UNA BASE MILITARE NATO FRA I MONASTERI SERBI

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Il 17 febbraio 2009 merita attenzione: è l’anniversario della proclamazione unilaterale d’indipendenza del Kosovo. In proposito, vorrei esprimere una mia riflessione, un punto di vista in grande contrasto con quelli già visti e sentiti.
Gli albanesi kosovari hanno festeggiato, entusiasti, il primo compleanno dello «stato più giovane d’Europa»: molti però non sanno, accecati dalle menzogne e dall’odio, che oggi non è un giorno per giornire, ma per provare vergogna. In primo posto bisogna vergognarsi della presenza della base militare Nato fra i templi. È come entrare armati nella chiesa o con le scarpe nella moschea. Nell’anno 2008, dedicato ai diritti umani, sono stati calpestati i diritti fondamentali di uno stato e dei suoi cittadini. Alla fine, si parla della nascita di uno stato nuovo, che in realtà esiste da secoli.
Kosovo e Metohija sono il cuore di uno stato antico, più antico di molti paesi dell’Unione europea e molto più antico degli Stati Uniti. Questo stato si chiama Serbia. Lo sapevano anche gli antenati di quelli che oggi festeggiano, perché vivevano da secoli insieme ai serbi, dividendo il comune destino della burrascosa storia balcanica e gli avvenimenti storici, in cui erano a volte alleati, a volte avversari, ma rispettando entrambi l’umanità e il coraggio gli uni degli altri. Per umanità si intendeva onestà, capacità di mantenere la parola data, rispetto per gli anziani, pietà per i deboli e gli indifesi, generosità. Per coraggio si intende capacità di difendere con la propria vita i valori principali della stessa, fra i quali la fede e la libertà erano al primo posto.
Chiediamoci tutti, quelli che festeggiano e quelli chiusi in un doloroso silenzio, quanto è rimasto, ai discendenti, dell’umanità e del coraggio degli antenati? Se ci fosse un po’ più di umanità e coraggio d’ambo le parti, si potrebbe vivere insieme: non solo rispettarsi, ma anche amarsi a vicenda, perché il sincero amore per il proprio paese comprende l’amore per la natura viva e morta del paese, soprattutto per la gente che ci vive. Allora potremmo edificare un futuro veramente migliore, senza «occupatore» né «liberatore».

Sono passati i tempi in cui i valori umani si difendevano usando la forza (per questo lotta, la parte civilizzata dell’umanità), perciò l’attuale governo serbo usa esclusivamente mezzi diplomatici e legislativi per difendere il valore più grande dello stato serbo, che sono Kosovo e Metohija. Ma non sono passati i tempi in cui la vita umana si  dedica alla difesa dei valori più grandi, anche se molti, anzi troppi, vivono senza valori significativi.  
Ogni serbo in cui sono ancora vivi i valori degli antenati, spenderà la sua vita, le sue energie e le sue risorse fisiche, intellettuali e spirituali per difendere il Kosovo e farlo tornare nel grembo della Serbia.
Lo faremo tornare soprattutto con l’amore. Amare il Kosovo e tutti gli uomini di buona volontà che ci vivono. L’amore è l’arma più potente, che non uccide, al contrario, dona la vita eterna. Questo vuol dire che la prima preghiera di ogni fedele sia dedicata al Kosovo, la prima parola che insegnerà la madre al proprio figlio, sia Kosovo, la poesia più bella del poeta sia dedicata al Kosovo, la lezione più importante a scuola sia sul Kosovo, l’obiettivo più importante del governo sia di mantenere l’integrità territoriale del nostro paese, in cui il Kosovo ha un posto particolare.

La Vecchia Serbia, di cui molti re erano santi, era uno stato dal quale la chiesa non era separata. Nel Medioevo, costruire le chiese e i monasteri era «l’investimento» migliore per ogni famiglia benestante. Così il Kosovo, la Vecchia Serbia, fu oata da tantissimi monasteri e chiesette. Non esiste in Europa un territorio così piccolo con un così grande numero di templi, anche se il tempo e i nemici dei cristiani sistematicamente li distruggevano.
Cosa dobbiamo fare ancora per soddisfare le richieste dei potenti di questo mondo, per unirci con altri popoli dell’Unione europea? Rassegnarci che tutto questo patrimonio spirituale e culturale venga perduto per sempre? Questo si aspettano da noi gli europei cristiani?
«Gli stati che hanno appoggiato la spaccatura della Serbia, hanno dimostrato di non conoscere gran parte della storia del continente europeo, che è strettamente legata al cristianesimo. Il disinteresse per la sorte delle chiese e monasteri ortodossi in Kosovo è la loro rovina culturale. Il comportamento, nel caso del Kosovo, ha dimostrato che molti in Europa non vogliono proteggere la dimensione spirituale nella vita degli europei. Se questa tendenza prevale, allora l’Europa sarà condannata al caos e ai conflitti» (Patriarca Alessio II in «Ortodossia», 1-15 agosto 2008, p.6).
Il Kosovo non ha nessuna valenza spirituale per i potenti della terra. Essi non hanno nessun rispetto per quello che è santo ai popoli. In mezzo ai templi kosovari adesso c’è la base militare Nato, che 10 anni fa bombardava quella regione e la Serbia e il Montenegro, per 78 giorni. Con le bombe all’uranio impoverito seminarono morte e future malattie, inquinarono il suolo, acqua e aria, distrussero l’economia e tutto il resto con l’operazione militare chiamata «Angelo Misericordioso». Portarono enorme danno al popolo serbo e albanese. Le vittime umane, malattie che aumentavano vertiginosamente negli ultimi 10 anni, per loro erano solo «effetti collaterali» per portare la «democrazia», il «progresso» e la «pace». In quella regione «pacifica», però, da 10 anni i serbi vivono nell’enclave.

Alcuni paesi cristiani, fra cui anche l’Italia, hanno riconosciuto lo strappo del Kosovo. Non è possibile che i governi di quei paesi non conoscano la storia, non sappiano che la parola Metohija significa «possedimento della chiesa», non rispettino la proprietà privata, nei loro paesi intoccabile. Allora perché l’hanno fatto? Sentiremo le loro motivazioni quando saranno chiamati a rispondere al Tribunale internazionale per la Giustizia.
L’Assemblea della Serbia oggi ha chiesto al governo di sporgere denuncia al Tribunale internazionale contro gli stati che hanno riconosciuto l’indipendenza della nostra Provincia Meridionale. A questo stesso Tribunale la Serbia chiede se è conforme alle leggi inteazionali la proclamazione unilaterale d’indipendenza da parte degli organi di autogestione locale in Kosovo.
Il presidente serbo continua a ripetere che la Serbia, rispettando le leggi inteazionali, difenderà i propri legittimi interessi davanti al Tribunale internazionale della Giustizia.
Kosovo e Metohija sono parte del territorio serbo in base alla Costituzione della Repubblica Serba, la dichiarazione delle Nazioni Unite e secondo molte risoluzioni, di cui anche la 1244.
Se il governo della nostra regione Trentino Alto Adige, che ha uno status speciale, decidesse una secessione, dopo un referendum in cui la maggioranza della popolazione la approva, l’Italia lo permetterebbe? Chi delle due parti in conflitto avrebbe un sostegno dall’Europa?

di Snežana Petrović

Snezana Petrovic




Tra aquile e merli neri

Kosovo /1

«Tutto quel che scopro mi aiuta a ricostruire questo grande rompicapo, il cui punto centrale è:
come ha potuto l’Umanità arrivare a tale violenza fisica e simbolica nel cuore dell’Europa
colta e civilizzata?
Non ho risposte; sento che dovrò dedicare buona parte della mia vita a questo quesito,
per capirci molto poco…
Concludo dicendo che sono l’unico responsabile per qualsiasi equivoco
e/o errore di interpretazione sul conflitto».
                                                                                          Marcos Reigota

G li uccelli devono sempre aver avuto un significato speciale da queste parti. Il Kosovo, in serbo, è la terra dei «merli neri»; mentre gli albanesi sono gli shqiptare, «figli dell’aquila». Nei nomi propri, invece, prevalgono «alba» (Agim)e «tramonto» (Agon).
Case distrutte e altre da poco ricostruite, apparentemente mai abitate, si susseguono lungo la strada che dall’aeroporto porta al centro di Pristina. Poi Viale Bill Clinton, dove l’immagine del «liberatore» sulla facciata di un palazzo stile soviet, dà il benvenuto a chi entra in città.
Ai kebab-tore (negozi di kebab), c’è la fila fuori e i bar sono pieni di giovani che sorseggiano un espresso e fumano senza fretta . Dall’alto della collina, ove si trova il quartier generale degli organi deputati al mantenimento della pace (Unmik, Missione delle Nazioni Unite in Kosovo) e alla implementazione della legge (EuLex, programma dell’Unione Europea per «portare e radicare lo stato di diritto in Kosovo) si ha una bella panoramica della città: le moschee con i minareti argentei, la chiesa ortodossa e il terreno ove sorgerà la nuova cattedrale, tutto avvolto in una luce rosata.
Ma è l’inquinamento della centrale elettrica di Obeliq a rendere così belli i tramonti invernali. Le 2 ciminiere concentrate in questa cittadina alla periferia di Pristina producono da sole emissioni 74 volte superiori a quelle ammesse dagli standard europei. Nel 2003 una grande quantità di fenolo si riversava dagli impianti della centrale nel fiume Ibar e nelle falde acquifere della regione di Kraljevo (Serbia centro-meridionale). Le autorità serbe gridarono al sabotaggio, ma è più facile attribuire l’accaduto all’abbandono in cui versano strutture che dovrebbero essere già da tempo reperti di archeologia industriale.
Obeliq è anche uno dei luoghi del «Ritoo»: nel 1999, quando le truppe serbe abbandonarono la regione, più di 230 mila persone si diressero in Serbia e Montenegro. Tra i profughi anche molti Rom, che fuggivano temendo ritorsioni da parte degli albanesi che li accusavano di sostenere i serbi. Ora trovano accoglienza al Plementina camp, proprio di fronte alla centrale.

Qui incontriamo Orest, che apre la sua casa nel campo agli inteationals, come i locali chiamano i membri delle innumerevoli agenzie governative e non governative che negli anni della guerra si sono installate in Kosovo. Togliamo le scarpe e ci sediamo sul tappeto insieme a musicisti che improvvisano, con trombe e fisarmoniche, le melodie tradizionali con cui si accompagnano i giovani promessi alle nozze.
Multi-etnicità e donatori sono concetti chiave in Kosovo. Il piano Ahtisaari metteva un forte accento sulla formazione di uno stato multietnico, e la costruzione di una società democratica e fondata sulla diversità è dichiarata una priorità dall’autoproclamato neo-governo, che freme per il riconoscimento pieno del Kosovo e il suo ingresso in Europa. Ma, a parte le dichiarazioni di intenti, gli sforzi di politici illuminati e le buone intenzioni della gente comune, quando si transita per una enclave serba si ha l’impressione di varcare una frontiera.
Gracanica è uno degli antichi monasteri, ora sotto la protezione di un drappello di soldati e soldatesse svedesi della Kosovo Force (Kfor) forze armate guidate dalla Nato che dal 1999 presidiano il territorio kosovaro per «garantire la sicurezza e la libertà di movimento dei serbi». Qui le indicazioni sono soltanto in serbo; i passanti (i serbi che sono rimasti o quei pochi che sono tornati) abbassano lo sguardo; e la nostra macchina targata KS tira dritto senza indugiare. La targa con l’abbreviazione KS, istituita dall’Unmik, permette di viaggiare soltanto in Kosovo, Albania e Macedonia.
Arriviamo a Mitrovica, dove la parte nord e sud della città sono separate non solo dal tristemente noto «Ponte sul fiume Ibar» – immagine quotidianamente propinataci nei mesi della guerra da tutti i telegiornali – ma anche da una sottile striscia di terra di nessuno. Bisogna lasciare la macchina e continuare a piedi, oltre il posto di blocco, dove un altro soldato della Kfor si scalda annoiato le mani, sullo sfondo di un cielo grigio infuocato per le esalazioni della Trepca, industria di estrazione e lavorazione del piombo che dava lavoro a centinaia di persone ora chiusa.
Qui i tassi di inquinamento sono almeno 200 volte superiori ai limiti fissati dall’Organizzazione mondiale della sanità.

Il rappresentante serbo dell’organizzazione internazionale per conto della quale mi trovo in Kosovo, forse l’unica a operare anche a Mitrovica, ci viene incontro sorridente e stringe forte le mani a me e ai colleghi kosovari. Incontriamo anche Svetlana, la responsabile del centro di riabilitazione per ragazzi disabili. Il suo volto si fa teso quando ci racconta che il centro non riceve alcun sostegno dalle autorità locali serbe che, per l’educazione e l’assistenza sanitaria, dipendono direttamente da Belgrado. Il funzionamento del centro è garantito solo dall’organizzazione che ha la sede a Pristina.
Se hanno problemi di salute, i serbi di Mitrovica preferiscono andare sino a Belgrado, mentre, mi dicono i colleghi kosovari, gli albanesi di Mitrovica sud non mettono piede in un ospedale serbo dai tempi dell’apartheid imposto da Milosevic a partire dal 1989.
Alcune organizzazioni non governative hanno profuso notevoli sforzi per ricreare le condizioni per una pacifica convivenza, puntando soprattutto sulle nuove generazioni: progetti di intercultura – uno chiamato emblematicamente Mozaik – nelle scuole, a partire dall’asilo, perché i futuri cittadini del Kosovo siano plurilingue e multiculturali. In classe si celebrano le feste tradizionali degli uni e degli altri e c’è una maestra per ognuna delle comunità rappresentate. Ma è raro vedere bambini serbi e albanesi giocare insieme: l’esistenza di istituzioni parallele fa sì che questi frequentino strutture scolastiche separate. Nelle classi e scuole albanesi regolari, poi, il serbo non si studia più, così che già la prossima generazione non sarà più in grado di capire la lingua delle altre comunità.

Se prima della guerra non era raro che uomini albanesi sposassero donne serbe, bosniache o turche, adesso ciò avviene di rado, perché non ci sono più gli spazi in cui due giovani appartenenti a gruppi diversi possano incontrarsi. Per fortuna c’è il bar Trafi, il più trendy della capitale, dove si ritrovano proprio tutti davanti ad un buon raki, acquavite aromatizzata con anice, di origine turca.
Questa «meglio gioventù», che a meno di 30 anni ha già visto mezzo mondo e che è tornata «in patria» per cercare un lavoro dignitoso, rappresenta forse l’unica speranza perché la costruzione di una società multietnica e tollerante non resti soltanto vuota retorica e strumentale propaganda politica.
Lasciandosi alle spalle i miti e gli odi del recente passato, i ragazzi di Pristina riusciranno forse pian piano a rimuovere anche il ricordo di una barbarie altrimenti sempre pronta a riesplodere non nella «periferia della periferia dell’Europa», ma in uno dei suoi centri nevralgici e vitali.
E me ne vado via così, con l’impressione di aver sentito solo una campana, quella delle aquile. Mentre i merli svolazzano, mesti e silenziosi, nel cielo di Obeliq.

di Silvia Zaccaria

Silvia Zaccaria




Dialogo e libertà… controllata

Intervista al cardinale Pham Minh Man, arcivescovo di Ho Chi Minh Ville

Dal 1976, quando in Vietnam è stato instaurato il regime comunista, i cristiani sono oggetto di repressione; le tensioni sono ancora forti nel nord del paese. La chiesa reclama la restituzione delle migliaia di proprietà confiscate, ma il governo, l’8 gennaio scorso, ha chiuso definitivamente il discorso. Nel sud le relazioni tra stato e chiesa stanno migliorando, grazie anche al dialogo a oltranza perseguito dal cardinale Pham Minh Man, arcivescovo di Ho Chi Minh Ville.

L a stupenda casa coloniale che ospita l’arcivescovado di Ho Chi Minh Ville, inizia a tingersi di rosa quando i caldi raggi di sole dell’alba vietnamita pennellano l’aria circostante. Di fronte alla cancellata, un ritratto di Ho Chi Minh ricorda che il paese, pur irriconoscibile rispetto a 30 anni fa, è pur sempre una delle ultime nazioni a seguire un indirizzo ideologico socialista. È lo stesso cardinale Pham Minh Man ad accogliermi nel suo studio privato.
Classe 1934, Pham Minh Man ha trascorso gran parte della sua vita in Vietnam, sperimentando in prima persona gli orrori della guerra e le difficoltà che il paese ha dovuto superare dopo la liberazione. Nominato vescovo da Giovanni Paolo II nel 1993, alla guida della diocesi di Ho Chi Minh Ville dal 1998, è stato elevato al rango cardinalizio nel 2003.

Eminenza, nonostante il paese sia stato unificato nel 1976, lo sviluppo economico e sociale del Vietnam sembra procedere su due differenti binari. Immagino che anche con la chiesa cattolica, il governo mantenga due tipi di approccio, come dimostra la recente diatriba con l’amministrazione di Hanoi sulla restituzione dei terreni confiscati negli anni ‘50. È davvero così diverso il rapporto che la chiesa deve instaurare con le amministrazioni del Nord e del Sud Vietnam?
La difficile situazione al Nord è data da una mancanza di dialogo e dall’oggettiva difficoltà di cornoperare con le autorità delle regioni settentrionali, ancora sospettose della religione. Quando andammo nella visita ad limina a Roma, il papa Giovanni Paolo II, che aveva una grande esperienza di vita e di confronto con i regimi comunisti, ci disse di perseverare con il dialogo, raccomandandoci di essere sempre sinceri e franchi, in modo da cornoperare per lo sviluppo del paese e del popolo vietnamita. E questo è quanto cerchiamo di fare.

Di recente i media hanno ipotizzato una visita papale in Vietnam. Non le chiedo quanto siano fondate queste voci, ma vorrei sapere: il governo vietnamita sarebbe pronto a ricevere una visita del papa?
Posso rispondere sì e no allo stesso tempo, perché non tutti i membri del governo vietnamita hanno la medesima visione nel valutare una eventuale visita papale. Dipende dalle condizioni contingenti della situazione politica, sociale ed economica che vivrà il paese nel periodo in cui questa visita verrà proposta.

Questa continua ricerca di equilibrio di poteri all’interno del governo vietnamita mi permette di addentrarmi in un’altra domanda, più strettamente politica: la storica divisione della nazione vietnamita, non solo ideologica, ma anche culturale e religiosa, porta allo scontro di due fazioni che si dividono cautamente le cariche del potere per raggiungere un equilibrio più o meno precario: semplificando al massimo possiamo dire che i membri del governo originari del Sud fanno parte della fazione progressista, aperta ai cambiamenti, mentre i membri originari del Nord sono più conservatori. Quale fazione prevale attualmente?
Effettivamente all’interno del governo vietnamita c’è una parte di membri che vuole cambiare lo stato delle cose anche in modo non repentino, mentre un’altra ostacola questa visione. La supremazia dell’una o dell’altra fazione non è sempre così chiara perché il bilanciamento delle forze si basa sulla contrattazione sulla base del do ut des.

La politica dei paesi si ripercuote anche sullo sviluppo interno della chiesa locale; così, seppur vicine, la chiesa vietnamita si è sviluppata in modo completamente differente da quella cinese: in Vietnam, ad esempio, non esiste la chiesa patriottica.
Ho avuto l’opportunità di conoscere la chiesa in Cina e di avere scambi di opinione con fedeli e preti cinesi. Noi abbiamo già conosciuto la situazione che la Cina sta attraversando attualmente: prima degli anni ‘80 avevamo anche noi due chiese, anche se il contesto era differente. La chiesa cattolica in Cina è chiamata chiesa «sotterranea» perché non riconosciuta dal governo. Allo stesso modo anche noi, nel Nord del Vietnam, prima degli anni ‘80, avevamo una chiesa non riconosciuta, con vescovi e preti nominati dal Vaticano, ma che erano impossibilitati a esporsi in pubblico. Nonostante questo riuscivamo ad avere contatti con il Nord e quindi in qualche modo la chiesa vietnamita era una chiesa unita e completamente in comunione con il Vaticano.
La situazione era chiaramente più aperta e libera al Sud, ma dopo che nel 1980 la Conferenza dei vescovi vietnamiti riunificò la chiesa, anche al Nord i preti cominciarono a esporsi pubblicamente. Al Sud, grazie al Concilio Vaticano II, la chiesa cattolica ha sempre cercato di avere buoni rapporti con il governo, per cornoperare a ricostruire la società e per il benessere, sociale e morale, del popolo vietnamita. Forse è anche grazie a questo corso storico, che ci ha permesso di assorbire un’esperienza di apertura e di dialogo, che oggi al sud abbiamo un confronto meno turbolento che al Nord.

Eppure questo confronto non è sempre stato esemplare per i cattolici: negli anni ‘60, il presidente cattolico del Vietnam del Sud, Ngo Dinh Diem, non è certo stato un esempio di virtù: non pensa che abbia nuociuto alla chiesa cattolica una figura di questo genere?
Non condannerei completamente Diem. In certi aspetti è stato un buon presidente. Gli uomini che lo circondavano forse non erano all’altezza.

Un buon politico dovrebbe però saper scegliere gli uomini giusti.
Su questo ha ragione e in tal senso non è stato un buon politico.

L’area di Ho Chi Minh Ville è un melting pot di religioni: cattolicesimo, evangelisti, protestanti, buddisti, caodaisti, Hoa Hao… Come cornoperate con tutte queste religioni?
L’unico modo attraverso cui possiamo cornoperare insieme è tramite le attività sociali. Ma fino ad oggi a tutte le religioni è stato proibito lavorare nel campo sociale. Due anni fa i vescovi vietnamiti sono andati a parlare con il presidente del Vietnam, chiedendogli di potere iniziare a svolgere anche opere sociali. Il presidente promise che avrebbe cercato di risolvere il problema. Lo scorso anno ci siamo incontrati con il primo ministro, ribadendo la nostra richiesta e pochi mesi fa ci siamo incontrati anche con il direttore dell’ufficio degli Affari religiosi, i cui funzionari sono venuti appositamente da Hanoi per incontrarmi. Ci siamo lasciati con l’intento di organizzare una riunione con tutti i rappresentanti delle organizzazioni religiose operanti in Vietnam. Verranno raccolte le intenzioni avanzate dalle diverse chiese, per portarle poi all’attenzione del primo ministro e ai ministri interessati alle singole proposte. La nostra speranza è che il governo permetta a tutte le organizzazioni religiose di operare anche in campo sociale: scuola, educazione, sanità… Purtroppo non sappiamo quando questo sarà possibile. La buona volontà sicuramente c’è, ma i tempi burocratici sono molto lunghi.

Eppure già oggi la chiesa cattolica a Ho Chi Minh Ville è coinvolta in opera a sfondo sociale con partner governativi o con organizzazioni straniere ufficialmente rappresentate presso il governo vietnamita.
Non la chiesa cattolica direttamente, ma individui appartenenti alla chiesa cattolica, che lavorano in questi campi a titolo personale. Abbiamo preti, catechisti e singoli fedeli che cornoperano con organizzazioni non governative o con enti sociali, ospedali, dispensari. Quando l’attuale presidente del Vietnam era sindaco di Ho Chi Minh Ville, mi scrisse una lettera, invitandomi a mandare religiosi presso i ricoveri per anziani gestiti dal governo. Sedici organizzazioni religiose hanno mandato più di 100 volontari che ancora oggi collaborano con le strutture governative.
Ora vorremmo aprire un centro in Ho Chi Minh Ville per curare le persone colpite da Hiv. Abbiamo comperato la terra, registrato il progetto e svolto tutte le pratiche burocratiche per iniziare la costruzione.
Ad Hanoi, la chiesa sta protestando per poter ottenere i terreni su cui costruire opere sociali; quanto è difficile per la chiesa del Sud ottenere i permessi per costruire, non solo opere sociali, ma anche chiese?
Qui al Sud è relativamente facile, ma ci vuole tempo. Abbiamo almeno otto nuovi luoghi in cui stiamo costruendo, o intendiamo costruire, campus, chiese, ospedali, dispensari. Almeno quattro diverranno parrocchie. Il numero dei cattolici sta aumentando rapidamente e abbiamo bisogno di nuovi centri di aggregazione. Abbiamo comperato degli appezzamenti di terra in aree che erano considerate depresse, isolate e abitate da povera gente. Oggi, con il forte sviluppo economico e imprenditoriale di questa città, tutte queste aree sono diventate o stanno per diventare nuovi centri residenziali.
Le voglio raccontare un fatto divertente: nel 1998 ero in un’area depressa e in 4 anni il numero dei cattolici era salito da poche unità a 400. Necessitavamo di una chiesa. Comprammo la terra e chiesi il permesso alle autorità, ma per un anno non ricevetti risposta. Nel 2004, una rappresentanza di fedeli della parrocchia mandò una lettera alle autorità locali, dicendo che volevano farmi un regalo molto speciale per i miei 70 anni: costruire una chiesa. Due mesi dopo un funzionario governativo contattò questo gruppo di fedeli, chiedendo loro dove avrei voluto celebrare la posa della prima pietra. Era il marzo 2004. Dissi loro che avrei voluto celebrare la messa prima della fine del mese: un periodo strettissimo per i tempi vietnamiti e non avrei mai creduto che potessimo ottenere i permessi necessari. E invece, con grande meraviglia di tutti, i permessi arrivarono e entro la fine del mese di marzo 2004 potei celebrare la posa della prima pietra. Partecipò una folla composta da più di 1.000 persone cattolici, buddisti, caodaisti, hoa hao. Le ho raccontato questa storia per dimostrare il grande potere di convincimento che la gente comune può avere verso il governo.

Da allora quali passi avanti sono stati compiuti?
Ora abbiamo comperato 20 ettari di terra in un’altra area per costruire con le suore di Madre Teresa un centro per malati di Hiv. Era un’area paludosa bonificata e una compagnia di Taiwan vi costruirà un nuovo quartiere. Hanno comprato questa terra per 3 dollari al metro quadro, rivendendola poi a 50 dollari. Oggi un metro quadro di quello stesso terreno vale 3 mila dollari. Noi l’abbiamo acquistato all’inizio, quando nessuno voleva comprarlo perché troppo isolato e lontano dalla città. La compagnia ci propose di comprare questo terreno per costruire un asilo, in modo da attrarre gente. «Se la gente vede che la chiesa cattolica costruisce un asilo, allora sarà più invogliata a venire ad abitare in questo nuovo quartiere» ci dissero. Oggi, dopo 10 anni, il nuovo quartiere è considerato un quartiere modello nel District 7. L’asilo ha 300 bambini, mentre ogni domenica alla messa assistono circa 200 persone, di cui almeno 150 sono colf immigrate dalle regioni settentrionali.

E il governo come giudica questo espandersi della chiesa cattolica?
È stato favorevolmente impressionato da questa nostra presenza, tanto da concederci il permesso di costruire non solo un asilo e chiesa, ma una vera e propria missione che scaturisca dai bisogni della gente.

Pensa che questa visione favorevole dell’impegno sociale della chiesa da parte delle autorità del Sud, possa favorire il dialogo anche in settentrione?
Nel Nord c’è molta più difficoltà per diverse ragioni: il governo è tradizionalmente meno aperto alle innovazioni e la chiesa del Nord non ha sufficienti preti.

Come vede la chiesa vietnamita in un prossimo futuro? Sarà possibile avere in Vietnam missionari stranieri?
Le confido un segreto che sanno tutti: oggi in Vietnam ci sono già molti preti stranieri. Ovviamente non sono presenti sul territorio in forma ufficiale, ma tutti sanno che ci sono, anche gli stessi funzionari del governo. Lavorano nell’educazione e sanità, alcuni sono studenti di lingua vietnamita, altri cooperanti.
Le racconto un aneddoto. Durante l’ultimo conclave, il primo giorno ci sedemmo per cenare e di fronte a me, per puro caso, c’era il futuro papa; alla mia sinistra due cardinali statunitensi, tra cui quello di Chicago, Francis George che, quando seppe che ero vietnamita, mi svelò che due suoi religiosi erano in Vietnam, naturalmente in veste non ufficiale. Risposi che in Vietnam c’erano molti religiosi dall’Europa, Canada, Usa, Australia, Giappone. Solo a Ho Chi Minh Ville ce ne sono almeno 40 in veste non ufficiale. Allora Francis George mi disse: «Penso che la polizia sappia chi siano veramente, ma chiude un occhio». Risposi: «La polizia nel mio paese non chiude mai gli occhi, neppure quando dorme».

Son convinto anche io che il governo sappia che e quanti siano i religiosi «camuffati» in Vietnam. Secondo lei come mai non li espelle?
Perché i tempi sono cambiati e sono cambiati anche i politici. Prima il governo vedeva la chiesa cattolica come un avversario politico e sociale. Oggi, invece, la vede come un partner con cui può cornoperare per costruire il bene del paese.  

Piergiorgio Pescali

scheda biografica

N ato nel 1934 a Hoa Thanh, nella diocesi di Can Tho, nell’estremo sud del Vietnam, Jean-Baptiste Pham Minh Man compie gli studi secondari e la preparazione umana e spirituale nel seminario minore di Pnompenh (Cambogia) dal 1946 al 1954. Quindi viene inviato al seminario maggiore di San Giuseppe di Saigon (oggi Ho Chi Minh Ville) dove studia filosofia (1954-1956). Dopo un periodo di insegnamento nella scuola secondaria, nel 1961 riprende gli studi di teologia nel seminario maggiore di Saigon ed è ordinato sacerdote nel 1965 nella cattedrale di Cân Tho.
Giovane sacerdote insegna presso il seminario minore Beato Quy a Cai Rang (Can Tho), finché il vescovo lo manda, nel 1968, negli Stati Uniti per studiare presso l’Università di Loyola a Los Angeles. Rientrato nel 1971 in Vietnam, riprende l’insegnamento presso il seminario minore Beato Quy, fino al 1974.
Con la fine della guerra Usa-Vietnam (1975), la riunificazione del paese e l’estensione del regime comunista anche al Sud-Vietnam, il governo chiude o confisca alla chiesa strutture e centri per le attività pastorali, educative e caritative, come seminari, scuole, ospedali. In tale situazione, don Jean-Baptiste è incaricato della formazione sacerdotale. Dal 1976 al 1981 i seminaristi vengono formati insieme, secondo le limitate disponibilità di strutture; dal 1981 al 1988 sono distribuiti nelle parrocchie per completare la formazione, almeno dal punto di vista pastorale, con l’aiuto dei parroci e laici. Nel 1988, il governo concede di riaprire sei seminari maggiori in tutto il Vietnam e don Jean-Baptiste Pham viene nominato rettore del seminario di Cai Rang. Un incarico difficile a causa di concrete difficoltà: locali ridotti, mancanza di professori, anche perché dal 1975 nessun sacerdote può essere inviato all’estero per lo studio superiore delle materie ecclesiastiche.
Nel 1993 don Jean-Baptiste Pham è nominato coadiutore, con diritto di successione di mons. André Nguyên Van Nam, vescovo di My Tho. All’ordinazione episcopale sceglie come motto: «Come io vi ho amati». Nel 1996 si reca a Roma per la visita ad limina.
Nel mese di marzo del 1998, mons. Pham viene nominato vescovo di Ho Chi Minh Ville, sede vacante da tre anni. Nel 2003 Giovanni Paolo II lo eleva alla dignità cardinalizia. Oggi la diocesi da lui guidata conta 316 sacerdoti e 209 parrocchie, 646 mila laici iscritti a 16 grandi associazioni cattoliche.

Benedetto Bellesi


Piergiorgio Pescali




Cana (4) Segni e indizi per imparare a crescere

Il racconto delle nozze di cana (4)

Il racconto delle nozze di Cana è un brano chiave di tutto il vangelo perché ci offre la prospettiva da cui l’autore ci obbliga a guardare alla vita di Gesù, alle sue parole e ai «segni» che compie. Se vogliamo capire quello che l’autore intende farci capire, dobbiamo cercare di entrare nella sua mentalità e nel suo cuore. Troppo spesso «usiamo» il vangelo come un «prontuario» superficiale o come lettura spirituale edificante, in base al principio che «tanto male non fa», perdendo così la carica esplosiva della potenza della Parola di Dio che in quelle pagine propone un «Patto di alleanza» e offre un progetto di vita che è «eversivo» per la logica del mondo.
Per questo non si può liquidare con due battute e, a costo di apparire esagerati, vogliamo insistere nel leggere il racconto di Cana non come racconto autonomo, ma «dentro» la visione globale del IV vangelo. È l’unico mo-do serio che abbiamo per non fare dire al vangelo quello che vogliamo noi. Il vangelo di Giovanni è come l’orizzonte: più uno s’innalza più l’orizzonte si allarga. Nessuno può imprigionare Dio in una formula o una tesi e allo stesso modo nessuno può contenere il volto di Gesù che il IV vangelo dipinge. Dobbiamo accontentarci di approssimazioni, sapendo che dopo avere fatto enormi sforzi per dividere, comprendere e definire, il IV vangelo resta un «mistero» nel vero senso della parola: un mondo che sfuggendo alla curiosità ne suscita altre e più profonde.

A tutto tondo
Non c’è che l’imbarazzo della scelta: ogni commentatore offre una soluzione o proposta, ma nessuna riesce ad esaurire in modo soddisfacente la pienezza che il IV vangelo porta in sé. Ogni proposta ha un aspetto interessante che si adatta al vangelo, ma senza esaurirlo: il vangelo di Giovanni sfugge a ogni definizione e divisione, perché ci costringe a seguire Gesù passo dopo passo, centellinando un’esperienza che conduce lentamente, ma progressivamente alla scoperta della sua personalità. Nessuno può afferrare il vangelo di Giovanni illudendosi di poterlo costringere entro categorie ristrette.
Ogni parola ha sempre un duplice significato: uno immediato che corrisponde al senso comune che ha nel vocabolario; l’altro, nascosto nel ventre della parola stessa perché aspetta che il lettore, come una levatrice, ne faccia venire alla luce il volto nascosto nella trama silenziosa del suo profondo, che può manifestarsi solo se il significato segreto può risuonare nel silenzio dell’ascolto.
Sul vangelo di Giovanni bisogna «stare» (Gv 8,31) con assiduità, coscienti di dedicargli non avanzi di tempo, ma di perdere il tempo migliore. Bisogna perdersi dentro le pagine, dentro le frasi e singole parole, assaporarle una dopo l’altra, sorseggiando e gustando il senso che si svela e che ci manifesta a noi stessi, perché solo immergendoci dentro la Parola noi scopriamo che lui conosce quello che c’è dentro ciascuno di noi (cf Gv 2,25).
L’autore del IV vangelo come un vero genio della narrativa non racconta una vita cronologica di Gesù, ma descrive dettagliatamente la prima (Gv 1,19-2,1) e l’ultima settimana (Gv 12,1) di vita pubblica. Nella mentalità orientale gli «estremi» (qui prima e ultima settimana) indicano la totalità dell’insieme che sta in mezzo, come «entrare e uscire; cielo e terra; sedere e camminare». L’autore sembra dire ai suoi lettori: è inutile che vi descriva tutta la vita di Gesù, vi basti conoscere la prima e l’ultima settimana per avere la chiave di senso della sua vita.
La prima settimana anticipa tutti i temi che verranno trattati nel resto del vangelo; mentre l’ultima settimana registra l’epilogo che si snoda come un dramma che non lascia respiro: lavanda dei piedi, discorsi di addio, tradimenti, processi, notte, ombre della notte, morte ignominiosa di sangue e violenza e croce, trasformata da supplizio di vergogna in trono della gloria dove sta assisa la maestà di Dio. All’interno dell’ultima settimana si trovano i capitoli 18 e 19 di Gv, che narrano la passione, morte e glorificazione con uno schema in 5 atti, più una premessa e una conclusione, per formare un dramma in 7 parti: il dramma di Dio, il dramma dell’uomo.

Prima settimana: ritorno al «principio»
La prima settimana della vita di Gesù, descritta dal IV vangelo, è un evidente richiamo alla settimana della creazione (Genesi cap. 1), di cui mantiene la struttura letteraria e la potenza dell’attacco con quell’«In principio» (Gen 1,1; Gv 1,1) che cattura testa e cuore: chiunque capisce che non si tratta di «inizio temporale», ma di un «fondamento» che riguarda la consistenza stessa dell’esistenza.
In Genesi i sei giorni della creazione sfociano nel «settimo», lo shabàt, il giorno riservato a Dio; nel IV vangelo, invece, l’enumerazione minuziosa, quasi contabile, dei sei giorni nei quali Gesù, come un nuovo creatore compie i «segni» che lo manifestano all’esterno, sfocia pacatamente nel racconto delle nozze di Cana che forma così un blocco con ciò che precede (e diventa anche la premessa di quanto segue, come vedremo).
Dopo il solenne «In principio» (Gv 1,1), infatti, per tre volte segue l’espressione «il giorno dopo» (Gv 1.29.35.43) che sommati fanno tre giorni. Il racconto delle nozze di Cana che segue immediatamente comincia con l’indicazione di tempo: «Il terzo giorno» (Gv 2,1), dando corpo così a una struttura di «sei giorni». Il giorno sesto è il giorno della creazione di Adam che ora diventa il giorno dell’uomo nuovo, che invita non solo Israele, ma l’umanità tutta all’alleanza con Dio, simboleggiata nel racconto di Cana dalle anfore di pietra che giacciono inerti per terra (Gv 2,6) e dal vino abbondante che annuncia l’era messianica già cominciata. Questo sesto giorno costituisce «il principio dei segni compiuti da Gesù» con cui «manifestò la sua gloria e i suoi discepoli cominciarono a credere in lui» (Gv 2,11). Con tale schema letterario temporale, entro i confini di una settimana, l’autore ci dice che Gesù è il «nuovo creatore» di una nuova umanità: il Regno di Dio.

Ultima settimana: il Servo pasquale
Se la prima settimana della vita pubblica di Gesù è la «settimana della creazione» che ritrova il suo senso nel Lògos incarnato, l’ultima settimana (Gv 12,1), quella che precede la morte, è dentro un contesto pasquale e l’insistenza con cui l’evangelista annota questa dimensione, è indice dell’importanza che egli stesso vi annette: «Era vicina la pasqua dei giudei» (Gv 11,55); «sei giorni prima della pasqua» (Gv 12,1); «durante la festa (di pasqua)» (Gv 12,20); «prima della festa di pasqua» (Gv 13,1).
Nell’ultima settimana ha luogo la lavanda dei piedi che per l’autore del IV vangelo è l’equivalente del racconto dell’istituzione dell’eucaristia (cf Gv 13,1-20; cf Mc 14,22-25; Mt 26,26-29; Lc 22,15-20; 1Cor 11,23-25). L’autore mette così il servizio sullo stesso piano dell’eucaristia, riconoscendovi pari dignità di sacramento: Pane/Vino e Parola e Servizio, che fa abbassare per amore, manifestano la vera natura di Dio e lo rendono visibile nella vita della chiesa. Anche i discorsi di addio (cf Gv 13,31-16,33) durante la cena pasquale avvengono nell’ultima settimana: in essi Gesù pone le condizioni e determina le cornordinate per il futuro. Chiudono l’ultima settimana: la preghiera sacerdotale di Gesù (Gv 17,1-26), cattura, processi, condanna, morte e risurrezione (Gv 18-20).
Le due settimane, poste una all’inizio della vita e l’altra alla fine, formano come due pietre miliari che servono da riferimento a chi vuole addentrarsi dentro la fitta vegetazione del vangelo di Giovanni. Esse costituiscono come due fari che illuminano la dimensione di «tutta» la vita di Gesù: egli è il nuovo creatore, ma è anche il redentore; è il Dio che chiama dal nulla tutte le cose, ma è anche il Dio che si annulla per essere fedele a se stesso; è onnipotente nella creazione ed è impotente nell’incarnazione; è il Lògos/Sapienza che modella tutte le cose ed è la carne fragile della mortalità umana; è l’eterno che regola il tempo ed è anche ritmato dal tempo che condiziona la sua vita; egli è «in principio presso Dio», ma viene anche «tra i suoi» che lo rifiutano; è la luce che illumina il mondo, ma sta anche nelle tenebre che cercano di sopraffarlo.
La prima settimana culmina nel racconto di Cana, l’ultima nell’«ora» della glorificazione: le due settimane si tengono insieme come l’arco di un ponte, perché Cana anticipa l’«ora della Gloria», mentre questa fa vedere, manifesta l’abbondanza messianica che sgorga dalla croce con la consegna dello Spirito Santo (Gv 19,30).

Povertà di parole, pienezza di parola
Dal punto di vista della narrazione, cioè come racconto che tramanda una «vicenda», il vangelo è simile a quelli sinottici (Marco, Matteo e Luca); dopo la presentazione di Giovanni Battista (Gv 1), anche il IV vangelo descrive prima l’attività di Gesù in Galilea e infine in Giudea, a Gerusalemme dove conclude con la sua morte e risurrezione. Esso si compone di circa 15.000 parole greche, di cui solo 1.100 sono parole diverse: un vocabolario povero, essenziale, se circa 13.900 parole si ripetono continuamente. Tale dato deve metterci in allarme, perché alla povertà del vocabolario materiale corrisponde un’immensa ricchezza concettuale e simbolica che travalica ogni singola parola per obbligarci a scendere nel pozzo profondo del significato nascosto.
Mai presumere di capire Giovanni: quando abbiamo creduto di averlo capito, egli è già pronto per portarci a un altro livello, a un senso più alto. La tradizione ne ha raffigurato l’autore con il simbolo dell’aquila, che rappresenta il quarto vivente dell’Apocalisse (Ap 4,7), e a buon diritto, perché il IV vangelo vola ad altezze vertiginose che solo chi è equipaggiato bene può sperare di raggiungere.
Le 15.000 parole di cui si compone il vangelo che canta il Lògos sono distribuite in 20 capitoli (il capitolo 21, l’intervista di Gesù a Pietro è un’aggiunta posteriore). Il modello narrativo ormai quasi da tutti accettato, divide questi 20 capitoli in due parti, abbastanza omogenee:
– 1a parte, cap. 1-12, detta Libro dei segni;
– 2a parte, cap. 13-20 (+21), Libro dell’ora o della gloria.

a) Il libro dei segni
La prima parte si chiama «libro dei segni» perché descrive l’attività pubblica di Gesù che compie alcuni gesti o «segni». Bisogna fare molta attenzione nell’uso delle parole, perché nel IV vangelo non ricorre mai la parola «miracolo, dýnamis, téras», abbondanza frequente nei sinottici. In Gv ricorre sempre e solo il termine «sēmèion, segno», che non ha nulla di eclatante o miracoloso, come lo intendiamo noi razionalisti occidentali, perché esso è soltanto un «indicatore»: un segno è qualcosa che rimanda a una realtà diversa. I «segni» che Gesù compie rimandano tutti al pozzo profondo della sua personalità.
I segni più importanti che l’evangelista registra per farci conoscere la persona Gesù sono i seguenti che formano anche uno schema di catechesi catecumenale:

–    1° segno di Cana (2,1-11): le nozze (progetto per Israele);
–    segno dell’acqua (4,1-42): la samaritana (etica dell’incontro);
–    2° segno di Cana (4,46-54 ): figlio del centurione (progetto per il mondo);
–    segno del liberatore (5,1-18): paralitico alla piscina (la persona è il valore assoluto);
–    segno del pane (6,1-66): moltiplicazione pani (nuova manna);
–    segno della luce (9,1-41): cieco nato (cammino della fede);
–    segno del «pastore bello» (10,1-21): attrazione di Dio (metodo di Dio);
–    segno della vita (11,1-44): risurrezione di Lazzaro (anticipo della morte di Gesù);
–    segno dell’olio (12,1-11): unzione a Betània (anticipo della sepoltura).
Compito del vangelo è farci incontrare l’uomo Gesù per farcelo conoscere come Figlio di Dio e aiutarci a scoprirlo come Dio redentore, attraverso i «segni» che egli compie nella sua vita e che ci offre come indizi: per scoprire questi indizi, è necessaria la fede. È interessante notare come la parola «segno» solo nel vangelo di Giovanni ricorre 17 volte (Gv 2,11.18.23; 3.2; 4,48.54; 6,2. 14.26.30; 7,31; 9,16;10,41 11,47; 12,18.37; 20,30) e 7 volte nell’Apocalisse (Ap 12,1.3; 13,13.14; 15,1; 16,14; 19,20), mentre non si trova nelle lettere, per un totale complessivo nell’opera giovannea di 24 volte che è una percentuale sufficiente a farci capire l’importanza che l’autore vi annette.

b) Il libro dell’ora della gloria
La seconda parte è detta «libro dell’ora» o «libro della gloria», perché in Giovanni la «gloria» di Gesù si manifesta nell’«ora della morte». Attoo alla parola «ora», l’autore tesse tutto un reticolato teologico di straordinaria intensità. La parola ricorre in tutto il vangelo 19 volte, di cui 9 nella prima parte e 10 nella seconda, stabilendo così un equilibrio distributivo perfetto in tutto il vangelo. Ciò significa che la parola «ora» tesse la trama del testo.
Non si può capire il vangelo di Giovanni se non si comprende il significato di questa piccola parola «ora», che non indica un tempo, ma l’evento della salvezza che stravolge la logica e capovolge le priorità.
Il racconto delle nozze di Cana riporta l’espressione chiave: «Donna, … non è ancora giunta la mia ora» (Gv 2,4), che idealmente e realmente si ricollega con la preghiera finale di Gesù: «Padre, è venuta l’ora» (Gv 17,1). Il racconto di Cana apre e proietta lo sguardo del lettore sulla fine, passando dall’ora ancora assente all’ora finalmente giunta: l’ora della morte che coincide con l’ora della glorificazione del Figlio di Dio: «Padre, è venuta l’ora: glorifica il Figlio tuo perché il Figlio glorifichi te» (Gv 17,1). Pateità e figliolanza s’intersecano e si fondono nell’unica «gloria» che rispecchia nel Figlio il volto del Padre e nel Padre manifesta il volto del Figlio.

Il peso della «gloria»
La parola «gloria» non significa rendere onore a qualcuno con deferenza, riconoscendone l’autorità e anche la vanità esteriore che diventa vanagloria di individui inconsistenti. In ebraico il termine «Kabòd», tradotto in greco con «Dòxa», indica la natura stessa di Dio. Il termine infatti veniva usato come «Nome alternativo» di Dio.
Gli ebrei non pronunciano mai il nome YHWH e, infatti non sappiamo quale ne sia l’esatta pronuncia. Ancora oggi nella preghiera e leggendo la Scrittura, ogni volta che un ebreo con gli occhi incontra la parola «YHWH», con le labbra pronuncia un nome alternativo, come «Adonai, Signore», «Elion, Onnipotente», «Shem, Nome», «Maghèn, Scudo», «Maqòm, Luogo», «Shekinàh, Dimora-Presenza», oppure «Kabòd, Gloria». Il Targum usa anche il termine aramaico «Memràh, Parola».
«Gloria» in ebraico ha attinenza con l’idea di «peso» che indica il «valore» della persona: il riferimento è alla «consistenza», perché in Oriente ciò che è pesante ha più valore di ciò che è leggero. Un uomo grasso vale più di un magro, perché il suo «essere» è consistente, pesante, cioè solido e stabile. Da questo punto di vista, Dio è l’essere glorioso per eccellenza perché trabocca del peso dell’esistenza: ne è anzi il creatore. Dare gloria a qualcuno significa, quindi, riconoscee il valore, validità, consistenza e importanza.
I banchetti dei re orientali sono confezionati prevalentemente con vivande grasse, espressione della «pesantezza», cioè dell’importanza, della «gloria» (cf Gb 36,16; Is 26,6). Il racconto delle nozze di Cana termina infatti con una nota del redattore che esprime esattamente tale idea: «Questo, a Cana di Galilea, fu il principio dei segni compiuti da Gesù; egli manifestò la sua gloria (dòxa, kabòd) e i suoi discepoli cominciarono a credere in lui» (Gv 2,11).
Esegeti e commentatori sono d’accordo nel dare rilievo specifico a questa parola pregnante che racchiude in sé la sintesi teologica di tutto il vangelo, che già nel prologo si apre con questa parola ripetuta due volte nello stesso versetto (Gv 1,14 per 2 volte) e si chiude con l’annuncio della morte di Pietro che deve glorificare il Signore (Gv 21,19). Lo stesso termine si trova a metà esatta del vangelo, quando l’evangelista, di fronte alla incredulità dei giudei, cita il profeta Isaia «perché vide la sua gloria e parlò di Lui» (Gv 12,41; cf Is 6,1-4).
In tal modo la parola «gloria» segna le nozze di Cana, discrimina la fede dall’incredulità e trasforma la morte in testimonianza gloriosa. Ancora una volta troviamo la struttura orientale: inizio e fine per indicare che il termine «gloria» è la chiave di volta di tutto il vangelo: tecnicamente si dice che questi due testi all’inizio e alla fine, formano «una inclusione», quasi un abbraccio che comprende quello che c’è nel mezzo: tutta la vita di Gesù.
Se dovessimo sintetizzare il IV vangelo in una parola, sarebbe lecito presentarlo come vangelo «dell’ora della gloria». Qual è il contenuto, valore, peso dell’«ora» e della «gloria» lo vedremo facendo l’esegesi del racconto di Cana, parola per parola.        
                                    (continua 4)

Di Paolo Farinella

Paolo Farinella




102 giorni d’inferno e paradiso

Suor Caterina e suor Maria Teresa raccontano…

Rapite il 20 novembre 2008 a El Wak (Kenya), tenute prigioniere in Somalia per 102 giorni, le due suore del Movimento contemplativo missionario Charles de Foucauld, Caterina Giraudo e Maria Teresa Olivero, una volta rilasciate, sono rimaste per alcuni giorni nella quiete della casa regionale dei missionari della Consolata a Nairobi. Una sera le ho «sequestrate» per fare una lunga chiacchierata sulla loro esperienza. E si sono arrese volentieri.

A  raccontare la loro brutta avventura è soprattutto suor Caterina, Rinuccia per le sue sorelle, donna minuta di 67 anni, che parla in modo dolce e quieto, ma con una grande forza interiore, ed è persino capace di sorridere e scherzare nel ricordare momenti anche buffi della loro prigionia. È infermiera e si arrangia con la lingua somala, in cui è chiamata con il nome di Khatra.
Suor Maria Teresa, 60 anni, è la più forte delle due. Alta, con mani grandi e forti da figlia di contadini, Mariam, come è chiamata in lingua somala, non parla molto. Così si limita a spalleggiare Khatra, con una voce che invita alla cautela, conferma, corregge, aggiunge, chiarisce e mette in guardia quando la potenza evocatrice dei ricordi supera la prudenza, per non rivelare cose che sarebbe meglio non dire. Ma quanta profonda e delicata sensibilità si notano in quelle poche parole e in quella voce profonda!
Dal loro racconto non sapremo molto sul perché furono catturate, sui negoziati ed eventuale richiesta di riscatto, su come furono liberate. Notizie di stampa locale e internazionale hanno riferito che i sequestratori erano miliziani di Al Shabaab e che la loro detenzione fosse a Mogadiscio. Sui giornali sono apparse anche congetture su un pagamento di riscatto e su uno scambio di prigionieri. La verità è gelosamente custodita da chi ha fatto il suo dovere in silenzio. Da parte mia ho evitato deliberatamente l’argomento durante la nostra conversazione.
So solo che il 19 febbraio, alle 3 del pomeriggio, una festosa telefonata mi informava che le due suore erano state liberate e, arrivate a Nairobi, erano state portate subito all’ambasciata italiana, da dove avevano potuto mettersi in contatto con le loro consorelle e confratelli. Ma lasciamo la parola a suor Caterina.
La cattura
Era circa mezzanotte. Dormivamo tranquille, sentendoci al sicuro nelle nostre stanze, protette dalle mura del recinto e due portoni di ferro, quando d’improvviso fui svegliata dall’inconfondibile scricchiolio del portone del cortile interno. Mi alzai allarmata, chiamai suor Maria e corsi alla finestra del soggiorno in tempo per vedere le luci di molte torce che avanzavano verso le nostre stanze. Poi si udirono degli spari, mitragliavano la porta della stanza di suor Maria.
Corsi indietro e mi aggrappai alla vecchia sirena a mano (foitaci negli anni ‘70 da padre Giovanni Bonzanino!). Suonai l’allarme girando la manovella con tutte le mie forze per diversi minuti, finché sentii sparare anche contro la mia porta.
Mi resi conto che ero ancora in pigiama; mi vestii in fretta e mi nascosi dietro un armadio (mi viene da ridere pensando alla mia ingenuità!), mentre la porta stava crollando sotto la gragnola di proiettili. Entrò un giovane, si diresse verso il mio letto. Non c’ero. Guardò in giro, mi scorse, mi afferrò una mano, uno strattone e mi ritrovai in terra come un sacco di patate. Mi trascinò fuori senza complimenti e … senza scarpe.
Suor Maria era già fuori, con una torcia in mano. Prima che la sua porta fosse sfondata, aveva tentato di chiamare aiuto con il telefono mobile, ma nessuno aveva risposto.
Spintonate dai nostri sequestratori, arrivammo al portone esterno: un colpo di fucile mandò in frantumi il grosso lucchetto nel quale avevamo riposto tanta fiducia. Trascinate e strattonate, attraversammo a passo svelto l’intero villaggio di El Wak. Io gridavo aiuto con tutta la mia voce, mentre il mio sequestratore mi picchiava dietro la testa: «Silenzio! Silenzio!».
Poi caddi a terra lunga e distesa. Ero scalza. Era buio. Mi spingevano. Sentii sul collo la canna di una pistola, ma continuavo a gridare. In quel momento cominciai a sentire interiormente che non ci avrebbero ucciso. Volevano farci prigioniere. Cadde a terra anche suor Maria. La colpirono in testa con il calcio del fucile. Cominciò a sanguinare; per fortuna la ferita era superficiale.
Alcune automobili ci aspettavano. Mi gettarono di peso dentro una di esse senza complimenti: ero troppo esausta per reagire. Maria si sedette al mio fianco. Aspettammo un poco. Da quel momento cominciammo a pregare. Una preghiera continua. Si udì un’improvvisa scarica di armi da fuoco proveniente dalla città: il cuore ci batteva forte; qualcuno veniva a liberarci. Speranza vana. I nostri sequestratori si raggrupparono, balzarono nelle auto e si gettarono dritti nella boscaglia. Passammo vicino a El Uach, il villaggio somalo opposto a El Wak, e continuammo per oltre un’ora, finché ci fermammo e fummo trasferite in una comoda Range Rover dai vetri scuri.
Alcuni sequestratori si avvicinarono al finestrino; avevano telefonini cellulari. Uno ci mostrò una foto: «Lo conosci?». Era l’inconfondibile faccia di Bin Laden! «Sì» rispose suor Maria. Il cuore sembrava scoppiare: eravamo proprio in «buone» mani! «Siamo di Al Shabaab» dissero, poi domandarono: «Siete musulmane o pagane?». «Siamo persone che amano tutti nel nome di Dio» rispose suor Maria: una risposta ispirata da Dio! Da allora non ci fecero più simili domande.
Cinque giorni fuori pista
Viaggiammo tutta la notte, fino alle quattro del pomeriggio seguente, senza cibo né acqua. Avevo grande bisogno di zucchero o di sale per la mia pressione. Lo chiesi, ma fecero orecchie da mercante. Quando finalmente ci fermammo, il capo del gruppo disse: «Ora mangiamo pastò». Intendeva pastasciutta. Ci sedemmo al sole accanto all’auto; dopo un po’ ci portarono un grosso piatto di spaghetti, luccicanti di olio e qualcos’altro. Assaggiai. Era zucchero! Dopo 16 ore di viaggio e la pressione che continuava a scendere, anche gli spaghetti allo zucchero potevano andar bene.
Ma il vero problema era l’acqua. Quella disponibile l’avevano usata tutta per cuocere gli spaghetti. Rimanemmo senza bere fino la sera del giorno seguente, quando arrivammo a un villaggio e le auto si fermarono accanto alla moschea, da cui la gente era appena uscita. Qualcuno ci portò una tazza di tè: era meraviglioso; dopo 40 ore di viaggio quel tè aveva gusto di paradiso! Vedendo la gioia e gratitudine con cui lo avevamo bevuto, ce ne portarono un altro; poi un uomo arrivò con un piattino di riso e due cucchiai; un altro con un piattino di nyieri-nyieri, gustosa carne fritta nell’olio cucinata solo in speciali occasioni di festa. Fu poi la volta di una tanichetta d’acqua da 3 litri e una bustina di shampoo: così suor Maria poté lavarsi la ferita.
Fummo portate in un luogo nascosto, nell’alveo secco di un torrente, dove ci avevano preparato una stuoia su cui dormire, al chiaro di luna. Dato che ero scalza, il vice capo mi prestò le sue scarpe per raggiungere lo spiazzo. Faceva freddo e avevo niente per coprirmi, allora lo stesso corse al villaggio e toò con un grande lenzuolo. Cominciammo a dormire, un sonno agitato, mentre anche i sequestratori si coricarono in circolo attorno a noi, sempre stretti ai loro fucili e lancia razzi. Erano tutti ragazzi giovani, eccetto il capo.
Al mattino riprese il viaggio verso sud, su percorsi fuori pista. Dormimmo per qualche ora e di nuovo in viaggio, finché dovettero fermarsi per problemi meccanici. Per quasi tutto il giorno rimanemmo in quel posto isolato, senza cibo e senza acqua. Suor Maria ebbe un momento di panico. Dei tre litri restavano solo un paio di bicchieri d’acqua bianchiccia e fangosa: fu la molla che fece scattare le nostre paure: prigioniere, in mano a sconosciuti, per ragioni ignote, in terra deserta…
Riuscimmo, tuttavia, a riprendere il controllo di noi stesse. Arrivò il tramonto e la sete divenne più sopportabile. Per la prima volta riuscimmo a recitare un rosario per intero. Fino a quel momento avevamo pregato sempre, in continuazione, ma solo con brevi invocazioni, come «Signore, salvaci». Ci aiutava a restar calme.
Appena finito il rosario, fummo portate alle auto. La «nostra» Range Rover era pronta alla partenza. E proprio in quel momento arrivò il meccanico con una tanica da 20 litri d’acqua. Ognuno se ne prese una bottiglia, anche noi; ma il vice capo ci diede un extra, prese la nostra tanichetta, la riempì e ce la consegnò. Una gentilezza che apprezzammo molto.
Era già buio, ma il capo decise di lasciare il gruppo con le macchine rotte e proseguire da solo con la Range Rover, con dentro noi e altri due uomini. Guidò per 20 ore di seguito, giorno e notte. Eravamo arrivati così a sud, da perdere la direzione; dopo aver chiesto spiegazioni via cellulari, il capo fece salire un uomo che ci guidò verso una grande città, che immaginammo dovesse essere Mogadiscio.
la prigionia
Dopo 5 giorni di terribile viaggio, eravamo finalmente in una casa. La padrona sapeva del nostro arrivo. Ci diede un vestito nuovo ciascuna, acqua per bere e per lavarci e un materasso per dormire. Quella notte riuscimmo a riposare.
Il giorno seguente il capo stesso, con voce severa, ci ricordò che saremmo morte se le trattative fossero fallite. La minaccia ci lasciò di ghiaccio. Eppure ci sentivamo molto forti. Fin dall’inizio di quella dura prova avevamo fatto lo stesso proposito: affrontare con pace interiore qualsiasi cosa fosse capitata; così instaurammo un rapporto il più positivo possibile con i nostri rapitori. Per grazia di Dio, non abbiamo mai avuto sentimenti di rabbia, odio o avversione verso di loro.
Nella città, sebbene più volte trasferite da un posto all’altro, fummo tenute in stanze abbastanza larghe; avevamo due materassi e due cuscini e qualche vestito di ricambio; là ci fecero indossare il burka e coprire i capelli. Rimanevamo chiuse nella stanza tutto il giorno; ci era permesso di uscire solo per i bisogni fisiologici. Solo nelle ultime 4 settimane ci fu consentita un’ora all’aria aperta nel sole di mezzogiorno.
A parte ciò, ci trattavano sempre con rispetto e cortesia, provvedendoci cibo buono e abbondante. Un giorno uno di loro ci presentò un libro. «Lo conoscete? The Holy Bible!». Ci spiegò che avevano ucciso un soldato straniero e gli avevano trovato quella Bibbia in tasca; ora era lì per noi. Un regalo stupendo, che accettammo con immensa gioia.
La usammo molto, ma con prudenza, per non provocare discussioni su argomenti religiosi. Infatti avevamo qualche problema con uno dei giovani carcerieri alquanto zelante. Per cui, un giorno ne parlammo al vice-capo, che era sempre stato gentile con noi. Raccontammo come eravamo ammirate per il loro comportamento: tutti disciplinati, mai un litigio o parole irriguardose, non facevano uso di tabacco e alcolici né masticavano miraa (la droga così comune tra i somali!), sempre rispettosi nei nostri riguardi e verso le donne in generale. C’era solo quel giovane miliziano che ogni tanto ci metteva in imbarazzo. Da quel giorno il giovane ci lasciò in pace e ci trattò con gentilezza.
Per 40 giorni (nella nostra comunità siamo allenati ai 40 giorni! [Ndr. i 40 giorni di deserto e preghiera che caratterizzano la vita spirituale dei contemplativi missionari]) riuscimmo a conservare il morale discretamente alto. Certo, avevamo paura. Chi non ne avrebbe avuta in tale situazione, con uomini sempre armati di fucili e bombe, sempre pronti a vantarsi delle loro uccisioni? Ma resistevamo, e non abbiamo mai perso la nozione del tempo. Suor Maria aveva ancora il suo orologio; il mio si era rotto mentre mi trascinavano a El Wak. Eravamo anche riuscite a compilare un calendario di fortuna, con un pezzo di carta e un mozzicone di matita trovato sul davanzale di una finestra.
Avemmo un momento di grande apprensione il 23 dicembre, quando uno dei carcerieri ci disse che le trattative per il nostro rilascio erano ferme. Seduto nella nostra stanza, ci riferì la notizia in modo calmo e cortese, provando perfino a consolarci e condividendo il nostro dolore. Ma fu terribile. Ci sentivamo tradite, abbandonate, sole, impotenti, e ferite nel profondo dell’anima.
In tale stato d’ansietà celebrammo il natale; abbiamo pregato, letto i passi biblici della natività di Cristo; sentivamo Gesù profondamente presente, lì, prigioniero con noi. Ma fu un momento di grande oscurità, durato fino alla fine dell’anno. Poi cominciarono a trapelare notizie migliori.
la forza della preghiera
A darci coraggio era la preghiera. All’inizio eravamo persino incapaci di pregare insieme; pregavamo molto, ma ognuna per conto suo. Poi cominciammo a pregare insieme la sera; alla terza settimana ci eravamo già organizzate bene: lodi mattutine, vespri serali, 4-5 rosari durante la giornata e la partecipazione mentale alla messa, momento per momento, con comunione spirituale.
Per la recita dei salmi ci aiutavamo a vicenda ricordandoli a memoria. Naturalmente il primo che ci venne in mente fu: «Il Signore è il mio pastore». Lo sapevamo bene ed era proprio giusto per la nostra situazione. Poi il salmo 103, «Benedici il Signore, anima mia!». Il salmo 63 era sempre sulle nostre labbra: «O Dio, tu sei il mio Dio, all’aurora ti cerco». Riuscivamo a ricordae abbastanza bene circa 15; ne recitavamo sei-sette nella mattinata; gli altri alla sera, ripetendoli anche due volte. Pregavamo con molta calma: non avevamo altro da fare tutto il giorno.
Pregavamo sempre a bassa voce, per non attirare l’attenzione. Non osavamo cantare. Solo nelle ultime settimane trovammo il coraggio di intonare qualche canto, perché la nostra stanza era la più isolata, lontano dalle orecchie dei nostri custodi.
Per mantenerci occupate camminavamo su e giù per la piccola stanza, fino a stancarci. Andando avanti e indietro, recitavamo il rosario, tanti rosari. A ogni Ave Maria inserivamo qualche giaculatoria: «Gesù, io confido in te»; «Spirito Santo illuminaci, guidaci ogni istante della giornata»; «Madre nostra, Maria, aiutaci a ringraziare»… Un rosario poteva durare più di mezz’ora. Pregare in quel modo era un balsamo per noi. Ci ha aiutato tantissimo.
Nei vespri serali avevamo un’occasione per ringraziare con il Magnificat. Ringraziare! Era molto importante per noi. Forse dovuto all’insistenza e formazione instillateci dal fondatore della nostra comunità, il ringraziamento è sempre stato parte della nostra preghiera, anche in quei giorni difficili. Ogni giorno avevamo motivi per rendere grazie.
La Parola di Dio ci accompagnava tutto il giorno. Ripetevamo spesso passi o versetti più familiari della Parola di Dio. A volte usavamo la Bibbia che ci avevano dato. Alcuni versetti ci venivano facilmente in testa, come «venite a me voi che siete stanchi e oppressi…» e «ama i tuoi nemici e prega per coloro che ti perseguitano». Citazioni molto significative, che ci aiutavano a illuminare, rinnovare, correggere ogni giorno la nostra relazione con quelli che ci stavano vicino in quei momenti. Quando li sentivamo pregare, anche noi pregavamo per loro. Invocavamo lo Spirito Santo perché operasse in loro.
Eravamo convinte che lo Spirito fosse al lavoro, anche in quella difficile situazione. Non che fosse facile. Anzi! C’erano momenti di sconforto, come quando ci sentivamo abbandonate con la sensazione che Dio fosse lontano: «Perché non rispondi? Fai presto, aiutaci. Liberaci!». Eravamo tentate di perdere la speranza, di cadere nella più nera disperazione. Ma poi… «Se tu non fossi qui, Signore, cosa sarebbe di noi? Cosa potremmo mai fare?». Non era possibile dubitare. Sentivamo davvero che il Signore era lì con noi, prigioniero anche lui con noi!
Esperienza di Paradiso
È stata molto, molto dura… tante lacrime, non solo interiori. Molte ore insonni; l’angoscia che ti prendeva dentro; essere sveglia e sentire accanto la sorella piangere nel sonno… ti trafigge il cuore; e pensi: «Sto già soffrendo troppo! E se anche lei patisce tanto dolore, come faremo a sopravvivere?».
Tale esperienza ci faceva sentire più vicine al Cristo crocifisso. Un giorno ci siamo persino dette che dovevamo essere grate a Dio perché avevamo il privilegio di condividere la passione di Cristo. Tale pensiero non veniva da ragionamento, era piuttosto un’intuizione, ma ci fu di grande aiuto. La sofferenza di Gesù, il suo essere tradito, la sua debolezza, come agnello portato al macello… ci siamo sentite anche noi così: impotenti, spoglie, indifese, inermi di fronte a una realtà fuori del nostro controllo.
Eravamo certe che la nostra comunità, i parenti e tantissime persone erano con noi e ci stavano sostenendo con la preghiera. Ma in realtà eravamo sole, senza contatti, senza notizie, senza risposte alle nostre mute domande. Era un’esperienza di purificazione. Crescevamo nella fede giorno dopo giorno, ma era una fede nuda, oscura… proprio «come succhiare un chiodo», come usava dire il nostro fondatore. Ma era fede. Sapevamo che il Signore era lì con noi. Recitando il rosario, sperimentavamo la presenza della nostra Madre, lì, con noi. Era un continuo scorrere di grazia. Al tempo stesso era una croce, nella sua totalità, senza sconti.
Sentivamo entrambe che lo stare insieme era una benedizione. A un certo punto, percepimmo che stavamo vivendo un’esperienza di paradiso: mai nella vita ci eravamo sentite così legate da affetto, profonda comunicazione e solidarietà. Stavamo vivendo l’una per l’altra.
Non che fossimo senza problemi. In certi momenti eravamo così tese e stanche da non riuscire a sopportarci a vicenda. Brevi momenti dolorosi, ma lo capivamo; era normale. Si cercava di evitare parole inutili, pesanti… per non aggravare il già pesante fardello che dovevamo portare.
Abbiamo imparato a condividere tutto, persino le sofferenze più segrete. Come quando suor Maria mi vide piangere nel sonno: non aveva il coraggio di dirmelo, le sembrava troppo; ma poi decidemmo che anche quei momenti dovevano essere condivisi, perché una sofferenza così forte che per notti e notti non ti permette di dormire può essere lenita solo condividendola.
Il futuro
Due ore prima di salire sull’aereo ci fu detto che eravamo libere. Fu una gioia incredibile. E ora siamo qui e ringraziamo tutti coloro che ci hanno sostenuto con la loro preghiera e solidarietà, da tutti gli angoli del mondo.
Anche i nostri amici musulmani di El Wak e Mandera hanno pregato per noi dal primo giorno della nostra prigionia. Ora ci chiamano ogni giorno, chiedendoci di ritornare. Molti di loro non riescono neanche a parlare al telefono, si mettono a piangere. Hanno fatto tanto per noi, pregando ed insistendo con gli anziani per la nostra liberazione. I poveri, i malati, le madri, i vecchi… erano tutti dalla nostra parte. Ma i poveri non han potere né voce!
Toeremo? Preghiamo e speriamo, ma non sappiamo. Il nostro futuro è nelle mani di Dio! 

Di Luigi Anataloni

Luigi Anataloni




Viva la cooperazione (se è buona)

C come cooperazione: Cristian Brisacani

L’«Istituto di cooperazione economica internazionale» (Icei), una Ong italiana, lavora a Montevideo nei campi del turismo comunitario, delle piante medicinali, dei saperi tradizionali e dei diritti umani.

Montevideo. Sulla soleggiata terrazza della Posada al Sur, nel cuore della vecchia Montevideo, a pochi passi dal porto, Cristian si gusta il mate, del quale – dopo anni trascorsi tra Buenos Aires e Montevideo – non può fare più a meno. Cristian Brisacani lavora nella capitale uruguayana per l’«Istituto di cooperazione economica internazionale» (Icei), una Ong italiana che ha molti progetti in America Latina.

In Uruguay c’è stata una consistente emigrazione italiana. Tuttavia, difficilmente un italiano saprebbe trovare di prim’acchito questo paese sul mappamondo. Cristian, come lo descriveresti in poche parole?
«L’Uruguay è un paese dell’America Latina con 3 milioni e mezzo di abitanti. La sua popolazione è molto concentrata nella capitale, dove risiede circa la metà degli uruguayani. Paese relativamente piccolo a confronto con gli altri paesi latinoamericani, l’Uruguay è schiacciato dai due giganti che gli stanno ai lati: il Brasile e l’Argentina. E lo stesso processo di formazione nazionale fu una decisione presa a tavolino dal Brasile e l’Argentina che, per evitare altri conflitti e violenze, decisero di formare uno stato cuscinetto, lo stato uruguayano. È un paese in cui l’apparato statale, unico fornitore di servizi, è il maggiore datore di lavoro. È soprattutto un paese agricolo e di allevamento, che però sta diventando interessante anche dal punto di vista turistico. Soprattutto turismo costiero e stagionale».

A parte i periodi della dittatura, la politica dell’Uruguay è sempre stata dominata da due partiti conservatori, il partito dei Blancos e quello dei Colorados. Dal 2005 è però al potere una coalizione di centrosinistra, guidata dall’oncologo Tabaré Vázquez. Puoi raccontarci come sta procedendo questa esperienza di governo?
«Il governo del Frente amplio (Fronte ampio, in italiano) è stata una svolta storica per questo paese. Dopo 150 anni di governi istituzionali o di periodi di dittatura, un insieme di partiti dalle anime diverse è riuscito a compattarsi in un unico movimento di opposizione. Ripeto: è stata una svolta molto grande per questo stato. Con l’avvento del Frente amplio ci sono stati cambiamenti sociali e culturali; ci sono stati investimenti importanti in settori che in precedenza venivano considerati marginali e secondari rispetto ad altri. C’è stata la lotta all’indigenza, alla povertà estrema, ma probabilmente 5 anni sono pochi per fare una considerazione generale sull’impatto della politica del Frente amplio. Sicuramente il Fronte ampio come molti altri partiti progressisti in America Latina hanno ancora una sfida da affrontare e vincere: la lotta alla povertà e alla distribuzione iniqua delle risorse economiche».

Vuoi dire che neppure il piccolo Uruguay è esente dalle piaghe latinoamericane della povertà e dell’ingiusta distribuzione delle risorse?
«È così. Anche in Uruguay c’è un problema di povertà, anche se forse ha una dimensione diversa rispetto agli altri paesi: qui riguarda il 20-25% della popolazione. Spesso i poveri non sono persone senza lavoro: buona parte di questi poveri hanno un lavoro, magari precario e molto duro, ma percepiscono uno stipendio che non garantisce la soddisfazione delle necessità primarie. L’Uruguay non ha risorse strategiche. Deve importare tutto: prodotti industriali, tecnologia, prodotti tipici e questo fa sì che il costo dei prodotti sia alto e gli stipendi non siano sufficienti. Insomma, le condizioni di vita di un uruguayano medio non sono ottimali».

Una delle sorprese di questa città è stata quella di trovare quartieri afro… 
«Il 10% della popolazione montevideana è di origine africana. E storicamente Barrio Sur e Palermo sono i quartieri della comunità afro-uruguayana. Hanno caratteristiche molto interessanti, ma anche storie di dolore e violenza. Per esempio, i simboli della comunità afro-uruguayana a Barrio Sur e Palermo sono due edifici popolari, dove vivevano famiglie afro-uruguayane che furono espulse, cacciate violentemente, durante gli anni della dittatura militare».

Nel quartiere di Barrio Sur, Icei porta avanti un progetto interessante. Puoi parlarcene?
«Noi lavoriamo con la comunità, che ha tutta una serie di realtà e organizzazioni artistiche, sociali, educative, cornoperative. Con il nostro progetto turistico vogliamo evidenziare l’elemento comunitario, la presenza della comunità come protagonista nella gestione dell’offerta turistica. Immaginando un viaggio ideale, unico che è quello della conoscenza della cultura afro-uruguayana che normalmente non appare. Perché la comunità africana di Montevideo ha sviluppato una musica, una tradizione musicale che è propria di questo territorio».

Ti riferisci al cosiddetto «candombe»…
«Sì, il candombe l’espressione massima della musica tradizionale afro-uruguayana. E il momento migliore per ascoltarlo è quello del carnevale, uno dei più lunghi del mondo. Il carnevale di Montevideo è quello delle “chiamate” (llamadas) al ritmo contagioso dei tamburi (tambores) e delle rappresentazioni teatral-musicali nello scenario dei quartieri (murgas)».

Ieri, mentre visitavamo Barrio Sur, abbiamo avuto un fuori programma, diciamo così. Vuoi raccontarlo brevemente?
«Sì. Abbiamo assistito ad una breve sparatoria e all’intervento della polizia su un piccolo gruppo di drogati. Uno dei motivi per il quale interveniamo nel barrio è proprio per cercare di sconfiggere la diffusione di questa droga che si chiama pasta base e che è molto deleteria».

Che contributo può dare il turismo contro la droga?
«Potrebbe diventare un fattore di limitazione alla diffusione del fenomeno. In generale, sosteniamo il turismo comunitario come strategia di lotta contro il degrado, la marginalità e la povertà. Attraverso di esso vogliamo favorire la riappropriazione da parte della comunità di un territorio e la rivalorizzazione della sua identità culturale. Il turismo si chiama “comunitario”, perché la comunità diventa la protagonista della realizzazione e della gestione dell’offerta turistica. La quale, pertanto, viene difesa, protetta, preservata. Il turismo, lo vedevamo ieri, può essere una fonte di lavoro molto importante. Uno dei motivi della diffusione della droga è proprio dovuto alla mancanza di possibilità lavorative o educative».

A proposito della visita di ieri a Barrio Sur… Ancora una volta abbiamo constatato che, nelle situazioni difficili, le donne sono quelle che lavorano di più per uscire dai problemi, per trovare soluzioni.
«Sì, è un fenomeno tipico delle crisi economiche latinoamericane degli ultimi anni. Il ruolo da protagonista assunto dalle donne nella definizione, ma anche nella attuazione delle strategie di sopravvivenza e di sviluppo. In sostanza, la crisi economica in Argentina e Uruguay è anche la crisi della figura maschile. L’uomo che perde il lavoro e che non riesce ad accettare questa situazione di emarginazione. Con delle ripercussioni psicologiche importanti, legate ad un aspetto fondamentale della cultura maschile: il lavoro fa dell’uomo un uomo. Dopo la crisi l’uomo resta a casa. La donna invece, con la crisi deve darsi da fare e cercare di trovare strategie alternative per la propria famiglia. Questo fenomeno socio-culturale è molto presente come testimonia il fatto che nei movimenti sociali e nelle organizzazioni comunitarie la presenza delle donne è molto forte. Mi spiegava Ivonne, la rappresentante comunitaria di Barrio Sur, che la difficoltà di articolazione con le altre organizzazioni del quartiere nasce anche dalla circostanza che la Casa del Vecino è una organizzazione composta di donne».

Siamo a due passi dal porto, nella parte vecchia della città di Montevideo. Poco fa abbiamo visto passare un transatlantico, una nave crociera, puoi dirci la tua opinione su questa ambivalenza del fenomeno turistico: da una parte il turismo dei grandi numeri e dei tanti soldi, dall’altra il turismo responsabile, sostenibile, comunitario…
«L’Uruguay riceve molte navi da crociera per la sua posizione strategica: il porto di Montevideo è molto più vicino al mare che non il porto di Buenos Aires. Effettivamente è un turismo dai grandi numeri (3.600 persone per barca) e un turismo che muove tanti soldi. Però, l’impatto che produce questo turismo sulla realtà economica e sulla società dell’Uruguay è molto limitato. Il turismo produce ricchezza: in molti paesi è una delle principali fonti di entrate dello stato. Tuttavia, molto raramente questo tipo di turismo produce redistribuzione di ricchezza. La ricchezza si concentra infatti nelle mani di soggetti transnazionali e non ha un impatto positivo sulla qualità di vita della popolazione locale. Le crociere rientrano pienamente in questa tipologia. Come d’altra parte avviene per Colonia, dove il turista va e torna in un giorno. Colonia è una città al di là del Rio de la Plata, molto più vicina a Buenos Aires che a Montevideo, una città storica, una colonia portoghese, patrimonio dell’Unesco, molto carina. C’è un transito impressionante di turisti che, in un giorno, visitano la città e poi tornano a Buenos Aires».

Abbiamo parlato di crociere. Abbiamo parlato di Montevideo e di Colonia. Però non abbiamo accennato a Punta dell’Este…
«Quello di Punta dell’Este è però un turismo d’élite. Ci sono europei che fanno 13 mila Km per passare le prime due settimane di gennaio qui. È un fenomeno molto ridotto, stagionale, che non produce un impatto economico positivo sulla popolazione, che non è fonte di sviluppo e di crescita».

Toiamo allora alla vostra idea di turismo.
«Preso atto che l’Uruguay ha potenzialità turistiche inesplorate, noi vogliamo sviluppare un turismo che si avvicini alle comunità di un paese attraverso i racconti, la storia, le leggende, i suoni, la cultura delle persone che di quelle comunità sono parte. Tutto quello che abbiamo visto visitando Barrio Sur: la musica, i colori, i suoni, le parole degli abitanti  e non di persone estee. Chi beneficia di questo approccio diverso non è soltanto la comunità, ma anche il visitatore: è uno scambio, che arricchisce entrambi. Perché quando il turista toerà a casa, si ricorderà non soltanto i luoghi, ma anche e soprattutto i volti e i racconti delle persone».

Il mondo sta vivendo una crisi generalizzata. Questa si sta riflettendo o si rifletterà su un paese come l’Uruguay?
«Questo è un momento di crisi molto acuta. In Uruguay, essa riguarda soprattutto il mondo agricolo. Per ragioni naturali, congiunturali, intee, inteazionali. La produzione agricola è distrutta, dato che non piove da diversi mesi. I prezzi dei prodotti alimentari sono saliti alle stelle. Gli animali (l’allevamento è un settore fondamentale di questo paese) stanno morendo. Ci saranno dei costi molto alti per i produttori e la popolazione. Il problema è che l’attuale modello economico agricolo non prende in considerazione quelli che sono gli elementi per una crescita duratura e per una strategia di sviluppo. Ad esempio: gli elementi di sostenibilità, l’impatto ambientale, il cambio climatico (che ormai non può essere dimenticato nelle strategie di sviluppo di un paese). Ed ancora, le risorse idriche e la loro gestione. La siccità non è un evento di questo anno, ma un fenomeno con cui ci si dovrà confrontare anche negli anni futuri».

Icei, la vostra organizzazione, lavora anche nel campo agricolo con alcuni progetti. In cosa consistono?
«In Uruguay, noi lavoriamo nel campo dell’agricoltura familiare. In particolare, siamo attivi con un progetto sulle piante medicinali, finanziato dal ministero degli affari esteri italiano. È un progetto sull’uso di piante come prodotto terapeutico. Anzi, devo dirlo meglio: è un progetto sull’uso popolare delle piante come medicina. Il progetto si chiama “dialogo tra saperi”, perché l’obiettivo è il reciproco riconoscimento dei diversi saperi: il sapere accademico, il sapere scientifico, il sapere popolare… Noi stiamo lavorando quasi esclusivamente con donne rurali, che sono depositarie di un sapere popolare sulla coltivazione, la raccolta, l’uso delle piante come medicina in zone dove l’accesso alla salute può essere un problema».

Cristian, per me l’Uruguay è il paese di Eduardo Galeano. Tutti i suoi libri vengono tradotti in italiano. Però, tu hai un altro nome da proporci…
«È un autore con un nome tutto italiano: Mario Benedetti. È un autore latinoamericano, che associo alla letteratura italiana di inizio secolo scorso: Svevo, Pirandello… È un autore con molta attenzione nei confronti della società. Galeano forse è più politico, mentre Benedetti è uno scrittore più sociale, che si interessa delle piccole grandi tragedie dell’umanità, descrive l’uruguayano per quello che è. È scrittore, drammaturgo, poeta…
Accanto a questi scrittori importanti, ci sono anche cantautori, che hanno saputo raccontare la cultura uruguayana… Uno dei sogni che avevo quando venni in America Latina era di poter ascoltare dal vivo Daniel Viglietti. Finalmente, ci sono riuscito e l’ho anche conosciuto di persona. È un cantautore, un artista dal forte impegno politico.
Insomma, la cultura uruguayana è molto ricca. Non va dimenticato che questo è uno dei paesi più colti delle Americhe, con il tasso di alfabetizzazione più alto dopo Cuba».

Paolo Moiola

Paolo Moiola




Banche e persone: il diverso peso dei diritti

D ccome diritti: incontro con lelsur

Com’è cambiata la percezione dei diritti umani in un paese che ha conosciuto la dittatura? Nei diritti sono compresi anche i diritti economici, sociali e culturali o soltanto quelli politici? Il diritto alla sicurezza va salvaguardato anche calpestando gli altrui diritti? È giusto salvare le banche private con soldi pubblici? Di tutto ciò siamo andati a parlare nella sede dell’«Istituto di studi legali e sociali dell’Uruguay» (Ielsur).

Montevideo. Dall’alto dell’ottavo piano il panorama sulla Plaza Independencia è molto attraente. Siamo nella sede dell’«Istituto di studi legali e sociali dell’Uruguay» (Instituto de estudios legales y sociales del Uruguay, Ielsur), un’organizzazione di difesa dei diritti umani sorta nel luglio 1984, immediatamente dopo la fine della dittatura.
Un gruppo di avvocati si unì per presentare denuncie di lesa umanità contro i responsabili della dittatura. Questo fu l’inizio: la lotta contro l’impunità, che ancora oggi rimane un tema importante in Uruguay, dato che in 20 anni nessuna persona è stata incarcerata per quel delitto. Questo è stato il tema storico, ma poi Ielsur ha iniziato a diversificare la sua tematica.
Oggi l’organizzazione si occupa di diritti umani in varie aree: dalle carceri ai minori, dalla libertà di espressione ai diritti economici, sociali e culturali.

Luis Pedeera è uno dei membri dell’associazione. Dopo aver raccontato di aver conosciuto Barrio Sur e i problemi legati al traffico della droga, gli domandiamo se Montevideo sia una capitale violenta.
«Secondo me, no – risponde -. Per lo meno non nella misura in cui appare da certi settori politici e da certa stampa. Di norma, l’uruguayano è una persona amabile, che si preoccupa del vicino, ma il sistema penale rompe per definizione i vincoli comunitari». Negli anni Novanta, i governi di destra hanno attuato una politica repressiva. Con l’approvazione, ad esempio, della «Legge di sicurezza cittadina» (Ley de seguridad ciudadana, 1995). Come sta accadendo in molti paesi del mondo, dall’insicurezza e dalla paura della gente hanno creato il loro consenso. Così le carceri dell’Uruguay si sono riempite oltre ogni limite.
Il problema non ha trovato una soluzione neppure con il governo di centrosinistra, con il quale Ielsur ha avuto qualche incomprensione, a dimostrazione dell’indipendenza della Ong. In particolare, non sono state gradite le critiche sulle condizioni all’interno delle carceri.
«Non ci hanno guardato – spiega Luis – con la mente aperta che dovrebbero avere i progressisti. Non hanno capito che noi siamo un’organizzazione indipendente che agisce soltanto per la difesa dei diritti umani. La sinistra non ha saputo rimuovere quella cultura che fa del prigioniero l’ultimo schiavo della società, dimenticandosi che anche lui è una persona».

Luis è specializzato in diritti umani dei minori. Ed è durissimo nella sua denuncia. «In Uruguay, la povertà si concentra nei bambini. Il 50 per cento dei bambini da 0 a 5 anni nasce in luoghi poveri. Sono loro i più colpiti dalle conseguenze della politica di sicurezza cittadina. E nelle carceri dove sono rinchiusi sono maltrattati, riempiti di psicofarmaci, torturati».
«Se un poliziotto incontra qui sotto, nel centro di Montevideo, un ragazzo con “cara de expedientes” – sporco o con vestiti logori, per esempio -, può portalo in carcere. Il centro è zona turistica…».
Domandiamo a Luis se la gente uruguayana sostiene questo comportamento della polizia. «Sì, lo sostiene. Proprio per questo chiediamo alla sinistra che non copi le dinamiche della destra, la quale concepisce la soluzione dei conflitti sociali attraverso una maggiore repressione».

Luis non ha risparmiato critiche al comportamento della sinistra al governo rispetto alle problematiche delle carceri. Ma c’è anche una legge all’avanguardia, chiamata «Legge di umanizzazione carceraria» (Ley de humanización carcelaria), approvata da questo governo. Essa prevede attività di lavoro ed educazione per i carcerati con sconti di pena per chi svolge queste attività. È un modo anche per decongestionare le carceri, che sono sovraffollate: ci sono luoghi di detenzione che ospitano 3.000 persone invece che 900 (1). 
La legge di umanizzazione prevede un sistema di premi. «Per ogni 2 giorni di lavoro e studio è un giorno in meno di carcere», spiega Luis. Ma la legge stenta a trovare applicazione, per questo Ielsur è intervenuta con una denuncia, suscitando un acceso dibattito. «Erano gli stessi detenuti a spingere per avere lavoro ed educazione. Rompendo con la loro richiesta molti pregiudizi».

Anche in Uruguay sta arrivando la crisi globale. Chiediamo a Luis se essa influirà sui diritti umani. «Terribilmente», risponde sicuro Luis. Che è durissimo contro le politiche pubbliche che mirano a salvare le banche (2) e non i settori sfavoriti, che pagano sempre.
«Perché – protesta con vigore  – i delitti delle banche non sono perseguiti come quelli dei minori? Mediamente un delitto di un adolescente vale 100 dollari ed è compiuto senza armi da fuoco nell’98 per cento dei casi. Il danno compiuto dai banchieri è molto maggiore, perché per salvare gli istituti lo stato sottrae soldi pubblici ai settori sociali. A me non interessa salvare le banche, ma la gente, le vite umane».
«Se non si pensa che il problema principale è di ridistribuire la ricchezza (che sta sempre nelle stesse mani), il sistema rimarrà sempre lo stesso, i ricchi e le banche si salveranno sempre e le crisi saranno pagate dai soliti».
Ielsur è membro della «Rete internazionale per i diritti economici, sociali e culturali» (Red inteacional para los derechos económicos, sociales y culturales, Red Desc). A dicembre 2008, Luis è andato a Nairobi per partecipare al convegno della Rete. Ed è rimasto impressionato dalla città kenyana e dall’enormità dei suoi problemi.
«Mi sono reso conto che Nairobi ha tanti abitanti quanti l’intero Uruguay e che un qualsiasi barrio povero di quella città ha 300 mila abitanti, dove qui ne abbiamo 1.000 o 2.000».
 
Ad ogni domanda, Luis Pedeera risponde con passione e partecipazione: si vede che crede fermamente in quello che dice e che ama il proprio lavoro con Ielsur. Per concludere la nostra conversazione, gli chiediamo se vede una via d’uscita all’attuale crisi globale. Lui sorride.
«Secondo me, la soluzione è quella comunitaria, anche se in società sempre più complesse è diventato molto difficile. Ma proprio in questo consiste la sfida di oggi. A meno che non si voglia vivere e morire nelle condizioni dettate da questo sistema». Un sistema nel quale le banche valgono più delle persone. 

di Paolo Moiola

(1) Alla fine di marzo 2009, il collasso delle carceri uruguayane è stato confermato dal relatore Onu Manfred Nowak.
(2) Il 2 aprile 2009, l’Ocse ha incluso l’Uruguay nella lista nera dei paradisi fiscali, assieme a Costa Rica, Malesia e Filippine.

Paolo Moiola




Poche stelle,  molto cuore

B come «barrio»: visita a Barrio Sur

A Barrio Sur, la maggioranza degli abitanti sono neri. Al quartiere non mancano i problemi – disoccupazione e droga, in primis -, ma neppure le idee e la volontà di riscatto dei suoi abitanti. Ecco cosa ci hanno raccontato Ivonne, Carmen e Cristina…

Montevideo. Barrio Sur sembra un quartiere molto tranquillo: pochissime auto, le strade a disposizione dei bambini. A parte una serie di condomini che guardano verso il mare, le abitazioni sono basse, un piano o due.
Barrio Sur, quartiere abitato da afrouruguayani, è la culla del Caevale di Montevideo, famoso non soltanto per la sua lunghezza, ma soprattutto per la sua musica di origine africana (candombe), per i suoi balli al suono dei tamburi, per le sue rappresentazioni nelle strade che ogni anno richiamano migliaia di persone.
L’appuntamento è al 993 di Calle Michelini, alla «Casa del Vecino», un’associazione comunitaria deputata ad ascoltare e farsi carico degli interessi e delle richieste della comunità di Barrio Sur, quartiere dove certo non mancano i problemi. L’associazione è ospitata al piano terreno di un’abitazione, vecchia ma a suo modo elegante. Le pareti estee sono variopinte e ricche di disegni dal sapore naif: fiori, cuori, stelle, soli.
Anche la stanza intea ha colori pastello, caldi ed accoglienti. Alle pareti sono appese molte fotografie del quartiere, mentre le mensole ospitano i modellini in legno e cartone di alcuni edifici storici. Ci sono anche manifesti e drappi e, nell’angolo in fondo, alcuni tamburi.
La prima cosa che salta agli occhi è che nella stanza dell’associazione ci sono soltanto donne. Cristian Brisacani, cornoperante di Icei e nostra guida, fa le presentazioni. C’è Ivonne, c’è Carmen, c’è Cristina.
Assieme alla gente di Barrio Sur, Icei e Retos al Sur, il partner locale della Ong italiana, stanno cercando di organizzare un itinerario di turismo sostenibile e comunitario. Secondo questo concetto, il luogo turistico, con le sue caratteristiche fisiche ed umane, non è un oggetto come nel turismo tradizionale, ma un soggetto, un protagonista attivo e partecipe.
Le prove generali di questo modo diverso di fare turismo sono state effettuate in occasione del «Gioo del patrimonio» (Día del patrimonio). In Uruguay, questa è una ricorrenza annuale durante la quale il ministero di educazione e cultura incentiva le visite a luoghi e monumenti di rilevanza storica e culturale. A Barrio Sur il Gioo del patrimonio è organizzato dalla comunità. Una comunità di cui Carmen, Ivonne e Cristina sono ad un tempo rappresentanti, difensori e spirito critico.

Carmen Martirena ha vissuto per alcuni anni in Italia. Minuta, capelli corti, occhialetti da vista, Carmen è la più vecchia del gruppo, ma sprizza energia e voglia di fare.
«Il problema più importante del Barrio Sur è la droga. Qui ci sono las bocas, i punti di smercio della droga, soprattutto della pasta base, la peggiore, che viene venduta a prezzi molto bassi. Molti ragazzi del posto si sono fatti prendere nella rete». Quanti sono?, chiediamo. «Abbastanza. La questione è che il problema riguarda non soltanto i consumatori, ma anche i familiari e i conoscenti di questi. Fa male vedere come questi si stanno uccidendo e come stanno uccidendo le proprie famiglie».
Cosa si può fare? «Abbiamo fatto di tutto, ma è impossibile perché le organizzazioni sono potenti. E poi se non fanno nulla le autorità (che sanno tutto) perché dobbiamo farlo noi? A pochi passi da qui, proprio all’angolo, ci sono ragazzi di 15, 16, 17 anni che aspettano per giorni…».
La mancanza di un lavoro influisce sulla situazione?, domandiamo a Carmen. «Ovvio, che influisce», risponde lei. «Sì – ribadisce Ivonne – la mancanza di lavoro influisce molto. Se questi ragazzi avessero qualcosa da fare, non sarebbero in queste condizioni». Ivonne Quegles Martirena, figlia di Carmen, è consigliera di Barrio Sur. È stata eletta già due volte.
«La pasta base non è porro (marijuana, ndr), ma una droga con additivi chimici e altre porcherie. Non è corretto chiamarla la “droga dei poveri”! Perché il suo effetto dura talmente poco – dai 3 ai 5 minuti -, che hai subito necessità di consumae un’altra dose. E per avere quella dose aggiuntiva sei disposto a tutto. In realtà, per me la pasta base è droga più cara».
È vero che le autorità non fanno nulla per contrastare il fenomeno? «Ogni tanto fanno delle retate. L’altro giorno hanno fermato anche me. Mi hanno fatto salire su un furgone per perquisirmi. Non ho protestato. Ma è stato brutto e spiacevole».
Cristina Caiero è una donna forte, ma dal suo viso traspare il dolore quando parla della droga, che è entrata nella sua famiglia.
«Mio figlio ha iniziato con il porro, poi è passato a quest’altra, la pasta base. Una droga che ti arriva subito al cervello e che crea dipendenza. È una situazione che danneggia lui, ma anche la famiglia. In casa ha rubato per poter comprare la droga. Senza dire, della violenza che ingenera la sua assunzione. Tutti i giorni è una discussione continua, che ti stanca».
«Un cammino di speranza per i ragazzi è il lavoro, ma non si può lavorare se non si sa fare nulla. Per questo sono utili i talleres (laboratori di apprendimento, ndr), dove gente competente insegni a questi giovani una professione».
Ci mostra alcuni prodotti fatti in loco: portamonete in cuoio, bottigliette dipinte a mano, portachiavi con materiali riciclati. «Ecco, nel momento in cui arrivasse un turista offrendo questo si dovrebbe spiegare che esso è parte della nostra cultura».
Cristina, che parla di cornoperative, di socialismo e di rivoluzione, ha qualche parola anche per la situazione politica: «Adesso che siamo in prossimità delle elezioni, si critica questo governo per ciò che non ha fatto. Ma non è giusto, perché in 5 anni non si può fare quanto non si è fatto nei precedenti 150».

Eravamo venuti a visitare Barrio Sur, il quartiere afro di Montevideo, per parlare di turismo comunitario.
Abbiamo conosciuto un gruppo di donne coraggiose, disposte ad impegnarsi per dare nuove opportunità ad un quartiere del quale ci si ricorda soltanto nel periodo del carnevale. Donne che conoscono i problemi perché li vedono quotidianamente attorno a loro. Donne che, da sole, senza l’aiuto delle autorità competenti, combattono contro la piaga della droga che si porta via i giovani del luogo.
Donne su cui vale la pena di puntare. 

Di Paolo Moiola

QUELLI dalle magliette celesti

Vittorie incredibili e giocatori portentosi: i «miracoli» calcistici di un paese con appena 3 milioni di abitanti
Due volte campioni del mondo (1930-1950), due titoli olimpici (1924-1928), 14 vittorie in campo continentale tra Coppa americana e toei per nazioni sudamericane, 1 Coppa de oro (Mundialito 1980) conquistata battendo tutte le nazionali campioni del mondo: il palmares della nazionale di calcio dell’Uruguay è ricco ed abbondante. Ma soprattutto è sorprendente, se si considera che tutti questi titoli in campo calcistico sono stati ottenuti da una nazione di tre milioni di abitanti. Forse vale la pena ricordare che la prima edizione dei Campionati del mondo di calcio fu assegnata dalla Fifa proprio all’Uruguay, che nel 1930 celebrava i cent’anni della Costituzione repubblicana. Per l’occasione, la capitale Montevideo si tirò a lucido e costruì un imponente e maestoso stadio denominato appunto «Estadio Centenario». In finale giunsero (manco a farlo apposta) le nazionali dei paesi che si affacciano sulle due sponde del Rio de la Plata: Uruguay e Argentina. In quella prima finale mondiale l’Uruguay sconfisse l’Argentina per 4 a 2. Raccontano le cronache dell’epoca che l’arbitro belga, prima di entrare in campo, pretese ed ottenne per sé e per la sua famiglia un’assicurazione sulla vita e una nave diretta in Europa in partenza qualche ora dopo la finale  del Campionato del mondo. La vittoria  della nazionale «Charrua» sui cugini argentini rasentò quasi l’interruzione dei rapporti diplomatici per la tensione che si venne a creare.
Ancor più memorabile fu la vittoria nella finale del 1950 nello stadio del Maracanà di Rio de Janeiro. Il Brasile, in quel toeo giocato in casa, sostenuto da un pubblico incandescente aveva fatto un sol boccone di Svezia e Spagna, battendoli rispettivamente per 7 a 1 e 6 a 1 e si preparava a fare altrettanto col «pollicino Uruguay». Questi invece, nonostante i padroni di casa avessero segnato il primo gol con l’attaccante Friaça , ribaltarono il risultato grazie a due prodezze di Schiaffino e Ghiggia, raffinati talenti del calcio creolo rioplatense dell’epoca, mandando in visibilio via radio il minuscolo Uruguay e portando  alla disperazione il grande Brasile, che già si preparava a festeggiare con fantasia carioca e fuochi d’artificio la conquista del titolo. Da quel giorno in entrambi i paesi entrò nel lessico popolare un neologismo: «el maracanazo» in spagnolo e «o maracanaço» in portoghese, sinonimi nel primo caso di un’impresa straordinaria, nel secondo di un disastro nazionale.

Sin da quando il gioco del calcio approdò a Montevideo, grazie alle partite che i marinai inglesi giocavano nell’attesa che le loro navi venissero stivate di carne salata, affumicata o in scatola da portare in Europa, i creoli uruguayos se ne appropriarono inventando una originale variabile del gioco del calcio, che univa la fantasia sudamericana all’agonismo europeo. Nel 1917, l’Uruguay vinse il primo Campionato interamericano di calcio e alle Olimpiadi del 1924 a Parigi la nazionale celeste mandò in delirio il pubblico francese grazie alle prodezze di Josè Leandro Andrade, un nero che si massaggiava le caviglie col grasso di lucertola (così diceva lui), dandole agilità nella corsa e precisione nel tiro. Fu chiamato la «meraviglia nera» e, anticipando i tempi della nazionale brasiliana, riscattò secoli di umiliazioni della sua razza attraverso squisite e delicate giocate calcistiche. Sulla scia di questi straordinari giocatori e di una nazionale di calcio che incantava in qualunque parte del mondo giocava, l’Uruguay continuò a mietere allori in campo interamericano, ma anche ad esportare giocatori in diverse nazioni del mondo. Purtroppo, l’abilità che i giocatori avevano nelle gambe non sempre si trasformò in abilità manageriale dei propri successi. Tanto per fare un esempio, Andrade terminò facendo lo strillone di giornali e Ghiggia morì povero e dimenticato da tutti.
Resta il fatto che il gioco del calcio per gli uruguayani rimane tutt’ora un fenomeno in cui si intrecciano e si mescolano le speranze degli emigranti europei, approdati sul Rio de la Plata alla ricerca di un posto al sole, la giorniosità di neri e meticci e la fantasia creola. Questa stupefacente sintesi di genio e sregolatezza continua a sorprendere gli appassionati del pallone di ogni parte del globo, che non riescono a spiegarsi come un piccolo paese sia riuscito a scrivere pagine così gloriose nella storia dello sport più popolare al mondo.

Mario Bandera


La bevanda guaraní
(BEVUTA ANCHE DAL «CHE»)

Gli uruguayani sono i più grandi consumatori di questa bevanda, inventata dagli indios guaraní e molto diffusa anche
in Argentina, Brasile e Paraguay.

In Uruguay, è difficile sottrarsi al rito del «mate», l’aromatico thè del Cono Sur dell’America Latina. La «yerba mate», nome scientifico Ilex paraguaiensis o Ilex curutibensis, è la naturale compagna della giornata di ogni uruguayano che si rispetti. Ma la stessa cosa si potrebbe dire dei paraguayani, degli argentini e dei brasiliani del sud, in quanto tutti loro ne fanno uso abbondante, a volte eccessivo. Bevanda tipica delle tribù guaranì, non appena entrarono in contatto con gli europei, questi ne furono conquistati e, grazie all’azione dei gesuiti, trasformarono l’anonimo infuso di una sconosciuta etnia sudamericana in un rito suggestivo dai risvolti quasi liturgici.
Si può dire che in questi paesi il mate accompagna tutte le riunioni e gli appuntamenti che si tengono lungo la giornata, dal semplice incontro tra vicini di casa, alle riunioni studentesche o di lavoro, su su fino agli incontri di governo. Resta famosa una foto del «Che», che sorseggia tranquillamente il suo mate: da buon argentino non venne mai meno alla tradizione «matera» della sua gente e sia a Cuba come sugli altopiani della Bolivia, dove concluse tragicamente la sua vita, portava sempre con sé tutto il necessario per prepararsi un buon mate.

I brasiliani lo prendono utilizzando recipienti (porongo o chimarrão) molto capienti, mentre gli argentini lo gustano con variazioni aromatiche e a volte aggiungendo dello zucchero (mate dulce); i paraguayani, invece, a causa del clima subtropicale della loro terra, lo prendono freddo e lo chiamano «tereré».
Gli uruguayani, forse i più forti consumatori di mate, lo bevono amaro e caliente (mate amargo). Non è raro vedere gente nei parchi o più semplicemente seduti fuori casa, che conversando amabilmente si scambiano il recipiente contenente la bevanda che viene succhiata dalla stessa cannuccia (in spagnolo «bombilla») di metallo che ha dei piccoli fori all’estremità in cui è immersa nella yerba mate, onde evitare di succhiare le foglie sminuzzate e tostate della profumata bevanda.
Per molte famiglie povere, il mate aiuta ad attenuare i morsi della fame e consumato verso sera, con l’immancabile «torta frita» (una sorta di ciambella fatta con farina, acqua e sale, fritta nello strutto animale), si trasforma in una cena frugale che sfama intere famiglie.

Qualcuno ha detto che, se il Signore fosse nato in America Latina, certamente il mate avrebbe assunto una valenza sacramentale, tanto è il senso di condivisione della bevanda che viene bevuta sempre comunitariamente, quasi mai da soli. Anzi, proprio il «tomar mate juntos» (prender mate insieme) è una delle caratteristiche della convivialità creola e quello che agli stranieri può in un primo momento creare qualche imbarazzo, cioè bere tutti dalla stessa cannuccia, in realtà è un gesto di estrema familiarità, come darsi un bacio. Difficile esprimere a parole le sensazioni che si provano attraverso il senso del gusto, resta il fatto che il mate è il vero banco di prova del grado d’inculturazione raggiunta. Chi si trasferisce nei paesi del Cono Sur (per lavoro o per servizio pastorale) e fatica a condividere il mate con altri, avrà sempre qualche difficoltà nel capire mentalità e gusti della gente. Mentre coloro che, avendolo gustato e assaporato per anni, una volta rientrati nei luoghi di origine, avranno sempre bisogno di un sorso di mate per continuare a sognare quei tramonti del Rio de la Plata che solo avendo un thermos sotto il braccio, un porongo tra le mani e sorseggiando lentamente un «buen mate», si possono rivivere con immutata nostalgia.

Mario Bandera

Paolo Moiola




LA «IGLESIA CHICA»

C come Chiesa

Nell’Ottocento, la diffusione in Uruguay del pensiero illuminista e massonico favorì l’affermazione del laicismo. Nel 1915, la separazione tra stato e chiesa venne formalizzata da José Batlle y Ordóñez, presidente tra i più apprezzati della storia uruguayana. In questo contesto, la chiesa…

Misi piede in Uruguay per la prima volta nel lontano gennaio del 1977, dopo un viaggio in nave di un paio di settimane: a quel tempo l’epoca dei viaggi transoceanici via mare stava concludendo il suo onorato servizio dopo quasi cinque secoli di spola tra le due sponde dell’Atlantico. Da allora il mio legame con il «paysito» (come affettuosamente gli uruguayani chiamano la loro terra) è cresciuto di anno in anno condividendo in gran parte dolori e sofferenze, giornie e speranze della sua gente: i primi legati al triste e buio periodo della  dittatura militare, le seconde intrecciate con il faticoso cammino intrapreso per riacquistare la libertà. Avendo vissuto un’esperienza credo unica ed irripetibile, quella cioè di completare i miei studi di teologia presso l’«Istituto teologico uruguayano “Mariano Soler”» ho avuto modo di passare diversi anni accanto ad una generazione di sacerdoti formatori e giovani seminaristi del luogo, partecipi fino in fondo ai drammi del loro paese, ma dotati di una fede incrollabile nella speranza di un futuro migliore. Alcuni di loro avevano sperimentato sulla propria pelle il carcere, altri avevano qualche familiare detenuto per motivi politici nelle orribili prigioni della dittatura militare, una delle più ottuse di quel periodo. Conservo nitido nella mia mente tutto quanto ho vissuto in quegli anni, anche se dopo tanto tempo, forse è più facile rielaborare con distacco quanto successe nel piccolo paese situato sul lato orientale del Rio de la Plata.

Consolidatosi sul piano culturale grazie all’influsso dell’illuminismo – imperante a quel tempo negli ambienti rivoluzionari del Sud America – ed influenzato da correnti di pensiero della massoneria europea (notoriamente anticlericale), l’Uruguay sin dall’inizio si caratterizzò come una repubblica laica che teneva a una certa distanza la chiesa cattolica. A sua volta la Santa sede, lontana ed avulsa agli avvenimenti del tempo e non percependo i cambiamenti che si andavano operando, mantenne i territori legati a Montevideo soggetti all’arcidiocesi di Buenos Aires, creando molte difficoltà tra i cattolici che, dal punto di vista politico obbedivano alle leggi della nuova nazione repubblicana, mentre dal punto di vista religioso dovevano obbedienza ad un vescovo «straniero». Solo dopo quasi quarant’anni dall’indipendenza, venne costituita, il 13 luglio del 1878, la diocesi di Montevideo, che comprendeva allora tutto il territorio nazionale e che fu affidata alle cure pastorali di mons. Jacinto Vera, primo vescovo nativo dell’Uruguay, uno zelante pastore ricordato ancora oggi come «el Obispo gaucho».
Nel 1915, il presidente José Batlle y Ordóñez separò la chiesa dallo stato e cambiò i nomi delle feste religiose del calendario. Ancora oggi in Uruguay la Settimana santa è denominata «Semana del turismo», così come l’8 dicembre, festa dell’Immacolata, è definito «El dia de la playa» (il giorno della spiaggia) e il Natale «El dia de la familia» e via dicendo. La chiesa uruguayana, la «iglesia chica» (la chiesa piccola), come viene definita, è stata sempre una chiesa povera ma dignitosa, con un suo originale pensiero teologico e una ancora più originale prassi pastorale, dovuti al fatto di confrontarsi con una realtà politica e sociale tanto diversa rispetto al resto dei paesi sudamericani.
Pur connotandosi sin dal suo inizio come uno stato molto secolarizzato, l’influenza di una visione religiosa nella vita sociale e comunitaria, si colse già durante il processo di indipendenza, basti pensare che il segretario dell’eroe nazionale José Artigas, ispiratore di gran parte dei suoi scritti, era un frate francescano, mentre uno degli estensori della prima Costituzione fu il presbitero Antonio Damaso Larrañaga, straordinaria figura di scienziato e letterato, fondatore tra l’altro dell’Università e della Biblioteca nazionale, a tutt’oggi onore e vanto del piccolo Uruguay in campo accademico. Artigas stesso si era formato nei collegi francescani del paese, conservando per tutta la sua esistenza uno spirito di servizio improntato agli ideali di vita del Santo di Assisi. Non a caso tutti i suoi scritti sono molto diversi dal linguaggio retorico e roboante dei grandi Libertadores del suo tempo.

Creata la gerarchia cattolica con la nomina di mons. Jacinto Vera a vescovo di Montevideo, nel paese ben presto si formò una generazione di pastori, che si qualificarono come le menti più acute e brillanti in campo ecclesiale, capaci di opporsi e contrastare l’anticlericalismo e il laicismo che contagiava la classe dominante, sia a livello culturale che politico.
Non a caso quando Leone XIII, nel 1899, convocò a Roma il primo Concilio latinoamericano, la relazione di apertura fu affidata a mons. Mariano Soler, arcivescovo di Montevideo. Inoltre con l’arrivo di schiere di emigranti europei, approdarono in Uruguay, diverse congregazioni religiose maschili e femminili che affiancandosi agli ordini «storici» presenti (gesuiti e francescani) diedero il meglio del loro carisma, lasciando un’impronta notevole nella vita del paese, soprattutto nel campo dell’educazione dei giovani. Va detto inoltre che fin dall’inizio degli anni Cinquanta del secolo scorso, precorrendo di molto l’enciclica «Fidei donum» di Pio XII, diversi sacerdoti diocesani, soprattutto italiani e spagnoli, arrivarono in Uruguay e iniziarono «ante litteram» un’originale cooperazione tra le chiese, tra Europa ed America Latina. Questi Fidei donum hanno scritto pagine importanti nel libro delle missioni e dell’Uruguay. Ma forse la pagina più bella fu quella scritta durante la dittatura militare quando questa chiesa, «piccola», povera di mezzi ma ricca di dignità, divenne la voce di chi non aveva voce, trasformandosi nella coscienza critica di un’intera nazione vilipesa e calpestata.
Le figure carismatiche di mons. Carlos Parteli, arcivescovo di Montevideo, che negli anni ’70 non indietreggiò di un millimetro di fronte alla protervia dei militari, e di mons. Marcelo Mendiharat, vescovo di Salto, esiliato per lunghi anni dalla Giunta militare, influenzarono enormemente la chiesa uruguayana. La loro azione pastorale, unita alla testimonianza cristallina, forse più anonima, di militanti laici, suore, comunità di base e sacerdoti permise di aprire cammini di giustizia e pace che portarono alla ricomposizione ed al recupero della vita democratica.
A tutt’oggi, la realtà uruguayana, pur essendo segnata da una profonda (ma sana) laicità, guarda con ammirazione e simpatia a questa «iglesia chica», più che mai sale e lievito della sua storia.
di Mario Bandera

Don MURGIONI, «TUPAMARO» PER FORZA

Storia di un sacerdote italiano ingiustamente incarcerato (e torturato) per 5 anni dai militari golpisti uruguayani (addestrati dall’onnipresente Cia). 

Il 2 novembre del 1993 stroncato da un male incurabile, concludeva a soli 51anni d’età la sua vita mortale don Pierluigi Murgioni, sacerdote Fidei donum della Diocesi di Brescia.
Don Pierluigi era arrivato in Uruguay nel 1968 nel contesto della cooperazione tra le chiese che, sotto il poderoso impulso datogli dal Concilio, aveva incrementato notevolmente il numero dei sacerdoti diocesani italiani impegnati nei vari paesi latinoamericani. In Uruguay, in particolare, approdarono Fidei donum delle diocesi di Novara, Bergamo, Brescia e Verona. Una perfetta miscela piemontese-lombardo-veneta che, se pur dispersa negli angoli più reconditi del piccolo paese del Rio della Plata, si ricompattava periodicamente attraverso degli incontri memorabili, capaci di risollevare lo spirito ed il morale ad ogni missionario italiano anche nei momenti più duri, tale era l’amicizia, l’affetto e l’unione reciproca che stava alla base di questo legame. Di questi incontri, don Pierluigi era un po’ l’anima, purtroppo un amaro destino aveva riservato per lui un’esperienza missionaria del tutto particolare.

Durante un’incursione nottua nella sua parrocchia (compiuta dai militari che avevano preso il potere tramite un golpe in cui avevano sospeso ogni garanzia costituzionale), venne arrestato nel maggio del ‘72, con l’accusa di appartenere al «Movimento di liberazioe nazionale tupamaros» e senza nessuna spiegazione, tradotto ed incarcerato in un luogo sconosciuto. A suo carico non fu mai esibito lo straccio di una prova per aver infranto la legge uruguayana, però era tale l’astio dei golpisti nei confronti della chiesa schierata apertamente e decisamente dalla parte degli oppressi, che si volle, attraverso lui, dare un esempio a tutti gli altri sacerdoti, al fine di raffreddae lo slancio evangelico e solidaristico con chi era coinvolto nei cammini di liberazione sociali, civili e politici.
Fu torturato sistematicamente con il solo piacere sadico di infierire su un ministro del culto cattolico che aveva manifestato solamente carità e solidarietà cristiana nei confronti degli appartenenti ai «tupamaros» (cosa ben diversa dal condividere ideali e strategie di lotta), fu privato della possibilità di celebrare l’eucarestia in carcere e gli vennero tolti sia la bibbia come il breviario. Rapato a zero, con la casacca color kaki di tela grezza sulla quale era cucito il numero che era diventato per imposizione un suo secondo nome; venne fatto scendere nel «calabozo» (prigione sotterranea) dove, insieme ad altri ragazzi appartenenti alla miglior gioventù uruguayana, passò 5 lunghissimi anni della sua vita. Gli cambiarono cella e compagni diverse volte e sistematicamente, ogni 2-3 mesi. Veniva fatto vestire con abiti civili, facendogli balenare la possibilità che «di lì a poco sarebbe stato spedito in Italia»: una tragica farsa studiata dagli specialisti della Cia, che stavano dietro le quinte dei golpisti uruguayani, per fiaccarne l’animo e lo spirito. Ma don Pierluigi fu forte, resistette ad ogni tortura e condizionamento; i suoi compagni di sventura lo ricordano come colui che sosteneva la speranza di tutti, era un riferimento preciso nella disgrazia collettiva del carcere.
Quando fu rilasciato, il 12 ottobre 1978, all’aeroporto di Montevideo, diversi furono i missionari italiani venuti a salutarlo e a ringraziarlo per la sua incrollabile testimonianza di fede offerta nei lunghi anni di detenzione. Il lungo abbraccio che ci scambiammo prima che lui salisse sull’aereo resta uno dei ricordi indelebili che tutt’ora mi porto nel cuore.
di Mario Bandera

Mario Bandera




Da guerriglieri a parlamentari (e ministri)

T come «tupamaros»

I tupamaros erano un’organizzazione guerrigliera. Oggi il loro partito – il «Movimento di partecipazione popolare» – è entrato in parlamento con il 30 per cento dei suffragi. E due di loro, entrambi in carcere per 13 anni durante la dittatura, sono diventati ministri nel governo di Tabaré Vázquez: José Mujica ed Eduardo Bonomi.

Un paese con poco meno di tre milioni di abitanti, senza risorse naturali, ma con la grande ricchezza dell’allevamento del bestiame, era concentrato nelle mani di pochi latifondisti agrari. Questi, a loro volta, esprimevano una classe politica che paga dell’abbondanza del periodo delle vacche grasse, non aveva mai investito nello sviluppo industriale del paese. Fino al termine della Seconda guerra mondiale e della guerra di Corea, l’Uruguay riuscì a piazzare tutta la produzione di carne in campo internazionale, ma una volta terminati i conflitti le nazioni europee, gli Stati Uniti, ecc., investirono in campo agricolo e nell’allevamento. Per l’Uruguay iniziò allora il periodo delle vacche magre. Non potendo reperire valuta pregiata, necessaria per far fronte al pagamento dei debiti, per l’impossibilità di esportare i propri prodotti, il paese entrò in una crisi inflazionistica che, come un perverso gioco del domino, si abbatté su tutti i settori del paese.
La «Convención nazional de trabajadores», l’unica centrale sindacale del paese, cercò di canalizzare la protesta dei lavoratori e della classe media (vera ossatura del paese) verso forme di protesta (scioperi, manifestazioni, ecc.) contemplate negli ordinamenti costituzionali. Ma le condizioni di vita dei campesinos (soprattutto dei coltivatori di canna da zucchero, i cosiddetti «cañeros» del nord del paese) si erano ridotte a livelli tanto subumani da generare un malcontento incontenibile. Questo si concretizzò in una marcia di protesta che, raccogliendo migliaia di lavoratori, attraversò tutto l’Uruguay arrivando fino al palazzo legislativo di Montevideo. Questi lavoratori, sfruttati ed umiliati nella loro dignità, erano capeggiati da Raul Sendic, un procuratore legale che aveva fatto della difesa di questa povera gente la ragion d’essere della sua vita.

A fronte di una palese ottusità da parte sia della classe politica come di chi gestiva il potere economico ed agrario del paese, ci fu – quasi come conseguenza speculare – una spaccatura all’interno dei lavoratori, tra chi accettò il difficile cammino del confronto con una classe dirigente che sempre più si avviava verso l’imposizione di una dittatura e chi invece optò per una lotta di resistenza che suscitasse un cambiamento all’interno della società uruguayana. La svolta avvenne il 22 dicembre del 1966, quando in uno scontro con la polizia venne ucciso un giovane studente. La reazione fu pesante. Manifestazioni di protesta che coinvolgevano operai e studenti si succedettero a catena e dall’altra parte si cominciò ad arrestare, imprigionare e purtroppo a torturare. Fu in quel frangente che si decise di optare per una lotta armata portata avanti nella clandestinità: nacque il «Movimiento de liberación nacional tupamaros» (Mlnt), che si rifaceva all’ideale rivoluzionario di Tupac Amarú, il leggendario eroe indigeno peruviano che si era ribellato secoli prima allo strapotere dei conquistadores spagnoli.
L’organizzazione seppe muoversi con abilità senza compiere atti di inutile efferatezza nei confronti dei militari. Anzi, alcuni gesti eclatanti come la presa della città di Pando, dove riuscirono a tenere in scacco l’esercito per diversi giorni, il sequestro di camion di generi alimentari distribuiti alla popolazione dei «cantegriles» (le favelas di Montevideo) e una spettacolare evasione dal carcere di massima sicurezza di Punta Carretas di oltre un centinaio di tupamaros detenuti, attirarono su questo movimento rivoluzionario parecchie simpatie tra la popolazione uruguayana.

La conquista della scena internazionale la ottennero con il sequestro di un anonimo funzionario dell’ambasciata statunitense: Dan Mitrione, che risultò essere un istruttore di tecniche di tortura per l’esercito uruguayano al soldo della Cia. Tale fu il successo di questa azione straordinaria (raccontata magistralmente nel film «L’Amerikano» di Costa-Gavras, interpretato da Yves Montand e Renato Salvatori) che il governo dittatoriale non potè permettersi il lusso di digerire il rospo senza reagire e la reazione fu tremenda. Si cominciò ad arrestare indiscriminatamente i processi divennero sempre più sommari e le torture nelle carceri, sempre più brutali. A quel punto molti abbandonarono la lotta armata e si rifugiarono all’estero e un’intera generazione di giovani prese la strada dell’esilio. Un paese che si era formato grazie all’apporto di emigranti giunti da ogni parte del mondo, in pochi anni si spopolò perdendo buona parte della sua forza lavoro.
Raul Sendic e i membri del direttivo dei tupamaros vennero quasi tutti catturati e incarcerati. Il governo dittatoriale li dichiarò: «rehenes» cioè «ostaggi», dichiarando nel contempo che se fossero state compiute in qualunque parte del paese delle azioni di rivolta armata, i capi dell’Mlnt in «ostaggio«  sarebbero stati giustiziati in carcere. Fu un momento terribile per la nazione intera, certamente gli anni più oscuri di tutta la storia dell’Uruguay. Con il ritorno alla democrazia, il neoeletto Parlamento approvò una legge di amnistia generale, grazie alla quale uscirono dal carcere tutti i prigionieri politici. Nel 1985 il movimento tupamaros, in un congresso a cui parteciparono i vecchi militanti e i molti simpatizzanti, ratificò il rifiuto alla lotta armata e l’accettazione delle regole democratiche della vita partitica e politica. Successivamente confluirono, come gruppo autonomo denominato «Movimento de partecipacion popular», nel «Frente amplio», ottenendo un notevole successo elettorale.
Alle ultime elezioni (ottobre 2004), il politico più votato in assoluto tra i deputati dell’Assemblea nazionale, è risultato essere José Mujica, detto «El Pepe», un militante della prima ora. Mujica è stato ministro ed è un possibile candidato per la successione a Tabaré Vázquez.
Superati gli anni perversi della dittatura, avviatosi l’Uruguay verso il pieno ristabilimento del gioco democratico, i tupamaros sono diventati protagonisti a tutti gli effetti della scena politica del paese con i quali tutte le altre formazioni partitiche, oltre ai vari soggetti istituzionali, devono dialetticamente confrontarsi.

di Mario Bandera

 

Mario Bandera