Nella pelle dei disperati

Tre giorni nei campi degli orrori e della follia

In molti paesi negare l’olocausto è un reato; eppure vari negazionisti
continuano a sostenere le loro teorie, con argomenti assurdi
e chiedono prove inconfutabili. Queste ci sono, afferma l’autrice
di questo articolo: basta andare ad Auschwitz e immergersi nel suo silenzio
di morte, per capire e sperimentare uno dei momenti più orrendi
della nostra storia… da non dimenticare.

H o conosciuto Hans. Il nome è di fantasia, per mantenere l’anonimato di chi mi ha aiutata a ottenere permessi per entrare nei campi e rimanerci giornate intere per il mio reportage. È venuto a cercarmi in albergo a Cracovia, colpito dalle mie richieste; non dimenticherò mai la sua faccia, quando sono scesa nella hall tendendogli la mano. «Mi aspettavo una di quelle giornaliste anziane, austere per una richiesta così stravagante, invece lei… potrebbe essere mia nipote… quanti anni ha? Ma lei è pazza! Come le è venuto in mente di fare un reportage del genere? È impossibile fare quello che lei mi ha chiesto… a meno che… sia una turista semplice… Nessuno è mai riuscito a sopravvivere per più di quattro ore nei campi!» mi ha tuonato nelle orecchie. «Allora adesso ce n’è una» gli ho risposto io.
Davanti a un paio di bicchieri di un meraviglioso rosso polacco, mi ha raccontato il dolore intrinseco e genetico degli ebrei e dei polacchi ogni qualvolta si neghi l’olocausto. Lo rassicuro raccontandogli le ore trascorse a Budapest con sopravvissuti. Ho ascoltato storie drammatiche e storie di amore straordinario, ma non posso realmente raccontarle se non mi immergo nella loro storia e nel loro dolore. Devo provare e gli prometto che resisterò. Due occhi grigi mi analizzano come a dire: questa non è normale!
Il giorno dopo vado a ritirare i miei «visti» e un anziano nonno che mi farà da guida e guardia del corpo, nel caso che, mi fa notare Hans, dovessi svenire, come spesso accade.

P elle. Un odore acre di pelle… stampato per sempre nel naso. Mi sento osservata da decine e decine di occhi. Sguardi finiti che mi avvolgono a destra e sinistra nel corridoio che percorro. Sono le foto che facevano ai deportati. Grandi foto in bianco e nero, nitidissime. Immediatamente penso al fotografo che le ha fatte. Doveva essere molto bravo. Una messa a fuoco disarmante. Ma sapeva che stava fotografando dei cadaveri vivi? Cerco di immedesimarmi nelle sue emozioni, sensazioni… è difficile.
Ho scelto di immergermi fisicamente e psicologicamente nei campi di Auschwitz e Birkenau. Quando dico alla mia guida cosa ho in mente di fare mi guarda perplessa. E solo dopo una scarica di domande decide di accompagnarmi. Per tre giorni interi mi lascerò volontariamente attraversare da quel terrore, dalla disperazione stanca dei deportati, la lunga attesa della morte. Morte come salvezza. Morte come libertà.
Quando arrivo davanti al cancello di Auschwitz la prima cosa che noto è il silenzio di un curatissimo prato inglese. Flotte di turisti discutono, parlano e si allineano con la loro guida, interrogandosi sul perché c’è una fotografa quando è severamente vietato fotografare.
Non sarà semplice immergermi intenzionalmente nei campi, dappertutto mi spuntano fuori cappellini di curiosi. Li lascio andare avanti e inizio dagli ultimi blocchi. La mia guida, un ex-deportato i cui occhi ancora si bagnano quando mi racconta di quegli anni, mi segue in ogni singolo scatto. Iniziamo dai sotterranei dove venivano torturati gli ebrei. Celle di un metro e mezzo di larghezza per due di altezza, in cui venivano obbligate a stare in piedi tre, quattro persone per giorni e notti intere.
Entro in una di queste e mi chiudo dietro la cancellata. È quasi buio, circola poca aria. La fiamma di una candela mi illumina la macchina fotografica. Ho difficoltà a vedere l’esposizione da usare per la foto. Un senso claustrofobico inizia a farsi strada nel mio corpo. L’odore pungente è ancora troppo forte. Sono sola. Zoltan, il mio guardiano, mi osserva a distanza. Gli ho chiesto io di lasciarmi sola. I muri scrostati mi raccontano il loro calvario. Richieste di aiuto, nomi, promesse, raccomandazioni e ricordi, incisi con le unghie su un muro freddo. Mi siedo per terra, lasciandomi illuminare il viso da un buco che funge da finestra. E li vedo. Larve nude, terrorizzate, umiliate, prive di dignità umana. Uno è seduto dove sono io, gli altri tre in piedi e a tuo siedono le loro ossa.
Un senso di nausea mi scuote, ma mi obbligo a restare. Sento gli occhi appannarsi dietro l’obiettivo. Devo asciugarli per poi ricominciare a scattare. Se ero una di loro! Se i miei nonni erano loro. Se mio figlio dopo essermi stato strappato dal grembo era uno di quei quattromila bambini fatti fuori. Come hanno potuto una mente e un corpo umano, menti e corpi uguali a quelli di quasi un milione e mezzo di ebrei uccisi, arrivare a tanta violenza. Una violenza meditata, studiata. Come può esserci nel cuore dell’uomo una brutalità tale.
Esco dalla cella e continuo il mio viaggio in un mondo di ricordi non miei. Zoltan racconta, racconta, scrutandomi. Montagne di capelli, di pettini, di gavette, di scarpe e vestiti dietro un’anticamera di vetro riempiono le stanze. Gigantografie svegliano chi non ha avuto ancora il tempo di immaginare come avveniva l’ispezione. La luce di una fredda mattina di marzo filtra dalle finestre evidenziando le vetrate con i loro tesori. Una luce perfetta… Ma che senso ha fotografare montagne di capelli? mi chiedo.
Mi sento prendere la mano. È Zoltan che legge nei miei movimenti. Lo guardo e nei suoi occhi leggo le mie domande. Ricorda ancora il freddo che scioglieva le ossa durante la notte, con un sacco di tela che copriva quattro persone, il lavoro, le violenze e i soprusi.
Entriamo nella sala dove venivano portati i bambini. Vestitini, ciucci, scarpine sono ancora integre sotto teche di vetro. Il cuore mi balza in gola, un brivido freddo mi attraversa; immagino le scene lette nei libri, penso all’inquadratura ponendo tra me e quei ciucci una barriera, la mia macchina fotografica. Ma il sangue mi bolle nelle vene, rabbia e impotenza mi esplodono dentro. Devo fermarmi non vedo più. Gli occhi inondati si rifiutano di vedere, di fissare attraverso un obiettivo l’immagine che ho di fronte. Esco per respirare aria nuova. Non sento più il mio corpo.

S ono le 16.00. La nausea continua a scuotermi. Zoltan mi consiglia di tornare in hotel e rilassarmi. Ci organizziamo per il giorno seguente. Percorro i 40 chilometri di strada che separano Auschwitz da Cracovia, osservando quei boschi fitti e impervi. Gli stessi attraverso i quali molti sono scappati, sono morti o sono stati fucilati da giovani soldati tedeschi.
Arrivo all’hotel stordita. Mi segue ancora quell’odore acre di pelle. Ce l’ho addosso, sui vestiti, nei capelli. Ancora adesso quando ci penso, eccolo che puntuale m’inonda le narici.
La mattina seguente di buon’ora riparto per Auschwitz. Arrivo che hanno appena aperto. Sono le 8.30 e c’è poca gente. Vado direttamente al blocco delle camere a gas e ai foi. Zoltan, ancora assonnato, mi segue a fatica. Lo saluto davanti alla porta di legno delle docce. Entro. Mi hanno concesso due ore per poter lavorare in solitudine. Le stanze sono illuminate da una piccola lampadina che pende dall’alto. Delle candele illuminano il pavimento dove venivano ammassati i corpi. Entro nella doccia. Prima di entrare, un cartello invita a lasciare l’accappatornio lì.
Mi metto nella stessa loro posizione, alzo lo sguardo e osservo il jat della doccia, pensando all’esplosione di terrore quando hanno capito che da lì usciva gas e non acqua. Gocce di sudore mi freddano la schiena. Il senso di nausea torna e scalpita nello stomaco.
Zoltan, la mia ombra da due giorni, mi accompagna ai bagni. Lo troverò lì, quando uscirò dopo un po’, ancora stordita. Mi chiede perché voglio soffrire così. E già doloroso ascoltare i racconti dei deportati, perché voler entrare nel loro tormento!
Andiamo a pranzo da sua figlia, ormai siamo amici. Mi scorta con la tenerezza di un nonno e io lo interrogo con la curiosità frenetica di una nipote. La moglie è morta dieci anni fa stroncata da un cancro all’utero. Lui l’ha sposata appena usciti da Birkenau. Gli occhi blu ancora si illuminano quando racconta del loro amore. «Un amore povero, ma intenso, vissuto giorno per giorno fino all’ultima notte quando l’ho lasciata andare da Lui» mi dice.
Chiedo a Maria, la figlia di Zoltan, come può vivere al confine di un luogo così straziante. Il suo balcone si affaccia sulle casette avvolte dal filo spinato. Mi spiega che la loro proprietà era lì: «È l’unico panorama! E nella vita bisogna anche sapersi accontentare di quello che si ha».
N el pomeriggio too ai campi. Entro nella camera dei foi. L’odore di morte, di pelle inonda ancora l’aria. Fermi, immobili, lucenti come fossero stati appena spenti. I foi mi fissano. Io li guardo attraverso il mirino: sembrano distanti, invece sono lì a pochi centimetri.
L’odore della ghisa si mischia a quell’odore che brucia dentro e fuori i campi. Ne avrò i polmoni pieni dopo tre giorni. Dopo aver girato per ogni singolo blocco, per ogni singola via, mi fermo a osservare la realtà estea attraverso grandi e luminose finestre. Cosa pensavano? A chi pensavano? Pregavano? Credevano ancora in Dio? Un Dio che sembrava essersi dimenticato. Avevano ancora sogni e speranze? Quali?
Quella sera girerò fino a stancarmi per le viuzze di Cracovia. Accendo il computer per scaricare le foto. Ogni foto è una fucilata. Gli scatti alle docce sono mossi e lì che ho la consapevolezza che ricorderò ogni singolo minuto di questi giorni. La mano ferma di una fotografa, non ha avuto la forza di reggere la macchinetta.
Birkenau, l’ultimo giorno,  sarà il colpo di grazia. Percorro tutta la ferrovia che arriva dritta nei campi. Un silenzio mi grida nelle orecchie. Il cielo è blu. Limpido e terso fa compagnia a un sole che brucia gli occhi. Mi guardo attorno e vedo solo due binari che tagliano in due, chilometri e chilometri di casette recintate da filo elettrico spinato. E loro erano lì. Abitavano lì, vivevano lì, lavoravano e morivano lì.
Sento i passi stanchi di Zoltan dietro di me, continua a bere la sua bottiglietta d’acqua. È stanco. I ricordi pesano più della fatica fisica. Arriviamo alla fine della ferrovia con la testa, il cuore e le gambe straziati. 

Di Romina Remigio

Romina Remigio

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