A caccia di biodiversità

Ritoo nella foresta nuvolosa, dopo 16 anni

Piccolo dal punto di vista geografico, l’Ecuador è uno dei paesi con la maggiore diversità biologica e climatica del mondo.  Dalla costa del Pacifico alla duplice catena delle Ande, dalla foresta Amazzonica alle isole Galapagos, vi sono ben 46 ecosistemi. Tanti mondi in uno, da difendere dalle speculazioni multinazionali e dal turismo selvaggio.

A 16 anni di distanza è sempre lo stesso fratel Giovanni, l’entusiasta missionario delle foreste. È sera già inoltrata quando arriviamo, una mia amica e io, alla sua missione nella capitale ecuadoriana, e mi accoglie con il solito calore, anche se porto con me tre italiani, padre, madre e figlio, conosciuti in aereo. In soffitta c’è posto anche per loro.
Esauriti i convenevoli, fratel Giovanni indossa il grembiule, si mette in cucina e prepara una buona zuppa per tutti. Ci sono anche altri ospiti, un collega entomologo, il padre spagnolo Josè dei maristi di Leòn, due visitatori italiani e le due ragazze che fratel Giovanni fa studiare e che aiutano in cucina. Sono allegre e affettuose, di famiglia contadina, numerosa, che vive in una zona remota della sierra, dove non ci sono scuole.
Durante la cena, Queti è venuta a incontrarmi: non la riconosco tanto è cambiata. Sono passati 16 anni, da quando la conobbi bambina sui monti di Las Pampas e rimasi per alcuni giorni ospite della sua famiglia, impiegata da fratel Giovanni Onore nella custodia del territorio della Fondazione Otonga.
Era stata un’esperienza indimenticabile, che mi fece scoprire un modo di vita semplice, guidata dalla fede, ricca di valori a noi italiani quasi dimenticati: ospitalità, rispetto e amore in famiglia. Di questo e della natura fantastica del paese scrissi in uno dei miei primi reportages per Missioni Consolata (ndr  luglio agosto 1995, pag. 34).
Ora Queti ha 27 anni ed è una giovane molto attraente, con vestiti attillati e scarpine eleganti con tacchi alti. Dopo aver studiato turismo al college, ha trovato lavoro in un albergo e vive in città. Mamma Carmen e papà Cesare Tapia, sono rimasti lassù, tra le nuvole della foresta, i 9 figli sono in giro per il paese a lavorare. Mario, il maggiore, vive e lavora in Italia come scultore.
Devo ritornare lassù, vedere quello che fratel Giovanni sta facendo in quella zona montagnosa da una ventina di anni, per salvare la preziosa foresta nuvolosa. Ma le notizie da Guayaquil parlano di allagamenti, dovuti alle piogge incessanti. Le strade sono interrotte per frane, le città allagate, quindi per ora non possiamo raggiungere Otonga e cambiamo programma.
NELLA FORESTA DEL NAPO
Un breve volo ci porta a superare il ciglione della sierra orientale, sullo sfondo le cime di ghiaccio dei vulcani. Dai 3 mila metri di Quito scendiamo ai 300 di Coca, sul rio Napo, in Amazzonia. Sorvoliamo una vasta zona dove le piantagioni di palma da olio africana hanno sostituito la foresta pluviale amazzonica. In lontananza ci sono i fuochi dei pozzi petroliferi che hanno portato a uno sviluppo caotico e molta immigrazione. Da qualche giorno è scattato l’allarme per via di una perdita che ha inquinato il grande fiume, la popolazione è stata invitata a fare scorta di acqua, perché tra poco arriverà l’onda nera.
«Le multinazionali che stanno sfruttando il bacino sono americane – mi spiega Emily, una biologa di New York che lavora in Ecuador da qualche anno per monitorare lo stato dell’inquinamento provocato dagli insediamenti industriali -. Ma ora sono attente a non far mancare acqua potabile alla popolazione. Vi è stata una immigrazione da altre regioni del paese perché qui c’è più lavoro ed è meglio pagato».
Un servizio di battelli lungo tutto il rio Napo permette di raggiungere in 8 il confine peruviano, per poi proseguire verso il rio delle Amazzoni e addentrarsi nella foresta brasiliana. Ci imbarchiamo anche noi, ma per raggiungere uno degli «eco-lodge» sorti lungo il fiume per i turisti che visitano il Parco nazionale Yasuní.
Facciamo il viaggio in compagnia di Conceptiòn e della figlia Hilda, che ha appena vinto il concorso di reginetta di bellezza del Parco Yasunì. La mamma è felice, sorride orgogliosa accanto alla ragazza, seria e compresa nel suo ruolo, i lineamenti indi e la fascia di miss sulle spalle. Vivremo insieme questa piccola avventura. «Hilda mi assomiglia molto. Alla sua età avrei potuto sposare un americano, lasciare il mio povero villaggio sulla costa del Pacifico» ricorda con rimpianto.
Invece, con 6 figli da allevare, lei e il marito decisero alcuni anni fa di trasferirsi a Coca, dove aveva trovato un lavoro ben remunerato in una compagnia americana. Ma a contatto con gli occidentali,  l’antica tradizione familiare, cristiana, si sta sgretolando, si lamenta Conceptiòn: la figlia maggiore è già divorziata ed è tornata a vivere coi genitori insieme ai suoi due bambini.
Nel parco sarà Froilan la nostra guida naturalistica. Di etnia yasuní, discendenti dei primi abitanti della foresta, i nativi sono oggi superati in numero dai nuovi arrivati, che vivono nelle città. Depositari della cultura amazzonica, solo loro sono autorizzati a farci conoscere le meraviglie della selva amazzonica, che è più difficile da apprezzare rispetto alla foresta nebulosa della sierra. Qui infatti le dimensioni e l’altezza delle piante e la densità del loro fogliame mantengono nell’oscurità molti aspetti della vita vegetale e animale, impossibili da cogliere e apprezzare in tutta la loro ricchezza, senza l’aiuto di una guida indigena.
Il Parco Yasuní, presentato come «oro verde» nei volantini di propaganda turistica, è stato dichiarato area protetta e «riserva della biosfera», ma la minaccia della corsa all’oro nero è sempre incombente e tiene gli indigeni sul piede di guerra.
LA FORESTA NUVOLOSA
Padre Josè e fratel Giovanni mi accompagnano sul fuoristrada verso la Riserva di Otonga. È un giorno di sole, ma appena lasciamo la vista sublime dei vulcani Pichincha e Cotopaxi e superiamo il ciglio della sierra occidentale, troviamo la nebbia che sale dalla valle. Lunghe colonne di camion attendono che le ruspe liberino le frane che continuano a cadere, a causa delle piogge.
Il traffico è intenso e pesante; arriva da Guayaquil e i carichi maggiori  proseguono per l’Amazzonia, dove ferve l’attività di estrazione del petrolio. Le strade sono asfaltate e sono costeggiate da frequenti edifici bassi e senza finestre, case da gioco e prostituzione per gli autisti. Non ricordo di aver visto cose del genere 16 anni fa: allora le strade erano sterrate e si viaggiava salendo sulla lechera, il camion che trasportava i bidoni di latte e le mucche; o sugli automezzi carichi di forme di panela, lo zucchero fatto col succo di canna.
Otonga è frutto di un sogno del fratello marianista Giovanni Onore, nato a Costigliole d’Asti nel 1941, laureato in agraria presso l’Università di Torino, da più di una ventina di anni missionario in Ecuador, attualmente docente di entomologia all’Università Cattolica di Quito.
Il sogno cominciò a realizzarsi alla fine degli anni ‘80, quando comperò 100 ettari di foresta, a un centinaio di chilometri a sud di Quito, sul versante occidentale della cordigliera delle Ande, dove le particolari condizioni climatiche favoriscono una biodiversità altissima, un prezioso ecosistema minacciato dalla deforestazione per sfruttare il legname e fare spazio a prati, pascoli e strade. Il territorio comperato è stato affidato alla famiglia Taipa: Cesare e i figli Italo, Elicio e Arturo continuano ancora oggi a occuparsi della conservazione della fauna e flora, sviluppando attività guidate per i visitatori.
Da anni fratel Giovanni continua a girare il mondo per illustrare il suo progetto e raccogliere fondi, invitando gli studiosi a visitarlo per conoscere e studiare le meraviglie del «bosque nublado», selva nuvolosa, così chiamata per distinguerla dalle foreste pluviali dei bacini dei fiumi equatoriali. Con i fondi arrivati da varie parti, pezzo per pezzo è stata comperata la foresta integrale di Otonga, che si estende per circa 1.500 ettari, da circa 800 fino a 2.300 metri di altitudine. Essa è proprietà dell’Università cattolica di Quito; con l’arrivo di altri fondi si spera di raggiungere i 3 mila ettari.
Raggiungere la riserva non è cosa semplice, soprattutto se la stagione delle piogge è iniziata. Di fatto vi arriviamo che è già notte, a causa delle frequenti interruzioni stradali causate dagli smottamenti. Saliamo nel buio, lungo il sentirnero che attraversa un lembo di foresta e raggiungiamo la casa del guardiano del centro di Otongachi. Durante la notte la pioggia aumenta di intensità e porta via un ponticello che ci aveva permesso di arrivare, superando un ruscello. Un grosso albero è crollato e la pioggia continua a cadere, più leggera.
A Otongachi è in funzione un Centro di educazione ambientale, che ospita un museo interattivo sulla biodiversità, con strutture per attività didattiche a disposizione di studenti e scienziati. L’edificio è moderno, in cemento armato, per evitare la corrosione dovuta al clima.
Da una decina d’anni il centro è fornito anche di una costruzione che consente l’alloggio a una trentina di persone. Così biologi e naturalisti di diverse parti del mondo, hanno potuto visitare la riserva, come pure diversi gruppi di studenti universitari di Quito hanno fatto esperienza in campo, imparando a conoscere le migliaia e migliaia di specie animali e vegetali della foresta di Otonga, molte delle quali non hanno ancora un nome perché nessuno le ha ancora scoperte: specie diverse di farfalle, di orchidee (3.600 specie) e bromeliacee, fiori e uccelli colorati, insetti e serpenti, con i quali Giovanni Onore ha una dimestichezza sorprendente.
La nostra guida è Jessica, bimba di 11 anni, rimasta orfana con 5 fratelli due anni fa, quando la madre è morta per il morso di un serpente, mentre tagliava la canna. Giovanni si è preso a cuore la famiglia, dà lavoro e fa studiare i ragazzi.
A Otonga fratel Giovanni ha accolto varie famiglie che trovano da vivere nella conservazione della riserva e in varie attività artigianali, costruendo così una comunità grata e solidale verso il missionario italiano, come dimostra quanto è accaduto pochi giorni dopo la mia visita: alcuni banditi sono entrati nel centro di Otongachi, armi in pugno, terrorizzando e depredando gli ospitati, un gruppo di studiosi e appassionati della natura canadesi.
Ma i contadini che abitano nei dintorni si sono insospettiti, sono accorsi armati di machete, hanno circondato la foresta, chiamando rinforzi e la polizia della caserma più vicina, e insieme hanno catturato i banditi, eccetto uno, trovato poi ferito e annegato due giorni dopo.
Galapagos
«Non andare alle Galapagos – mi dice fratel Giovanni Onore -; hanno scarsa biodiversità e poi, sono molto costose…». Ma come si fa, una volta arrivati in Ecuador, a ignorare quel posto meraviglioso, quel mondo a sé stante, dallo sviluppo botanico zoologico fuori dall’ordinario, sperduto nell’oceano a mille chilometri dalla costa ecuadoriana? Disobbedisco e, la mia amica e io, partiamo con un volo da Guayaquil.
In aereo, siede accanto a me un giovane danese, che fa parte di un gruppo di 17 studenti che vivono in Ecuador grazie ai programmi di scambi interculturali. «La famiglia che mi ospita è meravigliosa e molto numerosa – mi confida -. La città dove abito è al confine col Perù, le scuole sono di livello molto basso e i ragazzi che vanno all’Università di Guayaquil devono pagare per entrare e c’è il numero chiuso».
Questi ragazzi hanno la fortuna di visitare solo qualche isola dell’arcipelago. Noi decidiamo di fermarci più a lungo, ne vale la pena. Alcune isole sono abitate da coloni, inviati nel dopoguerra dal governo. Ma poi, a partire dal 1964 il governo ecuadoriano si è reso conto dell’importanza delle isole e ha cominciato a impegnarsi per riparare i danni subiti dall’ambiente per l’introduzione di animali e piante estranee all’ecosistema.
Puerto Ayora è la cittadina più grande; alle 10 di sera il parco giochi è ancora pieno di bambini. L’atmosfera è molto diversa da quella, così tesa, che si respira nelle piazze delle città del continente.
Al parco incontro Julio e Inés, una coppia di anziani che ha ricevuto dai figli il dono di un viaggio per l’anniversario di nozze. «Siamo insieme da 50 anni – spiega Julio -. Abitiamo a nord di Quito, nella casa che ci siamo costruita, circondata da un giardino con alberi da frutta e verdura». Ora che è in pensione, da impiegato del ministero delle finanze, Julio si è comprato un’auto e, quando se la sente, fa il tassista. Con i 6 figli tutti sistemati e 11 nipoti, Inés si dà ancora da fare nel commercio di frutta e verdura, che compera ad Ambato e rifornisce i supermercati della capitale.
Pare che vi sia molta richiesta di trasferirsi sulle isole, per la vita tranquilla e l’assenza di criminalità, così diffusa nelle città ecuadoriane. Si pone così il problema di non stravolgere l’ecosistema già a rischio a causa del turismo, che quest’anno ha avuto un rallentamento a causa della crisi internazionale, dopo anni di crescita forte.
Pato, la nostra guida, vive con la famiglia a San Cristòbal, una delle isole più belle, tra quelle abitate, dove è nato da una famiglia di contadini della sierra, immigrati negli anni ‘50, inviati dal governo per colonizzare le isole. Dopo aver seguito un corso presso il centro di ricerche di Puerto Ayora, egli si è impiegato come guida naturalistica, a bordo delle navi che trasportano i visitatori nell’arcipelago. Senza una seria preparazione scientifica, Pato trova difficoltà a esprimersi e rendere interessanti le visite.
Mi rendo conto che la qualità delle guide si è abbassata, da quando visitai i luoghi 16 anni fa. Allora erano studiosi, anche stranieri, che curavano le visite delle isole. Nello stesso tempo ho notato che in alcuni casi la situazione è migliorata, gli straordinari animali endemici per cui le isole sono famose (uccelli, iguane, pinguini e otarie… ) sono aumentati. La lotta per eliminare animali estranei come le capre, sta dando i primi frutti. 

di Claudia Caramanti

Claudia Caramanti

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