Il coraggio di dire «No»

Refusenik: obiettori di coscienza israeliani

Più di 700 militari dell’esercito israeliano, arruolati e riservisti, hanno scelto di rifiutarsi di prestare servizio nei territori palestinesi occupati e obbedire a ordini di natura repressiva e aggressiva contro civili: una scelta pagata con umiliazioni e carcere.

Sono i rivoluzionari d’Israele. Pochi ma coraggiosi, e soprattutto nonviolenti, «Pacifisti» con la maiuscola: sono le svariate centinaia di cittadini israeliani, in gran parte giovani, che hanno deciso di rifiutare il servizio militare obbligatorio del proprio paese. Si chiamano refusenik, e si battono per uno scopo ben preciso: evitare di combattere laddove lo scopo non è più «difendere la patria», ma «attaccare la popolazione palestinese», ovvero nei Territori occupati, dove lo stato di Israele si è insediato dalla sua nascita, nel maggio 1948.
Quindi non rifiutano in toto le armi e la divisa di Tsahal (l’esercito israeliano, chiamato anche Idf, acronimo di Israeli defense forces), questi obiettori di coscienza sui generis: piuttosto, esercitano il loro patriottismo prendendo le distanze da quelle che considerano pratiche oppressive: l’invasione di villaggi palestinesi per scopi militari, ma soprattutto la continua avanzata delle colonie israeliane.
Tali insediamenti, sempre più grandi e numerosi (a fine 2008 erano 121, per 2.600 unità abitative e mezzo milione di abitanti), stanno via via erodendo il Territorio della Palestina originaria, oggi ridotta al 22% rispetto a 61 anni fa: quando, oltre alla fondazione di Israele, avveniva quella che viene definita da molti la nakba, la «catastrofe», termine arabo che si riferisce alla cacciata degli abitanti palestinesi dalle terre dove avevano vissuto fino a quel momento.
Il servizio militare obbligatorio in Israele occupa una parte considerevole della crescita di tutta la popolazione. Dai 18 anni in poi (è previsto il rinvio fino alla fine degli studi), i ragazzi lo devono compiere per tre anni consecutivi, le ragazze due. È un periodo davvero lungo, che non ha eguali in nessun altro stato del mondo. Ma non è finita qui: dopo questi anni, si diventa «riservisti», e lo si rimane fino a 40 anni d’età.
Tutti gli anni, ogni cittadino israeliano riservista deve prestare almeno due settimane di esercitazioni nell’esercito. Perché in caso di una guerra in cui non bastassero le forze regolari, chiunque potrebbe essere richiamato alle armi: è successo nell’estate 2006 nello scontro con il Libano, ma soprattutto è accaduto tra la fine del 2008 e l’inizio di quest’anno, nelle tre settimane dell’operazione «Piombo fuso» dell’esercito israeliano nella Striscia di Gaza.
Una guerra vera e propria, condotta senza tregua via cielo, mare e terra da Tsahal contro Hamas, il partito palestinese al potere nella Striscia, che ha però provocato almeno 1.300 vittime fra i civili (30% bambini) e la distruzione di centinaia di case ed edifici pubblici.

Una guerra che, come in passato, ha provocato però il netto rifiuto da parte di nuovi refusenik, una ventina in tutto, che si sono aggiunti ai circa 700 che, soprattutto dal 2000, con l’inizio della seconda intifada (la «rivolta», guerra civile che nei primi anni del nuovo secolo ha causato almeno 5mila vittime palestinesi e mille israeliane), hanno rifiutato di servire il proprio paese se impiegati nei Territori palestinesi.
Facendo il passo del «rifiuto motivato», questi ragazzi e ragazze sono diventati oggetto di furenti accuse, soprattutto da parte dei propri marescialli, che non hanno esitato a trascinarli davanti a una corte militare. Come è successo, più volte, a uno dei refusenik più famosi d’Israele, uno dei pochi che, oltre ad aver detto no ai propri superiori, si è esposto anche all’opinione pubblica. Finendo più volte alla gogna.
È questa la storia di Noam Livne, nato 34 anni fa in uno dei tanti kibbutz (una sorta di comunità di famiglie basata sulla vita agreste) d’Israele e residente tuttora a Tel Aviv, la città più «progressista» e tecnologicamente all’avanguardia dello stato ebraico. Negli ultimi anni Noam ha girato università e centri culturali del proprio paese e (forse in misura maggiore) all’estero, per far conoscere al mondo la realtà dei refusenik israeliani: «Una realtà fatta di coerenza, di lotta per affermare i propri ideali, per convincere altri giovani a “uscire dal guscio” e dall’incessante propaganda militare».
Il giovane israeliano, che ci parla mentre passeggia per la città con il suo cane Doobie, in una calda giornata di maggio 2009, è una persona che ha imparato a dosare bene ogni parola, perché sa che c’è molto in gioco, soprattutto per quanto riguarda la sfera personale.
Il suo ennesimo rifiuto a imbracciare le armi come riservista per l’Idf, durante la guerra di Gaza, gli è costato a fine gennaio tre giorni di carcere preventivo, ma soprattutto l’apertura di un nuovo processo di cui non sa ancora le conseguenze.
Quando aveva detto il primo «no» nel 2001, durante, appunto, la seconda intifada, Noam era stato condannato a scontare 22 giorni di prigione. Questa volta potrebbe andare peggio, e di molto. «Mi è stato detto che rischio il processo civile e che la pena può arrivare fino a due anni, mentre quella militare è al massimo un mese», spiega l’obiettore, che attualmente sta svolgendo un dottorato in Matematica all’università di Tel Aviv.
«Non capisco le ragioni di questa minaccia, ma sono pronto ad affrontare il verdetto, perché ho la coscienza pulita. Anche se suppongo che, a quattro mesi dalla fine dell’attacco su Gaza, all’esercito convenga “dimenticarsi” di me, piuttosto che condannarmi con il rischio di scatenare un putiferio mediatico senza precedenti» commenta Noam.

Infatti, proprio questo è il punto: il tenente Livne (prima del rifiuto del 2001, il giovane aveva servito Tsahal per ben sette anni, salendo nei gradi), grazie alla sua azione di disobbedienza civile, nel tempo è diventato celebre in tutto il suo paese. Soprattutto dal 2002, quando, con altri riservisti come lui, ha fondato l’associazione Courage to refuse (Coraggio di rifiutare, Ometz Le’sarev in ebraico), pubblicando su vari mezzi d’informazione nazionali il proprio manifesto politico, ovvero la Lettera dei combattenti, testo in 10 punti che ribadiva le ragioni del «no» alle armi.
Eccone un estratto: «Noi, che abbiamo visto le sanguinose conseguenze dell’occupazione, in entrambe le società, israeliana e palestinese (…) riteniamo l’ordine di combattere nei Territori come la distruzione di tutti i valori con i quali siamo cresciuti; (…) dichiariamo che non parteciperemo mai a guerre per la difesa delle colonie; ma serviremo comunque l’esercito in ogni missione che sia di natura difensiva, quindi non quelle riguardanti l’occupazione e l’oppressione del popolo palestinese».
Una presa di posizione forte, inedita per la società israeliana, che, inaspettatamente, ha riscosso un enorme successo: sono stati ben 628, nel corso degli anni, i soldati o i riservisti che hanno firmato la Lettera dei combattenti. «Ci hanno chiamato traditori, vigliacchi, oppure egoisti. Tentano spesso di convincerci a fare marcia indietro, a ritornare a combattere. Ma io, come gli altri, quando ho scelto la via illegale dell’obiezione di coscienza, e non quella medica (l’esenzione dopo aver sostenuto una visita psichiatrica per cui si veniva considerati alla stregua di “pazzi”, ndr), l’ho fatto perché ero stufo di mentire a me stesso sulle azioni del mio esercito. Per questo ho rifiutato e sono diventato attivista per la pace» chiarisce con voce risoluta Noam.

M a non c’è solo l’associazione Courage to refuse nell’universo dei coraggiosi obiettori israeliani: sono almeno altri tre (ognuno con il proprio sito internet anche in inglese, vedi link sotto) i gruppi molto attivi nel sensibilizzare la gente sull’importanza di non combattere nelle operazioni militari volte a rafforzare l’occupazione dei Territori palestinesi.
C’è, infatti, Breaking the silence (rompere il silenzio), organizzazione di veterani dell’esercito nata nel 2004. Essa si occupa di provvedere un’informazione più trasparente possibile su quanto accade nei Territori. In particolare, gli attivisti di Breaking the silence raccolgono testimonianze dei soldati dal fronte, che poi pubblicano ogni anno in un report omonimo, per far capire l’assurdità delle azioni militari israeliane e l’altro prezzo morale che la popolazione continua a pagare, mandando a combattere giovanissimi in situazioni la cui violenza porterà loro traumi successivi.
Un altro gruppo molto noto anche all’estero, Italia compresa, è Combatants for peace (combattenti per la pace), la cui particolarità è la presenza di entrambi gli «schieramenti»: da una parte soldati israeliani che hanno combattuto nei Territori occupati e che sono oggi obiettori, dall’altra palestinesi che hanno preso parte in passato alla lotta armata di resistenza.
«Oggi siamo uniti nel rifiuto di ogni violenza: siamo comunque rimasti combattenti, ma per la pace, che significa la creazione di due stati indipendenti: uno stato palestinese accanto a Israele» dicono nella loro dichiarazione d’intenti.
Ancora, c’è Yesh Gvul, (in ebraico significa «C’è un limite»), i cui volontari si occupano di supportare sotto tutti i punti di vista ogni refusenik. Tutti questi gruppi possono infine contare su una grossa rete di scambio di informazioni, la Rsn (Refuser solidarity network, rete di solidarietà per obiettori), nata nel 2002 e ancora oggi, soprattutto dopo i bombardamenti di Gaza, molto attiva nell’organizzare momenti di sensibilizzazione («il semplice rifiuto, se passivo, non basta: bisogna agire» recita un motto della Rsn) e nel tenere alta l’attenzione su cosa accade a ogni singolo soldato che dichiara la propria obiezione e che quindi, andando contro l’obbligatorietà del servizio, compie un atto fuorilegge.

Essere refusenik in Israele, oggi, significa essere disprezzato in patria, ma rispettato più che mai altrove. L’appoggio estero alla causa di questi giovani obiettori è enorme, e lo stesso Noam Livne ne è cosciente, in quanto è stato più volte invitato in Europa e Stati Uniti a tenere incontri.
In Italia, in particolare, l’associazione che più lo segue è Mondo senza guerre, che durante l’assedio della Striscia di Gaza ha diffuso via web un video (con i sottotitoli in italiano) in cui Noam spiegava «il no di noi refusenik a una guerra bieca, moralmente inaccettabile. Così come lo è il muro di separazione in Cisgiordania»; lo stesso muro che nel viaggio dello scorso maggio in Israele e nei Territori palestinesi lo stesso papa Benedetto XVI ha definito «sbagliato, destinato a non durare, a essere abbattuto».
Noam si dice contento delle parole del papa, così come dei mezzi di informazione stranieri, «che riescono a dire molte più cose di quelli israeliani, spesso poco obiettivi e manipolatori». Basti pensare che l’appoggio della società israeliana all’offensiva di Gaza è stato riportato attorno al 95%.
Di fronte a questo dato, anche la cifra dei 700 refusenik sembra irrimediabilmente piccola. «La maggior parte di noi, giovani compresi, non vuole vedere la realtà delle cose» aggiunge il tenente obiettore. Ne è un valido esempio il fatto che non abbiano avuto nessun seguito rilevante le tremende dichiarazioni, diffuse ad aprile, di soldati di leva mandati a combattere per le strade della Striscia pochi mesi prima: «Abbiamo sparato a civili inermi, distrutto case, compiuto atti vandalici e di umiliazione verso i palestinesi» dicevano questi militari.
Ma né episodi sconcertanti come questo, né il risultato delle ue, che ha visto trionfare la destra del premier Benjamin Netanyiahu, ostile alla concessione di uno stato palestinese e favorevole al proseguimento dell’avanzata delle colonie (nonostante la richiesta di sospensione del presidente degli Usa, Barack Obama), spezzano la forza di volontà e la lotta nonviolenta di Noam e compagni.
«Ci rendiamo conto che è difficile essere obiettori di coscienza in Israele, oggi più che mai. Ma noi continuiamo il nostro lavoro, perché vogliamo arrivare a vivere un’esistenza normale, non dominata dalla paura e dall’odio, fatta di rispetto reciproco tra noi e i palestinesi: crediamo profondamente che tutte le persone nascono uguali e meritano uguali diritti» afferma Noam.
Una voce dissonante la sua in patria, ma che l’esercito teme più che mai, forse ritenendola troppo «libera». Per questo, la sua storia e quella degli altri giovani refusenik israeliani va conosciuta e, perché no? diffusa. Dopotutto, la scelta della nonviolenza, nel mondo d’oggi, può ancora provocare «miracoli»: il Mahatma Gandhi, Martin Luther King, Nelson Mandela (oggi 91enne), sono profeti recenti, del secolo scorso. E se uno di quelli del XXI secolo arrivasse proprio dalla Terra promessa, dandole la pace vera e quindi avvicinando la Gerusalemme terrena a quella celeste? Perché no?

di Daniele Biella

Daniele Biella