aiutaci!”. Era l’Europa futura che chiedeva l’aiuto e la luce del vangelo» (Benedetto xvi). Sulla spinta di questa visione entra in Europa: sbarcato a Neapoli, arriva a Filippi, ove fonda una bella comunità, la prima in Europa, seguita poi da quella fondata a Tessalonica.
Il centro del viaggio è il discorso all’Areopago di Atene (Atti 17,22-34). «In questa capitale dell’antica cultura greca predicò, prima nell’Agorà e poi nell’Areopago, ai pagani e ai greci. E il discorso dell’Areopago, riferito negli Atti degli Apostoli, è modello di come tradurre il vangelo in cultura greca, di come far capire ai greci che questo Dio dei cristiani, degli ebrei, non era un Dio straniero alla loro cultura, ma il Dio sconosciuto aspettato da loro, la vera risposta alle più profonde domande della loro cultura» (Benedetto xvi).
Poi da Atene arriva a Corinto; i coniugi Priscilla e Aquila lo accolgono in casa loro e condividono con lui il loro lavoro di fabbricatori di tende: con questa coppia Paolo dà vita alla comunità cristiana di Corinto. Dopo 18 mesi, Paolo lascia Corinto, insieme a Aquila e Priscilla, e arriva a Efeso, dove lascia la coppia, mentre egli raggiunge Cesarea Marittima e sale a Gerusalemme, per tornare poi ad Antiochia sull’Oronte (Atti 18,18-22).

Il terzo viaggio missionario (Attti 18,23-21,16) inizia come sempre da Antiochia. Paolo punta dritto su Efeso, capitale della provincia d’Asia; vi soggioa per due anni, fondando comunità cristiane nella regione circostante, finché deve fuggire, per una sommossa popolare provocata dagli argentieri locali, che vedevano diminuire le loro entrate per la riduzione del culto di Artemide (il tempio a lei dedicato a Efeso, l’Artemysion, era una delle sette meraviglie del mondo antico). Attraversata Grecia e Macedonia, Paolo giunge a Mileto, convoca gli anziani della chiesa di Efeso e rivolge loro un discorso, chiamato «testamento pastorale di Paolo» (Atti 20,17-38), perché presenta una ricca sintesi della sua vita missionaria, modello per ogni pastore.  
Ripartito da Mileto, Paolo fa vela verso Tiro, raggiunse Cesarea Marittima e sale ancora una volta a Gerusalemme. Qui è arrestato per un malinteso: alcuni giudei di origine greca, introdotti da Paolo nell’area del tempio riservata agli Israeliti, erano stati presi per pagani: la prevista condanna a morte gli è risparmiata per l’intervento del tribuno romano di guardia all’area del tempio (cfr At 21,27-36). Paolo viene incarcerato e, come cittadino romano, si appella a Cesare per non essere giudicato dai giudei.
Nel viaggio verso Roma (Atti 27-28), sotto custodia militare, Paolo approda a Malta, dopo un drammatico naufragio (27,1-44); quindi raggiunge Siracusa, Reggio Calabria e Pozzuoli. I cristiani romani gli vanno incontro fino al Foro di Appio (ca. 70 km a sud di Roma) e altri fino alle Tre Tavee (ca. 40 km). A Roma incontra i delegati della comunità ebraica, a cui confida che è per «la speranza d’Israele» che portava le sue catene (cfr At 28,20).
Con l’arrivo di Paolo nella capitale dell’impero, l’autore di Atti vede compiersi la profezia di Gesù «mi sarete testimoni fino all’estremità della terra» (1,8) e non soddisfa la nostra legittima curiosità di conoscere il seguito della vita e martirio di Paolo.
Negli Atti ci è presentato il ritratto di un viaggiatore instancabile, che percorre terra e mare sempre con la stessa finalità: portare a tutti l’annuncio di Colui che ha sconvolto la sua vita. Per amore di Gesù affronta difficoltà inimmaginabili, come dirà in un testo memorabile: «Cinque volte dai giudei ho ricevuto i 39 colpi, tre volte sono stato battuto con verghe, una volta sono stato lapidato, tre volte ho fatto naufragio, un giorno e una notte in balia delle onde. Viaggi innumerevoli, pericoli di fiumi, di briganti, dai miei connazionali, dai pagani, nelle città, nel deserto, sul mare, da parte di falsi fratelli, fatiche e travaglio, veglie senza numero, fame e sete, freddo e nudità» (2 Cor 11,24-27).

di Mario Barbero

Mario Barbero




Degli zingari si può anche parlare bene

«Il viaggio musicale dei Gitani» al MITO Settembre Musica 2008

A Milano, dal 7 al 12 settembre, la seconda edizione del MITO (Festival Internazionale della musica organizzato dai comuni di Milano e Torino) ha dato risalto alla cultura dei Gitani, con un «viaggio musicale» dal Rajasthan all’Andalusia, passando per Pakistan, Iran, Turchia, Balcani. Un’occasione per superare pregiudizi e stereotipi verso un popolo affascinante per la sua storia e cultura millenaria. 

Non è usuale per una rivista missionaria occuparsi di musica, in particolare di una manifestazione in prevalenza dedicata alla musica «classica». Pur a distanza di tempo, diventa quasi un obbligo farlo quando, nell’ambito di essa, si colgono aspetti che la rendono interessante anche oltre lo specifico valore musicale.
Il riferimento è alla seconda edizione di «MITO Settembre Musica, il Festival Internazionale che, dal 2007, vede l’esperienza trentennale della storica rassegna torinese estendersi al capoluogo lombardo e ad altre importanti città attorno alle due metropoli. Quasi un intero mese di spettacoli che ha proposto oltre 230 eventi di musica – classica, contemporanea, jazz, pop, rock, etnica -, rassegne cinematografiche, incontri di «arte e musica», cicli monografici. È stato appunto uno di questi ultimi, il «Viaggio musicale dei Gitani» a offrirci lo spunto per scriverne su Missioni Consolata.
Pur ponendosi l’obiettivo di coinvolgere un pubblico più ampio rispetto a quello che usualmente frequenta le sale da concerto, il MITO resta un festival di musica colta che, per lo più, si svolge in prestigiosi teatri quali la Scala e gli Arcimboldi di Milano o il Regio e l’Auditorium Rai di Torino; frequenta Conservatori, storici circoli dove si fa cultura, luoghi ricchi di arte e architetture monumentali; e non trascura il sacro di chiese e basiliche che offrono a credenti e non credenti momenti di significativa elevazione spirituale.
Si tratta evidentemente di un contesto che appare quanto di più lontano possa esistere dalla realtà di vicende drammaticamente tragiche e di quotidiana disperazione di vita ai margini delle nostre città, che i media ogni giorno, continuamente, descrivono quando si occupano di coloro che, semplificando, chiamiamo «zingari».
Sia chiaro, nessuno nega i problemi e le difficoltà che il porsi in relazione con queste persone presenta, né in questa sede si vogliono commentare in alcun modo i provvedimenti presi dalle autorità o quelli che si vorrebbe prendessero.
Tuttavia, il fatto che nell’ambito di un festival con le caratteristiche descritte fosse ospitata, non marginalmente ma, anzi, promossa come una rassegna di rilievo, un’intera settimana dedicata a questo particolare viaggio musicale, ci è parsa già di per sé una notizia degna di rilievo.
Un’occasione per parlare dei popoli nomadi anche in positivo. Non per nulla la musica è, forse, il linguaggio umano che più accomuna e commuove; anche nel senso letterale di «muovere con», predisponendo ragione ed emozione al rapporto con l’altro.

Così è stato oltremodo significativo che, nella stessa manifestazione, sui cui palchi si sono avvicendate grandi orchestre inteazionali come la London Symphony e l’Orchestre National de France, ad aprire la sezione del «Viaggio musicale dei Gitani» sia stata, nel salone d’onore della Triennale di Milano, proprio la «Banda del villaggio solidale».
È, quest’ultima, un gruppo musicale costituitosi nell’ambito della milanese Casa della Carità: istituzione voluta dal cardinal Martini, per aiutare le persone in difficoltà a superare la propria condizione di disagio. Don Virginio Colmegna, presidente dell’omonima fondazione che la sostiene, ricordando il migliaio di persone di 80 nazionalità accolte dalla struttura in un triennio, ha presentato l’ensemble definendolo: concreta manifestazione di un operare che vuole promuovere e far crescere l’espressione culturale dei diversi mondi ospitati; nella convinzione che dando visibilità alle rappresentazioni artistiche e musicali delle culture immigrate si possa aumentare il livello di comunicazione positiva e favorire la coesione sociale.

Le foto pubblicate in queste pagine descrivono perciò un viaggio sonoro, cominciato con saltimbanchi, musicisti e danzatrici appartenenti alle ultime caste erranti del Rajasthan (India del nord) e origine stessa del popolo Rom; gente che ha conosciuto lo scintillio delle pietre preziose di antichi palazzi come la ruvidezza delle rocce del deserto.
Un viaggio proseguito con i Gitani che hanno attraversato il Medio Oriente per arrivare fino in Tunisia. Fra questi, quelli dell’Alto Egitto tuttora tramandano nella musica l’epopea del mondo beduino del x secolo; in Turchia, invece, sono maestri di clarinetto e a loro si deve la conservazione del repertorio festivo e virtuosistico delle danze regionali, oltre all’aver posto il loro strumento in posizione preminente in tutti i Balcani.

La terza tappa ha ricondotto il pubblico in Asia, con artisti arrivati dalle montagne di Pakistan e Afghanistan, che hanno portato al MITO la loro tradizione millenaria (risalente al 4.000 a.C.), mostrandone anche le somiglianze con quelle dell’antica Grecia evidenziate, ad esempio, nel comune uso del flauto a due canne.
I contributi dall’Europa sono, invece, venuti in primo luogo da due tradizioni della Romania. Quella dei discendenti delle famiglie di «ursari» (ammaestratori di orsi) superstiti all’olocausto e alle persecuzioni della polizia comunista, che si esibiscono nel canto accompagnato da percussioni rudimentali e dal ballo delle donne che fanno roteare gonne e scialli coloratissimi.
E quella dei «lăutari», i migliori musicisti popolari di Romania. Fino alla metà del xix secolo essi erano schiavi del principe regnante, raccolti in corporazioni professionali fondate nel xvii secolo; oggi vedono rinascere l’interesse del pubblico per la loro musica, i cui stili si adattavano alla realtà storica e ambientale dei gruppi sociali cui era destinata: contadini, operai, intellettuali…
Immancabile è poi stato il passaggio attraverso l’icona della donna gitana nella musica colta occidentale: principalmente identificata nel mito della Carmen di Bizet, ma presente, affascinante e ambigua, anche in Verdi, Brahms, Leoncavallo, Liszt… fino alla grazia del chitarrista Django Reinhardt, che sedusse la Francia degli anni Trenta.
Il «Viaggio musicale dei Gitani» non poteva, infine, che concludersi con la chitarra flamenca e il cante jondo (canto profondo) che, partiti dai locali e dai porti di Siviglia, Cadice e Jerez de la Frontera negli anni ’40 del 1800, e pur restando fedeli alla tradizione, continuano però a evolversi, conservando la capacità, descritta da Federico Garcia Lorca, di trasportare il pubblico sul margine dell’abisso.
Una ricchezza dunque, quella qui tratteggiata, seppur sinteticamente, che merita di essere più conosciuta, perché il nostro giudizio su un popolo e sulla sua cultura, pur non disconoscendo le difficoltà che sono reali, non sia limitato a stereotipi negativi. 

Di Giovanni Guzzi

Giovanni Guzzi




Contaminazione (profonda)

L’acqua, un bene vitale in grave pericolo

Contaminazione da nitrati e fitofarmaci, ma anche da arsenico, cromo, materiali radioattivi: le acque di falda sono in grave pericolo. Esse rappresentano il 50% del totale, ma in Italia il 28% di esse risulta ormai contaminato. Nonostante l’inadeguatezza dei controlli, i casi di inquinamento sono all’ordine del giorno. Per capire la gravità del problema, va ricordato che l’acqua dolce non è una risorsa illimitata. Spetta ai cittadini aprire gli occhi ed agire di conseguenza. 

Nell’articolo precedente (MC, settembre 2008) ci siamo occupati dell’inquinamento, che contamina buona parte dei fiumi della terra. In questa puntata, vedremo invece come anche le falde idriche sotterranee non stiano affatto bene di salute, anzi in certi casi la situazione è oltremodo drammatica. Ricordiamo che, in Italia, le acque di falda rappresentano il 50% del totale (che è di 70 miliardi di m³) delle acque foite annualmente dagli acquedotti nazionali, mentre il 15% proviene dai corsi d’acqua superficiali e il 35% dalle sorgenti.
A livello mondiale, le falde idriche profonde racchiudono circa 45.000 km³ di acqua, proveniente  dalle precipitazioni atmosferiche e a loro è affidata una importante funzione di riserva. 
L’infiltrazione d’acqua nel sottosuolo dipende dalla consistenza del terreno, ma anche dal grado della sua cementificazione, che è senz’altro un fattore limitante. Il tempo per il riciclo delle falde è lunghissimo, circa 1.400 anni, contro i 20 giorni dei fiumi. È evidente che la percolazione di sostanze inquinanti nelle falde può ridurre drasticamente la disponibilità di acqua, oltre che compromettere pericolosamente la salute di milioni di persone. Purtroppo, le capacità autodepuratrici degli ecosistemi acquatici sono diventate spesso insufficienti, a causa della contaminazione sempre maggiore di sostanze poco o per nulla biodegradabili.
In Italia, secondo i dati foiti dall’Apat (Agenzia per la protezione dell’ambiente e per i servizi tecnici), relativi all’ultimo triennio, il 28% delle acque di falda risulta contaminato. Oltre la metà dei pozzi esaminati ha mostrato segni di compromissione, nelle nove regioni, che hanno aderito alla campagna di monitoraggio chimico. In particolare sono risultate più inquinate le falde del nord Italia, cioè delle regioni più industrializzate e dedite all’agricoltura di tipo intensivo, soprattutto per la presenza di erbicidi come l’atrazina (vietata a partire dagli anni ’80, ma tuttora presente nei terreni, data la sua scarsa biodegradabilità), la terbutilazina, il bentazone, utilizzato specialmente nelle risaie (quindi presente in elevata quantità nelle acque del pavese e del vercellese) e il metolaclor, utilizzato in quantità industriale nelle grandi distese di mais dell’area padano-veneta.

L’invasione dei nitrati

 Il problema dell’inquinamento delle acque di falda con prodotti fitosanitari è duplice, poiché, se da un lato l’uso di tali prodotti è inquinante per le falde, dall’altro si rischia di avere la compromissione della qualità dei prodotti agricoli, come conseguenza dell’irrigazione con acque di falda contaminate.
In Piemonte, l’inquinamento delle falde da fitofarmaci è in costante aumento dal 2000 e attualmente oltre un quarto dei campioni relativi alle falde superficiali risulta contaminato, come il 7% dei campioni relativi alle falde profonde (è stata riscontrata la presenza di 18 principi attivi, su un totale di 60 molecole ricercate); in particolare risulta contaminato il 60% dei campioni esaminati, in provincia di Vercelli e il 10% in provincia di Cuneo.
Questo fatto induce a pensare che non tutti gli agricoltori rispettino la normativa regionale e nazionale circa il divieto di utilizzo di determinate sostanze, come atrazina e bentazone, altamente dannose per la salute umana. Oltre alle sostanze suddette, un gravissimo problema per le acque di falda è rappresentato dalla presenza di nitrati, che in molti casi (talvolta anche nell’acqua potabile) arrivano a superare i limiti di legge, fissati in 50 mg/l. I nitrati derivano dai fertilizzanti azotati, dai reflui dei grandi allevamenti e dagli scarichi civili non opportunamente depurati e in alcune aree, come la pianura padana, caratterizzata da agricoltura e allevamenti intensivi, essi raggiungono livelli record d’inquinamento. Questo problema è molto esteso in Europa, di conseguenza la Commissione europea ha emanato una direttiva in materia (Direttiva nitrati 91/676).
Alla contaminazione da composti azotati contribuiscono anche le piogge acide, che riportano al suolo e alle acque i contaminanti dispersi nell’atmosfera. In Italia si sono avuti gravi casi di contaminazione da nitrati in Piemonte, Lombardia, Toscana, Marche e Campania. Emblematico è il caso di Fano (Ancona), rifoita per anni con acqua potabile, in cui sono stati riscontrati livelli di nitrati fino a 150 mg/l. I danni da nitrati sono conosciuti fino dal 1945, quando è stato riportato, per la prima volta, su Jama un caso letale di intossicazione.
In particolare un’alta concentrazione di nitrati nell’acqua rappresenta un grave problema per i lattanti, soprattutto nei primi tre mesi di vita, poiché i nitrati, a opera della flora batterica intestinale, si trasformano in nitriti, che vengono assimilati e sono in grado di alterare l’emoglobina, con conseguente difficoltà di trasporto dell’ossigeno ai tessuti. I nitrati possono peraltro causare seri danni anche nella popolazione adulta, poiché i nitriti, da essi derivanti, possono formare nitrosamine, specialmente a livello dello stomaco, per reazione con amine secondarie di origine alimentare e alcune di queste sostanze sono dei potenti cancerogeni. In particolare, degli studi condotti in Danimarca, Inghilterra, Ungheria, Italia, Cile, Colombia e Cina hanno associato l’esposizione ai nitrati con una maggiore frequenza dei tumori gastrici.

«Di tutto, di più»…
nelle nostre acque

Oltre ai fitofarmaci e ai nitrati, nelle acque di falda italiane si trovano, spesso in quantità di molto superiori ai limiti di legge, sostanze residue di attività industriali di vario genere. In questi casi, le cause di contaminazione sono legate sia alle acque di processo, che a quelle di raffreddamento degli impianti.
È particolarmente pesante l’impatto ambientale dell’industria chimica, dove gli inquinanti presenti nelle acque di processo variano, a seconda del tipo di produzione; ad esempio, gli effluenti della produzione di detersivi sono contaminati da tensioattivi e da fosfati, quelli delle resine sintetiche da solventi e da sostanze organiche, mentre quelli dell’industria degli inorganici di base contengono metalli pesanti. Altri settori, che vanno dalla siderurgia all’industria alimentare, possono contribuire in diverso modo all’inquinamento delle acque. Ad esempio le sostanze adoperate per la sterilizzazione dei cibi possono agire come inibitori, nei processi di biodegradazione dei sistemi acquatici.
Molto spesso le cause di contaminazione chimica delle falde sono correlate con lo smaltimento sul suolo o nel sottosuolo degli scarichi industriali, effettuato in modo abusivo, o in mancanza di collettori idonei. Negli ultimi anni i casi più gravi d’inquinamento industriale delle falde si sono avuti per perdita di liquidi dagli impianti stessi, o da serbatorni interrati, oppure da rifiuti sepolti nel sottosuolo. Vale la pena di ricordare alcuni casi di gravissimo inquinamento ambientale, che si sono verificati in Italia negli ultimi anni. In Maremma, nella provincia di Grosseto 22 siti, corrispondenti a circa 300 ettari, sono stati contaminati da arsenico e da mercurio, finiti nei pozzi dell’acqua potabile, mentre polveri di pirite, piombo, cadmio e manganese sono stati accumulati nei terreni coltivabili (Corriere della Sera, 12/05/2001).

Le attività dell’Eni:
chi inquina, non paga

Queste sostanze derivano dall’attività di industrie, come l’Eni e la Tioxide, produttrice di biossido di titanio. Oltre ad esse è stata rilevata la diossina proveniente dall’inceneritore di Scarlino (Grosseto), appartenente alla società «Ambiente S.p.A.» dell’Eni, entrato in funzione nel 1999 e sorto sui tre foi, in cui si arrostiva la pirite (minerale impiegato nella produzione dell’acido solforico).
La Iarc (Inteational agency for research on cancer) classifica l’arsenico come «cancerogeno di gruppo 1» e, secondo un suo studio, per valori di tale sostanza compresi tra 0,35 e 1,14 mg /l nell’acqua, è molto elevato il rischio di tumori a vescica, rene, cute, polmone, fegato e colon.
Nell’acqua di un pozzo di Scarlino è stata rilevata una concentrazione di arsenico pari a 3,3 mg/l. Sono stati avvelenati una quindicina di pozzi, che fino al 1997 hanno pescato dalle falde idriche sotterranee. I 3 pozzi, che per 25 anni hanno servito Follonica sono stati chiusi e in uno di loro il mercurio superava di 50 volte i limiti di legge. Arsenico e mercurio penetrati nelle falde della provincia di Grosseto, Argentario compreso, derivano dalla lavorazione della pirite, che prima Montedison e poi Eni hanno accumulato a cielo aperto in vere e proprie colline di rifiuti tossici, poggianti su acquitrini, come quelli del Casone e del Padule di Scarlino, dove l’acqua è ormai di tutti i colori. Qui la pirite è stata accumulata in vecchie vasche di acido solforico, che ha facilitato la cessione all’ambiente di arsenico e di mercurio, come spiega Roberto Barocci di Italia Nostra, docente di Economia e Assetto del territorio e autore di Arsenico (Stampa Alteativa).
Inoltre, la Coldiretti ha accusato l’Eni di avere ceduto gratuitamente agli agricoltori, come materiale sterile e inerte, gli scarti della lavorazione della pirite, da utilizzare nel rifacimento del fondo delle strade interpoderali. L’Eni si è sempre difesa, sostenendo che gli scarti della pirite non hanno ceduto metalli pesanti all’acqua in quantità tossica ed è stata sostenuta in tal senso dall’Arpat, secondo la quale l’arsenico e le altre sostanze in quell’area ci sono da sempre e ne costituirebbero una caratteristica geologica. Tale conclusione avrebbe evitato all’Eni i costi di bonifica.
Di diverso avviso è stato però il Pubblico ministero (Pm) di Grosseto Vincenzo Pedone, che ha decretato il sequestro dell’inceneritore di Scarlino, ha definito il degrado ambientale del comprensorio Follonica-Scarlino come «fatto notorio e addirittura eclatante, per ciò che attiene alla gravissima compromissione delle risorse idriche», ha anche constatato l’assenza di controlli pubblici e ha inviato l’avviso di garanzia al direttore e all’amministratore delegato di Ambiente S.p.A. Nel frattempo, alcune pericolose discariche dell’Eni hanno cambiato proprietà.

Dal Piemonte all’Abruzzo

Altri casi d’inquinamento delle falde sono, ad esempio, quello del rinvenimento nella falda di Aosta, nel giugno 2004, di eccedenze, rispetto ai limiti fissati dal D. Lgs. 152/99, di cromo esavalente, di fluoruri, di nichel, di solventi clorurati come tetracloroetilene e cloroformio e di solventi aromatici. Tali sostanze sono correlabili soprattutto con l’attività della Cogne Acciai Speciali di Aosta e inoltre, specialmente per la presenza in falda di ferro e manganese, con la discarica di Brissogne. Altri casi sono l’inquinamento da cromo esavalente nella falda di Asti, quello recentissimo (maggio 2008) sempre da cromo esavalente a Spinetta Marengo (Alessandria), quello da arsenico a S. Antonino di Susa (Torino).
Il caso più grave in Italia e forse in Europa è però quello dell’inquinamento delle falde di Bussi e della Val Pescara in Abruzzo, un disastro ambientale di proporzioni inimmaginabili per le potenziali conseguenze sulla salute di 500.000 cittadini, che hanno usufruito per anni dell’acqua inquinata prelevata dal campo pozzi S. Angelo di Bussi. I valori degli inquinanti tossici e cancerogeni in falda hanno raggiunto punte di 300.000 volte i limiti di legge per il cloroformio, di 420.000 volte per il tetraclorometano, di migliaia o decine di migliaia di volte per altre sostanze pericolose, tra cui mercurio, cloruro di vinile, tricloroetilene, tetracloruro di carbonio, ecc. Queste sostanze, secondo il Pm Aceto, che ha condotto l’inchiesta, al termine della quale ha inviato 33 avvisi di garanzia, sono state riversate nel fiume Pescara fino al 1963 e successivamente stipate in megadiscariche, lungo i fiumi Tirino e Pescara.
Anche in questo caso si tratta degli scarti di lavorazioni della Montedison. L’inchiesta è nata da una denuncia del WWF, basata sui referti di analisi condotte e pagate privatamente da tale associazione, già nel 1997 (ripetute nel 2007) e seguite da analisi dell’Arta nel 2004, a seguito delle quali i pozzi S. Angelo, che servivano l’area metropolitana di Chieti-Pescara, sono stati chiusi nel 2005 e riaperti parzialmente nel 2007, dopo l’utilizzo di filtri a carbone attivo (tali pozzi, a monte dei quali si trova una grande industria chimica, erano attivi dal 1990).
La vicenda è resa ancora più grave, se possibile, dal fatto che l’Istituto superiore di Sanità aveva espresso un parere, in cui dichiarava le acque emunte da questi pozzi come «non idonee al consumo umano»; ma, secondo il pm Aceto, nessun sindaco o amministratore e nemmeno la Direzione sanitaria dell’Asl hanno reagito con la dovuta fermezza; anzi, quest’ultima ha appoggiato in pieno l’operato del responsabile del Sian (Servizio igiene alimenti e nutrizione) dell’Asl, ora indagato.
Peraltro, secondo il magistrato, i responsabili della Montedison erano a conoscenza dell’inquinamento delle falde e delle conseguenze sui pozzi destinati all’acquedotto già dal 1992. I 33 avvisi di garanzia sono stati emessi nel maggio 2008.

Contaminazione
radioattiva? Presente!

In mezzo a tutti questi veleni, potevamo farci mancare una contaminazione radioattiva delle falde? No, naturalmente; infatti il 17 agosto 2006 l’assessorato all’Ambiente della regione Piemonte ha reso pubblica la contaminazione radioattiva delle falde a Saluggia, dove dall’intercapedine della piscina dell’impianto Eurex, contenente un deposito di materiali radioattivi, c’è stato un rilascio di acqua contaminata dal radionuclide Sr-90.
Peraltro, già nel giugno 2004, la Sogin (esercente dell’impianto Eurex) aveva comunicato che la piscina presentava una fuoriuscita di liquido radioattivo, con una contaminazione della parete estea della sua intercapedine di 1.000 Bq/dm².  A Saluggia gli impianti nucleari e la piscina della Eurex si trovano proprio sopra le falde acquifere, che meno di 2 Km a valle alimentano i pozzi dell’acquedotto del Monferrato, che porta l’acqua a più di cento comuni nelle province di Torino, Asti e Alessandria.
Va detto che, per incidenti di questo tipo, siamo in buona compagnia. In Francia, infatti, nel maggio 2006 è stata rilevata radioattività nelle falde acquifere della Normandia 7 volte superiore al limite imposto da una legge europea di 100 Bq/l. In questa zona è stato costituito un deposito di rifiuti radioattivi provenienti dalle 58 centrali nucleari francesi, ma anche dalla Germania, Olanda, Belgio, dal Giappone, Svizzera e Svezia (nonostante sia illegale per la legge francese stoccare materiali radioattivi provenienti dall’estero).
L’acqua della falda è risultata contaminata da trizio, che è un indicatore di futura contaminazione da altri radionuclidi, come stronzio, cesio e plutonio, sostanze cioè sicuramente cancerogene.
È invece di quest’anno, luglio 2008, l’incidente francese di Tricastin, dove sono stati registrati anomali valori di uranio nell’acqua di falda. Secondo la Criirad (Commissione di ricerca e di informazione indipendente sulla radioattività), tale contaminazione è da attribuire, più che all’incidente occorso all’impianto di Tricastin, alla presenza di materiale radioattivo di una precedente installazione militare, che aveva funzionato in quella zona tra il 1964 e il 1996 per la produzione di armi atomiche, grazie all’arricchimento dell’uranio. I residui della lavorazione vennero interrati, senza particolari precauzioni e l’acqua piovana ha potuto scorrere a contatto delle scorie, disperdendo l’uranio nel terreno. La fuoriuscita di uranio nella falda di Tricastin ammonta a 74 Kg.

Occhio alle acque minerali

A leggere cose come queste, si potrebbe pensare che forse è meglio bere acqua minerale, anziché del rubinetto, ma prima di farlo, è bene considerare il fatto che esiste un decreto legge del 29/12/2003, dell’allora ministro della Salute Sirchia, sulle acque minerali, il quale ha introdotto una soglia di tolleranza per svariate sostanze tossiche ad alto rischio.
Le aziende produttrici di acque minerali possono così immettere sul mercato dei prodotti, che prima sarebbero stati fuorilegge e che contrastano con le normative europee. In pratica, grazie a questo decreto esiste una lunga lista di sostanze, tra cui tensioattivi, oli minerali, antiparassitari, policlorobifenili, idrocarburi, ecc., per le quali, al di sotto della soglia di rilevabilità strumentale, le aziende produttrici possono continuare a dichiarare come esenti da ogni tipo d’inquinamento le acque minerali che producono.
Nel giugno 2003, la procura di Torino avviò un’inchiesta, da cui emerse che 23 delle 28 marche di acqua minerale analizzate non rispettavano l’obbligo di legge di essere completamente prive delle sostanze tossiche suddette; successivamente il numero delle marche non in regola è salito a 86.
La differenza tra le quantità di sostanze ammesse per le acque minerali, rispetto all’acqua potabile, è dovuta al fatto che le minerali vengono considerate «bevande», come il vino ad esempio, e quindi sono soggette a una normativa meno restrittiva, di quella per l’acqua potabile. Se consideriamo la possibile contaminazione da piombo, il valore soglia del vino è molto superiore a quello dell’acqua potabile, perché si ritiene che il consumo quotidiano della bevanda vino debba essere decisamente inferiore a quello dell’acqua. Così vengono messe in vendita acque contaminate «a norma di legge».

Inquinamento naturale
da fluoruri e da arsenico

Esistono, inoltre, in parecchie aree geografiche della terra, dei casi d’inquinamento delle falde, talora anche per cause naturali e non solo antropiche, che hanno portato milioni di persone in condizioni di salute drammatiche. Si tratta delle contaminazioni delle falde da fluoruri e da arsenico.
L’inquinamento da fluoruri ha determinato la comparsa di fluorosi scheletrica, una malattia che danneggia soprattutto gli arti in crescita e che può arrivare a compromettere anche la spina dorsale e il sistema nervoso, in milioni di bambini in India, ma anche in Cina, in Niger, in Etiopia, laddove cioè sono state installate pompe manuali nei villaggi, per fornire alle popolazioni acqua sicura, cioè non contaminata, come le acque superficiali, da coliformi e da altri agenti patogeni responsabili di gravissimi casi di colera, tifo e diarrea.
I fluoruri sono sostanze normalmente presenti nelle rocce granitiche del sottosuolo di gran parte dell’India e di altre aree geografiche e possono sciogliersi lentamente nelle acque di falda, senza peraltro allontanarsi molto dallo strato granitico. Ciò significa che risultano contaminate solo le acque dei pozzi profondi, mentre quelle dei pozzi superficiali risultano pulite.
Purtroppo, però, i continui prelievi d’acqua, alla lunga determinano un abbassamento delle falde e la necessità di scavare pozzi più profondi.
L’inquinamento più grave è però quello da arsenico, che ha provocato quello che dall’Oms viene definito «il più grave avvelenamento della storia dell’umanità», che riguarda soprattutto il Bangladesh e il delta del Gange. A causa di tale avvelenamento, il futuro della popolazione del Bangladesh è gravemente compromesso.
Ma l’arsenico ha colpito anche altre zone del delta del Gange, come il Bengala occidentale in India e parte del sud del Nepal. Questo problema è presente anche nelle falde di Argentina, Cile, Messico, Cina, Vietnam, Taiwan, Nepal, Myanmar, Cambogia, Ungheria, Romania e di parecchie zone del sud-ovest degli Stati Uniti.
In Bangladesh, negli anni ’70, per limitare i casi di dissenteria e di colera, l’Unicef ha promosso la diffusione di pompe manuali a tubo, che nel giro di pochi anni sono diventate sempre più numerose. Negli stessi anni iniziava la cosiddetta rivoluzione verde, cioè un programma di agricoltura intensiva, soprattutto di riso, leguminose e ortaggi vari, che ha comportato l’uso di grandi quantità di fertilizzanti e pesticidi, nonché di acqua. L’acqua estratta dalle pompe, molto spesso contaminata da arsenico, viene utilizzata in grande quantità a scopo irriguo, per cui questo minerale entra nella catena alimentare.
Di solito i primi sintomi dell’avvelenamento cronico da arsenico si avvertono dopo una decina di anni di esposizione e si manifestano soprattutto come ipercheratosi, disturbi cardiovascolari e circolatori, tumori polmonari, renali, epatici, ma soprattutto cutanei. L’avvelenamento acuto si manifesta invece con i sintomi di una forte gastroenterite.
Si calcola che, attualmente, muoiano circa 3.000 persone all’anno, tra coloro che hanno ingerito per anni acqua e cibi contaminati, ma sarebbero almeno 65 milioni le persone esposte a rischio e 200.000 coloro che presentano i sintomi dell’arsenicosi.
Le prime tracce di arsenico nelle falde del Bangladesh sono state rilevate nel 1993, ma solo dal 1995 è iniziata l’analisi sistematica dei pozzi, un ventennio dopo la posa delle prime pompe a tubo. Queste ultime sarebbero fortemente responsabili di questa situazione, perché altererebbero le condizioni redox del terreno, favorendo il rilascio di arsenico. Purtroppo, per anni non vennero effettuate accurate analisi dell’acqua estratta dalle pompe, cioè in pratica l’arsenico non veniva cercato, e ciò ha portato all’avvelenamento silenzioso di milioni di persone.
Attualmente esiste una diatriba tra scienziati, circa l’origine di tale avvelenamento. In pratica ci sono scienziati, che sostengono l’origine esclusivamente naturale dell’arsenico nel terreno: secondo costoro il minerale si sarebbe formato nelle rocce della catena himalayana, da cui nasce il Gange e sarebbe stato trascinato a valle, fino al delta, dove verrebbe estratto dalle pompe. Questa tesi, in qualche modo, assolve l’operato delle multinazionali e dell’Unicef.
Secondo gli scienziati indiani, invece, la quantità eccessiva di arsenico nel terreno sarebbe strettamente correlata all’uso massiccio di fitofarmaci, indispensabili per la coltivazione intensiva del riso, in quanto è stata osservata una correlazione tra arsenico e fertilizzanti organo fosforici.
La prima tesi è il frutto di ricerche condotte dalla British Geological Survey e dalla McDoland Ltd (Regno Unito); tali ricerche sono state finanziate dalle agenzie inteazionali e dalle multinazionali, che hanno una possibile responsabilità nell’avvelenamento da arsenico, per cui il loro risultato potrebbe essere viziato.
È vero che l’arsenico è un elemento naturale, che può trovarsi in discreta quantità, ad esempio sotto forma di arseniopirite, in certe aree geografiche, ma secondo i geologi indiani, nel delta del Gange non esiste una quantità di arseniopirite tale da giustificare un avvelenamento di così vaste proporzioni.
Una certa esperienza nel campo della ricerca ci porta a pensare che sia più corretta la tesi degli scienziati indiani. Tra l’altro uno studio condotto al Massachusetts Institute of Technology (Mit) da Charles F. Harvey, docente di ingegneria civile e ambientale, è giunto alla conclusione che le pompe a tubo alterano in modo drammatico il flusso delle acque sotterranee, modificando la chimica delle falde e determinando il rilascio di arsenico, a seguito della degradazione microbica del carbonio organico, trascinato nelle falde dalle stesse pompe.

Il dovere di «aprire gli occhi»

Dai casi d’inquinamento delle falde appena visti appare chiaro che quasi sempre ci si dimentica che il sistema dell’acqua dolce è un sistema chiuso. L’acqua dolce non è illimitata, quindi non ci si può permettere di renderla in parte inutilizzabile, perché inquinata. Non possiamo lasciare un’eredità così pesante alle generazioni future.
Soprattutto non possiamo dimenticare che l’acqua fa parte di noi, di tutti noi, quindi è inaccettabile che per il profitto di qualcuno, tantissimi si ritrovino a fronteggiare situazioni estreme. E non è accettabile che chi deve controllare chiuda gli occhi, davanti a disastri, come quelli appena visti. O che chi deve fare ricerca non ricerchi la verità, ma un modo per sollevare da ogni responsabilità coloro, a cui ha deciso di asservirsi. 

Di Roberto Topino e Rosanna Novara


GLOSSARIO

Arta: Agenzia Regionale per la Tutela dell’Ambiente.

Atrazina: è un principio attivo usato come erbicida, appartenente alla classe delle cloro tiazine. È adatto al diserbo principalmente di mais, sorgo e canna da zucchero. Presenta elevata persistenza ambientale, con conseguente rinvenimento nelle acque superficiali e di falda. È assai poco biodegradabile. In Italia ed in altri Paesi europei, il suo uso è proibito dal 1992, data la sua possibile azione cancerogena.

Bentazone: è un erbicida, che inibisce la fotosintesi clorofilliana, causando la deplezione delle riserve di carboidrati e la perdita dell’integrità della membrana dei cloroplasti (organuli cellulari deputati alla fotosintesi clorofilliana).

Bequerel: unità di misura dell’attività di una sostanza radioattiva.

Biossido di titanio: per il suo elevato potere coprente e la sua grande inerzia chimica, è attualmente il prodotto più impiegato come pigmento bianco (bianco di titanio) nelle pitture e veici, nella carta, nei laminati plastici, nelle fibre tessili, nella gomma, nei prodotti ceramici, negli inchiostri e nei cosmetici.

Cesio: alcuni suoi isotopi radioattivi si formano nelle reazioni di fissione nucleare e sono probabilmente pericolosi, perché vengono fissati dagli organismi vegetali ed animali. Nell’incidente di Cheobyl del 1986 è stato uno dei principali responsabili della contaminazione radioattiva.

Coliformi: sono un gruppo di microorganismi a forma di bastoncello, gramnegativi, aerobi ed anaerobi facoltativi, non sporigeni, che fermentano il lattosio, con produzione di gas e di acido. I coliformi fecali di origine umana sono delle Enterobatteriacee. Essi rappresentano un indubbio indice di contaminazione delle acque. Tra questi batteri sono comprese le Salmonelle, che sono delle Enterobatteriacee responsabili di malattie infettive di tipo gastroenterico, oltre che, in alcuni casi, di malattie setticemiche a sede extraintestinale.

Cromo esavalente: i composti, da esso derivati, hanno largo impiego nella produzione di veici, vetri, ceramiche ed inoltre nella concia delle pelli, nell’industria tessile, per la colorazione dei tessuti, nella preparazione di diversi prodotti chimici e nei trattamenti di superficie di metalli meno nobili (cromatura) per le sue proprietà antiruggine. La maggior parte dei composti del cromo presenta una tossicità relativamente elevata per tutti gli organismi viventi.

Fluoruri: composti del fluoro con metalli e non-metalli. Nel primo caso si possono considerare sali dell’acido fluoridrico, come il fluoruro d’alluminio, usato nella raffinazione dell’alluminio. I fluoruri con i non-metalli comprendono una serie di composti molto reattivi, che il fluoro forma con gli altri alogeni, con il boro e con il silicio.

Fosfati: sali degli acidi fosforici. Sono degli ottimi concimi, poiché il fosforo costituisce un elemento essenziale per lo sviluppo delle piante.

Ipercheratosi: abnorme aumento dello spessore dello strato coeo dell’epidermide, in alcune zone della cute. Può essere causato da diversi fattori, tra cui l’azione dei raggi ultravioletti. In questo caso si parla di cheratosi attinica, che è una precancerosi.

Metolaclor: principio attivo di protezione del mais, efficace soprattutto contro le infestazioni da graminacee.

Nitrati e nitriti: sali dell’acido nitrico solubili in acqua, ossidanti allo stato fuso, ma non in soluzione acquosa. I nitrati dei metalli alcalini, a temperature elevate perdono ossigeno, trasformandosi in nitriti. Il nitrato di sodio è il componente principale del nitro del Cile, che era l’unica fonte di fertilizzanti azotati prima della diffusione dei concimi chimici sintetici. Il nitrato d’ammonio ed il nitrato di calcio sono impiegati come fertilizzanti azotati. Il nitrato d’argento è impiegato in chimica analitica, per riconoscere e dosare gli alogeni. Il nitrato di potassio o salnitro è usato nella polvere da sparo, nella fabbricazione dei fiammiferi e dei fuochi d’artificio.

Nitrosamine: nitrosoderivati con attività carcinogenetica per l’uomo, in cui agiscono sia per inalazione, che per ingestione. Sembra accertato che i nitrosoderivati si formano nell’organismo, attraverso il metabolismo di nitroderivati e di ammine.

Plutonio: è un metallo notevolmente reattivo, come l’uranio. Il biossido di plutonio è impiegato come combustibile nucleare, in miscela con il biossido di uranio. Allo stato elementare è particolarmente adatto come materiale fissile, per armi nucleari.

Redox: abbreviazione di ossido-riduzione; si tratta di una reazione,in cui avvengono in contemporanea l’ossidazione di un composto e la riduzione di un altro. Il primo composto, cioè, acquisisce elettroni, mentre il secondo li cede.

Solventi aromatici: solventi contenenti nella loro molecola degli anelli aromatici a 6 atomi di carbonio. Hanno un caratteristico odore (da cui il nome) e sono cancerogeni. Tra loro abbiamo il benzene, il toluene e lo xilene, comunemente definiti benzolo, toluolo e xilolo.

Sr-90 o stronzio-90: isotopo radioattivo dello stronzio. Si forma nelle esplosioni nucleari e, attraverso la catena alimentare, può entrare nell’organismo umano, dove tende a fissarsi nelle ossa e nei denti, causando l’insorgenza di gravissime malattie da radiazione. Trova applicazioni come tracciante in medicina ed in biologia.

Tensioattivi: sostanze che, sciolte in piccola quantità in soluzioni acquose, ne diminuiscono la tensione superficiale, aumentandone il potere bagnante. Come conseguenza si ha un aumento delle proprietà schiumogene, detergenti, emulsionanti, disperdenti e della capacità di penetrazione in materiali porosi delle soluzioni acquose contenenti tensioattivi.

Terbutilazina: diserbante utilizzato sul mais. È un «non classificato» per i rischi umani, ma è stata documentata la sua incidenza sui tumori mammari dei topi. È altamente tossico per gli organismi acquatici quindi, a lungo termine, può avere effetti negativi sull’ambiente acquatico.

Trizio: isotopo radioattivo dell’idrogeno, che presenta un nucleo con un protone e due elettroni. Si forma in quantità più o meno rilevanti in tutti gli impianti nucleari, sia durante la fissione dell’uranio, sia nei reattori raffreddati ad acqua pesante, in seguito all’irraggiamento neutronico del deuterio. Può dare origine a diverse reazioni nucleari, sfruttabili per ottenere energia termonucleare, in modo controllato. Può essere usato in chimica, medicina e biologia, come tracciante radioattivo.

 

Roberto Topino e Rosanna Novara




Non solo corano

Cosa succede nelle scuole coraniche

Affidati da piccoli al «Maestro» imparano a memoria il libro sacro. Ma non solo.  La daara è una scuola di vita e di formazione integrale. Si insegnano valori come l’umiltà,  la solidarietà e la convivenza pacifica. Ma quando il Maestro si trasferisce in città i rischi di sfruttamento e di mendicità sono elevati. Non bisogna generalizzare.

Lo studio del «libro santo», il Corano, permette ai fedeli musulmani di orientarsi nel mondo e di conoscere la loro missione terrena, perché: «La parola di Dio è l’architettura del mondo, è il mondo stesso».
Le tre strutture fondamentali nella trasmissione del sapere religioso contenuto nel Corano sono: le moschee, all’interno delle quali secondo la tradizione profetica è sempre prevista una zona dedicata all’educazione dei fedeli; le associazioni religiose (dahira); le scuole coraniche.
Nelle prime due il maestro riunisce attorno a sé i discepoli adulti e celebra e commenta alcuni passaggi dei testi fondamentali della religione islamica: il Corano, la Sunna e i testi delle scienze islamiche.
Le scuole coraniche, invece, hanno lo scopo di formare i giovani allievi (generalmente di età compresa fra i 5 e i 15 anni) sia da un punto di vista morale che conoscitivo, per forgiare uomini e donne al servizio di Dio e delle sue leggi. L’Islam propone un’educazione omogenea del corpo e dello spirito, in coerenza con i dettami della religione. Per questo motivo l’insegnamento islamico è un processo di formazione e di trasformazione intellettuale, morale e spirituale, sulla base dei principi del Corano.
In Senegal, la scuola coranica è la daara, termine che deriva dal nome arabo dâr, che significa dimora, casa. Le famiglie affidano i bambini in tenera età a un maestro, con cui solitamente hanno legami di parentela o di conoscenza, e gli chiedono di adempiere alla formazione dei loro figli.
I maestri religiosi sono considerati tra gli esseri più vicini a Dio, perché sono le guide degli uomini sul cammino della fede. Essi godono di un riconoscimento speciale in seno alle comunità religiose e sono considerati garanti dell’armonia sociale, nel rispetto delle norme coraniche.
L’appellativo marabout (marabutto), attribuito ai maestri coranici, è originario della Mauritania e significa «uomo votato alla vita ascetica» per descrivere l’attitudine alla preghiera, allo studio e all’insegnamento che li contraddistingue.

La lingua sacra

Il bambino soggioa presso il maestro per diversi anni, durante i quali percorre le varie tappe dell’insegnamento islamico, iniziando dalla recitazione mnemonica del Libro, atto di lode a Dio, per proseguire con lo studio di tutte le altre materie religiose, come la teologia, il diritto musulmano e la tradizione profetica. La pratica corretta della religione islamica, a cominciare dall’obbligo della preghiera cinque volte al giorno, presuppone, infatti, la memorizzazione dei versi coranici e la capacità di pronunciarli correttamente in lingua araba (celebrare la parola di Dio in modo scorretto è considerato un grave sacrilegio).
Il Corano è un’opera colossale: è composto da 114 sure, raggruppate in trenta parti, ciascuna suddivisa in due porzioni, le hizb, ripartite in quarti, i rubu, articolati a loro volta in otto parti, i sumun, composte ciascuna da 17 o 18 linee. È evidente quanto sia ardua l’impresa di memorizzare integralmente tutta l’opera (necessario in passato per la rarità delle opere scritte), non solo per la quantità di versi che la compongono, ma soprattutto per la lingua in cui essa è scritta, di difficile accesso per le popolazioni non arabe.
In quanto lingua della rivelazione divina, l’arabo classico è considerato dai popoli musulmani come l’alfabeto santo per eccellenza e come tale deve essere tramandata di generazione in generazione. Essa stessa è considerata uno strumento di accesso al soprannaturale.
La sacralità della scrittura, secondo la percezione dei credenti musulmani, è confermata dalla progressiva sostituzione degli amuleti della tradizione africana con i sacchetti di cuoio contenenti un pezzo di carta con alcuni versi coranici, ma anche dalla tradizione popolare, la quale vuole che un foglio su cui siano scritti versi coranici resista alle fiamme. Il libro non può essere toccato se non dopo aver eseguito le abluzioni minori ed esso stesso viene sovente adoperato come amuleto contro la cattiva sorte.
Per quanto riguarda lo studio dei contenuti, seconda tappa nel percorso formativo, la conoscenza del «libro» permette di scoprire la ricchezza delle indicazioni divine che regolano ogni aspetto della vita dell’individuo. Non solo da un punto di vista spirituale, nel suo rapporto con l’Onnipotente, ma anche per il ruolo che egli deve svolgere all’interno della società. Il libro racchiude tutta la legislazione musulmana rispetto alle questioni religiose, giuridiche, sociali ed economiche. L’educazione coranica, in senso ampio, comprende quindi non solo la nozione di istruzione, ma anche quella di formazione dell’allievo ed è considerata fondamentale nella vita di ogni musulmano.

A scuola di semplicità

La scuola coranica in cui i giovani discepoli vengono formati si trova quasi sempre all’interno della casa del maestro. L’austerità del luogo in cui viene dispensato l’insegnamento ha radici profonde e risponde a una scelta pedagogica ben precisa, che raramente cambia al variare delle possibilità economiche del marabout. Egli educa i propri allievi sotto un semplice riparo, una tettornia o un albero, e i bambini sono seduti a gambe incrociate su stuoie di paglia, le stesse che servono come giaciglio durante la notte.
L’unico strumento di cui dispongono gli allievi, almeno per i primi anni di formazione destinati alla memorizzazione del Corano, è una tavoletta in legno su cui quotidianamente il maestro scrive i versi coranici da memorizzare nel corso della giornata.
La giornata dei taalibe (dall’arabo tâlib, ossia studente) comincia all’alba con la recita della preghiera del mattino e si conclude con la preghiera della sera.
Lo studio dei versi impegna l’allievo per diverse ore al giorno, in alternanza con le faccende domestiche e il lavoro agricolo. La distribuzione dei compiti fra gli studenti è proporzionale all’età di ognuno. Secondo la tradizione, il maestro possiede alcuni terreni coltivabili, fonti di sostegno per la sua famiglia e per tutti i suoi discepoli. Le famiglie degli allievi contribuiscono raramente e in minima parte al mantenimento dei bambini, che spetta invece al maestro stesso. Per definizione, infatti, il marabout beneficia del sostegno divino per adempiere alla sua missione e ciò rappresenta per le famiglie la garanzia più importante della buona sorte dei propri figli.
Oltre a partecipare ai lavori agricoli, i bambini lasciano la daara negli orari dei pasti per percorrere il villaggio più vicino e chiedere del cibo di casa in casa, per necessità materiale, ma al tempo stesso affinché imparino il valore dell’umiltà. L’elemosina concessa ai piccoli costituisce una partecipazione reale della comunità alla formazione religiosa dei suoi giovani membri.

Pareri a confronto

Il modello della daara tradizionale presenta elementi di forza e di debolezza. Da un punto di vista pedagogico è riconosciuta l’efficacia della metodologia adottata riguardo allo sviluppo della memoria. Infatti, gli esercizi di memorizzazione ripetuti per diversi anni sembrano avere effetti prodigiosi sulla capacità di immagazzinare informazioni. È frequente incontrare allievi delle scuole coraniche che, avendo proseguito lo studio delle scienze islamiche, riescono a ricordare migliaia di versetti in lingua araba tra quelli che compongono le opere di teologia, di diritto e di grammatica.
Tuttavia, diversi studiosi avanzano molti dubbi rispetto all’efficacia di questa metodologia educativa, soprattutto per quanto riguarda lo sviluppo della capacità di rielaborazione dei concetti, inibita dalla predominanza della facoltà mnemonica su quella analitica.
Va evidenziato che molti insegnanti della scuola pubblica elementare non sono dello stesso avviso, poiché la loro esperienza dimostra che, se l’allievo ha frequentato una daara per alcuni anni prima di essere introdotto nell’insegnamento laico, ha più facilità nell’apprendimento e recupera il ritardo sul programma in tempi relativamente brevi.
Nella stessa prospettiva, molti quadri senegalesi, sia del settore pubblico che privato, riconoscono negli anni trascorsi presso il loro maestro la chiave del loro successo sociale ed economico.
Tra gli elementi di forza del sistema va segnalato, infatti, che la scelta della daara da parte delle famiglie è giustificata non solo dal desiderio di rispettare le indicazioni coraniche riguardo all’educazione dei giovani musulmani, ma anche dalla promozione sociale che questi studi assicurano. L’hafitz (colui che ha completato lo studio del Corano), nel sistema tradizionale, gode infatti di un grande prestigio sociale.
Dal punto di vista dell’educazione morale, la permanenza prolungata presso la daara (per diversi anni) vuole creare le naturali condizioni per l’assimilazione dei principi morali e delle norme sociali che il maestro e la realtà comunitaria trasmettono.

Formazione integrale

Contemporaneamente all’istruzione, il sistema educativo coranico si propone di sviluppare la personalità del bambino, stimolando lo spirito comunitario tra i taalibe della stessa daara che per anni condividono momenti di studio, di lavoro e di quotidianità. La solidarietà fra i bambini è una conseguenza naturale della convivenza prolungata in condizioni difficili, che stimolano l’unione, al fine di superare le avversità di tutti i giorni.
A questo riguardo, tuttavia, sono pertinenti le considerazioni di P. Marty sull’autonomia pedagogica del maestro coranico, dalle cui qualità personali dipende interamente l’insegnamento dei principi morali, poiché non sottomesso a controlli estei di strutture superiori.
La lontananza fra bambini e genitori, che si protrae per anni, è in parte voluta dal sistema educativo della daara, che vede in questa separazione un fattore essenziale per il processo di crescita del giovane taalibe. Allo stesso tempo, i genitori si sentono autorizzati in molti casi ad abbandonare i bambini nelle mani del marabout, non facendogli visita per tutta la durata del soggiorno nella scuola e non informandosi del suo stato di salute.
Questo fenomeno può essere in parte giustificato sulla base delle difficoltà economiche, che impediscono alla famiglia di affrontare il viaggio per raggiungere la zona in cui si trova la daara, e della tradizione che prevede l’affidamento totale del bambino a un parente per consolidare i legami tra i membri della famiglia, fenomeno valido a maggior ragione se il congiunto in questione è un maestro spirituale.
Tuttavia, questi elementi di riflessione sulle cause del disimpegno genitoriale non trovano giustificazione nei testi sacri, poiché sia il Corano che la tradizione profetica insistono sulla responsabilità della famiglia, in primo luogo, rispetto all’educazione del bambino. Inoltre, non alleviano il dramma del sentimento di estraneità che si crea fra il bambino, allontanato troppo presto dal nucleo famigliare, e i genitori, che può essere accompagnato da frustrazione e senso di abbandono. Il rapporto affettivo con il maestro coranico può compensare solo in parte il vuoto lasciato dai genitori, poiché questi è responsabile di diverse decine di bambini tra i quali deve dividere le proprie attenzioni.

Studio e lavoro

Riguardo alle prove che il bambino deve superare nel suo percorso di formazione in seno alla daara tradizionale, è fondato il dubbio che possano essere eccessive per la giovane età dell’allievo, poiché il taalibe può raggiungere livelli di sofferenza che rischiano di inibie lo sviluppofisico e intellettuale.
La carenza di riposo, date le poche ore di sonno concesse fra la sessione serale di studio e la sveglia mattutina per pregare (si tratta solitamente di un tempo inferiore alle sei ore), e le rare occasioni di vacanza, possono sul lungo periodo indebolire il fisico del bambino.
Solo una minoranza dei maestri è favorevole all’interruzione delle lezioni e al ritorno presso la famiglia, in occasione delle feste religiose della Korité, la festa della rottura del digiuno del mese di Ramadan (il nono mese dell’anno lunare) e della Tabaski, la festa del sacrificio (celebrata nel dodicesimo mese dell’anno lunare, in ricordo della fede di Abramo, pronto a sacrificare il suo stesso figlio per obbedire a Dio).
Molto più comune è l’usanza di consacrare il riposo settimanale, dal mercoledì pomeriggio al venerdì pomeriggio, e le ricorrenze religiose ai lavori domestici o al ripasso delle lezioni apprese. I maestri coranici ritengono in genere che una pausa possa interferire negativamente sulla concentrazione dei taalibe, che una volta rientrati alla daara dovranno spendere più energie per riprendere il ritmo di studio abituale. Per questa ragione molti allievi non rientrano presso la casa patea, che una volta completato lo studio integrale del Corano.
Riguardo ai metodi correttivi adottati, va rilevato che in alcuni casi è stata constatata una dismisura nel ricorso alle punizioni corporali. Poiché oltre al maestro, anche i taalibe più grandi sono autorizzati a punire il discepolo, gli atti di questi ultimi, a causa dell’immaturità, possono degenerare in gravi incidenti.

Le scuole migranti
 
Le considerazioni fatte riguardano il sistema della daara tradizionale, che, per quanto austero, garantisce le condizioni essenziali di sicurezza e di crescita del bambino. Esse assumono, invece, una connotazione grave se analizzate alla luce dell’evoluzione che ha caratterizzato il sistema delle scuole coraniche nella seconda metà del XX secolo.
Come abbiamo detto, l’insegnamento coranico tradizionale si sviluppa originariamente in ambito rurale, in una dimensione comunitaria di villaggio, dove i piccoli taalibe, anche al di fuori della daara, beneficiano del controllo e della protezione sociale, su cui si basano i rapporti fra le famiglie che abitano lo stesso territorio.
Tuttavia, dopo l’indipendenza, esso non rimane indenne al fenomeno migratorio verso i centri urbani, che colpisce tutta la società senegalese.
Alla fine degli anni ’70, infatti, la situazione economica nazionale si trasforma rapidamente, a causa di lunghi periodi di siccità che colpiscono il paese, obbligando i contadini ad abbandonare i loro villaggi e a spingersi verso i poli economici in cui dominano settori diversi da quello agricolo.
L’esodo rurale, che spinge migliaia di persone verso le città, fa sì che le infrastrutture cittadine, ancora deboli, non riescano a contenere la pressione demografica, con un riversamento in direzione delle periferie dove si sviluppano distese di case abusive, le cosiddette fakk-dekk, costruite con materiali di recupero, sprovviste di tutti i servizi e in cui la gente vive in condizioni igieniche e sanitarie precarie.
In queste circostanze si sviluppa il fenomeno delle scuole coraniche migranti, le noorane kat. Poiché, come tutti gli altri contadini, i marabutti installati nelle campagne hanno grandi difficoltà ad assicurare l’alimentazione delle decine di bambini che hanno in affidamento, sono costretti a trasferirsi verso le zone urbane.
Le scuole coraniche migranti si distinguono in due categorie: le scuole stagionali e quelle stanziali. Le prime si installano nelle periferie delle città solo durante i mesi della stagione secca, per cercare nei centri urbani i mezzi di sostentamento, poiché i terreni aridi non garantiscono più un raccolto sufficiente a coprire i bisogni di tutto l’anno.
Durante la stagione delle piogge, nel periodo che va da giugno a settembre, il marabout e i suoi discepoli tornano nel villaggio originario per praticare l’agricoltura.
Le scuole stanziali, invece, sono quelle in cui il maestro, proveniente da un’altra regione o dalle campagne, si trasferisce definitivamente con i suoi taalibe ai margini della città. Naturalmente il fenomeno migratorio non riguarda solo il nucleo famigliare del maestro, ma anche tutti i suoi discepoli, che egli porta con sé. Le famiglie stesse dei taalibe incitano il marabutto a trasferirsi, identificando nella migrazione l’unica soluzione di sopravvivenza per i loro figli ed, eventualmente, un’occasione di inserimento nel mercato del lavoro, che il villaggio non offre e che potrebbe portare beneficio a tutta la famiglia.

Sfruttamento e mendicità

Le conseguenze della migrazione verso i centri urbani sulle condizioni di vita dei taalibe sono spesso drammatiche, poiché la principale fonte di reddito del marabutto diventa la mendicità degli allievi, che ogni giorno, oltre a occuparsi del proprio nutrimento, devono assicurare una certa cifra che permetta al maestro e alla sua famiglia di sopravvivere.
È evidente che in questo contesto il rischio di sfruttamento del bambino è elevato. Egli si trova in un contesto estraneo, meno protetto rispetto alla realtà comunitaria di villaggio, esposto a nuovi pericoli, legati al traffico automobilistico, al rischio di abuso, alle condizioni igieniche e alimentari penose.
Le violenze subite dei taalibe che praticano la mendicità attirano sempre di più l’attenzione dell’opinione pubblica, che chiede allo stato e agli organismi inteazionali di intervenire per tutelare la salute fisica e mentale del bambino, pur conservando la tradizionale trasmissione del sapere religioso attraverso le scuole coraniche.
Il contesto urbano è inoltre più soggetto al fenomeno di installazione di scuole coraniche create da falsi maestri, che vedono nell’insegnamento una possibile fonte di reddito. In questi casi il bambino trascorre tutta la giornata per strada a raccogliere l’elemosina e, se interrogato sul verso coranico che sta imparando, risponde a stento e con una pronuncia scorretta i primi versi della fâtiha, la prima sura insegnata nelle scuole coraniche. In generale, il traguardo della memorizzazione del libro in questi casi non viene mai raggiunto.
In questi casi estremi, che non devono essere generalizzati a tutto il sistema delle scuole coraniche, il taalibe non beneficia né di un’istruzione in materia religiosa né di un accompagnamento nel suo processo di crescita e di formazione ai valori morali e sociali. Al contrario, le situazioni che vive quotidianamente possono compromettere profondamente il suo sviluppo, creargli traumi fisici e psicologici che lo accompagneranno per tutta la vita. 

Di Giulia Lanzarini


Giulia Lanzarini




È accaduto a Cornuda …

Esperienza esemplare di incontro interreligioso

«Non v’è costrizione in religione»: l’espressione, tratta da una sura del Corano, è stato il tema del sesto incontro-dibattito tra cristiani e musulmani nella diocesi di Treviso. L’originalità dell’esperienza sta nel fatto che tale incontro si è tenuto nella sala del municipio
di Couda (TV), a promuoverlo e dirigerlo sono stati il sindaco e il vicesindaco.

È stato sicuramente eccessivo il mio entusiasmo quando, in occasione dell’incontro interreligioso di sabato 27 settembre 2008, ho paragonato Couda alla Baghdad dei califfi. Ma, ne valeva la pena!
Couda è un comune del trevigiano, di circa 6 mila abitanti, nella cui aula consigliare, il giorno successivo alla «Notte del destino», 27ª di Ramadan, si è svolto un incontro tra cristiani e musulmani sul tema della libertà religiosa. I due relatori principali furono Brunetto Salvarani, per la parte cattolica, e Adel Jabbar, per la parte musulmana. Il parroco di Couda, don Mauro Motterlini, ha presentato il messaggio vaticano di fine Ramadan ai musulmani presenti, consegnandone il testo all’imam della città di Treviso.
Lo cheick Mahamoud Khalil, in qualità di ospite speciale delle comunità islamiche della provincia di Treviso durante tutto il mese di Ramadan 2008, ha esposto la dottrina musulmana circa i rapporti con le altre religioni. Il professor Ometto, un fervente cristiano sposato con una musulmana sciita, ha citato integralmente a memoria in arabo e interpretato filologicamente i versetti coranici che fanno riferimento alla libertà religiosa e da cui era stato tratto il tema della giornata: «Non v’è costrizione in religione».
La città di Treviso sovente finisce nei giornali, soprattutto come prototipo dell’intolleranza e del becero rifiuto della convivenza con la comunità islamica. Il centinaio di persone, cristiani e musulmani in parti quasi uguali, che hanno partecipato durante tutto il pomeriggio a questo evento, costituisce una secca smentita all’omologazione giornalistica avvenuta in questi anni tra la città di Treviso, ma soprattutto i suoi rappresentanti politici, e il resto del territorio provinciale.
Salvate le proporzioni tra ciò che è avvenuto a Couda e ciò che accadeva con frequenza alla corte dei califfi, dove si ripetevano con una certa regolarità incontri e dibattiti tra esponenti di varie religioni, non era infondato il nostro sentimento di sentirci per una sera un po’ anche cittadini di Baghdad.

SESTO INCONTRO
L’esperienza di Couda non è la prima di questo genere nel territorio della diocesi di Treviso. È ormai da sei anni che alcuni cristiani e alcuni musulmani si danno appuntamento verso la fine del Ramadan per passare insieme mezza giornata, confrontandosi sulla base di esperienze religiose vissute dalle due parti e rompendo il digiuno della giornata all’ora stabilita.
I primi quattro incontri, a partire dal Ramadan 2003, si sono svolti nella comunità monastica di Marango. Si pensava allora, e continuiamo a pensarlo anche oggi, che «il monastero» in sé è un luogo di incubazione di civiltà e di tempi nuovi. Esso si pone sui punti terminali di una civiltà in crisi, per aprirla a un nuovo futuro.
La nostra voleva essere una sfida a una società che, pur fondata su un immenso potere scientifico, tecnologico ed economico, non è ancora in grado di affrontare e risolvere i problemi della convivenza.
Noi di parte cristiana in maniera particolare abbiamo la convinzione che «il monastero» era e rimane il supplemento d’anima, il luogo di rigenerazione di energie e atteggiamenti che hanno in sé le potenzialità che occorrono per rendere più umana la nostra convivenza, basandosi su rapporti densi di profonda spiritualità.
Inoltre il fascino indubbio che suscita un luogo di preghiera, nato all’interno di una società opulenta e apparentemente priva di Dio come quella occidentale, ci sembrava il clima più adatto per vivere insieme con i musulmani qualche ora del loro lungo percorso ascetico e spirituale.
Queste furono le ragioni che ci avevano spinti per 4 anni di seguito a domandare ospitalità alla giovane comunità monastica di Marango (Venezia) per realizzare i nostri incontri. Essi si svolgevano con grande discrezione e impegnavano esclusivamente la ricerca e la coscienza delle persone che vi partecipavano.
A partire dall’anno 2007 questi incontri hanno incominciato a svolgersi invece dentro un quadro pubblico, offerto direttamente da due amministrazioni comunali: Giavera e Couda. Ma se l’anno scorso questo significativo spostamento si riduceva a essere poco più di un’intuizione, quest’anno invece esso è frutto di una scelta ormai matura e ragionata.

DAL MONASTERO   ALL’AULA CONSIGLIARE
Il ragionamento che sta alla base di questo spostamento parte dalla semplice constatazione della realtà plurale delle nostre comunità paesane, comprese quelle più piccole.
Sono molti i musulmani, buddisti, sik che ormai si sono radicati all’interno delle nostre comunità tradizionalmente cristiane. La presenza di queste persone di religione e cultura diversa ha acquisito in questi due decenni delle caratteristiche nuove. Non ci sono soltanto musulmani e sik; ci sono ormai delle comunità musulmane e sik, che progressivamente sono venute strutturandosi.
Potremo a tal proposito fare un paragone con la presenza ebraica in Italia. Essa non si limita al fatto che ci siano nel nostro territorio, da sempre, un numero più o meno grande di ebrei, ma essa ha le caratteristiche di una comunità che ha una sua immagine, una sua rappresentanza, una sua struttura e visibilità anche a partire dai luoghi di culto che le sono propri. La stessa cosa potremmo dire di queste altre giovani comunità che si sono affermate tra noi.
L’obiezione più frequente che viene rivolta, soprattutto alla comunità musulmana, è che essa tende ad accorpare nella dimensione religiosa anche quella civile e politica. Ciò è probabilmente vero in molti paesi a larga maggioranza musulmana, anche se non in tutti. Ma questo non è il caso dell’Italia.
Ora è evidente che, nell’attuale panorama inedito offertoci dalla nostra società, occorre che qualcuno prenda l’iniziativa per costruire una piattaforma d’intesa, che si proponga di favorire la pace sociale tra gruppi caratterizzati da religioni e culture diverse e di confermare i valori fondamentali della nostra cultura civile, sociale e politica, in vista di una condivisione di essi da parte di tutti: sia i vecchi che i nuovi cittadini.
Occorre perciò rimettersi all’iniziativa di un «terzo» attore, che non può essere nessuna delle comunità religiose in quanto inevitabilmente esse sarebbero di parte. Un attore che necessariamente abbia l’autorità di convocare tutti e che possa esigere da tutti il rispetto delle regole del gioco.
Ai promotori dell’incontro è sembrato che questo potrebbe e dovrebbe essere il compito di un’amministrazione comunale, ma anche di ogni altro livello dell’amministrazione pubblica. La sua natura, infatti, può favorire un ruolo di «terzietà» che la può costituire moderatrice di un eventuale «tavolo delle religioni» in vista del bene comune e della pace sociale.
A Couda è accaduto proprio questo: al centro del tavolo sedevano il sindaco e il vicesindaco e ai due lati i vari rappresentanti delle due comunità religiose, quella cattolica e quella musulmana.
L’impressione che se ne ricavava era molto forte. La laicità di cui si offriva la prova non era quella dell’indifferenza dell’ente pubblico nei confronti dell’individuale scelta religiosa, ma quella di un’amministrazione comunale laicamente attiva, consapevole del proprio ruolo, senza alcuna invasione di campo.

IL TEMA
Il tema dell’incontro è stato ricavato da una sura del Corano : «Non v’è costrizione in religione», filologicamente tradotto dal prof. Ometto: «Non si può costringere nessuno ad abbracciare una credenza verso la quale si prova un netto rifiuto».
Il tema della libertà religiosa è sicuramente un tema sensibile particolarmente in questi tempi in cui tutte le società, anche le più tradizionalmente omogenee, tendono a diventare pluraliste o a causa del mescolamento di popolazione o per l’incursione dei messaggi e degli stili di vita veicolati dai mass media.
Il prof. Jabbar, rifacendosi al patto di Medina, ha ricordato la capacità che l’islam ha avuto, soprattutto agli inizi e in certi momenti storici, di mettere insieme culture e religioni diverse, facendole convergere verso un patto di cittadinanza che non costringeva all’assimilazione.
Ad ascoltarlo si ricavava l’impressione che ci siano zone e tempi inesplorati dell’islam, che sarebbe utile riportare alla memoria sia per noi sia, a dire del prof. Jabbar, per i musulmani stessi.
Il prof. Salvarani, oltre ad affermare la necessità e la convenienza del dialogo, ha parlato della libertà religiosa come condizione mai totalmente compiuta e che occorre continuamente porre in essere, perché essa non si situa mai in un punto di non ritorno. Più che una condizione già raggiunta è una continua conquista. Per questo sarebbe preferibile parlare, non solo di libertà come valore, ma di liberazione come processo e acquisizione di gradi sempre più elevati di libertà per tutti.
Successivamente il parroco di Couda ha consegnato all’imam il messaggio vaticano, facendone una breve sintesi riguardante la famiglia come valore condiviso da cristiani e musulmani e come luogo «in cui si apprende il rispetto dell’altro, nella sua identità e nella differenza. Il dialogo interreligioso e l’esercizio della cittadinanza non possono dunque che beneficiae».
Alla conclusione dell’incontro ci fu una brevissima preghiera, durante la quale ognuno ha accolto con interiore partecipazione la preghiera dell’altro. Un momento brevissimo, ma efficace quanto un lampo nella notte.
La rottura del digiuno, con i cibi che caratterizzano le varie abitudini alimentari e che erano stati generosamente offerti dalle diverse comunità etniche presenti, ha confermato l’impressione che ci eravamo detti al momento di lasciare l’aula consigliare: «Usciamo da quest’incontro con l’impressione di sentirci un po’ migliori di prima». 

Di Giuliano Vallotto

Giuliano Vallotto




Zappa, kalashnicov e coca-cola

Breve viaggio nel Mozambico di oggi. Reportage.

Una nazione ricca con l’economia in forte crescita.
Un popolo povero che ha sofferto la colonizzazione e 30 anni di guerra.
Uno degli ultimi regimi socialisti del continente, ma al tempo stesso
aperto al neoliberismo. Il Mozambico è costretto ad accettare
le imposizioni dei donatori inteazionali, perché il bilancio dello stato
dipende da loro. Intanto la democrazia fa piccoli passi
in avanti, in attesa di un necessario decentramento
amministrativo e di un migliore sfruttamento delle terre.

Lichinga, Mozambico. Il boeing 737-200 della Lam (Lineas aereas moçambicanas) atterra nella capitale della provincia di Niassa. Sulla pista, ad attenderlo da un paio d’ore, decine di bandiere rosse, donne e uomini in abiti colorati, frenetici suonatori di tamburi e di bidoni di plastica. Sono alcune centinaia, arrivati con i camion dalle diverse zone della provincia, una delle più povere ma più fertili del paese. Sull’aereo c’è una folta delegazione che accompagna Felipe Paunde, segretario generale del Frelimo (Fronte di liberazione del Mozambico), il partito al potere. Decollato la mattina dalla capitale Maputo, ha anticipato l’ora della partenza, lasciando a terra molti passeggeri «normali».
È il penultimo giorno di campagna elettorale per le elezioni municipali, previste per il 19 novembre, in un paese che, a sedici anni dagli accordi di pace, fatica ancora a trovare una via verso lo sviluppo. Il segretario generale viene ad appoggiare il candidato alla presidenza del comune di Lichinga.
Elezioni importanti in un paese enorme (800 mila kmq, due volte e mezza l’Italia, ma con un terzo di abitanti), dove il decentramento amministrativo, essenziale per governare un paese così grande, sta muovendo solo i primi passi. Mentre tutto o quasi, resta centralizzato a Maputo, capitale troppo lontana, situata all’estremo sud del paese (circa 2.300 km da Lichinga), incastrata tra il mare e il vicino ricco di sempre: il Sudafrica.
Nella consultazione elettorale si affrontano soprattutto i due maggiori schieramenti: il Frelimo e la Renamo (Resistenza nazionale del Mozambico). Sono i vecchi nemici di sempre, della feroce guerra civile che ha insanguinato il paese dalla sua indipendenza dal Portogallo, nel 1975, alla firma degli accordi di pace a Roma nel1992. Oggi si affrontano con le ue, in un contesto di grande differenza di mezzi a disposizione. Il Frelimo al potere da 33 anni, ha dalla sua parte una macchina propagandistica ben rodata e mezzi economici a volontà. Non così i concorrenti.
Quest’anno sono 43 i consigli municipali e i presidenti dei comuni (sindaci) che devono essere eletti. Di questi 10 sono nuovi, ovvero è la prima volta che si costituiscono. Segno che qualche piccolo passo avanti nel decentramento si sta facendo.
Il segretario generale è appena sceso dall’aereo e rilascia la prima intervista. Intanto i passeggeri rimasti scendono e attoniti cercano di farsi largo tra la folla per raggiungere l’area recupero bagagli.

La guerra non perdona

Il paese oggi resta segnato da 500 anni di dominazione portoghese, ma anche da quasi tre decadi di guerra che contraddistinguono la sua storia recente. All’inizio degli anni ’60 quando la maggior parte dei paesi africani diventavano indipendenti, le colonie portoghesi si vedevano negato questo fondamentale passaggio.
Nel 1964 l’intellettuale Eduardo Mondlane, in esilio in Tanzania, fonda il Frelimo e dichiara l’inizio della guerra d’indipendenza.
Il conflitto è cruento e i portoghesi non mollano. Il Frelimo riesce a controllare vaste zone nel Nord del paese. È il 1975 i tempi sono maturi. L’anno prima la ribellione militare in Portogallo ha chiuso con i regimi dittatoriali di Salasar e del successore Caetano. Il Mozambico diventa indipendente, il Frelimo si vede consegnato il potere e Samora Machel è il primo presidente della repubblica popolare. Il regime opta per l’ideologia marxista-leninista e una sua applicazione piuttosto rigida. Nazionalizzazioni, emigrazioni forzate per popolare il nord e campi di rieducazione. I beni della chiesa sono confiscati e i missionari costretti a lasciare le missioni sono radunati nelle città.
Negli stessi anni, portoghesi fuoriusciti appoggiati dalla Rhodesia di Jan Smith (l’attuale Zimbabwe) e dal Sudafrica dell’apartheid, organizzano una guerriglia controrivoluzionaria: la Renamo. La guerra fratricida è cruenta, i campi pullulano di mine e diventa difficile per i contadini far rendere la terra. Solo gli accordi di  pace generali di Roma (4 ottobre 1992), con un importante ruolo giocato dalla chiesa, riportano la pace.
Il Mozambico indipendente è devastato, e inizia allora i primi passi verso lo sviluppo. L’intervento dei donatori inteazionali, di Fondo monetario internazionale (Fmi) e di Banca mondiale (Bm) sono massicci.

Economia: macro e micro

Negli ultimi 5 anni il paese ha presentato indicatori macroeconomici che rispecchiano un’economia dinamica: crescita del pil intorno al 7- 8%, inflazione tenuta al 13,2% da un ambizioso piano governativo, buoni scambi commerciali. Ma il mozambicano medio continua ad avere una speranza di vita intorno ai 42 anni, mentre solo il 38,7% dei maggiori di 15 anni risultano alfabetizzati. Una situazione socio-economica complessa che vede il paese al 172simo posto su 177 della classifica Onu basata sull’indice di sviluppo umano. Quanto basta per dire che è «tra i più poveri del mondo».
«L’economia mozambicana, incluso il bilancio dello stato, continua a essere finanziata in larga parte dai donatori esteri. Un gruppo di 19 partner, tra cui Unione europea, Canada, Usa, Giappone, ma anche Fmi e Bm». Chi snocciola l’elenco è Brazão Mazula, professore, già rettore della maggiore università del paese, la Eduardo Mondlane. Membro storico del Frelimo, che nel 1994 gli affidò l’organizzazione delle prime elezioni libere nel paese. Mazula si è formato come missionario della Consolata, diventando anche padre per poi uscire dall’Istituto.
«Se il governo vuole gli aiuti inteazionali, sono i donatori che decidono qual è la direzione che deve prendere il Mozambico per il suo sviluppo. Anche questi indicatori economici rispondono a un loro desiderio. A novembre una missione del Fmi ha valutato positivamente la performance dell’economia mozambicana».
Ma il professore è realista: «Un’altra cosa è dimostrare che questa crescita economica ha un impatto sul benessere della gente. Non ci si può fermare a Maputo per dire che questo è il paese». Maputo è una città modea, con centri commerciali, grosse vie con marciapiedi, palazzi, luci e vecchie case in architettura coloniale. Circolano molte automobili, anche costose. Ma come accade spesso in Africa, la capitale non è specchio della situazione e le condizioni di vita nell’«interno» sono molto diverse.

Poveri in un paese ricco

«La povertà è reale – continua il professore – secondo dati ufficiali il 70% della popolazione è in stato di indigenza e la maggior parte di essa risiede in campagna».
Ma come vive e sopravvive il mozambicano medio, nel mezzo di questa situazione così grave, nel contrasto tra uno sviluppo economico effettivo e una povertà diffusa?
«La popolazione è ancora orientata a un’economia di sussistenza. In particolare è importante la questione della terra per il contadino: se ha terra sufficiente, coltiva il suo mais, la manioca. Il problema sorge quando la legge mette a rischio la sicurezza della terra per il futuro. Togliere la terra al contadino è come togliergli la cittadinanza» insiste il professor Mazula. E continua: «Le politiche macro economiche degli ultimi anni portano alla privatizzazione delle imprese, ma anche della terra. Il contadino un giorno si trova di fronte un connazionale (o uno straniero), che gli presenta dei documenti e gli dice che la terra, suo unico sostentamento, fa parte di un’altra proprietà e non è più sua. «È questo che aggrava la povertà».
«Un esempio concreto sono i bio-combustibili, come quelli ricavati dalla canna da zucchero. Le imprese produttrici hanno bisogno di migliaia di ettari. Se questi progetti non sono ben applicati i sacrificati saranno i contadini».
Le potenzialità agricole del paese sono enormi e variano a seconda della regione e fascia climatica. La terra è fertile (in particolare al nord), bagnata da grandi fiumi e da una stagione delle piogge estesa, in media, da fine novembre a marzo.
Le produzioni principali per uso alimentare sono mais, manioca, sorgo, riso, legumi, patata dolce e banane. Per l’esportazione si produce canna da zucchero, tabacco, tè, cotone e palma da cocco.
Ma la terra in generale non è ben sfruttata: resterebbero almeno 4 milioni di ettari da valorizzare. Inoltre ci sono ancora mine antiuomo nei campi (sono sempre all’opera squadre di «sminamento»). Molto diffusa è l’agricoltura famigliare di sussistenza.
«La minaccia è che nella visione di economia di scala, si vuole trasformare il contadino in un lavoratore per grandi imprese agro-industriali. Un problema è che il nostro contadino è analfabeta. Non è un’operazione che si può fare da un giorno all’altro. C’è la questione dell’educazione».
Gli interessi economici inteazionali sono grandi e quindi ci sono molte pressioni sul governo: «Dipende da noi, dobbiamo accrescere la nostra capacità di negoziazione. Nessun investitore investe per perdere. Le istituzioni inteazionali non vengono a fare la carità, ma affari. Dobbiamo avere capacità tecnica e di negoziazione, in modo che entrambi, noi e loro, possiamo guadagnare da questa situazione».
Si ricorda che metà del bilancio dello stato è appannaggio dei donatori inteazionali, mentre si parla di aiuti per 435 milioni di dollari nel 2008. Una parte dei quali per finanziare l’ambizioso «Piano d’azione per la riduzione della povertà assoluta (Parpa)».
Da qui il ruolo della formazione superiore, per formare risorse umane in quantità e qualità, che conoscano le leggi, l’economia, il commercio internazionale. «È una nostra sfida. La stabilità economica e politica passa dall’educazione e dalla formazione del cittadino. Lo sviluppo, per me, è libertà di scegliere» continua il professore.
Non solo educazione di base quindi, che Bm e Fmi «impongono e limitano», ma una formazione che porti il cittadino a essere meno manipolabile possibile e in grado di scegliere.
«Il governo decide le politiche, ma dovrebbe negoziare con il cittadino. Al contrario, per la crescita economica, il nostro governo rende conto di più ai donatori che ai mozambicani… perché da questi non vengono soldi».
Sul piano dell’educazione il paese si è dato un piano strategico 2006-2011. «Questo mostra buona volontà. La coscienza che c’è qualcosa da cambiare: centrare lo sviluppo sul cittadino e non sui desideri delle istituzioni finanziarie inteazionali.
Non possiamo pretendere che tutte le persone vadano all’università… ma che ogni cittadino, a qualsiasi livello termini la sua formazione, sia in grado di lavorare o dare lavoro e di produrre ricchezza. Il ministero dell’educazione sta facendo uno sforzo, in questo senso».
Il programma prevede la costruzione di 4.100 aule scolastiche in ambito rurale ogni anno e che in ogni distretto ci sia la scuola secondaria.

Verso il Marxismo neoliberale

A partire dalla seconda metà degli anni ’80, il Frelimo ammorbidisce il modello socialista e inizia le riforme per far spazio al mercato. Il cambiamento è favorito da un avvicendamento al vertice: Samora Machel, leader intransigente, muore in un misterioso incidente aereo nell’ottobre del 1986. Disastro in cui sarebbero implicati i servizi segreti sudafricani.
Gli succede Joaquim Chissano, uomo diplomatico, comunicatore, che imposta la transizione e traghetta il paese alla pace. Il nuovo presidente, pragmatico, accetta le condizioni dei partner inteazionali, come una nuova costituzione di fine 1990 che legalizza il multi partitismo (ancora rivista nel 2004). Si procede poi a una serie di privatizzazioni, non prive di scandali. Si forma così una nuova classe borghese legata al Frelimo, che si arricchisce grazie alle vendite dei beni statali. E la corruzione, fenomeno quasi sconosciuto per i dirigenti del partito all’indomani dell’indipendenza, aumenta.
«La corruzione deve essere combattuta, ma occorre anche capire come è iniziato questo fenomeno nel nostro paese – denuncia Felipe Couto, missionario della Consolata, magnifico rettore dell’Università Eduardo Mondlane e persona influente nel Frelimo -. Noi eravamo l’unico partito: ci hanno imposto il multi partitismo. Poi ci hanno detto: dovete entrare nel Fmi, nella Bm, dovete aprirvi al neoliberismo economico. Così sono arrivate le agenzie inteazionali e le Ong. Hanno iniziato a girare molti soldi. La corruzione dipende da noi, ma non solo».
Nel novembre 2000 è assassinato il giornalista Carlos Cardoso, che portava avanti un’inchiesta sulla privatizzazione delle due più grandi banche del paese: il Banco Comercial de Moçambique e il Banco Austral. Ci sono stati alcuni arresti, ma i veri mandanti sono ancora liberi.
Nelle elezioni del 2004 Chissano si ritira e gli succede Armando Guebuza (febbraio 2005), l’allora segretario generale. È un avvicendamento al vertice non privo di cambiamenti. Guebuza, oltre a essere numero uno di un partito comunista è anche uno dei più ricchi uomini d’affari mozambicani. La sua rete di business va dalla birra alle costruzioni, all’export, al traffico nel porto di Beira.
In politica si rivela più tradizionalista. Subito cerca di imporre un maggior rigore: lancia la seconda fase della riforma del settore pubblico (2005-2011), che include un ambizioso programma di lotta alla corruzione.

Donne e integrità al governo

«Il programma del governo prevede quattro punti: riduzione della burocrazia, lotta alla corruzione, alla criminalità e alle malattie endemiche come l’Aids» ci racconta Vitória Diogo, ministro della Funzione pubblica. Testa alta e parlata chiara, quasi da campagna promozionale. Fiera di essere, donna e capo del maggior datore di lavoro del paese, con 167.000 impiegati.
Nel governo mozambicano, ci sono otto donne ministro (incluso il premier) e si arriva a tredici con i viceministri. Anche nel parlamento, forte è la partecipazione femminile, circa il 30%.
La «strategia di lotta alla corruzione» varata dal governo nell’aprile 2006 prevede, dice il ministro di «istituzionalizzare l’integrità» ovvero promuovere l’integrità come valore umano. «Tra il 2006 e il 2007 sono stati identificati 2.414 casi di corruzione, seguiti da processi disciplinari, di cui 813 espulsioni». Sicura, il ministro Diogo, elenca i risultati per quello che riguarda la «piccola corruzione».
Di fatto la corruzione è ancora molto radicata a tutti i livelli e si può avvertire non appena si passa la dogana in aeroporto. C’è però anche una campagna pubblica, con tanto di manifesti, che invita la società civile e la gente in generale, a denunciare casi di pressioni e malversazioni dei funzionari.
Ma il salario minimo legale è ancora molto basso: 1.950 meticais (65 euro) al mese, anche se si stanno studiando sistemi di incentivo. In un paese in cui il costo della vita (almeno in città) è simile a quello europeo. La benzina, madre di tutti i prezzi, in quanto influisce sui trasporti, arriva a costare anche 1,5 euro al litro, il gasolio 1,23. Il regime di stipendi bassi non facilita la riduzione di questa piaga.
La strategia anti corruzione dipende dal Gabinetto centrale di lotta alla corruzione, di competenza del primo ministro, Luisa Diogo, sorella di Vitória.
Secondo la classifica della corruzione, stilata ogni anno dall’Ong Transparency Inteational, il Mozambico è sempre nella fascia dei paesi più corrotti al mondo: nel 2008 occupa il 128simo posto su 180.
La riforma del settore pubblico, prevede inoltre il miglioramento delle prestazioni dei servizi, vuole «mettere il cittadino al centro», incentivare la buona governance e aumentare la professionalizzazione delle risorse umane.
«Il funzionario per servire ogni volta meglio il cittadino» è lo slogan ufficiale della riforma.
Programmi questi molto amati (e sollecitati) dai donatori e che il governo cerca, tra mille difficoltà, di mettere in atto.

Le priorità

Come decano dell’università, il professor Brazão Mazula identifica quattro aree importanti per far uscire il paese dalla povertà e portarlo verso lo sviluppo. Aree che identificano settori prioritari  per la formazione di quadri del paese: educazione integrata, formativa e critica, sanità, agricoltura e pesca (il mare è una ricchezza), turismo. Quest’ultimo, grazie alla posizione geografica e alle bellezze del paese (parchi naturali, spiagge da sogno, isole) è diventata la prima industria del paese. Gli investimenti dei vicini sudafricani in questo settore sono notevoli. Basti pensare che per i mondiali di calcio del 2010 in Sudafrica, i pacchetti turistici prevedono, dopo le partite, alcuni giorni sulle spiagge del Mozambico.
Sul piano della salute l’emergenza maggiore è l’Aids. «I casi sono in costante aumento, non si riesce a frenare – racconta suor Raquel Gil Mas, missionaria dominicana, medico, che si spende ormai da anni sul tema -. In alcune province si parla del 27% di sieropositivi». Mentre i dati ufficiali sono intorno al 17% a livello nazionale. Un programma del governo fornisce farmaci antiretrovirali gratuitamente a tutti coloro che risultano positivi e si affidano alle cure di un centro. «Questo è un aiuto fondamentale perché riusciamo a far vivere tanta gente che altrimenti sarebbe già morta. Il problema è che arrivano da noi quando ormai sono in stato terminale».

Elezioni monocromatiche

Alle elezioni municipali di novembre il Frelimo ha stravinto, togliendo alla Renamo anche i cinque municipi storicamente sotto il suo controllo, e ottenendo la maggioranza nelle assemblee municipali e i sindaci. Tranne a Beira, seconda città del paese, dove succede a se stesso l’indipendente Daviz Simango, già Renamo.
Il leader della Renamo, Alfonso Dhlakama ha da tempo perso in popolarità ma non vuole farsi da parte. Questa sconfitta, però, lo mette in seria difficoltà e si parla di avvicendamento alla testa del partito, il più grande, nonostante tutto, all’opposizione.
«Ci sarà vera opposizione solo quando il Frelimo avrà una scissione al suo interno» sostiene qualche osservatore. Intanto, si attendono le elezioni presidenziali di fine 2009, nel perenne equilibrio tra compiacere ai donatori e autodeterminazione del proprio futuro. 

Di Marco Bello

Marco Bello