Tra aquile e merli neri
Kosovo /1
«Tutto quel che scopro mi aiuta a ricostruire questo grande rompicapo, il cui punto centrale è:
come ha potuto l’Umanità arrivare a tale violenza fisica e simbolica nel cuore dell’Europa
colta e civilizzata?
Non ho risposte; sento che dovrò dedicare buona parte della mia vita a questo quesito,
per capirci molto poco…
Concludo dicendo che sono l’unico responsabile per qualsiasi equivoco
e/o errore di interpretazione sul conflitto».
Marcos Reigota
G li uccelli devono sempre aver avuto un significato speciale da queste parti. Il Kosovo, in serbo, è la terra dei «merli neri»; mentre gli albanesi sono gli shqiptare, «figli dell’aquila». Nei nomi propri, invece, prevalgono «alba» (Agim)e «tramonto» (Agon).
Case distrutte e altre da poco ricostruite, apparentemente mai abitate, si susseguono lungo la strada che dall’aeroporto porta al centro di Pristina. Poi Viale Bill Clinton, dove l’immagine del «liberatore» sulla facciata di un palazzo stile soviet, dà il benvenuto a chi entra in città.
Ai kebab-tore (negozi di kebab), c’è la fila fuori e i bar sono pieni di giovani che sorseggiano un espresso e fumano senza fretta . Dall’alto della collina, ove si trova il quartier generale degli organi deputati al mantenimento della pace (Unmik, Missione delle Nazioni Unite in Kosovo) e alla implementazione della legge (EuLex, programma dell’Unione Europea per «portare e radicare lo stato di diritto in Kosovo) si ha una bella panoramica della città: le moschee con i minareti argentei, la chiesa ortodossa e il terreno ove sorgerà la nuova cattedrale, tutto avvolto in una luce rosata.
Ma è l’inquinamento della centrale elettrica di Obeliq a rendere così belli i tramonti invernali. Le 2 ciminiere concentrate in questa cittadina alla periferia di Pristina producono da sole emissioni 74 volte superiori a quelle ammesse dagli standard europei. Nel 2003 una grande quantità di fenolo si riversava dagli impianti della centrale nel fiume Ibar e nelle falde acquifere della regione di Kraljevo (Serbia centro-meridionale). Le autorità serbe gridarono al sabotaggio, ma è più facile attribuire l’accaduto all’abbandono in cui versano strutture che dovrebbero essere già da tempo reperti di archeologia industriale.
Obeliq è anche uno dei luoghi del «Ritoo»: nel 1999, quando le truppe serbe abbandonarono la regione, più di 230 mila persone si diressero in Serbia e Montenegro. Tra i profughi anche molti Rom, che fuggivano temendo ritorsioni da parte degli albanesi che li accusavano di sostenere i serbi. Ora trovano accoglienza al Plementina camp, proprio di fronte alla centrale.
Qui incontriamo Orest, che apre la sua casa nel campo agli inteationals, come i locali chiamano i membri delle innumerevoli agenzie governative e non governative che negli anni della guerra si sono installate in Kosovo. Togliamo le scarpe e ci sediamo sul tappeto insieme a musicisti che improvvisano, con trombe e fisarmoniche, le melodie tradizionali con cui si accompagnano i giovani promessi alle nozze.
Multi-etnicità e donatori sono concetti chiave in Kosovo. Il piano Ahtisaari metteva un forte accento sulla formazione di uno stato multietnico, e la costruzione di una società democratica e fondata sulla diversità è dichiarata una priorità dall’autoproclamato neo-governo, che freme per il riconoscimento pieno del Kosovo e il suo ingresso in Europa. Ma, a parte le dichiarazioni di intenti, gli sforzi di politici illuminati e le buone intenzioni della gente comune, quando si transita per una enclave serba si ha l’impressione di varcare una frontiera.
Gracanica è uno degli antichi monasteri, ora sotto la protezione di un drappello di soldati e soldatesse svedesi della Kosovo Force (Kfor) forze armate guidate dalla Nato che dal 1999 presidiano il territorio kosovaro per «garantire la sicurezza e la libertà di movimento dei serbi». Qui le indicazioni sono soltanto in serbo; i passanti (i serbi che sono rimasti o quei pochi che sono tornati) abbassano lo sguardo; e la nostra macchina targata KS tira dritto senza indugiare. La targa con l’abbreviazione KS, istituita dall’Unmik, permette di viaggiare soltanto in Kosovo, Albania e Macedonia.
Arriviamo a Mitrovica, dove la parte nord e sud della città sono separate non solo dal tristemente noto «Ponte sul fiume Ibar» – immagine quotidianamente propinataci nei mesi della guerra da tutti i telegiornali – ma anche da una sottile striscia di terra di nessuno. Bisogna lasciare la macchina e continuare a piedi, oltre il posto di blocco, dove un altro soldato della Kfor si scalda annoiato le mani, sullo sfondo di un cielo grigio infuocato per le esalazioni della Trepca, industria di estrazione e lavorazione del piombo che dava lavoro a centinaia di persone ora chiusa.
Qui i tassi di inquinamento sono almeno 200 volte superiori ai limiti fissati dall’Organizzazione mondiale della sanità.
Il rappresentante serbo dell’organizzazione internazionale per conto della quale mi trovo in Kosovo, forse l’unica a operare anche a Mitrovica, ci viene incontro sorridente e stringe forte le mani a me e ai colleghi kosovari. Incontriamo anche Svetlana, la responsabile del centro di riabilitazione per ragazzi disabili. Il suo volto si fa teso quando ci racconta che il centro non riceve alcun sostegno dalle autorità locali serbe che, per l’educazione e l’assistenza sanitaria, dipendono direttamente da Belgrado. Il funzionamento del centro è garantito solo dall’organizzazione che ha la sede a Pristina.
Se hanno problemi di salute, i serbi di Mitrovica preferiscono andare sino a Belgrado, mentre, mi dicono i colleghi kosovari, gli albanesi di Mitrovica sud non mettono piede in un ospedale serbo dai tempi dell’apartheid imposto da Milosevic a partire dal 1989.
Alcune organizzazioni non governative hanno profuso notevoli sforzi per ricreare le condizioni per una pacifica convivenza, puntando soprattutto sulle nuove generazioni: progetti di intercultura – uno chiamato emblematicamente Mozaik – nelle scuole, a partire dall’asilo, perché i futuri cittadini del Kosovo siano plurilingue e multiculturali. In classe si celebrano le feste tradizionali degli uni e degli altri e c’è una maestra per ognuna delle comunità rappresentate. Ma è raro vedere bambini serbi e albanesi giocare insieme: l’esistenza di istituzioni parallele fa sì che questi frequentino strutture scolastiche separate. Nelle classi e scuole albanesi regolari, poi, il serbo non si studia più, così che già la prossima generazione non sarà più in grado di capire la lingua delle altre comunità.
Se prima della guerra non era raro che uomini albanesi sposassero donne serbe, bosniache o turche, adesso ciò avviene di rado, perché non ci sono più gli spazi in cui due giovani appartenenti a gruppi diversi possano incontrarsi. Per fortuna c’è il bar Trafi, il più trendy della capitale, dove si ritrovano proprio tutti davanti ad un buon raki, acquavite aromatizzata con anice, di origine turca.
Questa «meglio gioventù», che a meno di 30 anni ha già visto mezzo mondo e che è tornata «in patria» per cercare un lavoro dignitoso, rappresenta forse l’unica speranza perché la costruzione di una società multietnica e tollerante non resti soltanto vuota retorica e strumentale propaganda politica.
Lasciandosi alle spalle i miti e gli odi del recente passato, i ragazzi di Pristina riusciranno forse pian piano a rimuovere anche il ricordo di una barbarie altrimenti sempre pronta a riesplodere non nella «periferia della periferia dell’Europa», ma in uno dei suoi centri nevralgici e vitali.
E me ne vado via così, con l’impressione di aver sentito solo una campana, quella delle aquile. Mentre i merli svolazzano, mesti e silenziosi, nel cielo di Obeliq.
Silvia Zaccaria