«Una storia di negri»

Osvalde Lewat: donna, africana, regista

Africana, madre di famiglia. Gioalista, ma non le basta. Osvalde vuole approfondire. Ma vuole soprattutto risvegliare il senso civico e politico della gente. È convinta che le difficoltà quotidiane diminuiranno se si riesce a intervenire sulla società. Questo lo fa con i film documentari, per scuotere,
far riflettere, e far agire.

«Ho scelto di ritornare sulla storia drammatica del Comando operativo, che fu istituito dal capo di stato in Camerun tra il 2000 e il 2001, con l’obiettivo di combattere il grande banditismo. Ma rapidamente ci sono state derive, e dopo un anno ci si è resi conto che più di 1.000 persone erano scomparse, o erano state arrestate per essere interrogate e non sono mai più tornate».
Osvalde Lewat è nata nel 1976 in Camerun. È sposata ed è madre di due figli. Ha cominciato come giornalista della carta stampata lavorando per diversi anni nel suo paese, anche al quotidiano Camerun Tribune. «Ero frustrata perché ogni volta che facevo un articolo il giorno dopo era già superato». Lavorava molto sull’attualità, ma era attirata dagli approfondimenti sui temi trattati, sentiva di dover prendere del tempo per fare delle vere ricerche. «Volevo anche realizzare dei lavori che potessero restare, in un certo senso, essere rivisti».
Dopo aver frequentato l’Istituto nazionale dell’immagine e del suono di Montréal (Canada), realizza il suo primo documentario. Si interessa ai diritti degli innuit, le popolazioni indigene del Canada. Il taglio è sociale. Frequenta un corso anche alla prestigiosa Femis di Parigi (Scuola nazionale superiore dell’immagine e del suono) e realizza un documentario sulla vita di una religiosa.
Comincia a lavorare per la televisione, facendo dei programmi d’informazione. Arriva così al suo primo cortometraggio impegnato: Au-delà de la peine (Al di là della pena). È la storia vera di un carcerato in Camerun, che condannato a 4 anni, ne aveva passati 33 in prigione. Questo film riceverà diversi premi, tra cui il gran premio film televisivi in Portogallo e il premio diritti umani al festival Vues d’Afrique di Montréal.
Osvalde non si ferma, ha trovato il suo modo di essere e fare giornalismo. Unisce alla sua intelligenza e capacità tecniche una grande determinazione.
«Questo film mi ha dato voglia di andare avanti. Ho continuato quindi con i documentari quello che avevo iniziato con il giornalismo, una sorta di attrazione per i soggetti socio-politici».

Per una nuova
coscienza cittadina

Se le si chiede da cosa scaturisce questo suo «impegno» risponde: «Non so se è un giornalismo impegnato. Forse. Voglio piuttosto che gli altri, tramite i lavori che faccio, si sentano impegnati, coinvolti. Che i film portino qualcosa alla gente, al mondo in cui vivo, all’Africa. Non so se riesco sempre a farlo, ma ci provo».
E così si trova a raccontare tragedie: «Mi dicono che i miei film fanno piangere. Io ho piuttosto voglia di scuotere la gente e farla muovere. Fare in modo che ci sia più coscienza cittadina in Africa, e quindi un risveglio politico maggiore. Che la gente comprenda che ha una responsabilità sul proprio destino, quindi non può dare le dimissioni di fronte a delle questioni che sono preoccupanti nella loro società».
In Africa è difficile vivere, occorre battersi: quotidianamente ci si domanda se si riuscirà a nutrire la propria famiglia. Così molti africani non si interessano più a quello che succede nel loro mondo: «Io invece penso che cercando di far muovere la società si può riuscire a migliorare anche il proprio quotidiano. È questa la mia visione ed è per questo che faccio i film».
Nel 2005 Osvalde Lewat torna sugli schermi con il soggetto delle donne violentate in Congo durante la guerra: Une amour pendant la guerre (Un amore durante la guerra). Un punto di vista di una africana su una tragedia di africane.
Nonostante la durezza dei temi trattati, Osvalde è molto femminile e non nasconde una certa tenerezza sotto la quale fermenta una grande grinta.
Donna e realizzatrice, si rischia di avere più difficoltà in questo mestiere. «Penso che noi donne abbiamo molti più ostacoli per fare una carriera professionale. Quando si è veramente impegnate è difficile conciliare una vita di famiglia con la carriera. E questo non solo per le donne cineasta. Per noi c’è la dimensione supplementare di dover andare ai festival, assentarsi settimane per le riprese e per la promozione del film».
Come donna, cineasta, africana è ancora più complicato, ricorda Osvalde, perché: «Il cinema è un universo molto chiuso, pieno di uomini. Talvolta quando si gira ci si ritrova come sola donna con quindici uomini. Non è mai molto semplice… Anche a livello internazionale è un ambiente machista e sessista». Nonostante questo il numero di donne africane che realizzano film in tv o per il cinema è in aumento.

Una storia di «negri»

Nel 2003 decide di dedicarsi a un progetto ambizioso: un documentario sul Commandement opérationnel (letteralmente: Comando operativo). Si tratta di un corpo militare d’élite, che il presidente camerunese Paul Biya (ancora in carica) creò, con decreto presidenziale, nel febbraio del 2001. Vi facevano parte reparti scelti di esercito, gendarmeria e vigili del fuoco. L’obiettivo era quello di combattere il «grande banditismo» che imperversava la zona di Douala, la capitale economica del paese, sulla costa.
Purtroppo il «Co» (come veniva chiamato) ha una deriva violenta e diventa incontrollabile. I giovani dei quartieri spariscono, sono torturati e, il più delle volte, uccisi. In altri casi sono chiusi in piccole celle dove sono lasciati consumare per fame e sete. Se non basta, sono avvelenati.
Tutto senza processo e spesso senza prove, ma dietro semplice delazione.
Le organizzazioni inteazionali di difesa dei diritti umani, come Amnesty Inteational, la Federazione internazionale delle leghe dei diritti dell’uomo (Fidh), l’Associazione contro la tortura (Apt) e quelle locali, come la Acat (Associazione cristiana contro la tortura) denunciano persecuzioni ed esecuzioni sommarie.
Già nel novembre dello stesso anno la commissione delle Nazioni Unite contro la tortura chiede al governo del Camerun di sciogliere il corpo. Si muoverà anche l’Alto commissariato per i diritti umani.
Dopo appena un anno di attività i desaparecidos africani sono oltre un migliaio.
«Quando decisi di girare Une affaire de nègres, tutti mi dicevano: “Tu non avrai la capacità e la forza di portare a termine un progetto così difficile”. Ma poi, quando incontravo dei personaggi, mi vedevano fragile e così mi davano fiducia più facilmente. I rapporti personali sono a volte più semplici, quando si è donna. Poi ci sono finanziamenti in favore della promozione delle donne realizzatrici, e cerchiamo di approfittae».

Le vittime non
si dimenticano

«Abitavo in Camerun quando il Commandement opérationnel è stato creato ed ero più o meno nello stesso torpore dei miei concittadini, non sapendo che cosa stava succedendo. Non ero cosciente. La città in cui è successo, Douala, è conosciuta per il suo lato eccessivo e soprattutto per la sua posizione all’opposizione rispetto al governo. Leggendo i giornali si prendeva distanza rispetto ai fatti e mi ci è voluto molto tempo per rendermi conto che vicino a me un tale dramma si era consumato».
Le motivazioni che la portano a questa vicenda sono ancora una volta interiori: «È un film forse egoista, un po’ catartico, nel quale tento di fare qualcosa che non ho fatto prima. Dovevo agire. Fare in modo che questa storia sia conosciuta, in quanto lo è molto poco, e che la gente si fermi a riflettere. Volevo che le famiglie delle vittime, i cui figli sono stati sepolti come dei malfattori, accusati di banditismo senza alcuna prova, avessero la possibilità di dire: no, non erano dei banditi».
Girare un film su un tema che il governo vuole si dimentichi, a pochi anni dall’accaduto, non è impresa esente da rischi.
«Ho fatto quattro anni di ricerche prima di iniziare le riprese. Chiesi a tutta l’équipe la totale discrezione su quello che stavamo facendo. Abbiamo girato le immagini con molta prudenza e con un po’ di fortuna non ci sono stati problemi.
Certo abbiamo avuto anche paura: ogni volta che iniziavamo a prendere delle immagini non sapevamo se avremmo terminato. Mi ricordo quando siamo partiti dal Camerun, all’aeroporto tremavo e mi dicevo “avranno saputo che stiamo facendo questo film”».
Il documentario è diffuso dalla televisione francese. Viene visto anche in Camerun, nella versione Tv, un cortometraggio, nel febbraio del 2008. Al ministero camerunese della comunicazione vanno in fibrillazione e vogliono preparare un contrattacco: un video che presenti il punto di vista governativo. Ma poi non si sa più nulla.
«Ci sono state reazioni aggressive da parte del governo del Camerun, ma solo di tipo verbale – racconta Osvalde -. Sono stati sorpresi che io sia ritornata su questa storia imbarazzante, che si vuole non risvegliare. Mi hanno telefonato, e non erano molto amichevoli».

Testimoni coraggiosi

Il film presenta molte testimonianze. Familiari delle vittime, il giornalista Séverin Tchounkeu (direttore di La Nouvelle Expression), politici di opposizione. Fondamentale è il coraggioso avvocato Jean de Dieu Momo, che cura la difesa  dei parenti delle vittime in tribunale.
Struggente il racconto di madame Etaha, la vedova di uno dei nove scomparsi del quartiere Bepanda (febbraio 2001), il caso che ha creato più scalpore e quindi reazioni nazionali e poi inteazionali. I nove furono arrestati, torturati e uccisi perché sospettati del furto di una bombola di gas.
Agghiacciante invece la descrizione delle operazioni da parte di un militare, ex membro del Commandement, Rigobert Kouyang.
I testimoni, tutti residenti in Camerun, non hanno avuto problemi dopo la diffusione.
«Non che io sappia – racconta Osvalde -. Hanno raccontato in tutta coscienza. Sono stata con loro tre anni prima di girare e ho chiesto loro se erano sicuri di fare questa testimonianza. Sapevamo tutti che avremmo preso dei rischi, pur non sapendo quali. Ognuno ha avuto tempo di misurare le conseguenze del proprio impegno in questo film».
Una pellicola molto coinvolgente per tutti. «Sono questioni ancora attuali. Eravamo preoccupati per la reazione del governo». Un film mostrato pure all’estero, che attira l’attenzione della comunità internazionale.
«Anche l’équipe tecnica era cosciente dei rischi, ma tutti hanno voluto andare fino in fondo».
Osvalde ha realizzato due versioni di Une affaire de nègres, una per la televisione e un’altra, più lunga, per il cinema. Ora sta lavorando per proiettare in Camerun la versione integrale, eventualmente in dvd oppure riaprendo per l’occasione un cinema (le ultime sale cinematografiche del Camerun sono state chiuse a Yaoundé nel 2008).
«In realtà il film ha già avuto un grande impatto nel paese, è stato anche piratato e diffuso sul mercato informale. È una pagina della nostra storia che è un po’ nera, ma siamo pronti…».

Difficile reperire i fondi

Una lavorazione che dura cinque anni è costosa e soprattutto il film non è redditizio economicamente.
Uno sforzo notevole è stato fatto per reperire i fondi.
«Avere i soldi per la realizzazione è stato complicato. Non volevo fare un film senza mezzi, volevo avere un potenziale cinematografico. Purtroppo i giovani cineasti non capiscono sempre che bisogna prendere molto tempo per fare bene le cose. Ho avuto la fortuna di presentare un piccolo testo a un fondo canadese per la cultura. Non hanno dato molto, ma hanno conferito credibilità al progetto. Da lì ho ottenuto altri finanziamenti: fondi d’autore, fondi francesi per cinema africano, ecc. Occorreva però avere un pre-acquirente, un canale televisivo che si impegnasse a diffonderlo, per accedere a quei finanziamenti. Non è stato facile, poi ci sono riuscita con France 5».

Una società addormentata

Il film si chiude con interviste lampo sul marciapiede. Alla domanda: «Vorrebbe di nuovo il Commandement opérationnel?», la maggior parte della gente risponde di sì, che c’è bisogno di maggiore sicurezza.
Possibile che la gente abbia già dimenticato?
«No, non hanno dimenticato. Ma siamo in un paese dove la coscienza cittadina è quasi inesistente, mentre la delinquenza è un vero problema. La questione che pone il mio film non è se combattere l’insicurezza, ma come combatterla. Occorre fare un’analisi per capire l’origine di questo stato di cose: la gente non è istruita, è povera, ma perché?».
 «Ho voluto mostrare queste risposte a freddo per spiegare che malgrado tutto quello che è successo la gente vuole sicurezza, la reclama». Nessuno pensa che possa succedere a lui di essere arrestato arbitrariamente, torturato e ucciso. 
«È anche il segno di una società che è addormentata. In molti paesi l’accento è stato messo sulla questione sicurezza: anche in Francia e Italia. Sono le grandi questioni di oggi, e le soluzioni sono di tipo populista. La gente è contenta se ha l’impressione che ci sono misure molto forti, dure, repressive, per portare la sicurezza. Ma non si rendono conto che quando si fa un’unità speciale per combattere il grande banditismo, alla fine, tutti noi abbiamo perso».
«La gente, nonostante abbia visto quello che è successo, non è neanche cosciente che la risposta non è il Co, non è la repressione».
Il Commandement opérationnel era una risposta puntuale per combattere il gran banditismo, un problema reale che si poneva. Quando cominciarono le derive, le prove di corruzione e di abusi, questa unità speciale è comunque rimasta operativa. C’è stata poi una pressione internazionale, affinché sia fatta giustizia. In realtà, il Co non sarà sciolto ufficialmente e diventerà il «Centro operativo della gendarmeria».

Un titolo che
non si dimentica

Une affaire de nègres, (letteralmente: una questione di negri) un titolo che colpisce: «Cercavo qualcosa di un po’ schoccante, in quanto ho la sensazione che poca gente conosca questa storia. Perché è successo in Africa, è un dramma in più, una deriva in più, la gente è stanca di queste piaghe. Il fatto di essere africana e nera mi ha permesso di usare un titolo così, se fossi stata bianca magari non avrei osato. Penso che ci sia gente che pensa: “Oh, ancora una storia di negri” ma non possono esprimerlo. Volevo attraverso questo titolo prendere in contropiede queste persone, dicendo: no, è un affare umano, un dramma universale, successo in Camerun, ma quando parliamo di delazione, corruzione, impunità, ovunque siamo sulla terra, in Europa, in Africa, sono questioni che ci riguardano tutti, che ci preoccupano tutti, non è solo una storia di negri». 

di Marco Bello

Marco Bello

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