Il racconto delle nozze di Cana (6)
D opo la lunga, eppure incompleta introduzione sul quarto vangelo e alcuni problemi che esso suscita ancora negli studiosi, passiamo al testo del racconto. I nostri lettori comprendono bene che la povera introduzione per quanto possa apparire ampia nel contesto di una rivista come Missioni Consolata, è del tutto insufficiente a delineare la problematica che ruota attorno all’«enigma del quarto vangelo». È appena sufficiente, però, se ci aiuta a capire che mai dobbiamo leggere i vangeli con superficialità, perché essi sono come un iceberg: ciò che vediamo è solo la punta, mentre la massa enorme che la regge, è tutta nascosta sotto l’acqua. Bisogna scendere in profondità se vogliamo scoprire i mille significati che la Parola di Dio porta in sé come una donna incinta pronta a dare la Vita.
Riportiamo il testo delle nozze di Cana (Gv 2,1-11) secondo l’ultima edizione della Bibbia Cei (2008), messa a confronto con una nostra traduzione dal testo greco:
Il testo
Traduzione Cei (2008)
2,1Il terzo giorno vi fu una festa di nozze a Cana di Galilea e c’era la madre di Gesù.
2Fu invitato alle nozze anche Gesù con i suoi discepoli.
3Venuto a mancare il vino, la madre di Gesù gli disse: «Non hanno vino».
4E Gesù rispose: «Donna, che vuoi da me? Non è ancora giunta la mia ora».
5Sua madre disse ai servi: «Fate quello che vi dirà».
6Vi erano là sei giare di pietra per la purificazione dei giudei, contenenti ciascuna due o tre barili (= da 80 a 120 litri ciascuna).
7E Gesù disse loro: «Riempite d’acqua le giare»; e le riempirono fino all’orlo.
8Disse loro (di nuovo): «Ora attingete e portatene al maestro di tavola». Ed essi gliene portarono.
9E come ebbe assaggiato l’acqua diventata vino, il maestro di tavola, che non sapeva di dove venisse (ma lo sapevano i servi che avevano attinto l’acqua), chiamò lo sposo
10e gli disse: «Tutti servono da principio il vino buono e, quando sono un po’ brilli, quello meno buono; tu invece hai conservato fino ad ora il vino buono».
11Così Gesù diede inizio ai suoi miracoli (lett.: Gesù operò questo principio dei segni) in Cana di Galilea, manifestò la sua gloria e i suoi discepoli credettero in lui.
Traduzione letterale
2,1Il terzo giorno vi fu una festa di nozze a Cana di Galilea e vi era là la madre di Gesù.
2Fu invitato alle nozze sia Gesù che i suoi discepoli.
3Essendo venuto a mancare il vino, la madre di Gesù dice a lui: «Non hanno vino».
4E Gesù le dice: «Che cosa a te e a me, donna? Non è ancora giunta la mia ora».
5Sua madre dice ai servitori/diaconi: «Fate quello che vi dirà».
6Vi erano poi là, collocate (per terra), sei giare di pietra, per la purificazione dei Giudei, contenenti ciascuna due o tre barili.
7E Gesù dice loro: «Riempite d’acqua le giare»; e le riempirono fino all’orlo.
8E dice (= ordinò) loro: «Ora cominciate ad attingere e continuate a portare al maestro di tavola». Ed essi cominciarono a portare.
9E come ebbe assaggiato l’acqua diventata vino, il maestro di tavola, che non sapeva di dove (venisse), ma lo sapevano i servitori/diaconi che avevano attinto l’acqua, chiama lo sposo
10e gli dice: «Tutti servono per primo il vino buono e, quando sono un po’ brilli, quello meno buono; tu invece hai conservato il vino buono (lett.: bello) fino ad ora».
11Questo principio dei segni Gesù fece in Cana di Galilea e manifestò la sua gloria e i suoi discepoli cominciarono a credere in lui.
12 Dopo questo fatto, discese a Cafàao lui insieme con sua madre, i (suoi) fratelli e i suoi discepoli e si fermarono là solo non molti giorni.
Una gemma nel NT
In greco il brano si compone di 185 parole nei primi 11 versetti; 209 se si considera il versetto 12 come parte integrante del racconto, passaggio di transizione. Una manciata di parole che formano un capolavoro letterario, ma anche una gemma in tutto il NT: il racconto di Cana infatti è esclusivo di Giovanni. L’autore narra un quasi ordinario della vita di tutti i giorni: anche al tempo di Gesù i matrimoni erano all’ordine del giorno.
Qui però, l’autore riferisce di una festa di nozze non per celebrare il valore del matrimonio, ma per annunciare che la nuova alleanza, portata da Gesù di Nazaret, è una realtà sponsale e realizza la nuzialità descritta nell’AT (Toràh e Profeti) e mai compiuta adeguatamente per l’infedeltà di Israele/sposa (ripudiata con l’esilio).
Al tempo di Gesù, il matrimonio era un evento civile e si svolgeva nelle case con un contratto tra le due famiglie dei nubendi, consacrato dallo scambio della dote. In una società teocratica tutto ciò che accadeva avveniva all’insegna del senso religioso della vita e della società. La presenza di Gesù alle nozze di Cana non santifica alcun matrimonio, ma assume su di sé la dimensione sponsale della storia di Israele e dell’alleanza per annunciarla con maggiore forza e trasparenza.
Giovanni Battista lo aveva già indicato come «colui che viene dopo di me» (Gv 1,15.27.30) che nel linguaggio del tempo indica «lo sposo» il cui arrivo è preceduto dall’amico dello sposo (cf Gv 3,39). Gesù viene per rinnovare l’alleanza a lungo tradita e realizzare l’anelito del profeta Geremia: «Ecco verranno giorni… nei quali con la casa d’Israele e con la casa di Giuda concluderò un’alleanza nuova (ebr.: berît chadashàh; gr.: diathêkēn kainên») (Ger 31,31). Ora nella persona di Gesù, è Dio stesso che assume in sé il progetto della nuzialità e se ne fa garante nell’umanità del Figlio come prospettiva del Regno.
Un fatto, anzi di più: un simbolo
Come si vede dalla traduzione letterale, il racconto abbonda in greco di verbi al presente indicativo, chiamato «presente storico», invece del «passato remoto», tipico della narrazione storica, per dare al racconto vivacità e contemporaneità agli occhi di chi legge. In questo metodo il lettore si sente portato di peso «dentro» il racconto e ne diventa parte integrante. L’edizione della Cei traduce, di regola, con il passato remoto, rendendo così il testo neutro davanti al lettore. Nel brano vi è un continuo passaggio tra gli 8 verbi al «passato remoto» (in greco chiamato «tempo aoristo») e i 7 verbi che invece sono al «presente indicativo» (chiamato «presente storico» proprio perché prende il posto del «passato remoto/aoristo»). In mezzo vi sono altri verbi secondari (ad es. l’imperfetto) che hanno una funzione di sfondo per chiarire le circostanze e aggiungere elementi di contorno.
Interessante, da questo punto di vista il v. 8 dove secondo la versione ufficiale Gesù ordina ai servitori/diaconi: «Ora attingete e portatene al maestro di tavola. Ed essi gliene portarono». Detto così nessun problema perché è la relazione di una cronaca. Eppure nel testo greco l’autore ragiona in un altro modo attraverso l’uso sapiente dei verbi che possono essere tradotti così: «E dice loro: “Ora cominciate ad attingere e continuate a portare al maestro di tavola”. Ed essi cominciarono a portare».
Nella nostra traduzione mettiamo in evidenza l’intenzione dell’autore che usa un tempo (per noi è il passato remoto, per i greci è l’aoristo) che ha qui un valore «ingressivo», perché descrive un’azione nel suo nascere, nella fase iniziale: «cominciate ad attingere», mentre l’imperativo seguente ha un valore «durativo e continuativo», senza interruzione: «continuate a portare» perché il vino della nuova alleanza non si esaurirà più.
Possono sembrare osservazioni di lana caprina, ma non lo sono: si tratta del «senso della Parola di Dio». Una cosa è «attingete e portatene» e un’altra cosa è «cominciate ad attingere e continuate a portare». A noi pare che in questo modo l’autore voglia sottolineare una pregnanza teologica di altissimo livello: le nuove nozze dell’alleanza, che si realizzano con la presenza di Gesù, cominciano ora (cominciate ad attingere) e non finiranno mai (continuate a portare): inizia una nuova èra che non avrà mai fine.
Sullo stesso piano sta un’altra osservazione: per 6 volte si trova il verbo «dice», al presente, come se le parole di Gesù, i suoi gesti e gli eventi che lo circondano fossero qui davanti a noi che leggiamo: egli parla e agisce «adesso» [= dice], non ieri o l’altro ieri [= disse].
Oltre le apparenze, il livello profondo
Non si tratta solo di un espediente narrativo per rendere più partecipe il racconto, ma noi vogliamo credere che si voglia affermare anche l’attualità della Parola di Dio che resta «presente in modo continuativo» nella nostra storia e nella nostra vita. La Parola di Dio non è un resoconto storico del passato, ma la Vita che è qui, adesso.
Le nozze di Cana non sono un racconto banale chiuso nel passato della vita terrena di Gesù, ma l’occasione propizia (kairòs) qui e adesso per chiunque si lascia interpellare dall’annuncio della nuova alleanza che non è per l’Israele antico, ma è per l’Israele di oggi e di domani che siamo noi. Dio in Gesù si fa nostro contemporaneo e quelle parole dette oltre due mila anni fa, ora, adesso e qui, diventano Parola di salvezza per ciascuno di noi. Ora Gesù «dice»; ora noi ascoltiamo ciò che egli «dice».
Diamo subito alcune informazioni di contorno che ci permettono di semplificare il commento che faremo.
Nel racconto delle nozze di Cana ci troviamo di fronte a due livelli di lettura: quello materiale e quello più profondo che dobbiamo scoprire oltre le parole ovvie. Il primo livello è presto liquidato, perché si tratta di uno sposalizio come tanti, a cui viene invitato Gesù, i suoi discepoli e sua madre. Il testo non dice il motivo di questo invito: se fu per ragioni di parentela o perché la fama del giovane rabbi Gesù era ormai diffusa e la sua presenza avrebbe dato onore e lustro ai partecipanti e a tutto il villaggio.
Al tempo di Gesù il matrimonio si svolgeva sempre di martedì, perché, secondo la Mishnàh (Kethuboth 1; per la datazione e interpretazioni, cf Brown, Giovanni, vol 1,125-126), il matrimonio deve essere celebrato «il terzo giorno» dopo il sabato, per tre motivi, dei quali diamo alcune informazioni estee; nella prossima puntata affronteremo in modo dettagliato la questione del «terzo giorno».
Tre motivi per «il terzo giorno»
I primi due motivi per la scelta del «martedì» come giorno del matrimonio sono di natura teologico-salvifica, mentre il terzo, di origine post-esilica, ha solo una valenza pratica legata alle usanze del tempo di Gesù.
a) La doppia fecondità del terzo giorno della creazione
Nel racconto della creazione, redatto dal circolo dei sacerdoti nel sec. V a.C., dopo la luce, creata nel 1° giorno (Gen 1,3-5) e il firmamento, disteso nel 2° giorno (Gen 1,6-8), nel 3° giorno Dio pone mano a due nuove realtà: terra ferma e germogli che producono semi e alberi da frutto (Gen 1, 9-13). In questo 3° giorno, fatto unico in tutto il racconto, per due volte dice il testo che «Dio vide che era cosa buona» (Gen 1.10.12). Questa affermazione non è solo una constatazione, ma anche un giudizio di valore: si tratta di due approvazioni da parte di Dio.
In altri termini le due affermazioni corrispondono a due benedizioni: alla terra madre creata e ai germogli che la fecondano. La tradizione giudaica stabilì quindi il matrimonio al terzo giorno dopo il sabato per affermare che il matrimonio è sotto la protezione della duplice benedizione di Dio creatore che custodisce la sposa come «vite feconda» (Sal 128/127,3). Il giorno della doppia fecondità della creazione, è il giorno più adatto per celebrare la fecondità dei figli d’Israele.
b) La Toràh è pronta per il terzo giorno
Il secondo motivo per celebrare il matrimonio il terzo giorno sta nel fatto di commemorare la manifestazione del Signore ai figli d’Israele sul Sinai per dare loro la Legge, come è scritto: «Va’ dal popolo e santificalo oggi e domani: lavino le loro vesti e si tengano pronti per il terzo giorno, perché nel terzo giorno il Signore scenderà sul monte Sinai, alla vista di tutto il popolo» (Es 19,10-11.16).
Ai piedi del Sinai, nel terzo giorno Yhwh si è comportato come uno sposo, perché ha acquistato il popolo d’Israele (Es 15,16) come sua sposa, legandosi irreversibilmente attraverso la dote della Toràh. Celebrare il matrimonio il terzo giorno dopo il sabato per Israele ha il significato di «imitare Dio» perché tutti i figli di Israele acquistano una sposa per una discendenza alla promessa di Abramo (cf Manns, Il Giudaismo 85; Jésus 72).
Non è un caso che le nozze sono collocate in un villaggio di nome «Cana», della cui identificazione geografica abbiamo già parlato, trattando della localizzazione del villaggio: Khirbet Qana (Altura di Qana), località probabile, oppure Kefer Kenna (villaggio di Kenna), dove attualmente vanno i pellegrini (cf MC 3/2009). Qui c’interessa sottolineare che in ebraico «Cana/Qana/Kana» deriva dal verbo «qanàh» e significa «acquistare/comprare/creare». Già nel nome del villaggio c’è il segreto del messaggio che Paolo espliciterà in modo formale nella lettera ai Corinzi: «Siete stati comprati a caro prezzo» (1Cor 6,20; 7,23). Gesù viene per prendere possesso d’Israele proprietà di Dio, popolo che egli ha acquistato (Es 15,16).
c) La verifica della verginità in tribunale
La scelta del martedì (3°giorno dopo il sabato) come giorno del matrimonio era determinato da un altro motivo di ordine pratico. Il tribunale infatti si riuniva il giorno dopo, cioè il mercoledì, per cui era possibile accedervi subito dopo la prima notte di nozze, in caso che la sposa non fosse stata trovata vergine (cf. Manns, Il Giudaismo 85).
La prima notte di nozze era sempre sotto i riflettori delle due famiglie interessate che erano in agguato di mostrare in pubblico «i segni» della verginità della sposa. Di norma si esponevano in pubblico le lenzuola macchiate di sangue. In caso di contestazione il matrimonio doveva essere subito sciolto e per questo occorreva la possibilità di accedere al tribunale rabbinico, l’unico che poteva dichiarare invalide le nozze. Questa usanza ai nostri occhi è di natura barbara e violenta perché considera la donna come una proprietà «materiale» dell’uomo.
Il riscatto delle donne, apostole degli apostoli
La religione ha molte responsabilità nell’avere indotto una mentalità maschilista che ha sempre visto nella donna il pericolo, il male se non il diavolo in persona; salvo però servirsi della donna a piacimento per i propri ca-pricci e in funzione dei propri istinti. Se da una parte la scelta del «terzo giorno» per celebrare il matrimonio ha un valore simbolico altissimo, perché rappresenta sulla terra l’azione creatrice di Dio che si conclude con «due benedizioni» e afferma quindi la fecondità infinita dell’alleanza, dall’altra parte scegliere il terzo giorno in vista di potere accedere al tribunale, riduce il matrimonio a un rapporto di forza, un contratto mercantile: è la donna che deve dimostrare di essere «vergine», non l’uomo che invece può frequentare le prostitute senza dovere rendere conto a nessuno (cf Gen 38,14-18; Gdc 16,1).
Nella mentalità religiosa del tempo, la donna è colpevole per avere sedotto l’uomo fin dai tempi primordiali e questo la rende inferiore, non-persona, senza diritti, incapace giuridicamente di testimoniare in tribunale: essa è mera proprietà dell’uomo come stabilisce il comandamento: «Non desidererai la casa del tuo prossimo. Non desidererai la moglie del tuo prossimo, né il suo schiavo né la sua schiava, né il suo bue né il suo asino, né alcuna cosa che appartenga al tuo prossimo» (Es 20,17).
Gesù romperà questa perversa mentalità e affermerà il diritto della donna di essere «figlia di Abramo» sullo stesso piano degli uomini (Lc 13,16). Alle donne, anzi, affiderà il primo annuncio della sua risurrezione, trasformandole in apostole degli apostoli e testimoni necessarie della sua risurrezione (cf Gv 20,1-18). Nelle nozze di Cana, come vedremo, una dei protagonisti è una donna, «la Madre», che determina gli sviluppi degli eventi e svolge un ruolo significativo di rappresentanza.
Come è strano questo matrimonio! Manca la sposa che non è nemmeno nominata e domina «la Madre» di Gesù, donna che assume su di sé le attese e i travagli del suo popolo Israele per accompagnarlo a varcare la soglia della nuova alleanza. È interessante sottolineare, come faremo a suo tempo, che l’evangelista mette sullo stesso piano «la Madre di Gesù» (v. 1) e le «giare di pietra» (v. 6).
Per tutte e due si usa il tempo imperfetto del verbo essere, tempo secondario che spiega le circostanze di contorno, e per tutte e due usa l’avverbio di luogo «ekèi – là». La corrispondenza non è casuale né occasionale: «Vi era là la madre di Gesù», che corrisponde a «vi erano poi là, sei giare di pietra» e che simboleggiano tutta l’economia dell’antica alleanza; Maria in rappresentanza del suo popolo e le giare per la purificazione dei giudei in rappresentanza della Toràh.
La prospettiva dunque dell’evangelista non si esaurisce nell’angusto confine di uno sposalizio, ma valica i confini di Cana per stagliarsi su tutta la storia della salvezza, specie dell’esodo, di cui il racconto delle nozze di Cana è una ripresa nella forma di un midràsh cristiano. Di questo parleremo la prossima volta.
(continua – 6)
Paolo Farinella