Il sistema è giusto: mercato sì, stato no

Neoliberismo e pensiero unico
Buenos Aires 1 / Incontro con l’ex ministro Domingo Cavallo

A Buenos Aires, abbiamo incontrato Domingo Felipe Cavallo, economista di scuola neoliberista, plurilaureato, per tre volte ministro dell’Argentina. In questa intervista, Cavallo difende le scelte fatte nel suo passato di ministro, attacca i politici di oggi e conferma la validità delle tesi economiche neoliberiste, che mettono il libero mercato al centro di tutto. Nelle sue risposte non manca neppure qualche riferimento
ai bonos dello stato argentino, tristemente famosi anche tra migliaia
di risparmiatori italiani…

Vuoi ascoltare il reportage?
Un resoconto audio di questo incontro è disponibile sul sito
www.rivistamissioniconsolata.it. sezione “Ascolta”.
La trasmissione fa parte del programma radiofonico «Cartoline dall’Altra America»,
trasmesso dall’emittente Radio Flash di Torino e curato da Paolo Moiola.


Buenos Aires. Sui giornali si parla dell’ultimo libro di Domingo Felipe Cavallo. Proprio lui: l’ex ministro dell’economia divenuto famoso, nel bene e nel male, prima (1991) per la legge che istituiva la parità tra la valuta argentina e il dollaro statunitense e poi (2001) per aver bloccato nelle banche i soldi di tutta una nazione. Scriviamo al suo blog per chiedere un incontro. Qualche ora dopo siamo contattati dal solerte ufficio stampa che ci invita per il tardo pomeriggio nella sua casa alla Recoleta, uno dei quartieri più eleganti di Buenos Aires.
L’indirizzo al quale dobbiamo presentarci corrisponde a quello di una elegante villa.
Ci apre e ci dà il benvenuto un collaboratore del padrone di casa. Dopo pochi minuti veniamo accompagnati al primo piano. Entriamo in uno studio alle cui pareti fanno bella mostra di sé i diplomi di laurea di svariate università del mondo, tra cui ben 3 italiane: Bologna, Genova e Torino.
«Sono quasi tutte lauree honoris causa – ci spiega il nostro ospite appena entrato nello studio -. Quelle guadagnate sul campo – ce le indica con un cenno della mano – sono appese lì: Università di Harvard e Università di Cordoba».
Di ascendenze piemontesi, Domingo Felipe Cavallo è un personaggio che ha segnato – e non c’è timore di smentita al riguardo – la storia recente dell’Argentina e sul cui operato ancora oggi il dibattito è accesissimo, anche se i giudizi negativi o molto negativi sembrerebbero prevalere.
Faccia sveglia, voce decisa e squillante, modi cortesi, l’ex ministro ci fa sedere davanti alla sua scrivania, carica di libri e di qualche oggetto ricordo, come una statuetta del «toro rampante» simbolo della città di Torino.

Da Carlos Menem
a Feando De la Rúa

Dottor Cavallo, lei è un professore di economia, ma è diventato famoso come politico. Come preferisce essere chiamato?
«Sono prima di tutto un economista, attivo in ambito accademico».

La sua fama è però dovuta ai suoi periodi come ministro di questo paese. Qual è il suo consuntivo?
«Con De la Rúa non andò bene, soprattutto perché, all’epoca, ci fu molta gente che mi incolpò di tutti i mali dell’Argentina.
Però, con Menem – prima come ministro degli esteri e poi come ministro dell’economia – ho favorito un cambio che era assolutamente necessario per l’Argentina.
Con Menem fu un periodo di grandi riforme, in politica estera e in materia di organizzazione del sistema economico argentino. Con De la Rúa fu un periodo di crisi, dovuto a circostanze inteazionali sfavorevoli e con il paese che aveva accumulato una serie di problemi, che condizionarono molto il modo di affrontare la situazione. Inoltre, con la coalizione De la Rúa la mia posizione era molto debole, mentre con Menem fu il contrario, perché la sua coalizione di centrodestra appoggiava compattamente le riforme che si volevano introdurre.
Visto in prospettiva storica, il mio lavoro ha prodotto buoni risultati».

Lei parla con orgoglio del suo (lungo) periodo come ministro dell’economia durante la presidenza di Carlos Menem. Quali considera i suoi successi?
«È abbastanza semplice. Con Menem passammo da un’economia chiusa al mondo ad un’economia aperta con investimenti, commercio, buone relazioni inteazionali. Prima avevamo problemi non soltanto con la Gran Bretagna (per le Malvinas), ma anche con il Brasile, il Paraguay, la Bolivia, il Cile. Risolvemmo tutti questi conflitti. L’Argentina si integrò al mondo e questo fu il primo grande cambio.
Il secondo fu l’eliminazione dell’inflazione che era un problema cronico del paese e ultimamente si era trasformata in iperinflazione. Fino al 5.000 per cento all’anno! Dal 1991 in avanti inaugurammo un periodo di stabilità, simile alla stabilità europea e nordamericana, che durò 11 anni, precisamente fino al 2001.
Questi successi economici furono possibili anche perché avevo preparato il terreno durante l’anno e mezzo come ministro degli esteri».

Oggi un dollaro Usa vale oltre 3,5 pesos. All’epoca di Menem, la misura più famosa fu la parità cambiaria tra dollaro Usa e peso argentino. È ancora convinto della giustezza di quella decisione?
«Naturalmente sono convinto della sua giustezza! Ma è improprio spiegarla con l’equivalenza – 1 a 1 -del peso con il dollaro. La convertibilità consisteva nel fatto che gli argentini potevano convertire liberamente il peso in altre monete e utilizzare liberamente nei contratti e nelle transazioni la moneta che volevano. La parità del peso con il dollaro durò 11 anni, ma doveva terminare prima.  Infatti, quando nel 2001  entrai nel governo De la Rúa cercai di formalizzare un paniere monetario in cui entrasse anche l’euro. Ma ormai era tardi».

È abbastanza naturale chiedersi come si può avere una moneta nazionale di valore identico al dollaro (o altra valuta) quando un’economia è molto più debole dell’altra…
«Questo non ha niente a che vedere, perché la moneta è una convenzione. Non c’entra nulla con i livelli di produttività di un paese. Comunque, la convertibilità non avrebbe dovuto essere abbandonata.   Avendolo fatto, oggi l’Argentina si ritrova con un’inflazione annuale che supera il 20 per cento».

L’Istituto nazionale di statistica e censo (Indec) parla di un’inflazione ben inferiore…
 «È una delle tante barbarie commesse da questo governo. Ha distrutto quel prestigioso istituto, mettendolo in mano a funzionari che invece di fare statistiche corrette mentono per nascondere l’inflazione».

La crisi delle banche di questi mesi fa ricordare la crisi argentina del 2001, quando lei introdusse una misura altamente impopolare conosciuta come corralito. Ci furono manifestazioni di piazza e gli istituti di credito erano sotto assedio…
«Il corralito fu una misura necessaria per frenare la corsa al ritiro dei depositi bancari. Precisiamo una cosa, però: la gente non poteva ritirare il contante, ma poteva disporre dei propri risparmi con altri strumenti, come carte di debito, assegni, trasferimenti bancari. Sarebbe stato peggio se si fossero chiuse le banche. Poi, Duhalde e i suoi fecero cadere il governo di De la Rúa e instaurarono il corralón con l’obiettivo di appropriarsi del risparmio della gente, per alleggerire il debito pubblico e soprattutto quello privato dei grandi gruppi economici».

Può spiegarci in parole semplici in cosa si tradusse praticamente il corralón introdotto dal governo di Duhalde?
«Con la pesificazione dei depositi e la svalutazione del peso rubarono ai risparmiatori per avvantaggiare i grandi gruppi industriali, tra cui i principali gruppi editoriali del paese, che per questo tornaconto si prestarono all’operazione del governo, confondendo l’opinione pubblica e demonizzando il sottoscritto». 

Lei si riferisce al gruppo che fa capo al Clarín (il più grande quotidiano argentino, ndr)?
«Preferisco non fare nomi».

Quelle decisioni influirono anche sui bonos (bonds, in inglese, ndr) dello stato che erano stati venduti in tutto il mondo, in primis in Italia?
«Certo. Rubarono non soltanto agli argentini, ma a tutti quegli stranieri  che avevano confidato nell’Argentina. Insomma, agli italiani o agli altri stranieri che avevano investito i loro risparmi in bonos argentini decisero di restituire soltanto il 30 per cento del valore. Queste ragioni economiche furono il vero motivo del golpe istituzionale del dicembre 2001».

È difficile capire come mai un paese tanto ricco come l’Argentina abbia conosciuto (e conosca) la povertà…
«Inizialmente perché, dal 1940 agli anni Novanta, l’Argentina si isolò dal mondo. C’erano bassi salari e il loro valore era deteriorato dall’inflazione, che è il metodo ideale per fabbricare poveri. Con le riforme che noi facemmo nella decade del Novanta il panorama cambiò molto e in positivo.
Dal 1998 la povertà aumentò di nuovo, raggiungendo il massimo nel 2002, dopo la svalutazione di Duhalde. Poi si abbassò per fattori inteazionali, come il boom dei prezzi della soia, di cui l’Argentina è una grande esportatrice. Il problema è che il governo cominciò a distribuire i maggiori introiti non per investimenti produttivi o per occupare la gente, ma per motivi patealistici. Nestor Kirchner guadagnò in popolarità e riuscì anche a far eleggere la moglie come presidenta degli argentini. Adesso però la situazione è di nuovo grave, perché abbiamo recessione con inflazione».

Lei è conosciuto come uno strenuo neoliberista. Volendo essere sintetici, possiamo dire che le parole d’ordine del neoliberismo sono: molto mercato e poco stato?
«Guardi, questi non sono termini adeguati. Le economie possono essere di due tipi: o economie aperte (come sono quasi tutte le economie del mondo, Cina inclusa) o economie dove interviene lo stato. Per le prime non si può parlare di neoliberismo o liberismo, si tratta di economie di mercato, aperte, competitive, integrate al mondo, che cercano la stabilità dei prezzi, perché considerano che inflazione e deflazione siano eventi negativi per il funzionamento dell’economia.
Poi ci sono economie in cui lo stato – in maniera arbitraria ed imprevedibile – senza stabilire regole del gioco, ma attraverso decisioni autoritarie, tende a prendere la maggior parte delle decisioni economiche. Un caso estremo, storicamente finito, è stato quello del comunismo della Russia e della Cina all’epoca di Mao.
Sfortunatamente hanno adottato questo sistema dell’economia di stato molti paesi arretrati del mondo, tra cui molti latinoamericani: Venezuela, Bolivia, Ecuador, Nicaragua, Cuba (che è stata la prima). E purtroppo anche l’Argentina, che va nella direzione dello statalismo e dell’economia chiusa, invece di seguire l’esempio di Cile, Brasile, Perù, Uruguay e della maggior parte dei paesi centroamericani.
Riassumendo senza andare troppo lontani: in America Latina ci sono due classi di paesi. Quelli che avanzano verso il futuro e  quelli che stanno tornando al passato con il protezionismo e l’isolamento».

Lei è molto critico verso il suo paese e in particolare verso la gestione dei Kirchner. Perché?
«In primis, è compito dello stato fissare le regole del gioco dell’economia; quindi, occorre creare un regime monetario e farlo funzionare. In Argentina, oggi non si sa come si determina il valore della moneta e nessuno può trattare liberamente valute straniere (se non nei limiti fissati dal Banco centrale). Nessuno poi ha fiducia nella moneta nazionale, perché abbiamo un’inflazione annua del 20 per cento. In tutto questo lo stato argentino è assente. Come è assente nella difesa del diritto di proprietà. Così è stato, nel 2002,  per i risparmiatori argentini e per i detentori stranieri, in primis italiani, dei bonos, i titoli pubblici. Lo stato è dunque assente in una questione fondamentale.
 Al contrario, lo stato si intromette nelle decisioni di investimento delle imprese private, imponendo tasse distorsive ad un soggetto per favorire un altro. Questo tipo di statismo crea occasioni di corruzione e di privilegio. Purtroppo, è la filosofia che si sta imponendo in Argentina».
   
Secondo lei, cosa deve fare uno stato?
«Lo stato deve finanziare la scuola primaria e secondaria e buona parte dell’università. Deve provvedere un’assicurazione sanitaria a tutti i cittadini. Deve organizzare un sistema pensionistico e contro la disoccupazione. E soprattutto deve offrire ai cittadini un sistema di sicurezza, perché uno stato dove c’è crimine, si ruba e si uccide, dove non hai sicurezza fisica, è uno stato che non esiste.
Queste sono le funzioni su cui uno stato dovrebbe concentrarsi. Quando invece vuole sostituirsi al soggetto privato nelle decisioni economiche, sbaglia».
Ai tempi di Carlos Menem, in questo paese si privatizzò di tutto. Le privatizzazioni sono uno strumento adeguato?
«Dipende da ciò che si privatizza. Responsabilità dello stato è di finanziare un sistema di salute. Poi le prestazioni sanitarie possono essere foite dal pubblico o dai privati. Se lo stato proibisse di avere ospedali privati, commetterebbe un gravissimo errore, perché in genere questi offrono livelli di prestazioni migliori rispetto agli ospedali pubblici. La competizione tra pubblico e privato è importante. L’importante è che la popolazione abbia una copertura sanitaria.
Identicamente per l’istruzione: ci sono scuole pubbliche e scuole private. Quella pubblica è finanziata dallo stato, mentre quella privata può avere dei contributi se tiene basse le rette d’ingresso».

In Argentina, esiste una tradizione pubblica sia per il sistema educativo che per il sistema sanitario. Peccato che per scuole ed ospedali manchino sempre i fondi…
«Perché si stanno spendendo 10 mila milioni di dollari all’anno per sussidiare il trasporto urbano, l’energia, una marea di attività, indipendentemente dal costo di produzione. Sottraendo risorse finanziarie alla salute, all’educazione, alla sicurezza. C’è un cattivo utilizzo delle risorse pubbliche, cosa che non accadde nel decennio degli anni Novanta, quando lo stato si concentrò sui propri compiti fondamentali.
All’epoca, chi fece investimenti nei trasporti, nell’elettricità, nella comunicazione, nel petrolio? Il settore privato. Per questo vennero molti investitori dall’estero.
Dal 2002 non ci sono più stati investimenti e lo stato ha dovuto iniziare a costruire centrali elettriche, a sovvenzionare le perforazioni per il gas. Intervenendo sempre in maniera inefficiente ed ingiusta in settori che dovrebbero essere di competenza del mercato e dell’economia privata. Se non fosse intervenuto, oggi avrebbe molte più risorse da destinare alla salute, alla sicurezza, alla giustizia».

Dottor Cavallo, dal settembre 2008 paesi ultraliberisti come gli Stati Uniti e la Gran Bretagna stanno intervenendo massicciamente nell’economia. Questo è un dato di fatto innegabile…
«Sì, sta avvenendo, ma non ha niente a che vedere con un cambio di organizzazione economica, di sistema. Semplicemente, quando c’è una recessione è ovvio che lo stato debba tentare di aumentare la domanda effettiva attraverso l’applicazione di politiche fiscali e monetarie».

Se non si tratta di una revisione de facto del capitalismo, si tratta però di politiche  keynesiane, fino a poco tempo fa neglette dalla maggioranza degli economisti e dei governi…
«Quando le politiche keynesiane sono buone? Lo sono quando, in momenti di auge, di boom, sono ristrettive mentre sono espansive in momenti di recessione. Sono politiche compensatorie rispetto al ciclo economico.
Sfortunatamente quelli che si fanno chiamare keynesiani (e che io chiamo invece statalisti-populisti) applicano in periodi di boom politiche espansive, accumulando debiti invece che avanzi di bilancio con quelle fiscali, e producendo inflazione con quelle monetarie. Quando arriva la recessione, ovvero il momento in cui dovrebbero applicare politiche espansive, non le possono applicare, perché non hanno più credito e non possono creare moneta per non alimentare altra inflazione.
Oggi nel mondo – in Europa, Stati Uniti, Giappone, Cina, Brasile, Messico, Cile – è ragionevole che lo stato finanzi aumenti della spesa pubblica, diminuzione delle imposte e allentamento delle politiche monetarie. Ma non da parte di quei paesi che lo hanno fatto in periodi di boom, quando le politiche avrebbero dovuto essere di segno opposto. Ebbene, oggi questi paesi non possono affrontare la recessione, perché non hanno credito e hanno troppa inflazione. Ad esempio, Argentina e Venezuela, per rimanere qui in America Latina».

Dottor Cavallo, non ci ha spiegato le cause che, secondo lei, hanno prodotto questa crisi…
«Per le stesse ragioni per cui si sono prodotte le crisi finanziarie. Per un eccesso di ottimismo, soprattutto da parte dei banchieri.
Il mondo lo supererà in uno o due anni. Per l’Argentina sarà più lungo recuperare per colpa dell’attuale governo».

Nessun potere pubblico ha controllato le banche, il sistema finanziario, gli intermediari, gli speculatori…
«Sì, è mancata una regolazione.  Si doveva chiedere alle banche e agli intermediari finanziari di essere molto più conservatori di quanto non siano stati, pretendendo dai clienti maggiori garanzie, tassi più alti, periodi di credito meno lunghi.  Insomma, essere meno generosi. Però, in epoche di ottimismo generalizzato, i politici non vanno a porre freni alle banche. Al contrario, le spingono. Com’è successo negli Stati Uniti: gli stessi politici che oggi criticano, ieri spingevano il sistema ad offrire più credito e condizioni più favorevoli per comprare case. Insomma, in questo gioco di assegnare responsabilità per la crisi finanziaria, c’è moltissa ipocrisia».

Lei cosa dice ai suoi studenti di economia?
«Che studino. Che guardino alla storia e alla geografia. L’economia non si può studiare come una cosa matematica. È una materia sociale, complessa, in cui occorre guardare all’uomo nel suo contesto storico e geografico».

Corsi, conferenze, libri. Significa che lei non toerà più alla politica attiva?
«No, non vedo alcuna possibilità di tornare alla politica. Almeno per il momento». 

Di Paolo Moiola         

Domingo Cavallo,
ascesa e caduta di un profeta del neoliberismo     

1946, 21 luglio – Nasce a San Francisco, nella provincia di Córdoba.

1967-1977 – Si laurea in economia prima all’Universidad Nacional de Córdoba e successivamente all’Università di Harvard (PhD in Economics), negli Stati Uniti.

1978-1987 – È fondatore e direttore dell’«Instituto de Estudios económicos de la Fundación Mediterránea».

1982 – Viene designato presidente del «Banco Central de la República argentina».

1987 – Alle elezioni viene eletto deputato nazionale per provincia di Córdoba nelle fila peroniste.

1989-1991 – Il presidente Carlos Menem lo nomina ministro degli esteri, incarico che ricopre per circa un anno e mezzo.

1991-1996 – Sono gli anni – quasi 6 – come ministro (superministro) dell’economia del governo Menem.

1991, 27 marzo – Come nuovo ministro dell’economia fa votare la «ley de convertibilidad», in base alla quale si stabilisce un cambio fisso tra il dollaro Usa e la valuta nazionale (prima l’austral, poi il peso, la nuova moneta argentina). Inizia il periodo conosciuto come «el uno a uno». La legge rimane in vigore per oltre 10 anni azzerando l’inflazione ma producendo effetti alla lunga devastanti sul sistema industriale del paese.

1991, ottobre/novembre – Il governo Menem-Cavallo vara un programma di privatizzazioni, deregolazione economica e di flessibilizzazione del lavoro.

1997 –  Crea una propria formazione politica, «Acción por la República», e si candida come deputato, risultando eletto.

1999, novembre –  Si candida alla presidenza, ottenendo 2 milioni di voti e arrivando al terzo posto. Viene nominato presidente Feando De la Rúa.

2001, marzo – Il nuovo presidente Feando de la Rúa lo nomina ministro dell’economia.

30 novembre 2001 – Annuncia il «corralito», misura in base alla quale vengono stabilite severissime restrizioni al prelevamento di denaro dai depositi bancari. La misura produce una ribellione generalizzata, con manifestazioni di piazza («cacerolazos»).

19 dicembre 2001 – Dopo violente proteste di piazza si dimette da ministro. Il giorno dopo si dimette anche il presidente De la Rúa, che fugge ignominiosamente in elicottero dalla Casa Rosada.

2002-ad oggi – Professore visitante in alcune università degli Usa, si dedica alla pubblicazione di libri. E tiene conferenze in giro per il mondo.

FONTI: Domingo Cavallo con Juan Carlos de Pablo, Pasion por crear, Editorial Planeta, Buenos Aires 2001; per altre informazioni legate all’attualità si vada sul blog personale del protagonista: www.cavallo.com.ar

Paolo Moiola

Paolo Moiola

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