Donna delle Ande

Ruolo femminile tradizionale di fronte alla modeità

L’impatto con la modeità ha messo in crisi le comunità indie delle Ande, travolgendo anche il ruolo che la tradizione culturale assegna alla donna indigena nell’organizzazione della vita domestica e sociale. Eppure è possibile aprirsi alle novità conservando i valori umani e spirituali tradizionali.

La celebrazione della Giornata mondiale della donna mi riporta la mente e il cuore a una realtà ai più sconosciuta e al tempo stesso affascinante: la realtà della donna india delle Ande sudamericane. È un ricordo che provoca un sentimento di ammirazione e rispetto per le tante figure femminili che ho incontrato nella mia esperienza pastorale in Ecuador e Colombia.
La saggezza semplice e profonda, il senso del dovere e della responsabilità, l’incredibile forza impiegata nel lavoro duro della terra andina e nel non facile tran tran familiare quotidiano, la fede radicata in molte di loro mi hanno impressionato e, non posso negarlo, sovente aiutato nell’attività pastorale che ho avuto la fortuna di condurre in quei paesi.
Per comprendere la realtà della donna indigena delle Ande, è necessario fare due premesse che mi sembrano importanti. Prima di tutto, quando si parla di cultura indigena andina si fa riferimento, in realtà, a un insieme di culture che si sono sviluppate nelle vallate che intagliano questa lunghissima catena mon-tuosa. Un groviglio di montagne che emerge dai due oceani all’estremo Sud del continente americano, prosegue sinuoso per migliaia di chilometri segnando il confine fra Argentina e Cile, forma la spina dorsale di un immenso paese come il Perù e dell’Ecuador, si triforca in Colombia, andando a morire dolcemente verso le piane del Venezuela. Sembra evidente, quindi, che sarebbe meglio parlare di «culture» andine, piuttosto che di una sola cultura.
Nello stesso tempo, molti autori hanno sottolineato l’esistenza di un’unica radice che accomuna sotto molti aspetti le popolazioni indigene delle Ande; radice che si fonda sul comune ambiente montano, sull’origine comune di molte popolazioni che hanno poi trovato per ragioni storiche una diversa collocazione sullo scacchiere andino e su un pensiero originale che esprime una visione dell’universo, della morale e della società molto simile. A questi elementi comuni cercherò di rifarmi per raccontare la donna andina nel suo contesto.
Una seconda premessa va invece fatta in merito al metodo. Si può parlare dell’indio delle Ande delineandone i tratti che emergono da un libro di antropologia o lo si può fare raccontandone la vita quotidiana sulla base dell’esperienza diretta che si è avuta. Entrambi i metodi hanno pregi e limiti, per cui cercherò, forse sbagliando, di tenerli presente entrambi.
Da una parte c’è la donna india che appartiene alla tradizione, con i suoi caratteri tipici che si fondano sulla storia e nella cultura della gente dei paesi andini; dall’altra c’è la donna reale, oggi, che vive le contraddizioni proprie della persona che vede il suo mondo arcaico messo in discussione dall’avvento prepotente della modeità globalizzata in cui viviamo. È importante, a mio vedere, che entrambi questi elementi vadano tenuti in considerazione.

Innanzitutto cominciamo con il dire che nella maggior parte dei miti dell’origine del mondo delle culture andine la donna è presente. È presente come elemento femminile all’atto della creazione, nel simbolo della Pachamama (terra-madre) e come dimensione femminile dell’essere vivente e, in modo speciale, dell’essere umano.
Nel mito delle origini degli indios Nasa (Ande colombiane), l’universo creato dal Grande Spirito viene ordinato da una coppia di Abuelos (nonni). Maschile e femminile sono alle radici della creazione dando vita a un elemento fondamentale della filosofia india: quello della complementarietà. Gioo e notte, sole e luna, terra e acque… ciascuno di questi elementi ha un carattere maschile o femminile e non può esistere se non in rapporto all’altro.
La terra (per estensione il mondo in cui si vive) è un elemento femminile. Viene vista come madre protettiva e feconda. Per questa ragione, l’azione dell’aratura e della semina hanno un valore molto profondo nella spiritualità andina, quasi sacrale e paragonabile all’atto riproduttivo. Il seme gettato nei solchi della Madre Terra genera nuova vita, capace di garantire la sopravvivenza della gente.
Complementarietà significa dare a ciascun elemento il posto che gli spetta nell’universo, un posto che appartiene a lui solo e sempre in relazione con l’altro. Dove questa relazione di complementarietà viene rispettata si ha l’«armonia», lo stato perfetto delle origini, al quale bisogna ritornare attraverso riti di purificazione ogni qual volta questa viene rovinata da un’azione contraria dell’uomo o della natura.
Il concetto di famiglia, e per estensione quello di società, trova il suo compimento dove questa relazione tra maschio e femmina viene rispettata. A ciascuno il suo ruolo, nel rispetto dello spazio e dei compiti assegnati all’altro. La donna, quindi, gode tradizionalmente di una sua autonomia nella conduzione della casa (che comprende la crescita dei figli, la loro educazione e l’organizzazione della vita domestica e della sua economia), mentre all’uomo sono lasciati i compiti di lavorare la terra e di curare i rapporti con le altre famiglie e con l’organizzazione della comunità. La donna andina è una donna forte, lavoratrice, avvezza a sopportare il dolore, la fatica, la sofferenza.

Tradizionalmente, quando una donna era prossima a prendere marito si trasferiva dalla sua casa a quella del futuro compagno. Passava quindi dall’autorità della madre a quella della suocera, incaricata di insegnarle come essere una buona moglie dell’uomo con il quale si sarebbe accasata. Questo periodo (che in Colombia prende il nome di amaño) era molto importante, in quanto puntava a garantire l’esistenza della complementarietà all’interno del nucleo familiare in via di formazione. Anche l’aspetto spirituale della donna era tenuto molto in considerazione e, anche oggi, non sono poche le donne che rivestono il ruolo di medico tradizionale (sciamano) nella società indigena. Parallelamente, all’interno delle comunità cristiane le donne partecipano fedelmente e offrono la loro sapienza e la loro esperienza alla vita spirituale della propria gente.
Chiaramente, l’impatto con la modeità sta velocemente stravolgendo la concezione classica della donna nella società andina. Oggi, le comunità indigene stanno vivendo un momento di crisi, le cui conseguenze saranno perfettamente identificabili soltanto fra un po’ di tempo. I maggiori contatti con il mondo esterno, le migrazioni da parte della popolazione montana verso le città, una maggior istruzione offerta ai giovani, ecc. stanno provocando cambi immensi e rapidissimi in culture che, fino a pochi anni fa, vivevano ancorate alle loro tradizioni più antiche.
La città, meta di molte donne della cordigliera, stravolge completamente ritmi e tradizioni secolari. Le donne vi accedono nella speranza di trovare lavoro. Ne respirano l’aria e con essa nuove abitudini. La possibilità di acquisire una migliore istruzione apre il campo a nuove possibilità lavorative, dando modo di raggiungere un’indipendenza economica prima impensabile.
Cambiano le relazioni e viene completamente stravolto il criterio di complementarietà. La donna ha meno tempo per la famiglia e, se lavora in altri contesti, la terra ne risente; quella terra che per gli indios di ieri rappresentava la madre oggi diventa matrigna: un peso.
Uno potrebbe pensare: «Tutto già visto, già vissuto; è successo anche da noi in questi ultimi decenni». Vero. Ma in questo caso è la rapidità con cui il cambio avviene a spaventare. Come coniugare l’importanza di mantenere la lingua propria e rimanere così ancorati alle radici culturali del proprio gruppo con l’esigenza di studiare inglese per mettersi al passo con i tempi? Come convivere con le proprie credenze, la propria fede tradizionale, nell’era di internet? Per le nuove generazioni queste sono domande fondamentali che, molte volte, rimangono senza risposta.
E allora subentra la crisi, il vedersi sradicato da un contesto familiare tradizionale senza, nel contempo, sentirsi perfettamente a casa nella modeità in cui volenti o nolenti si è immersi.

In Colombia iniziai a dare ripetizioni di inglese a Jenny Hérica, una ragazza india diciassettenne, all’ultimo anno delle scuole superiori. Una giovane donna che, anche solo dieci anni fa sarebbe stata sposata, allattando il primo se non il secondo figlio. Accettai di seguirla perché mi sembrava molto portata nello studio della lingua. Infatti non aveva bisogno di aiuto per passare l’anno, ma avvertiva fortemente il desiderio di migliorare la preparazione che aveva ricevuto a scuola.
Suo padre era un leader della comunità indigena, mentre la madre, oltre a prendersi cura della famiglia, si prodigava nel raccogliere le memorie storiche della comunità attraverso il racconto degli anziani. Un giorno Jenny venne in parrocchia molto triste, quasi piangendo. Mi disse: «Padrecito, credo che non verrò più a studiare inglese». Di primo acchito pensai che si fosse stufata. Mi disse che lo studio della lingua inglese l’attirava moltissimo, ma che pensava fosse più importante imparare il nasa yuwe, la lingua dei suoi avi, dei suoi nonni, che vivevano in una casetta di fango e bambù in una frazione del paese, in piena montagna. Persone semplici, che conoscevano poco lo spagnolo e con le quali era difficile intavolare una conversazione se non attraverso la lingua propria.
La giovane vedeva chiaramente come quella cultura, che generazione dopo generazione era giunta sino a lei, si stava sgretolando, perdendosi irrimediabilmente. Era sinceramente in crisi. La lasciai andare. Soltanto le ricordai il grande dono che aveva fra le mani. «Grandi talenti, uguale grandi responsabilità. Perché non provare a studiarle entrambe?».
Quando mi toccò lasciare il paese per far ritorno in Italia le lasciai i miei libri di inglese: la grammatica, il dizionario, un paio di testi con esercizi e qualche lettura facilitata che avevo fatto arrivare apposta dall’Italia. Per mesi non ne seppi più nulla. Un bel giorno mi arrivò una e-mail. Era lei. Jenny aveva vinto una borsa di studio di quelle offerte agli appartenenti di minoranze etniche e studiava lingue straniere all’università di Medellin. «Studio, padre, perché amo l’inglese e sento che imparandolo bene posso aiutare la mia comunità, alla quale toerò, alla quale devo tanto e alla quale offrirò questa mia capacità».
Mi ringraziava per la sensibilità che avevo avuto nel valutare importante la sua ansia di rimanere attaccata alle proprie radici, ma nello stesso tempo di averla aiutata a essere consapevole di un dono grande che il Signore le aveva fatto. Il fine di tutto era il benessere della «sua gente» e in ciò si vedeva chiaramente l’attaccamento alla propria cultura, alla propria storia.
Jenny non sarà mai come sua nonna. Probabilmente non vestirà un anaco, la gonna tradizionale delle donne Nasa, e non porterà i suoi bambini avvolti in un chumbe, la striscia di stoffa tessuta a mano che racconta attraverso i suoi disegni la storia millenaria degli indios.
Jenny è una donna diversa, profondamente india, rispettosa della Madre Terra che l’ha generata e che tutti i giorni ringrazierà per il dono della vita. Magari, con un sorriso, dicendole: «Thank you». 

Di Ugo Pozzoli

Ugo Pozzoli




Giocando si impara

Come prepararsi ad affrontare i disastri naturali

L’Ecuador è un paese colpito spesso dalle calamità naturali, come terremoti e inondazioni. Una Ong italiana ha lanciato una iniziativa originale: insegnare agli alunni delle scuole come affrontare tali disastri. La risposta dei giovani è stata entusiasta: un buon auspicio per il futuro del paese.

C’era una volta una terra sfortunata. Poche risorse e servizi, zero industrie, un unico lavoro (mal) retribuito che va per la maggiore, quello di bananero, coltivatore di banane. E, come se non bastasse, un clima impazzito, che alterna eruzioni vulcaniche, terremoti e terribili inondazioni, le più frequenti di tutte, che si portano via case e, a volte, persone.
Benvenuti nelle province di Los Ríos e Bolívar, Ecuador. Una zona geograficamente, più che altre, depressa, non troppo lontana dalla Cordillera Central delle Ande ecuadoriane, quella dove regna il vulcano attivo più alto del mondo, il Cotopaxi (con i suoi 5.897 metri e le almeno 50 eruzioni negli ultimi 300 anni), ma abbastanza da trovarsi in una zona tanto calda quanto umida, non solo d’estate. Qui la gente, bananeros a parte (che costituiscono un mondo a sé, spesso divisi dal resto della popolazione avendo le loro case e i servizi, come le scuole per i figli, all’interno della hacienda, la piantagione di banane) vive di agricoltura di sussistenza e si arrangia come può, coltivando e rivendendo caffè, cacao, mais e soia.
Ma come in tutti i luoghi in cui la miseria sembra aver messo radici piuttosto salde, la speranza di una vita migliore impregna la popolazione di un ottimismo duro a morire. L’aveva capito anche l’ex vescovo Feando Lugo, noto nel mondo per essere ritornato alla vita laicale per diventare, nell’aprile 2008, presidente del Paraguay: negli anni ’80, Lugo era stato prete missionario a Echeandía, uno dei centri abitati più conosciuti della regione per la durezza delle condizioni di vita e il costante rischio di alluvioni.
Un ottimismo, quello della gente di questa parte dell’entroterra ecuadoriano, fatto di sorrisi, abnegazioni al destino che portano a scelte di vita impensabili per i giovani nostrani (il matrimonio a 15-16 anni, l’arrivo di un figlio subito dopo, poi un altro), e tanta volontà di cambiare le cose.
Ma la cosa più importante è che sono proprio i giovani i principali portatori di questo cambiamento. A Ventanas, Las Naves, la stessa Echeandía, sono loro che stanno prendendo in mano le redini della società, cercando vie per un futuro diverso per il loro paese nonostante l’assenza di modelli precostituiti.

Difficile da credere? Chiedetelo allo staff di Coopi, la storica organizzazione non governativa italiana che proprio in quei luoghi, da qualche anno, sta portando avanti dei progetti di cooperazione allo sviluppo. Attraverso uno di questi progetti, l’Ong ha mobilitato ben 3.500 alunni delle scuole superiori di cinque cittadine delle due province. O meglio, si sono mobilitati da sé, aderendo spontaneamente a un’iniziativa inedita che si è rivelata un grande successo per i risultati ottenuti nel campo dell’informazione e dell’educazione ambientale.
Stiamo parlando di Preparación ante desastres (Preparazione ai disastri); questo il nome del progetto di Coopi, finanziato da fondi dell’Echo (l’Ufficio di aiuti umanitari della Commissione europea) e implementato nei territori comunali di Ventanas, Las Naves, Echeandía, Quinsaloma e nella comunità parrocchiale di Zapotal, a partire dal settembre 2007 fino alla sua conclusione a fine dicembre 2008. In tutto 15 mesi, in cui i 100 mila beneficiari indiretti (la somma degli abitanti dei cinque centri abitati) hanno potuto rendersi conto di quali siano i passi da fare per reagire nel più breve tempo possibile di fronte a una catastrofe naturale, e quindi prepararsi ad affrontarla.
«Ma più ancora, l’obiettivo principale raggiunto riguarda, appunto, l’impegno dei giovani, primi destinatari, come beneficiari diretti, della formazione sulle strategie chiave per affrontare un’emergenza ed essere in grado di dirigere i soccorsi alla popolazione danneggiata» spiega Tiziana Vicario, 30 anni, capoprogetto di Coopi nell’Ecuador centrale e responsabile di Preparación ante desastres. «Ragazze e ragazzi che, per circa un anno, hanno partecipato a seminari, incontri, simulazioni sul tema del pronto soccorso e della capacità di autorganizzazione – prosegue la responsabile – e che, una volta terminata la fase di apprendimento, hanno potuto a loro volta tramandare le loro conoscenze ai loro concittadini».
Un lavoro di insegnamento e pratica che Coopi non ha svolto da sola, ma in congiunto con i principali enti istituzionali e di primo soccorso del paese: i pompieri, la Defensa civil (l’omologa della nostra protezione civile), i Dipartimenti provinciali del ministero di Educazione e salute, le municipalità coinvolte. «Ma in occasione dei disastri naturali, l’intervento degli esperti non basta, per questo serve una forte partecipazione della cittadinanza» continua Vicario.
L’ultima inondazione, datata febbraio 2008, ha travolto decine delle modeste case della zona, la maggior parte costruite in legno alla stregua di palafitte, che noi chiameremmo «baracche», ma che sono comuni in queste zone in cui i terreni, soprattutto nella stagione delle piogge, si trasformano in enormi acquitrini.
«Solo a Echeandía sono 300 le case costruite a lato del fiume e nelle colline circostanti, le prime a franare dopo i primi violenti nubifragi. In tutto, vivono 2 mila persone in costante e altissimo rischio ambientale – racconta la responsabile del progetto di Coopi -. Anche a Las Naves le abitazioni a rischio sono molte, almeno 180, e in tutta l’area un altro problema grave sono le vie di comunicazione: ponti pericolanti, fatti di legno, e strade troppo vicine agli argini dei fiumi». Per questo, oltre alla sensibilizzazione e alla formazione, un’altra parte dell’impegno dell’Ong italiana è dedicata, tramite manodopera locale, alla costruzione di strutture per rafforzare il manto stradale e i ponti cedevoli, alcuni dei quali sono stati invece ricostruiti.
M a torniamo all’impegno giovanile. La loro adesione in massa al progetto di prevenzione ai disastri è stata una grossa sorpresa anche per la stessa Coopi: «Ci aspettavamo una buona risposta, ma non questi numeri – rivela l’ecuadoriano Cristopher Velasco, 24 anni, responsabile tecnico del progetto -. Il loro interesse si è rivelato autentico in ogni fase e fa ben sperare nel futuro, poiché gli adolescenti di oggi sono gli adulti di domani: se dimostrano coscienza ambientale e voglia di lottare per costruire un mondo migliore, possono cambiare la mentalità corrente e realizzare un nuovo Ecuador, più sostenibile e meno disagiato».
Velasco, con uno staff di altri quattro cooperanti locali dell’Ong italiana, ha girato per tutta la durata del progetto le cinque località, organizzando incontri dei giovani delle scuole con gli enti di primo soccorso e gli esperti di educazione ambientale. «Incontri in cui i ragazzi si sono messi molto in gioco: a volte le simulazioni dei disastri risultavano essere momenti molto forti, per la loro capacità di immedesimarsi» spiega il cornoperante ecuadoriano.
Il gioco come strumento didattico ha rappresentato un punto fondamentale della conclusione del progetto: per mettere alla prova le abilità acquisite dai giovani nella formazione, Coopi e gli altri enti coinvolti hanno organizzato un evento inedito per il paese latinoamericano: i primi Juegos de preparaciòn ante desastres, una sorta di olimpiadi di prevenzione alle catastrofi naturali; tali giochi si sono tenuti nella cittadina di Ventanas dal 19 al 21 settembre 2008. «Ai giochi hanno partecipato una trentina di studenti per ognuno dei cinque centri abitati coinvolti nel progetto. Per sceglierli è stata davvero un’impresa, basti pensare che alle selezioni iniziali si sono presentati in 1.500 -riporta Velasco -; è stato difficile lasciar fuori tanti ragazzi motivati, ma quelli che c’erano li hanno davvero ben rappresentati».
Nei tre giorni di Juegos, i partecipanti hanno dovuto superare una serie di prove a tempo in cui dovevano dimostrare la propria capacità organizzativa in caso di inaspettato disastro naturale: hanno dovuto montare tende per gli sfollati, prestare primo soccorso ai feriti, pianificare una strategia per le vie di fuga degli edifici pubblici coinvolti dall’emergenza, gestire un campo base attrezzandolo delle necessità primarie, come servizi igienici, cucina, materassi.
Ogni prova veniva valutata da un’équipe di giudici formati da esperti delle varie istituzioni aderenti al progetto, funzionari ministeriali compresi. Alla fine, i giovani di Quinsaloma sono stati quelli più preparati, vincendo il maggior numero di competizioni. Ma quel che più conta, ogni gruppo ha prevalso in almeno una «specialità»: nessuno, quindi, è rimasto a mani vuote. «Siamo tutti vincitori – dice Maria, 16 anni, di Quinsaloma -; tutto quello che abbiamo fatto in questi tre giorni è merito non di singoli, ma di gruppi compatti e capaci di collaborare alla grande».
Una collaborazione riuscita che era un altro degli obiettivi iniziali del progetto di Coopi: per questo, l’Ong ha aggiunto allo staff organizzativo di queste olimpiadi sui generis due volontari di Paciamoci onlus, associazione italiana che si occupa di rafforzare le dinamiche di gruppo lavorando sulla risoluzione dei conflitti attraverso la nonviolenza.
«Tra una competizione e l’altra, abbiamo cercato il più possibile di rafforzare l’unità dei cinque team, lavorando molto sulla fiducia e sull’ascolto reciproco, sulla valorizzazione di leader positivi e puntando a far prendere le decisioni ai ragazzi attraverso il metodo del consenso» spiega Chiara Perego, 29 anni, volontaria di Paciamoci onlus, organizzazione che in Italia promuove percorsi nelle scuole e all’estero sostiene progetti di nonviolenza attiva. «Attraverso il consenso, una decisione viene presa quando tutti sono convinti che sia quella giusta per il gruppo. È una pratica che unisce molto, difficile da attuare – continua la volontaria italiana -, ma che a sorpresa i giovani ecuadoriani, pur praticandola per la prima volta, hanno fatto propria in breve tempo: i risultati si sono visti nelle attività della competizione, i ragazzi sono rimasti molto uniti e anche le decisioni importanti sono state prese in modo decisamente democratico».

In un paese ancora oggi molto violento come l’Ecuador, dove la violenza familiare è ad altissimi livelli e il numero di delitti è tra i più alti del continente, in particolare i tristemente famosi assalti ai bus pieni di gente, non è facile trovare terreno fertile per la crescita di pratiche nonviolente. «Ma noi ragazzi possiamo essere di esempio – interviene Miguel, 18 anni -; se siamo riusciti a risolvere fra di noi i “piccoli” conflitti di questi giorni senza arrivare agli insulti o alle mani, perché non provarci anche in famiglia, a scuola, e nella società in generale?».
Una domanda il cui impatto sulla società è da non sottovalutare. Ne è convinto anche un personaggio «speciale»: Damiano, cantante assai noto in tutto l’Ecuador per aver composto l’inno ufficiale della nazionale di calcio del paese, e presente nella serata conclusiva dei Juegos, diffusa su varie televisioni ecuadoriane: «Questi ragazzi hanno un messaggio forte da lanciare, vogliono essere protagonisti del cambiamento del nostro paese. Noi dobbiamo ascoltarli – ammette Damiano -, e, perché no, prendere anche lezioni da loro».
Ragazzi e ragazze che ora possono dirsi pronti alle emergenze e, soprattutto, sanno che il proprio paese conta su di loro. Proprio quell’Ecuador che, da qualche anno a questa parte, sembra essere uscito dalla spirale negativa del passato e, con altri paesi dell’America Latina, sta compiendo passi da gigante, da una parte per garantire i diritti fondamentali dei cittadini, dall’altra per interrompere la scia di violenze, abusi di potere, corruzione e clientelarismo del recente passato.
L’approvazione, a larga maggioranza (il 64% ha detto sì al referendum), della nuova costituzione (voluta dal presidente Rafael Correa, eletto nel 2006 con il sostegno dei movimenti sociali), che ha una forte impronta solidaristica e un grosso tentativo di «trasparenza» tra i suoi obiettivi principali, è un primo, ottimo segno. Il fatto che l’età media dei votanti al referendum si sia abbassata a livelli record, vale ancora di più: testimonia che i giovani ecuadoriani desiderano vivere meglio dei loro genitori. E i protagonisti del progetto di prevenzione ai disastri di Coopi lo hanno dimostrato. Eccome. 

Di Daniele Biella

Daniele Biella




Una vita per i giovani

Missione e «martirio» di padre Giuseppe Bertaina

 Il 16 gennaio padre Giuseppe Bertaina, missionario della
 Consolata, veterano del Kenya dove lavorava come
 amministratore dell’Istituto di Filosofia di Langata (Nairobi),  
 è stato ucciso da tre malviventi in un tentativo di rapina.

I FATTI
Il Philosophicum, l’Istituto di Filosofia di Langata, alle porte di Nairobi, era la sua casa. Ci aveva messo tutta la sua intelligenza e le sue energie per tirarlo su, ma soprattutto ci aveva messo il cuore, facendolo diventare un centro d’eccellenza per la formazione dei giovani alla vita sacerdotale.
Padre Giuseppe Bertaina ha dato la sua vita per questo centro e non solo in senso ideale: il suo dono è diventato sacrificio e martirio la mattina del 16 gennaio quando tre banditi, due uomini e una donna, sono penetrati nel suo ufficio di amministratore con l’intento d’impossessarsi dei soldi delle rette degli studenti.
Ma quei soldi non c’erano. Nell’Istituto si paga, infatti, con assegni. Il padre non era tipo da farsi intimorire facilmente e così, di fronte alla sua naturale reazione, l’hanno picchiato e legato con una corda. Poi gli hanno messo un bavaglio tappandogli la bocca con un sacchetto di plastica fissato con scotch da pacchi. I suoi 82 anni e il cuore ammalato non l’hanno aiutato ed è morto soffocato.
Uomo schivo e semplice, padre Bertaina non amava apparire. Era «figlio» della «Provincia granda» (Cuneo), di quella terra che forgia uomini che alle parole preferiscono la concretezza dei fatti. Così, nei suoi 58 anni d’Africa, fatti di «laboriosità silenziosa», ha saputo condensare al meglio l’insegnamento principe di Giuseppe Allamano per il quale era fondamentale non solo l’educazione religiosa, ma anche il miglioramento della qualità della vita delle popolazioni raggiunte dalla sua testimonianza di fede.
Fede sì, ma anche pragmatismo: si sa, infatti, quanto è difficile parlare di Dio a pancia vuota. L’evangelizzazione ad gentes, cioè fra i popoli non ancora raggiunti dal messaggio di Cristo, come primo passo per recuperare una dignità umana a tutti gli effetti, tradotto in pratica, significa scuole, sanità, formazione professionale. Quanto basta e avanza per consacrare a questa missione una vita intera, diventando cittadino del mondo.
Per dirla con il Fondatore: «Uno che lascia la famiglia naturale per dedicarsi alla missione, deve trovare come un’altra famiglia». Padre Bertaina quella famiglia l’ha trovata tra i confratelli e soprattutto nelle migliaia di persone incontrate durante la sua lunga testimonianza.
Ha dedicato tutta la sua vita alla scuola e, grazie al suo lavoro, moltissimi giovani africani hanno potuto formarsi professionalmente e alla vita sacerdotale.
L’anno scorso è stato per l’ultima volta in Italia per un breve periodo di riposo. E, nonostante l’età avanzata e la salute malferma, desiderava ardentemente di poter tornare in Kenya per continuare a lavorare per i suoi giovani. Il Signore l’ha preso in parola e proprio in mezzo a quei giovani che ha educato, istruito e preparato alla vita, ha donato il suo ultimo respiro.

LA RIFLESSIONE
«La sua tragica morte – come scrive padre Stefano Camerlengo, vice superiore generale – ci pone ancora una volta davanti al dono per la nostra missione. La missione autentica è offerta e a volte richiede anche la vita.  Vivere la pienezza della nostra vocazione diventa confronto quotidiano con la miseria e la povertà di tanti. Spesso ci sentiamo impotenti e poca cosa, ma è proprio il nostro esserci, il nostro condividere, il nostro rimanere nel mezzo anche delle contraddizioni, che la rende grande e certamente portatrice di frutti e di speranza per il Regno.
Il sacrificio di padre Giuseppe Bertaina si inserisce in questo cammino di oblatività, si unisce ai tanti che nella storia, sono rimasti fedeli e vigilanti in mezzo al popolo di Dio e sono segno che l’amore e la carità vincono sempre perché sono più forti della violenza e della morte.
La pace che il Signore, certamente dona al suo fedele servo sia il dono che imploriamo per il mondo intero e per la nostra amata Africa. Che questa offerta possa continuare a dare vita, pace, gioia e giustizia alla nostra gente che continuamente si trova a vivere nella violenza e nell’ingiustizia. E a noi missionari doni consolazione e forza per continuare con più zelo ed amore, ad annunciare il Cristo che ha vinto la morte e dà sempre la ricompensa ai suoi operai del vangelo.
Signore, ti ringraziamo perché ce lo hai dato e perché prendendocelo ci hai fatto capire che il sangue dei martiri è semente di vita, è grido di amore che supera ogni male e sofferenza perché diviene segno di risurrezione». 

Di Sergio Frassetto

La vita

Nato a Madonna dell’Olmo (CN) nel 1927, padre Giuseppe Bertaina entrò fra i missionari della Consolata nel 1946 e venne ordinato sacerdote nel 1951. Lo stesso anno partì per il Sudafrica, dove all’università di Cape Town conseguì la laurea in scienze, che lo abilitò all’insegnamento nelle scuole delle allora colonie inglesi.
Così arrivò in Kenya dove si dedicò al lavoro nella scuola secondaria, prima nella missione di Kevote e poi in quella di Shiakago, nella diocesi di Meru. Il suo impegno proseguì nella missione di Sagana dove fondò e resse per 20 anni la «Scuola Tecnica», gloria del lavoro missionario, che ha sfornato centinaia di tecnici, vero motore di sviluppo della giovane nazione del Kenya.
Ma la sua missione non era ancora conclusa. Negli anni ’90, visto l’accresciuto numero di vocazioni, si presentò la necessità di costruire un nuovo centro dove i giovani in cammino verso il sacerdozio potessero svolgere i loro studi di filosofia.
A chi affidare questo compito? Ancora una volta i superiori hanno chiamato padre Giuseppe confidando nella sua esperienza e nella sua indubbia capacità.
E dal suo lavoro è nato il Philosophicum: un’opera maestosa e modea che, con sua grande soddisfazione il 2 febbraio 1998 veniva inaugurata da padre Piero Trabucco, superiore generale.
Da quel giorno padre Bertaina è diventato l’anima dell’Istituto di filosofia, lavorandovi come rettore e insegnante prima e poi come amministratore, affiliandolo alla Pontificia università urbaniana di Roma e arricchendolo di una grande biblioteca e di un salone multiuso.
Qui oltre 300 giovani seminaristi, provenienti da varie famiglie religiose venivano ad abbeverarsi ogni giorno alla fonte del sapere filosofico, ma soprattutto, in padre Bertaina trovavano un maestro e un educatore, esigente nella disciplina, ma capace di formare il loro carattere alla futura missione di sacerdoti.
La sua era una presenza semplice e umile. Le sue parole erano poche, ma da non perdere: sapeva presentare la realtà nuda e cruda e poi lasciava a ciascuno la libertà delle sue decisioni, con grande rispetto; dove c’era lui, c’era ordine, armonia, gioia, amicizia e famiglia.
Amava i giovani e come un buon padre, seguiva anche coloro che cambiavano strada, aiutandoli a inserirsi nella vita. Cosa che faceva anche con i detenuti del carcere di Langata, dove per 20 anni ha servito come cappellano ogni domenica. Ha speso tempo e denaro per coloro che uscivano di prigione, dopo aver scontato la pena, aiutandoli a conseguire un titolo di studio o a inserirsi nel mondo del lavoro e così ricostruire il proprio futuro.
Padre Bertaina non ha mai conservato rancore per nessuno ed anche il giorno dell’assalto nel suo ufficio certamente ha accolto i suoi uccisori con rispetto e, se erano da lui conosciuti, come sembra, ancora li avrà esortati al giusto, morendo senza rancore per le mani di coloro che aveva aiutato in modi diversi.
La sua morte violenta lascia disgustati e amareggiati, ma rimane la grandezza di un uomo e di un missionario completo, sempre allegro e pieno di Dio in mezzo agli uomini che amò fino alla fine e per i quali ha versato il suo sangue.
Una fine umile, la sua, non un atto eclatante di eroismo, ma la conclusione di una vita eroica donata senza risparmio, con intelligenza e bontà, nel totale nascondimento, perché solo il seme che muore produce molto frutto.

Sergio Frassetto




Cari missionari

Altri «chiamati
all’ora 11a»

Gentile Direttore,
certamente si ricorderà di noi, per avere riportato nella rivista, nel numero di settembre 2004, la nostra esperienza in Rwanda con un titolo indovinatissimo: «Chiamati all’ora 11a».
Siamo ritornati un’altra volta in Rwanda e ora la missione per coppie anziane è stata considerata, dalle Pontificie opere missionarie, come «intuizione profetica».
Recentemente due coppie di Torino si sono impegnate ad andare in Rwanda nel 2009 per continuare l’aiuto nella pastorale familiare nella diocesi di Byumba. Le due coppie che stanno per partire hanno una solida base spirituale (sono delle Equipes Notre Dame) ma mancano di esperienza umana per una missione in Africa.
Le scriviamo quindi per chiederle se potreste, dal momento che sono a Torino, dare loro qualche indicazione circa la realtà africana e come rapportarsi con le persone… Se la cosa è possibile vi saremmo molto grati. Dopo tutto anche la vostra relazione del 2004 ha aiutato a far capire che il cristiano non può andare in pensione. Per questo la ringraziamo fin d’ora.
Laura e Giovanni Paracchini
Milano

Abbiamo provveduto con piacere alla richiesta e una delle coppie è partita per il Rwanda nel mese di febbraio. Siamo felici di aver contribuito a dimostrare che l’essere cristiano non va mai in pensione e che la missione… ringiovanisce.

Pallottole invece di… medicine?

Spettabile Redazione,
ho letto e trovato molto interessante l’articolo a pag. 24 su Missioni Consolata 10/11 anno 2008: «Si fa presto a dire terrorista». Il professor Angelo D’Orsi definisce l’11 settembre come «punto più alto raggiunto dal moderno terrorismo».
Sono d’accordo, ma quale terrorismo? Siamo certi che sia andata come ci raccontano? Troppe discrepanze tecniche ci inducono a maturare seri dubbi sulla verità dell’11 settembre. Cosa vi è dietro veramente? Forse lo stesso «incidente» simulato e usato per iniziare la guerra del Vietnam?
Da qualche anno opero un paio di mesi l’anno come volontario autonomo in un paio di villaggi di profughi clandestini birmani in territorio Thai (provincia di Mae Hong Son) e conosco bene tutti i risvolti di tale situazione (cliccando il mio nome su internet e yahoo-immagini troverete articoli e foto).
Mi sto convincendo sempre di più che i fondi che ora impieghiamo come assistenza sanitaria e per un paio di scuole, forse sarebbero più efficaci se spesi per finanziare i partigiani karen che combattono la dittatura militare birmana, che li sta condannando a un lento genocidio. In sostanza, comperare pallottole e non medicinali.
So che questo non è cristiano, ma lo è infinitamente meno quello che fanno i generali birmani.
Andrea Panataro
Sordevolo (BI)

La provocazione del sig. Panataro esprime con chiarezza l’indignazione che egli prova di fronte alle feroci repressioni delle legittime aspirazioni dei karen e delle altre popolazioni birmane; anche noi condividiamo l’indignazione, ma non la proposta, non solo perché non cristiana, ma anche perché sarebbe un rimedio peggiore del male. D’altronde, sono convinto che anche il signor Andrea non crede a tale proposta, ma continua a distribuire medicine, riso e altri aiuti essenziali.
 

Bombe a grappolo
ordigni di Satana

Cari missionari,
se Barack Obama è davvero così diverso dai suoi predecessori, lo dimostri firmando i trattati inteazionali contro le mine, le bombe a grappolo e gli altri ordigni ad azione indiscriminata.
Non ripeta anche lui il rivoltante, odioso ritornello: «Le mine sono essenziali per la sicurezza dei militari americani impegnati in missioni all’estero». Non cada anche lui nell’errore dei Bush, di Reagan dello stesso Clinton, e riconosca che è vero esattamente il contrario, ossia, questi infeali aggeggi, oltre a seminare il terrore tra i civili, a rovinare per sempre la vita a tanti bambini innocenti, a impedire l’agricoltura, a bloccare lo sviluppo di interi paesi, sono stati – e continuano anche oggi a essere – causa di mutilazione e di morte per migliaia di marines…
Mine e bombe a grappolo, o cluster bomb che dir si voglia, sono armi da terroristi, non da soldati leali e coraggiosi che vogliono lottare efficacemente contro il terrorismo per il ripristino della pace, della giustizia, dell’autentica legalità.
Se Washington tiene davvero ad avere un ruolo-guida nella lotta contro il male e contro i vigliacchi, dica «no» alle armi dei vigliacchi, dica finalmente «no» agli ordigni di Satana, perché questo sono le mine e le cluster, nient’altro che questo…
Cordiali saluti.
Francesco Rondina
Fano  
Speriamo che il presidente Obama metta al bando non solo le mine anti-uomo e le cluster bomb, ma ogni tipo di armi, poiché tutti gli strumenti di morte sono diabolici. Il suo discorso inaugurale lascia ben sperare, se d’ora in poi le risorse sprecate in armamenti e guerre per il petrolio saranno usate per «imbrigliare l’energia del sole e dei venti e della terra per alimentare le automobili e fare funzionare le industrie». Ha detto di aver «scelto la speranza invece della paura» e dalla folla si sono levate forti grida di «Amen!». Lo ripetiamo anche noi, sapendo quale forza rivoluzionaria contiene questa parola in bocca a Dio e agli uomini di buona volontà.

Bando al sigaro … di Fidel

«Cuba non è il paradiso ma neppure l’inferno» scrive Paolo Moiola nell’ultimo numero monografico di M.C. dedicato ai diritti. Poi però, riporta la valutazione del WWF che riconosce Cuba come «il solo paese del mondo a soddisfare i criteri dello sviluppo sostenibile» (cfr. MC 10-11/08, p. 84). Verrebbe quindi voglia di dire che, almeno per quel che riguarda il diritto a un ambiente sano e pulito, il rapporto tra risorse naturali consumate e risorse naturali rigenerate, il rapporto tra livello di benessere attuale e prospettive di benessere per le future generazioni, Cuba sia avviata verso il paradiso, non verso l’inferno.
Spero, di cuore, che il WWF abbia ragione, ma qualche dubbio ce l’ho. Il più importante riguarda lo stato delle foreste cubane: se si può prestar fede all’Unione internazionale per la conservazione della natura (I.U.C.N.), «nel 1812 il 90% del territorio cubano era ricoperto dalla foresta; nel 1959 la percentuale era scesa al 14%. La situazione rimase invariata nel corso di tutti gli anni Ottanta in quanto la maggior parte delle foreste rimaste si trovavano nelle montagne. Un tempo, probabilmente, la foresta pluviale ricopriva la parte meridionale dell’isola principale, ma oggi tutto quel che resta sono due appezzamenti di foresta sui pendii e le vette della Sierra Maestra e della Sierra de Imias. Nella Sierra del Escambray sopravvivono ancora dei frammenti di foresta montana, troppo piccoli per comparire sulle carte».

Non sarà male ricordare che Cuba è stata disboscata perché gli alberi erano un ostacolo alle monocolture agrarie, ovvero tabacco e canna da zucchero e che, se è vero che la frittata era già fatta prima della vittoria di Fidel Castro, è altrettanto vero che i comunisti cubani poco o nulla hanno fatto per ridimensionare le piantagioni di tabacco e canna e far riconquistare alle foreste almeno una parte degli spazi ingiustamente perduti.
Al contrario sigari, sigarette e pipe in bocca a Fidel, al Che e agli altri «eroi della rivoluzione», continuano a recitare un ruolo importante nella mitologia comunista, e – la cosa è troppo macroscopica per essere taciuta – alimentano un business globale perché, quando si tratta di far soldi con i diari, i quadei, le agende, le bandiere e magliette recanti l’immagine dei capi rivoluzionari impegnatissimi a fumare, anche i capitalisti più reazionari guardano le cose con un’altra lente.
Non condanno nessuno, ma il WWF e le altre grandi associazioni ecologiste non possono astenersi dal prendere una posizione molto chiara contro una piaga come quella del tabagismo, che oltre a causare tanti guai alla salute (ogni anno oltre 5,5 milioni di persone nel mondo perdono la vita per malattie provocate dal fumo, attivo e passivo, in Italia siamo tra le 80-90 mila) infligge gravissime perdite al patrimonio naturalistico di un gran numero di paesi.

Quindi se da una parte prendo atto degli sforzi fatti in questi ultimi anni da L’Avana contro il vizio del fumo e mi auguro con Moiola e Galeano, che Cuba somigli sempre più al paradiso e sempre meno all’inferno, dall’altra vorrei invitare a non sottovalutare i risvolti che la battaglia antifumo ha nella difesa delle foreste e della biodiversità. Perché se a Cuba le piantagioni di tabacco hanno provocato in passato l’estinzione totale di non poche specie vegetali e animali, oggi in Asia, Africa e America Latina sono corresponsabili della scomparsa delle foreste naturali, oltre che dello sfacelo dell’economia, dell’indebolimento del tessuto sociale, della perdita di tanti diritti e tante prospettive per il futuro.

Domenico di Roberto
Ancona




Buonismo o cattivismo?

Pare non esistere più oggi la consapevolezza di dover adattare il linguaggio che si usa alla carica che si riveste. Le parole hanno una carica semantica enorme. Ogni vocabolo si trasforma nel sottile spazio di una sfumatura da generoso complimento a coltellata in mezzo alle spalle, da leggero flatus vocis a macigno dal peso insostenibile. Anche il tempo, oltre che il luogo, dovrebbe suggerire prudenza nell’uso delle parole che vengono pronunciate, tanto nelle private conversazioni, quanto e soprattutto nella pubblica arena.
Ecco allora che, al sentir dire al nostro ministro degli interni, onorevole Maroni,  che non bisogna essere buonisti, ma cattivi per contrastare l’immigrazione clandestina, viene da pensare che questa consapevolezza non fa ancora parte del bagaglio di tutti. Frasi ad effetto come questa sembrano dettate dalla volontà di strumentalizzare politicamente fatti di cronaca come quelli che ultimamente hanno scosso l’opinione pubblica.
No, non si chiede di essere cattivi con chicchessia, tanto meno allo stato nelle cui mani poniamo il nostro bisogno di sicurezza; si chiede soltanto, semmai, di essere giusti. Giusti nel condannare e garantire la certezza della pena a chiunque risulti essere coinvolto in fatti criminali, venga da dove venga, con o senza permesso di soggiorno. Giusti, però, nel ricordare anche alcuni dati che troppe volte giacciono dimenticati nei cassetti di tante redazioni giornalistiche e di tante scrivanie di Montecitorio.

La percentuale dei crimini commessi da italiani e da stranieri che hanno regolato la loro posizione è pressoché uguale. Il problema riguarda appunto gli immigrati clandestini a cui vanno attribuiti i 4/5 dei crimini commessi da stranieri presenti sul nostro territorio.

Ora, la maggior parte degli stranieri che emigrano clandestinamente o si rendono clandestini una volta arrivati a destinazione non lo fanno generalmente per venire a delinquere, ma per guadagnarsi una possibilità alternativa di vita. Bisognerebbe forse, allora, facilitare burocraticamente la regolarizzazione di persone che sono già in Italia e che avrebbero maggior possibilità di lavorare, produrrebbero reddito e pagherebbero anche volentieri le tasse, se si desse loro la possibilità di dormire tranquilli la sera, senza il timore di essere sbattuti fuori dal paese. Oggi, ci ricorda l’ultima edizione del Dossier Caritas/Migrantes, la stima del gettito fiscale annuale degli immigranti si avvicina ai 4 miliardi di Euro. Gli interventi di assistenza in loro favore non raggiunge invece la quarta parte di quanto versato all’erario. Forse con una legge diversa da quella in vigore, meno «cattiva» e più giusta, si potrebbero mettere basi alternative a un fenomeno che nessuno può arrestare.

Se questo è buonismo, allora meglio il buonismo del «cattivismo». La giustizia e il buon senso, comunque, sono ancora un’altra cosa.

Di Ugo Pozzoli

Ugo Pozzoli




«Apostolo per vocazione»

Anno paolino

P aolo è stato il grande missionario viaggiatore: perché egli viaggiava senza posa? cosa lo spingeva? Per rispondere a queste domande, riporto la bellissima catechesi di papa Benedetto su «Paolo apostolo della gioia, nell’abbraccio del crocifisso», dell’udienza generale del 10-9-2008.
Sulla via di Damasco, Gesù entrò nella vita di Paolo e lo trasformò da persecutore in apostolo. «Quell’incontro segnò l’inizio della sua missione: Paolo non poteva continuare a vivere come prima; si sentiva investito dal Signore dell’incarico di annunciare il suo vangelo in qualità di apostolo. Normalmente, seguendo i vangeli, identifichiamo i Dodici col titolo di apostoli, cioè coloro che erano compagni di vita e ascoltatori dell’insegnamento di Gesù. Ma anche Paolo si sente vero apostolo… Ovviamente, Paolo sa distinguere bene il proprio caso da quello di coloro “che erano stati apostoli prima” di lui (Gal 1,17). Ad essi riconosce un posto del tutto speciale nella vita della chiesa. Eppure, anche san Paolo interpreta se stesso come apostolo in senso stretto.
Quindi, egli aveva un concetto di apostolato che andava oltre quello riservato al gruppo dei Dodici e tramandato soprattutto da Luca negli Atti (cfr At 1,2.26; 6,2). Infatti, nella prima Lettera ai Corinzi, Paolo opera una chiara distinzione tra “i Dodici” e “tutti gli apostoli”, menzionati come due diversi gruppi di beneficiari delle apparizioni del Risorto (cfr 14,5.7). Nello stesso testo egli passa poi a nominare umilmente se stesso come “l’infimo degli apostoli”, paragonandosi persino a un aborto e affermando testualmente: “Io non sono degno neppure di essere chiamato apostolo, perché ho perseguitato la chiesa di Dio. Per grazia di Dio però sono quello che sono, e la sua grazia in me non è stata vana; anzi ho faticato più di tutti loro, non io però, ma la grazia di Dio che è con me” (1Cor 15,9-10).
La metafora dell’aborto esprime un’estrema umiltà, in relazione al suo impegno apostolico: in Paolo si manifesta la fecondità della grazia di Dio, che sa trasformare un uomo mal riuscito in uno splendido apostolo, da persecutore a fondatore di chiese, in uno che, dal punto di vista evangelico, avrebbe potuto essere considerato uno scarto!

C os’è, secondo la concezione di Paolo, ciò che fa di lui e di altri degli apostoli? Nelle sue lettere tre caratteristiche principali costituiscono l’apostolo.
La prima è di avere “visto il Signore” (1Cor 9,1), cioè, avere avuto con lui un incontro determinante per la propria vita. Analogamente nella Lettera ai Galati (cfr 1,15-16) dirà di essere stato chiamato, quasi selezionato, per grazia di Dio con la rivelazione del Figlio suo in vista del lieto annuncio ai pagani. In definitiva, è il Signore che costituisce l’apostolato, non la propria presunzione. L’apostolo non si fa da sé, ma tale è fatto dal Signore; quindi l’apostolo ha bisogno di rapportarsi costantemente al Signore. Non per nulla Paolo dice di essere “apostolo per vocazione” (Rm 1,1), cioè “non da parte di uomini né per mezzo d’uomo, ma per mezzo di Gesù Cristo e di Dio Padre” (Gal 1,1).
La seconda caratteristica: “essere stati inviati”. Lo stesso termine greco apóstolos significa “inviato, mandato”, cioè ambasciatore e portatore di un messaggio. Per questo Paolo si definisce “apostolo di Gesù Cristo” (1Cor 1,1; 2Cor 1,1), cioè suo delegato, posto totalmente al suo servizio, tanto da chiamarsi anche “servo di Gesù Cristo” (Rm 1,1). Ancora una volta è messa in primo piano l’iniziativa di Dio in Cristo Gesù, a cui si è pienamente obbligati, e soprattutto il fatto che da Lui si è ricevuta una missione da compiere in suo nome, senza interessi personali.
Il terzo requisito: “annuncio del vangelo”, con la conseguente fondazione di chiese. Quello di “apostolo”, infatti, non è e non può essere un titolo onorifico, ma impegna concretamente e anche drammaticamente tutta l’esistenza dell’interessato. Nella prima Lettera ai Corinzi Paolo esclama: “Non sono forse un apostolo? Non ho veduto Gesù, Signore nostro? E non siete voi la mia opera nel Signore?” (9,1).

Paolo definisce gli apostoli “collaboratori di Dio” (1Cor 3,9; 2Cor 6,1); in essi c’è una sorta di identificazione tra vangelo ed evangelizzatore, entrambi destinati alla medesima sorte. Nessuno come Paolo ha evidenziato come l’annuncio della croce di Cristo appaia “scandalo e stoltezza” (1Cor 1,23), a cui molti reagiscono con incomprensione e rifiuto. Avveniva a quel tempo; non deve stupire che avvenga anche oggi…
Ai Corinzi egli scrive, non senza una venatura di ironia: “Ritengo infatti che Dio abbia messo noi, gli apostoli, all’ultimo posto, come condannati a morte, poiché siamo diventati spettacolo al mondo, agli angeli e agli uomini… Insultati, benediciamo; perseguitati, sopportiamo; calunniati, confortiamo; siamo diventati come la spazzatura del mondo, il rifiuto di tutti fino a oggi” (1Cor 4,9-13). È un autoritratto della vita apostolica di Paolo: in tutte queste sofferenze prevale la gioia di essere portatore della benedizione di Dio e della grazia del vangelo.
Pur condividendo con la filosofia stornica del tempo l’idea di una tenace costanza in tutte le difficoltà, Paolo supera la prospettiva meramente umanistica, richiamando la componente dell’amore di Dio e di Cristo: “Chi ci separerà dall’amore di Cristo? Forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada? Proprio come sta scritto: per causa tua siamo messi a morte tutto il giorno, siamo trattati come pecore da macello. Ma in tutte queste cose noi siamo più che vincitori per virtù di colui che ci ha amati. Io sono infatti persuaso che né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezza né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, in Cristo Gesù nostro Signore” (Rm 8,35-39).
Questa è la certezza, la gioia profonda che guida l’apostolo Paolo in tutte queste vicende: niente può separarci dall’amore di Dio. E questo amore è la vera ricchezza della vita umana. Questa rimane la missione di tutti gli apostoli di Cristo in tutti i tempi: essere collaboratori della vera gioia».  

di Mario Barbero

Mario Barbero




Il cibo tra fede e salute

Aspetti culturali e religiosi degli alimenti

Dalla Bibbia ai Veda orientali, dal Corano ai precetti buddisti, da sempre la preparazione del cibo, il suo significato, i suoi rituali sono l’espressione di un’unica e intima tensione dell’animo umano a tessere relazioni con gli altri. E con l’Altro.

«F in dall’antichità gli uomini ringraziavano le divinità con sacrifici e attraverso offerte di cibo. Fin dalle epoche più remote la condivisione del pasto era cifra della volontà di mettersi in relazione con l’Altro, con il Divino, ma anche con l’uomo suo simile: era un convivio d’amicizia ed unità variamente intesa». Si apre così l’interessante libro di Paola Bizzarri e Davide Pelanda, «La fede nel piatto», edizioni Paoline.
Il testo è diviso in due capitoli principali: il primo rappresenta un viaggio attraverso le prescrizioni religiose delle principali religioni di Occidente e Oriente (ebraismo, cristianesimo, islam, hinduismo, buddismo e jainismo), e le usanze gastronomiche nate da ciascuna tradizione. Il secondo esplora, sia dal punto di vista politico-economico, sia storico sia, ancora, prettamente alimentare, i «saperi e sapori» del «cibo povero» e «dei poveri».
Entrambi ci mettono in relazione con mondi e culture diverse, passate e presenti.
Il cibo: tra divieti
e concessioni divine
«Il Signore disse a Mosè e a Aronne: “Riferite agli Israeliti: Questi sono gli animali che potrete mangiare tra tutte le bestie che sono sulla terra. Potrete mangiare d’ogni quadrupede che ha l’unghia bipartita, divisa da una fessura, e che rumina. Ma fra i ruminanti e gli animali che hanno l’unghia divisa, non mangerete i seguenti: il cammello, perché rumina, ma non ha l’unghia divisa, lo considererete immondo; la lepre, perché rumina, ma non ha l’unghia divisa, la considererete immonda; il porco, perché ha l’unghia bipartita da una fessura, ma non rumina, lo considererete immondo. Non mangerete la loro carne e non toccherete i loro cadaveri; li considererete immondi».
L’elenco di divieti e di concessioni alimentari, contenuto sia nel Levitico (cap. 11) sia nel Deuteronomio (cap. 14), è lunghissimo e dettagliato, così come sono numerose le sure e i versetti del Corano in cui si definisce ciò che è halal (lecito) o ciò che haram (proibito). «Vi sono vietati gli animali morti, il sangue, la carne di porco e ciò su cui sia stato invocato altro nome che quelli di Allah, l’animale soffocato, quello ucciso a bastonate, quello morto per una caduta, incornato o quello che sia stato sbranato da una belva feroce, a meno che non l’abbiate sgozzato (prima della morte) e quello che sia stato immolato su altari (idolatrici)…» (sura V,3).
Prescrizioni kasher e halal affondano le radici in retaggi sociali, religiosi e culturali semitici comuni a ebraismo e islam: il libro di Pelanda e Bizzarri ha il merito di permettere al lettore di addentrarsi in entrambe le tradizioni e di ritrovarvi le profonde affinità e continuità che i sanguinosi conflitti politici mediorientali degli ultimi sessant’anni hanno sepolto.
Cibo e salute
Tuttavia, il rispetto di certe norme alimentari non ha a che fare solo con la fede, ma anche con certo salutismo e rispetto per l’ambiente. Lo spiegano bene l’ebrea Manuela Sadun e il musulmano Elvio Isa Arancio.
«Il nutrimento è “adatto” perché lo scegliamo, perché ci amiamo, perché amiamo la nostra vita. (…) La salute, intesa nel senso più ampio possibile, implica il giusto rapporto con il cibo» racconta la Sadun a pag. 18 del libro.
«Mangiare è un mezzo, non un fine – ci spiega Arancio, sufi e ambientalista -, cerco di avere un atteggiamento etico: la mia scelta va verso il cibo sano, naturale e, per quanto possibile, non industriale. Prediligo frutta, verdura e legumi e ho drasticamente ridotto il consumo di carne, poiché sono consapevole che è una delle cause dell’attuale inquinamento del nostro pianeta. La lecità degli alimenti non è solo legata al rituale, ma anche a questioni sanitarie e etiche. Se mangiare carne tutti i giorni contribuisce alla deforestazione della terra, allora è qualcosa di illecito. C’è una cosa che, come musulmano, mi mette a disagio: il proliferare delle macellerie islamiche, dove si vende carne in grandi quantità. Che bisogno c’è di mangiarne così tanta? Anche questa sarà una forma di consumismo? Un modo errato di ostentare benessere?».
Religioni e alimentazione
dell’Estremo Oriente
Anche il buddismo, come è risaputo, è molto attento al cibo: «Mangiare carne spegne il seme della grande compassione» recita il Mahaparinirvana Sutra.
Scrive Davide Pelanda a pag. 41: «L’insegnamento del Buddha punta all’estinzione della sofferenza di tutti gli esseri senzienti: desidera la liberazione degli animali anche dalla violenza umana. (…) La compassione (karuna) sfocia spontaneamente in un atteggiamento di amore universale (metta, letteralmente “amicizia”).
Questo amore è regolato da dei precetti, dei codici di comportamento cui dovrebbero rifarsi tutti i credenti buddisti. I precetti vengono recitati sotto forma di preghiera, come: “Osservo il precetto di non uccidere nessun essere vivente”, oppure “osservo il precetto di non mangiare cibi fuori stagione”. A questi si aggiunge il precetto secondo cui non si deve mai essere causa di dolore per alcun essere vivente».
Il cibo dei poveri
La seconda parte del libro presenta un’altrettanto interessante riflessione sull’alimentazione «povera» del passato e del presente, sul dumping internazionale – merci, cibi, venduti al di sotto del prezzo di mercato, e causa di miseria per milioni di persone – e sulle mense dei poveri di tutto il mondo. Mense dove semi, tuberi e radici, legumi, frutta e verdura sono i principali, e spesso gli unici, ingredienti concessi a una sempre più vasta moltitudine di esseri umani. 

Di Angela Lano

Angela Lano




Salvare, Chi?

Eticamente: persona, economia, finanza

Buenos Aires, 28 dicembre 2008. – Anche in America Latina, i giornali e i canali televisivi non fanno altro che parlare della crisi economica che ha investito il mondo. Quasi tutti e quasi sempre, parlano di essa come fosse un evento naturale, privo di veri responsabili. Sappiamo, invece, che l’economia è una scienza (o, come più plausibile, una non-scienza, cfr. MC dicembre 2008) inventata dall’uomo, che dunque ne è artefice, nel bene e soprattutto nel male.
In Argentina, nessuno ha dimenticato la devastante crisi che colpì il paese a cavallo del 2001. Fu, quella, una crisi prodotta da scelte economiche assurde (in primis, quelle imposte dal Fondo monetario internazionale), che si ripercossero pesantemente su milioni di argentini. In questi ultimi anni, il paese si è rimesso in piedi, crescendo a ritmi cinesi. Ma le cifre economiche nascondono realtà ben diverse. A Buenos Aires, città di stampo e filosofia europea, per le vie del centro ogni sera tornano i «cartoneros», uomini, donne e bambini che vivono cercando nei sacchi delle immondizie quanto è vendibile, recuperabile o semplicemente mangiabile. Mentre nel Nord (Tucuman, Oran, Salta, ecc.) la povertà rimane a livelli intollerabili, per un paese che è un grande esportatore di prodotti agroalimentari (dalla carne alla soia).
Insomma, oggi tutti parlano di crisi economica, ma moltissimi argentini dalla crisi non sono mai usciti ed ora altrettanti potrebbero tornarci. Davanti a ciò, non è fuorviante parlare soltanto di mutui subprime, di futures, di derivati o di auto che non si vendono più?
Abbiamo chiesto a Sabina Siniscalchi – anni di militanza in «Mani Tese»,  deputata nella precedente legislatura, oggi responsabile della Fondazione culturale di «Banca Etica» – di tenere una rubrica in cui si cercherà di spiegare come l’economia e la finanza possano, volendo, essere compatibili con la persona. Cercando l’etica in un campo dove, almeno fino ad oggi, è stato piuttosto raro incontrarla.

Paolo Moiola

Mentre i governi dei paesi ricchi stanziano fondi per salvare le proprie banche, e i cittadini/investitori temono di perdere i loro privilegi, nei paesi poveri c’è chi vive la crisi da decenni. Ma altri «nuovi poveri» si aggiungono alla massa.

Settecento miliardi di euro dall’Unione europea, oltre mille miliardi di dollari dal governo degli Stati Uniti, trenta miliardi dal governo italiano. In pochi giorni sono state reperite risorse gigantesche per far fronte alla crisi finanziaria, per salvare le banche e arginare il panico degli investitori.
Ma sempre più cittadini si sentono minacciati dalla congiuntura che sta sconquassando il sistema economico mondiale.
Hanno paura di essere privati di quei beni su cui si fonda, secondo le Nazioni Unite, la vera sicurezza umana: il lavoro, la casa, la salute, la pensione.
La loro paura cresce nella misura in cui percepiscono che lo stato non interverrà a soccorrerli, le ingenti risorse per i piani di salvataggio esigono, infatti, tagli ad altri capitoli del bilancio pubblico: la sanità, la scuola, la previdenza, la cooperazione internazionale.
La paura accomuna chi è già povero e chi rischia di diventarlo, chi vive nelle periferie dell’emisfero Sud e chi abita nelle metropoli del Nord.
Per molti la «povertà da crisi» è già realtà quotidiana: la Fao (organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione, ndr) calcola che il numero degli affamati crescerà di 40 milioni nel corso del 2009, la Banca mondiale dichiara che sono 100 milioni i «nuovi» poveri. Cento milioni che si aggiungono al miliardo e 200 milioni già censiti.
Nell’Assemblea per valutare i progressi compiuti verso gli otto «obiettivi del millennio», che si è svolta al palazzo di vetro nel settembre 2008, il segretario generale dell’Onu ha chiesto 30 miliardi di dollari per raggiungere il primo goal che punta al dimezzamento, entro il 2015, delle persone che vivono in povertà, ma queste risorse non si sono trovate. Sono stati racimolati 16 miliardi di dollari, una somma insufficiente per aiutare i paesi che sono ancora lontani dal traguardo e che anzi regrediranno proprio a causa della crisi.
Si è capito che le risorse per combattere la povertà si ridurranno ancora di più, perché per molti mesi, forse anni, la priorità verrà data al salvataggio delle economie ricche.

Anche la recente conferenza di Doha su «Finanza per lo sviluppo» si è conclusa con un ben magro risultato:  ha ribadito, con scarsa convinzione, alcuni degli impegni presi a Monterrey nel 2002 nel campo dell’aiuto allo sviluppo, degli investimenti e del reperimento di risorse locali, ma non ha avuto il coraggio di affrontare i veri nodi di una finanza di rapina: fuga di capitali, paradisi fiscali, corruzione, mancanza di trasparenza e tracciabilità.
Eppure sono queste le vere cause dell’impoverimento dei popoli del Sud: ogni anno 500 miliardi di dollari scappano dai paesi in via di sviluppo verso i paradisi fiscali o le grandi banche del Nord: 10 volte quanto viene destinato alla cooperazione allo sviluppo.
La conferenza non ha preso decisioni di rilievo, le cose davvero importanti sono state rimandate al G8 o al G20,  luoghi dove i poveri non hanno rappresentanza e dove si vuole solo rattoppare un sistema che ha mostrato tutti i suoi errori e le sue malefatte.
La globalizzazione governata da pochi paesi e dominata da pochi gruppi economici ha prodotto una crescita che il «Rapporto sullo sviluppo umano» dell’Undp (Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo, ndr) definisce crudele: una crescita senza occupazione, senza pari opportunità, che indebolisce i diritti umani e distrugge la natura.
Una classe politica miope, in particolare nel nostro paese,  sembra incapace di vedere vie d’uscita che non siano la ripetizione degli stessi errori degli ultimi venti anni.
Eppure la crisi potrebbe rappresentare una straordinaria opportunità se aprisse le porte a un nuovo modello di sviluppo.
Un modello le cui caratteristiche sono già delineate negli studi e nelle pratiche delle organizzazioni dei cittadini che si sono attivate per rispondere ai problemi che la globalizzazione ha loro creato.
Un modello che le Nazioni Unite hanno chiamato il Green new deal.
Rilanciare lo sviluppo a partire dall’ambiente, incentivare l’uso delle energie rinnovabili, favorire la green occupation, premiare le imprese socialmente ed ambientalmente responsabili, ridurre gli sprechi in tutta la catena della produzione, distribuzione e consumo.
Potenziare il capitale umano e sociale, investendo in istruzione e salute: i veri motori di sviluppo.

Rimettere l’occupazione dignitosa (il decent work secondo la definizione dell’Organizzazione internazionale del lavoro) al centro delle attività produttive, penalizzare le ristrutturazioni aziendali che comportano licenziamenti di massa.
Attuare tutti gli interventi fiscali, economici e finanziari che portano alla ridistribuzione delle risorse. Non è vero che bisogna puntare sulla crescita, che poi «sgocciola» fino ai poveri, come sostengono i liberisti: studi della New economic foundation dimostrano che per 100 dollari di crescita solo 60 centesimi arrivano ai poveri.
Intervenire con decisione sugli aspetti più rischiosi dei mercati finanziari: dai paradisi fiscali alle speculazioni sulle valute, dagli edge funds al segreto bancario.
Mettere fine all’economia di guerra. Gli investimenti nel settore degli armamenti e le spese per la difesa sono aumentati paurosamente a partire dalla guerra in Afghanistan: tutti gli impegni per lo sviluppo, tutti i processi di pace vengono annientati dal commercio mondiale delle armi sempre più fiorente.
Ridare riconoscimento e vigore alle sedi multilaterali di negoziato, secondo il principio della più ampia rappresentatività.
Eleggere a modello economico, ma anche culturale, i comportamenti virtuosi dell’economia civile e della finanza etica, basati sull’idea di mutualità, condivisione e giustizia sociale.
Un’agenda di cambiamento reale, che non ci rimanda al tempo dell’utopia, ma alle scelte possibili di oggi. 

Di Sabina Siniscalchi
Fondazione culturale di Banca Etica

Sabina Siniscalchi




A caccia di energie

Sciamani ieri e oggi: tra modelli culturali e sperimentazioni scientifiche

Non è semplice definire lo sciamanismo, poiché gli   elementi che lo caratterizzano, il viaggio estatico, la musica e il concetto di malattia, pur nelle specifiche varianti locali, sono difficilmente scindibili tra loro. Anche se l’operato dello sciamano comprende una vasta gamma di pratiche di guarigione, i due elementi maggiormente caratterizzanti restano la capacità di curare l’aspetto spirituale della malattia e il viaggio
nella realtà non ordinaria al fine di ottenere la conoscenza e la guarigione fisica e spirituale.

Nella lingua dei tungusi della Siberia, la parola «shamàn» si riferisce a una persona che è capace di compiere viaggi nella realtà non-ordinaria, in uno stato alterato di coscienza. Anche se il termine è originario di un’area geografica specifica, la pratica dello sciamanismo è esistita, ed esiste ancora oggi, pressoché in tutti i continenti. Nel corso dei secoli, dalle regioni artico-siberiane e dell’Asia centrale si è diffusa, per le migrazioni delle stesse popolazioni paleomongole attraverso lo stretto di Bering, in tutta l’America settentrionale e meridionale, oltre che in molte aree dell’Asia meridionale e orientale, fino in Australia.
D’altro canto, in queste tribù di tipo animista, i problemi della quotidianità e del vivere di ogni individuo ricadono costantemente sull’intera comunità, mettendone a rischio equilibri e armonie intee. Così per scongiurare il pericolo di possibili «entropie» e disequilibri sociali, ogni membro della tribù crede nell’esistenza degli spiriti. Non sorprende, quindi, che in queste culture, ogni individuo, cosciente dei propri limiti umani e di fronte a determinati eventi, chieda aiuto agli stessi spiriti, avvalendosi, esclusivamente dell’esperienza o dell’intermediazione «privilegiata» dello sciamano.
arte dello sciamano: tra cosmologie
 e cosmogonie
La caratteristica comune di ogni processo di cura e di guarigione è il viaggio spirituale. Questo iter si concretizza attraverso il cammino dell’anima nella realtà extrasensoriale, che permette al guaritore di entrare in contatto con le «entità» spirituali. Ritenute per lo più alleate in cui ci si imbatte sotto forma di animali guida o di maestri spirituali – in genere antenati, figure mitologiche o saggi – queste entità conferiscono allo sciamano il potere e la conoscenza per aiutare e guarire se stesso, gli altri e il mondo dalla «malattia». Una missione universale che chiunque sviluppi capacità extrasensoriali può compiere attraverso un viaggio estatico e senza il sussidio di intermediari che si esprimono officiando rituali complessi.
E ciò può essere spiegato analizzando le strutture logiche del pensiero animista. Secondo le cosmologie più frequenti tra queste società, l’uomo vive sulla terra in una zona intermedia, tra un cosmo superiore e uno inferiore, associati a volte con il cielo e il mondo sotterraneo.
Queste tre zone sono collegate tra loro da un axis mundi, o asse verticale dell’universo, da alcuni chiamato «albero della vita». In alto e in basso questo asse passa attraverso aree «vuote» nella volta cosmica che possono condurre nell’universo inferiore o in quello superiore. Solo superando questi «buchi» il guaritore è in grado di passare da un livello di esistenza all’altro e di compiere il cammino contrario.
Tuttavia, questa esperienza muta continuamente in ogni diversa situazione. Non è una regola fissa, ma solo un modo di affrontare le diverse posizioni del cosmo e del proprio esercizio di conoscenza. Si tratta per lo più di sperimentazioni «personali» volte a guarire, ottenere informazioni o altre prestazioni consensuali, che garantiscono credibilità e rispetto in seno alla stessa società.
Tecniche o suggestioni a parte, anche per questa ragione lo sciamanismo non può essere considerato un sistema di dogmi e di verità di fede, ma solo un metodo per ottenere rivelazioni dirette dalle entità spirituali altre. In parte, per questo, lo sciamanesimo è stato osteggiato e combattuto come pericoloso antagonista proprio dalle religioni istituzionalizzate, non solo dalla religione cristiana, ma anche dal buddismo in Asia centrale e dal lamaismo in Siberia.
I nuovi orizzonti dello sciamanismo moderno
Gli sciamani non scelgono generalmente di diventare tali: all’arte della guarigione vi arrivano per vocazione, spinti dalle suggestioni psichiche di un sogno particolarmente forte e vivido, oppure attraverso una visione meditata, o più frequentemente in seguito alla guarigione insperata da una grave malattia. Prima di intraprendere il lungo cammino rituale che lo porterà a operare nella tribù, ogni neofita dovrà sottoporsi a un complesso percorso iniziatico da cui apprendere l’arte di curare, proiettarsi nel trascendente e di predire il futuro.
È proprio da questa fase di iniziazione extrasensoriale, o di liminalità «non comune», che prende avvio l’osservazione e la sperimentazione delle più importanti metodologie applicate dalle scuole sciamaniche modee dell’Occidente. Oggi sempre più persone, specialmente giovani, chiedono di conoscere da vicino questa antica tradizione spirituale per trae insegnamenti e indirizzi di vita. Modelli alternativi alieni rispetto a quelli tradizionali, considerati però più confortanti, meno impegnativi rispetto a quelli occidentali, ormai troppo pericolosamente svuotati di significato. Un agnosticismo forte, da cui si alimenta questo diffuso interesse dilagante che è testimoniato non solo dalla pubblicazione di numerosi libri sull’argomento, ma anche dalla popolarità di seminari, film, musiche e altri eventi che offrono l’opportunità di studiare e lavorare con sciamani provenienti da varie parti del mondo.
Entro questo orizzonte di riscoperta delle esperienze e tradizioni altre, occupa un posto di rilievo il lavoro di ricerca, insegnamento e di formazione condotto, ormai da quasi  40 anni, dall’antropologo americano Michael Haer, già docente all’Università di Berkeley in Califoia e alla New School for Social Research di New York. Dal 1987 è il fondatore del Core Shamanism, la scuola che ha contribuito, più di altre, alla riscoperta di queste antiche pratiche nel mondo occidentale. Inoltre, anche la Foundation for Shamanic Studies (Fss), che Haer dirige a Mill Valley in Califoia, attualmente rappresenta il maggior centro di insegnamento, didattica, ricerca e sperimentazione nel campo dello sciamanismo contemporaneo a livello mondiale.
Da anni la Foundation, è attiva anche e soprattutto nei paesi europei attraverso la Fss-Europa e le sue varie sezioni (Austria, Svizzera, Italia, Francia, ecc.) dotate di un corpo docenti internazionale (Inteational Faculty) che ha dato impulso notevole alla rinascita credibile dello sciamanismo nel mondo contemporaneo.
Uno degli obiettivi principali della Foundation è addestrare gli occidentali nelle tecniche di base e avanzate, sviluppando soprattutto un approccio basato sui principi e i metodi dello sciamanismo tradizionale (estasi, visioni, ritmi musicali, suggestioni, incantesimi etc), ma accessibile alla modea cultura. Un sistema perciò applicabile alla vita quotidiana, che è in grado di diffondere e rendere attuabili le pratiche fondamentali e transculturali di una tradizione antica.
Per quanto attualmente l’interesse nello sciamanismo sia enorme, molti dubitano che i metodi tradizionali possano essere applicati ai problemi della vita modea o che siano in qualche modo praticabili da noi occidentali. Partendo proprio da questi deterrenti scetticismi, il lavoro di Haer si è concentrato in particolare sulla possibilità di applicarli in ambito socio-sanitario, sviluppando soprattutto metodi di approccio complesso ai problemi di vita e di salute dell’uomo contemporaneo.
Oggi infatti, l’insegnamento e l’applicazione di questi principi, come avviene spesso presso molte scuole sperimentali, è in grado di rendere attuabili le pratiche fondamentali della tradizione locale, trasmettendone un sistema di valori neutro slegato da ogni tipo di condizionamento particolare. Alcuni praticanti associati alla Foundation hanno infatti lavorato nelle carceri e con le gang di adolescenti, altri si sono concentrati sui problemi dell’ambiente e sulla crisi ecologica del nostro tempo. Ovunque si sta cercando di recuperare l’antica saggezza ancestrale per proteggere la vita del pianeta e delle comunità umane, riportare equilibrio e armonia là dove ci sono squilibri, conflitti e disarmonie.
Così l’insegnamento richiama ogni anno migliaia di persone, che partecipano a corsi di addestramento e collaudando così un circuito scientifico formativo e informativo di assoluto valore avviato ormai da decenni.
Nel giugno del 2002, infatti, si è tenuto a Santa Fe, nel New Mexico, il primo convegno di medici e altri professionisti della salute, addestrati nel core shamanism, che si sono incontrati per scambiare le proprie esperienze e discutere come meglio integrare i metodi sciamanici nella loro pratica medica. Incontri che si sono succeduti con sempre maggiore consenso negli anni successivi allo scopo di garantire continuità a questo tipo di confronto di esperienze.
Anche per questo il core shamanism ha contribuito ad aprire nuove prospettive mediche anche nel trattamento dei problemi più strettamente psicologici. Ad esempio, la tecnica tradizionale del recupero dell’anima è diventata un complemento frequente della psicoterapia modea degli studi di mezzo mondo, secondo le linee indicate dalla psicologa statunitense Sandra Ingerman nel suo testo pionieristico «Il recupero dell’anima», edito ormai dal 1991.
nuove forme:  Vegetalisti e New Age
Per quanto riguarda gli sviluppi più recenti, la tendenza attuale è di non restringere il lavoro di divulgazione e formazione al trattamento dei soli problemi individuali, fisici o emotivi, ma di estenderlo anche alla sfera della vita collettiva e ai problemi sociali condivisi perciò da una moltitudine di casi specifici. Una preoccupazione che ha sempre caratterizzato l’attività del curandero tradizionale in ogni società locale.
Ma oltre a insegnare e diffondere lo sciamanismo nei paesi occidentali, la Foundation for Shamanic Studies promuove attivamente la collaborazione e l’interscambio proprio con gli sciamani tradizionali, i veri testimonial di un sapere conservato da millenni. In particolare, l’impegno della Fss a favore degli operatori tradizionali si concretizza attraverso due mirati programmi di cooperazione e di sviluppo. Il primo di «Assistenza tribale urgente» è rivolto ad aiutare individui e gruppi (finora soprattutto nativi americani) a rivitalizzare le loro tradizioni medico-empiriche perdute.
Il secondo, attraverso un altro programma chiamato «Tesori viventi dello sciamanismo», viene conferito un vitalizio annuale a due sciamani tradizionali, che si sono particolarmente distinti nel servizio alle loro comunità. Attualmente lo sciamanismo sta suscitando un rinnovato interesse sia nel campo degli studi specialistici sia in quello della cultura generale. In entrambi i casi, parte dell’utenza che si rivolge a questi centri sono troppo spesso i giovani attratti dalla possibilità di vivere quelle esperienze «alternative», che i media strumentalizzano e iconizzano come semplici fenomeni di costume.
Anche per questo l’importanza che assume oggi il fenomeno esotico nel contesto di una nuova religiosità, specialmente nell’area new age, non è legata tanto alla sua particolare struttura religiosa, quanto per il fatto sconvolgente che esso evoca, cioè la possibilità di un «viaggio in un altro mondo» attraverso uno stato alterato di coscienza.
C’è da rilevare, purtroppo, la diversità sostanziale dello sciamanesimo post-moderno dallo spirito autentico di quello storico: i viaggi al di fuori di sé di cui il new age si fa promotore, sono ben diversi per finalità; siamo lontani dal bene della comunità vissuta e sofferta da un curandero locale, mentre le esperienze extrasensoriali ascrivibili alla new age, ottenute spesso con l’ipnosi e sotto l’effetto di droghe, sono fini a se stesse, edonistiche, troppo spesso forme altre da «sballo» da discoteca o ancor peggio di pura tossicodipendenza.
Questa esigenza induce gran parte dei «pazienti» ad avvicinarsi all’esperienza rituale del cosiddetto vegetalismo, quel movimento underground che richiama adepti a recarsi soprattutto nelle aree del Sud del Mondo, ricche di varietà inestimabili di piante psicotrope. Specialmente in Ecuador, Perù e Brasile per provare l’esperienza di molti fitosistemi psicoattivi, tra cui l’ayahuasca, il potentissimo allucinogeno estratto da una liana della selva colombiana amazzonica.
Di contro, alcuni gruppi organizzati francesi hanno invece studiato in Africa programmi speciali di riabilitazione dalle stesse narcodipendenze. Come nel caso del processo di iniziazione sciamanica al culto dell’iboga, pianta dalle «prestazioni miracolose», che annullerebbe la dipendenza fisica e le inclinazioni psicotiche all’uso quotidiano delle droghe, attraverso la partecipazione al pericoloso rituale Bwiti ancora in uso tra le etnie babongo e mitsogo del Gabon.
Secondo alcuni dispacci medico-scientifici redatti dal Dipartimento della sanità di Washington, la radice dell’iboga verrebbe impiegata illegalmente, pur con dosaggi limitatissimi, presso alcune strutture ospedaliere degli Stati Uniti per il trattamento coatto delle tossicodipendenze, dietro cauzione di somme di denaro davvero elevatissime. Ma questo è solo uno dei tanti esempi di una metodologia empirica che resta ancora ufficialmente sommersa o celata dai sistemi di cura scientifici istituzionali. Ma il pericolo è di altro tipo.
sciamanismo urbano
D’altro canto, ovunque stanno nascendo nuovi specialisti: neoguaritori di origine indigena e meticcia che si globalizzano e neosciamani bianchi che si dedicano alle arti native. Esiste di fatto tutta una gamma di offerte, studiate sulle esigenze dei turisti e differenziate in base al contesto regionale nel quale si attuano. Consistono in vari giorni di isolamento, digiuno e consumo continuo di psicoattivi. Ci sono anche stranieri che viaggiano per curare i loro problemi di salute, artisti che desiderano sviluppare la loro creatività e ricercatori interessati allo sciamanesimo.
E anche se potrebbe risultare equivoco ridurre tutte queste attività attorno alle piante visionarie a una sola modalità; tra loro però una di queste si distingue: proprio lo sciamanesimo urbano. Si tratta di un ramo del movimento New Age che faceva una rilettura specifica delle tradizioni sciamaniche in tutto il mondo, elaborando una specie di sciamanesimo universale, che auspica un’era di pace e di fratellanza, dove non ci sarà più bisogno né di leggi, né di dogmi, né di stati, né di chiese. Il genere umano ritroverà la via della «grazia», cioè dell’accordo con l’armonia cosmica e, con esso, la natura, la salute, la felicità.
Questa rivisitazione del tutto tipica della cultura latinoamericana, si fonda sull’interpretazione libera che proprio gli individui più eminenti, i leaders, fanno parte di una modea antropologia esoterica che riconosce e riconduce la propria esistenza e creazione all’universo primordiale indigeno.
Il neosciamanesimo è perciò controverso, diviene quasi un surrogato teologico. È stato criticato proprio per aver tentato di creare una religione amerindia unica, omogenea, astratta e idealizzata, che non si riferisce alle comunità e alle etnie e che, soprattutto, non entra in contatto con gli aspetti oscuri e conflittuali presenti nello sciamanesimo stesso: la morte, la guerra, la violenza e l’assenza di una distinzione nitida tra il bene e il male.
Il fatto è che questo annunciato paradiso in terra si nutre di argomenti e simboli sincretici, al limite del bricolage dilettantesco. Si va dal buddismo all’antico Egitto, dal misticismo cristiano allo zen, dallo sciamanesimo allo chassidismo ebraico e poi macrobiotica e ufologia, salutismo e cultura pellerossa, futurismo tecnologico ed ecologia. Insomma, tanta confusione così congeniale a una post-modeità che riesce a conciliare una critica apparentemente radicale alla società dei consumi con il business.
D’altro canto si può argomentare che tale pratica è anche solo un modo per giustificare come mettere il cosiddetto vegetalismo in contatto con le tradizioni autoctone millenarie, stimolando un’altra sensibilità, altri modi di vita e visioni del mondo del tutto particolari. Ma di fatto si tratta di modelli che lasciano certamente aperto un dibattito sull’etica di una tecnica empirica, non certo di una religione, che spesso non si pone il limite di sconfinare in campi troppo dissimili tra loro, mettendo in dubbio i dogmi e le competenze di fede su cui si fonda ancora il diritto ecumenico di rispettare la religione istituzionale. 

Di Massimo Ruggero

Massimo Ruggero




La faccia sporca dell’energia pulita

Goias: iniziative della chiesa in un drammatico contesto sociale  

Nello stato di Goias la situazione di povertà della gente è aggravata da un fenomeno recente: aumento della coltivazione della canna da zucchero per la produzione di carburanti biologici. A difendere i diritti della gente c’è sempre la chiesa, gemellata con la diocesi di Modena.

Agli occhi di molti di noi occidentali esiste solo il Brasile delle spiagge soleggiate di Rio de Janeiro con le sue ragazze dai corpi ambrati, o quello del giornioso carnevale di San Salvador di Bahia; ma ovviamente il Brasile non è solo questo. Esiste anche il Brasile di certi stati ai quali, dopo l’introduzione della canna da zucchero, sono stati «completamente cambiati i connotati»: nel nord-est sono sparite quasi per intero le foreste originali, la mata atlantica; negli stati centro-occidentali, come nel Goias per esempio, sta scomparendo il cerrado, la savana brasiliana, al cui interno si trovano oltre 100 mila specie di piante, di cui quasi la metà non sono presenti in nessun altro luogo al mondo; al loro posto distese senza fine di piantagioni di canna da zucchero.
La ragione è semplice: si sta cercando in maniera sempre crescente di implementare l’uso di questa pianta come «fonte di energia sostenibile» per la produzione di biocarburanti.
Già nel 1975, il governo brasiliano aveva lanciato il programma nazionale Proalcol, per incentivare l’uso del combustibile «più pulito al mondo», con lo scopo di muovere il parco macchine nazionale. Proseguendo con questa filosofia, nel 2007 il governo di Lula da Silva ha firmato un accordo commerciale con gli Stati Uniti, in funzione del quale ha deciso di ampliare di cinque volte le superfici dedicate alla coltivazione della canna da zucchero, che in Brasile corrisponde già a un territorio pari all’estensione di Regno Unito, Paesi Bassi, Belgio e Lussemburgo.
L’idea di sostituire la benzina con questo biocarburante sembrerebbe la più felice delle soluzioni. In realtà, come accade nella maggior parte delle situazioni, anche questa medaglia ha il suo rovescio. In primo luogo, la coltivazione estensiva della canna da zucchero sottrae terreni ad altre coltivazioni come il mais, il riso e i fagioli, che sono la base alimentare della fascia della popolazione più povera.
In seconda battuta, nei paesi in via di sviluppo, la richiesta di biocarburanti sottrae la terra ai piccoli coltivatori, per non parlare dell’ attuale speculazione sul prezzo dei generi di prima necessità. La creazione di grandi latifondi distrugge le strutture tradizionali della proprietà e della produzione.
Non mancano nemmeno le conseguenze sull’ambiente. Le monocolture di piante energetiche impoveriscono i terreni; l’impiego di pesticidi e concimi chimici avvelena le falde freatiche; le riserve idriche vengono razionalizzate in favore delle colture destinate all’esportazione.
Ancora più importante l’aspetto «umano» della vicenda. Le dinamiche migratorie risentono delle scelte economiche. Così, da un lato, si assiste a un flusso migratorio dalla campagna alle grandi città, dove i contadini, rimasti senza terra, sperano in un futuro migliore. Al contrario, la richiesta di manodopera per il taglio e la raccolta della canna da zucchero richiama un grande numero di lavoratori stagionali, i cortadores de cana de açucar, che finiscono con l’essere sfruttati e ridotti a vivere in stato di semischiavitù all’ interno delle piantagioni. Basti pensare, per quanto incredibile, che in Brasile il primo sindacato dei cortadores de cana de açucar nacque nel 1955 per difendere i diritti dei morti a venire seppelliti in una bara di legno invece che nella nuda terra… talmente tanta era la rassegnazione a vivere una vita senza diritti e senza speranze che almeno si voleva un posto dove riposare in pace una volta passati a miglior vita.

Lo stato del Goias, sito nella parte centro occidentale del Brasile, concentra tutte le problematiche legate alla produzione intensiva di biocarburanti, in particolare della canna da zucchero. Il Goias, occupa un’area di circa 341.289,5 kmq, ovvero grande poco più dell’ Italia e conta una popolazione di 6 milioni di abitanti.
La sua storia è strettamente legata a quella di San Paolo; è da qui che nel xviii secolo arrivarono le prime spedizioni di coloni portoghesi in cerca d’oro e di manodopera indigena da utilizzare nelle piantagioni. Quando la «febbre dell’oro» si esaurì, l’economia si spostò sull’agricoltura e l’allevamento.
Tuttavia, nonostante l’apparente ricchezza in questo stato vive una moltitudine di persone povere e prive dei diritti fondamentali. Contadini che, privati dai latifondisti della loro fonte di sostentamento, si avventurano nelle grandi città, finendo per alimentare le fatiscenti baraccopoli sorte negli ultimi 30 anni.
Chi, invece, non ne ha voluto sapere di abbandonare la campagna, ha dato vita al fenomeno dei sem terra (senza terra), contadini che si sono organizzati in associazioni per combattere i grandi proprietari terrieri e ottenere dallo stato federale la tanto agognata «riforma agraria». La lotta si è concretizzata nella formazione degli asientamentos, terreni occupati e coltivati, che con gli anni sono diventati una vera e propria sfida ai latifondisti.
Un altro fenomeno di importante rilevanza sociale che interessa lo stato del Goias sono le migrazioni di manodopera stagionale, ovvero i cortadores de cana de açucar, provenienti principalmente dalle regioni ancor più povere del nord-est brasiliano. Si stima che questa migrazione intea al Brasile coinvolga circa 30 mila persone all’anno. Lavoratori sottoposti a condizioni di vita disumane, privi di ogni diritto, che alloggiano in dormitori dove le condizioni igieniche sono carenti, il cibo insufficiente per compensare la grande fatica che questo lavoro comporta e le condizioni sono talmente pesanti da provocare, nei casi limite, la morte per fatica, o se non si arriva a tanto, sono molto comuni gli incidenti dovuti all’uso del machete senza le dovute protezioni agli arti, che la legge brasiliana richiederebbe ma che spesso sono disattese.

In questo difficile e complesso panorama sociale, nel 1975 è nata la «Commissione pastorale della terra» per opera dell’ allora vescovo di Goias Velho, don Thomas Balduino. Egli ha iniziato una serie di attività in difesa e sostegno dei più poveri, dei migranti, dei contadini e delle loro famiglie, che con gli anni si sono concretizzate in numerose attività a favore della comunità, come i centri di avviamento al lavoro per adolescenti, un centro pastorale per i minori, la radio comunitaria «Radio Villaboa», la Casa dell’agricoltura, la Scuola famiglia agricola e infine la Casa do migrante e il Centro dei diritti umani «padre Francesco Cavazzuti».
Queste attività sono state messe in opera insieme alla diocesi di Modena, con cui la diocesi di Goias Velho è gemellata, grazie anche all’intensa attività dei numerosi missionari modenesi, che hanno vissuto o vivono tuttora in Brasile, o grazie anche a volontari che semplicemente decidono di passare in questo modo le loro vacanze.
Questo intenso contatto tra le due diocesi ha portato poi anche alla collaborazione con l’associazione Modena Terzo Mondo, che da 13 anni sviluppa progetti di sostegno rivolti ai bambini, ai contadini senza terra e alle comunità locali. Tra questi, il sostentamento della Casa do migrante nella stessa città di Goias Velho.
La casa, nata formalmente nel 1996 in una vecchia abitazione di proprietà della curia, poi ampliata e ristrutturata nel 2000 proprio grazie ai volontari italiani, è ora in grado di accogliere 30 persone, alle quali per una cifra simbolica viene dato vitto e alloggio.
La Casa do migrante ha lo scopo di dare appoggio e assistenza temporanea a coloro che giungono a Goias dalle campagne circostanti per sottoporsi, per esempio, a visite mediche o assistere un familiare nell’ospedale cittadino, ma offre anche assistenza ai migranti provenienti da altri stati brasiliani che vengono per fare la stagione della canna da zucchero e si trovano in serie ristrettezze economiche. 

Non solo assistenza primaria e sostegno alle idee, ma anche promozione della conoscenza dei propri diritti e difesa sindacale. È questo l’obiettivo con cui è nato a Goias Velho il Centro dei diritti umani «padre Francesco Cavazzuti», che prende il nome dal suo fondatore:  classe 1934, carpigiano, missionario fidei donum in Brasile dal 1969.
Fin dal suo arrivo nella diocesi di Goias, don Cavazzuti si è distinto per la strenua difesa dei poveri e degli oppressi. Proprio per questo suo impegno, che si scontra con gli interessi dei latifondisti, nel 1972 rischia una prima espulsione dal paese. Nel 1978 diventa parroco di Mossamendes.
Ma è il 27 agosto 1987 che l’impegno e l’opera di don Cavazzuti rischiano di essere messi a tacere: durante una veglia di preghiera, un giovane, armato probabilmente dai latifondisti, spara al sacerdote. La pallottola lo colpisce al volto. Don Cavazzuti si salva, ma la sua vista ne è compromessa.
Nonostante l’attentato perdona il suo attentatore e lo visita in carcere, continuando poi a essere presente e attivo in mezzo ai deboli e indifesi, fino al suo ritorno in Italia nel 2007.
Il centro che porta il suo nome opera per la promozione e la garanzia della persona umana attraverso corsi di formazione, assistenza giuridica e difesa dei diritti violati. Al centro si rivolgono gli abitanti della città e delle zone rurali ma, soprattutto, i cortadores de cana de açucar che vogliono far valere i propri diritti sindacali contro lo strapotere dei latifondisti, i «senza terra», i piccoli agricoltori e gli «assentati», cioè quelle famiglie che, dopo anni di lotta e speranza, hanno finalmente ottenuto dal governo la tanto agognata terra da coltivare.
Il centro funge da «braccio operativo» della Commissione diocesana dei diritti umani, che si esplica sia nell’esecuzione delle azioni, sia nel rafforzamento delle associazioni locali in difesa dei diritti umani nei municipi e nelle parrocchie della diocesi di Goias Velho.

In Goias si sta vivendo un periodo di forti cambiamenti economici e sociali. Come abbiamo già detto, con l’avvento del biodiesel i terreni da pascolo per i bovini, sono trasformati, o stanno per esserlo, in terreni per la coltivazione della canna da zucchero e della soia. Questo fa sì che decine di migliaia di lavoratori giungano in questa regione soprattutto dal Nordest, per poi finire sfruttati, sottopagati e costretti a vivere in misere condizioni. Inoltre, sono ricattati: se protestano vengono lasciati a casa, sostituiti da altri disperati pronti a prendere il loro posto.
Il Centro «don Francesco Cavazzuti», insieme alla Pastorale della terra, la Casa del migrante, alla diocesi di Goias e tutte le associazioni di volontariato che lavorano con il mondo agricolo, sta cercando di fare un’opera di sensibilizzazione presso i sindacati locali e le comunità, affinché accolgano questi lavoratori che provengono da fuori, per umanizzare un po’ di più l’accoglienza.
Purtroppo, però, molti lavoratori hanno ancora paura a incontrare gli attivisti. Temono di perdere il lavoro, anche se qualcuno comincia a dare segni di insofferenza. Si comincia a capire che i lavoratori non sono solo «braccia», ma esseri umani con dei diritti.
In questo contesto le istituzioni locali, che sono ancora legate ai grandi latifondisti, non aiutano e non incentivano queste iniziative; anzi, sono aumentati i casi di minacce ai danni di coloro che si impegnano a sostenere i diritti di questi lavoratori.
Se continua così le prospettive non sono affatto molto rosee. Essendo decine di migliaia, ed essendo lavoratori stagionali, è molto difficile seguie il flusso, dare loro una mano e sostenerli e purtroppo, con l’aumento dei terreni adibiti alla coltivazione del biodiesel, la situazione peggiora di anno in anno.
In definitiva questa è la faccia sporca e nascosta dell’«energia pulita», che è venduta nel nord del mondo come l’energia che doveva risolvere il problema del petrolio, ma che invece sembra creae di nuovi.  

Di Manuela Fiorini

Manuela Fiorini