INNAMORATI DELL’UMANITA’
Anno sacerdotale
L’anno sacerdotale (19 giugno 2009 – 19 giugno 2010) indetto dal papa, avente come slogan significativo: «Fedeltà di Cristo, fedeltà del sacerdote» è una preziosa opportunità per riflettere, non solo sull’attuale momento di difficoltà legata al calo di vocazioni che si riscontra nei paesi di antica cristianità ed in particolare nel nostro paese, ma anche e soprattutto sulle positive prospettive che da sempre il sacerdozio sa esprimere in tempi e situazioni difficili.
In quest’ottica a noi interessa porre l’accento sulla missionarietà del presbitero intesa non solo in senso geografico, ma soprattutto in senso antropologico. La meravigliosa avventura di essere prete, di agire cioè come costruttore di comunità, intessendo relazioni profonde dal punto di vista umano e presiedendo la celebrazione dei sacramenti con la propria gente, pone il servizio sacerdotale in una condizione autorevole di riferimento che di generazione in generazione si è profondamente sedimentata e radicata nel cuore stesso della chiesa popolo di Dio. Va da sé che tale servizio, proprio per essere più che mai aderente allo spirito evangelico, necessita di uomini che siano tali nel vero senso della parola, capaci quindi di esprimere al meglio i talenti ricevuti sia sul piano personale come quelli acquisiti negli anni della formazione.
Q uando nel 1984 Giovanni Paolo II nel ricordo di san Carlo Borromeo visitò il santuario di Varallo Sesia, al quale era particolarmente devoto, incontrò il clero piemontese, a cui diede un mandato insolito; rivolgendosi al folto gruppo di sacerdoti che si era stretto attorno a lui, papa Wojtyla disse: «Uscite dalle canoniche, incontrate la gente, parlate con loro, fatevi raccontare problemi e speranze che attraversano i loro cuori».
Questa autorevole esortazione racchiude un profondo anelito missionario, in quanto presenta il servizio sacerdotale come un cammino continuo accanto agli uomini e alle donne di ogni tempo, mettendo così il presbitero nella condizione di poter parlare a Dio degli uomini e agli uomini di Dio. Oggi più che mai abbiamo bisogno di sacerdoti capaci di relazione, innamorati dell’umanità loro affidata, che si rispecchia nei volti di bambini, giovani, adulti, anziani che incrociando lo sguardo del «loro prete», si sentano capiti e amati più che giudicati!
Tutto ciò implica da parte dei presbiteri un continuo aggioamento del loro modo di essere e del loro modo di fare: verificare fino in fondo quanto importante sia saper «perdere tempo» con la gente, magari anche saper essere presente proprio in quei luoghi dove meno uno si aspetta di vedere la figura del prete.
L’attuale crisi economico-finanziaria che stiamo vivendo accentua in maniera drammatica la precarietà di tante famiglie dove la insicurezza del lavoro (a volte l’improvvisa mancanza di esso) si ripercuote con crisi familiari che investono rapporti tra marito e moglie, tra genitori, figli, parenti, amici e via dicendo.
La tentazione di uscie con «furbizia italica», magari passando sulla testa dei più deboli, è sempre in agguato: saper convogliare all’interno della comunità cristiana tensioni sociali e drammi familiari che, riletti nell’ottica della speranza cristiana diventano un motore di cambiamento, è un’arte difficile ma preziosissima che ogni sacerdote dovrebbe coltivare, ponendosi alla scuola di quei grandi pastori che anche nelle ore più difficili hanno saputo sostenere il loro gregge, aiutandolo a percorrere impervi sentirneri che da soli forse non sarebbero stati capaci di attraversare.
Non dimentichiamoci mai che la missionarietà, prima di essere vissuta nell’orizzonte dell’impegno ad gentes, deve essere incarnata nell’impegno verso gli altri: Gesù, a differenza di san Paolo, non si allontanò mai dalla sua terra, però ruppe barriere e frantumò schemi mentali inossidabili, come quelli degli scribi e farisei, andando verso categorie e persone tenute ai margini della società e della gente «perbene». La sua missionarietà fu dirompente proprio perché osò andare incontro a persone che l’opinione pubblica del tempo giudicava impure o indegne: l’essersi seduto a tavola con i peccatori, aver dialogato con l’adultera, aver condiviso il pane con amici che al momento della prova lo piantarono in asso, ne fa un modello di missionarietà forse meno appariscente di quello di san Paolo, ma proprio per questo alla portata di ogni presbitero che operi in Italia o nel terzo mondo e sull’esempio del Maestro di Nazareth sia fedele a Dio e amico dell’uomo, ed abbia un’ardente passione per i poveri ed i sofferenti, che arda continuamente nel proprio cuore.
Mario Bandera