B come «barrio»: visita a Barrio Sur
A Barrio Sur, la maggioranza degli abitanti sono neri. Al quartiere non mancano i problemi – disoccupazione e droga, in primis -, ma neppure le idee e la volontà di riscatto dei suoi abitanti. Ecco cosa ci hanno raccontato Ivonne, Carmen e Cristina…
Montevideo. Barrio Sur sembra un quartiere molto tranquillo: pochissime auto, le strade a disposizione dei bambini. A parte una serie di condomini che guardano verso il mare, le abitazioni sono basse, un piano o due.
Barrio Sur, quartiere abitato da afrouruguayani, è la culla del Caevale di Montevideo, famoso non soltanto per la sua lunghezza, ma soprattutto per la sua musica di origine africana (candombe), per i suoi balli al suono dei tamburi, per le sue rappresentazioni nelle strade che ogni anno richiamano migliaia di persone.
L’appuntamento è al 993 di Calle Michelini, alla «Casa del Vecino», un’associazione comunitaria deputata ad ascoltare e farsi carico degli interessi e delle richieste della comunità di Barrio Sur, quartiere dove certo non mancano i problemi. L’associazione è ospitata al piano terreno di un’abitazione, vecchia ma a suo modo elegante. Le pareti estee sono variopinte e ricche di disegni dal sapore naif: fiori, cuori, stelle, soli.
Anche la stanza intea ha colori pastello, caldi ed accoglienti. Alle pareti sono appese molte fotografie del quartiere, mentre le mensole ospitano i modellini in legno e cartone di alcuni edifici storici. Ci sono anche manifesti e drappi e, nell’angolo in fondo, alcuni tamburi.
La prima cosa che salta agli occhi è che nella stanza dell’associazione ci sono soltanto donne. Cristian Brisacani, cornoperante di Icei e nostra guida, fa le presentazioni. C’è Ivonne, c’è Carmen, c’è Cristina.
Assieme alla gente di Barrio Sur, Icei e Retos al Sur, il partner locale della Ong italiana, stanno cercando di organizzare un itinerario di turismo sostenibile e comunitario. Secondo questo concetto, il luogo turistico, con le sue caratteristiche fisiche ed umane, non è un oggetto come nel turismo tradizionale, ma un soggetto, un protagonista attivo e partecipe.
Le prove generali di questo modo diverso di fare turismo sono state effettuate in occasione del «Gioo del patrimonio» (Día del patrimonio). In Uruguay, questa è una ricorrenza annuale durante la quale il ministero di educazione e cultura incentiva le visite a luoghi e monumenti di rilevanza storica e culturale. A Barrio Sur il Gioo del patrimonio è organizzato dalla comunità. Una comunità di cui Carmen, Ivonne e Cristina sono ad un tempo rappresentanti, difensori e spirito critico.
Carmen Martirena ha vissuto per alcuni anni in Italia. Minuta, capelli corti, occhialetti da vista, Carmen è la più vecchia del gruppo, ma sprizza energia e voglia di fare.
«Il problema più importante del Barrio Sur è la droga. Qui ci sono las bocas, i punti di smercio della droga, soprattutto della pasta base, la peggiore, che viene venduta a prezzi molto bassi. Molti ragazzi del posto si sono fatti prendere nella rete». Quanti sono?, chiediamo. «Abbastanza. La questione è che il problema riguarda non soltanto i consumatori, ma anche i familiari e i conoscenti di questi. Fa male vedere come questi si stanno uccidendo e come stanno uccidendo le proprie famiglie».
Cosa si può fare? «Abbiamo fatto di tutto, ma è impossibile perché le organizzazioni sono potenti. E poi se non fanno nulla le autorità (che sanno tutto) perché dobbiamo farlo noi? A pochi passi da qui, proprio all’angolo, ci sono ragazzi di 15, 16, 17 anni che aspettano per giorni…».
La mancanza di un lavoro influisce sulla situazione?, domandiamo a Carmen. «Ovvio, che influisce», risponde lei. «Sì – ribadisce Ivonne – la mancanza di lavoro influisce molto. Se questi ragazzi avessero qualcosa da fare, non sarebbero in queste condizioni». Ivonne Quegles Martirena, figlia di Carmen, è consigliera di Barrio Sur. È stata eletta già due volte.
«La pasta base non è porro (marijuana, ndr), ma una droga con additivi chimici e altre porcherie. Non è corretto chiamarla la “droga dei poveri”! Perché il suo effetto dura talmente poco – dai 3 ai 5 minuti -, che hai subito necessità di consumae un’altra dose. E per avere quella dose aggiuntiva sei disposto a tutto. In realtà, per me la pasta base è droga più cara».
È vero che le autorità non fanno nulla per contrastare il fenomeno? «Ogni tanto fanno delle retate. L’altro giorno hanno fermato anche me. Mi hanno fatto salire su un furgone per perquisirmi. Non ho protestato. Ma è stato brutto e spiacevole».
Cristina Caiero è una donna forte, ma dal suo viso traspare il dolore quando parla della droga, che è entrata nella sua famiglia.
«Mio figlio ha iniziato con il porro, poi è passato a quest’altra, la pasta base. Una droga che ti arriva subito al cervello e che crea dipendenza. È una situazione che danneggia lui, ma anche la famiglia. In casa ha rubato per poter comprare la droga. Senza dire, della violenza che ingenera la sua assunzione. Tutti i giorni è una discussione continua, che ti stanca».
«Un cammino di speranza per i ragazzi è il lavoro, ma non si può lavorare se non si sa fare nulla. Per questo sono utili i talleres (laboratori di apprendimento, ndr), dove gente competente insegni a questi giovani una professione».
Ci mostra alcuni prodotti fatti in loco: portamonete in cuoio, bottigliette dipinte a mano, portachiavi con materiali riciclati. «Ecco, nel momento in cui arrivasse un turista offrendo questo si dovrebbe spiegare che esso è parte della nostra cultura».
Cristina, che parla di cornoperative, di socialismo e di rivoluzione, ha qualche parola anche per la situazione politica: «Adesso che siamo in prossimità delle elezioni, si critica questo governo per ciò che non ha fatto. Ma non è giusto, perché in 5 anni non si può fare quanto non si è fatto nei precedenti 150».
Eravamo venuti a visitare Barrio Sur, il quartiere afro di Montevideo, per parlare di turismo comunitario.
Abbiamo conosciuto un gruppo di donne coraggiose, disposte ad impegnarsi per dare nuove opportunità ad un quartiere del quale ci si ricorda soltanto nel periodo del carnevale. Donne che conoscono i problemi perché li vedono quotidianamente attorno a loro. Donne che, da sole, senza l’aiuto delle autorità competenti, combattono contro la piaga della droga che si porta via i giovani del luogo.
Donne su cui vale la pena di puntare.
QUELLI dalle magliette celesti
Vittorie incredibili e giocatori portentosi: i «miracoli» calcistici di un paese con appena 3 milioni di abitanti
Due volte campioni del mondo (1930-1950), due titoli olimpici (1924-1928), 14 vittorie in campo continentale tra Coppa americana e toei per nazioni sudamericane, 1 Coppa de oro (Mundialito 1980) conquistata battendo tutte le nazionali campioni del mondo: il palmares della nazionale di calcio dell’Uruguay è ricco ed abbondante. Ma soprattutto è sorprendente, se si considera che tutti questi titoli in campo calcistico sono stati ottenuti da una nazione di tre milioni di abitanti. Forse vale la pena ricordare che la prima edizione dei Campionati del mondo di calcio fu assegnata dalla Fifa proprio all’Uruguay, che nel 1930 celebrava i cent’anni della Costituzione repubblicana. Per l’occasione, la capitale Montevideo si tirò a lucido e costruì un imponente e maestoso stadio denominato appunto «Estadio Centenario». In finale giunsero (manco a farlo apposta) le nazionali dei paesi che si affacciano sulle due sponde del Rio de la Plata: Uruguay e Argentina. In quella prima finale mondiale l’Uruguay sconfisse l’Argentina per 4 a 2. Raccontano le cronache dell’epoca che l’arbitro belga, prima di entrare in campo, pretese ed ottenne per sé e per la sua famiglia un’assicurazione sulla vita e una nave diretta in Europa in partenza qualche ora dopo la finale del Campionato del mondo. La vittoria della nazionale «Charrua» sui cugini argentini rasentò quasi l’interruzione dei rapporti diplomatici per la tensione che si venne a creare.
Ancor più memorabile fu la vittoria nella finale del 1950 nello stadio del Maracanà di Rio de Janeiro. Il Brasile, in quel toeo giocato in casa, sostenuto da un pubblico incandescente aveva fatto un sol boccone di Svezia e Spagna, battendoli rispettivamente per 7 a 1 e 6 a 1 e si preparava a fare altrettanto col «pollicino Uruguay». Questi invece, nonostante i padroni di casa avessero segnato il primo gol con l’attaccante Friaça , ribaltarono il risultato grazie a due prodezze di Schiaffino e Ghiggia, raffinati talenti del calcio creolo rioplatense dell’epoca, mandando in visibilio via radio il minuscolo Uruguay e portando alla disperazione il grande Brasile, che già si preparava a festeggiare con fantasia carioca e fuochi d’artificio la conquista del titolo. Da quel giorno in entrambi i paesi entrò nel lessico popolare un neologismo: «el maracanazo» in spagnolo e «o maracanaço» in portoghese, sinonimi nel primo caso di un’impresa straordinaria, nel secondo di un disastro nazionale.
Sin da quando il gioco del calcio approdò a Montevideo, grazie alle partite che i marinai inglesi giocavano nell’attesa che le loro navi venissero stivate di carne salata, affumicata o in scatola da portare in Europa, i creoli uruguayos se ne appropriarono inventando una originale variabile del gioco del calcio, che univa la fantasia sudamericana all’agonismo europeo. Nel 1917, l’Uruguay vinse il primo Campionato interamericano di calcio e alle Olimpiadi del 1924 a Parigi la nazionale celeste mandò in delirio il pubblico francese grazie alle prodezze di Josè Leandro Andrade, un nero che si massaggiava le caviglie col grasso di lucertola (così diceva lui), dandole agilità nella corsa e precisione nel tiro. Fu chiamato la «meraviglia nera» e, anticipando i tempi della nazionale brasiliana, riscattò secoli di umiliazioni della sua razza attraverso squisite e delicate giocate calcistiche. Sulla scia di questi straordinari giocatori e di una nazionale di calcio che incantava in qualunque parte del mondo giocava, l’Uruguay continuò a mietere allori in campo interamericano, ma anche ad esportare giocatori in diverse nazioni del mondo. Purtroppo, l’abilità che i giocatori avevano nelle gambe non sempre si trasformò in abilità manageriale dei propri successi. Tanto per fare un esempio, Andrade terminò facendo lo strillone di giornali e Ghiggia morì povero e dimenticato da tutti.
Resta il fatto che il gioco del calcio per gli uruguayani rimane tutt’ora un fenomeno in cui si intrecciano e si mescolano le speranze degli emigranti europei, approdati sul Rio de la Plata alla ricerca di un posto al sole, la giorniosità di neri e meticci e la fantasia creola. Questa stupefacente sintesi di genio e sregolatezza continua a sorprendere gli appassionati del pallone di ogni parte del globo, che non riescono a spiegarsi come un piccolo paese sia riuscito a scrivere pagine così gloriose nella storia dello sport più popolare al mondo.
La bevanda guaraní
(BEVUTA ANCHE DAL «CHE»)
Gli uruguayani sono i più grandi consumatori di questa bevanda, inventata dagli indios guaraní e molto diffusa anche
in Argentina, Brasile e Paraguay.
In Uruguay, è difficile sottrarsi al rito del «mate», l’aromatico thè del Cono Sur dell’America Latina. La «yerba mate», nome scientifico Ilex paraguaiensis o Ilex curutibensis, è la naturale compagna della giornata di ogni uruguayano che si rispetti. Ma la stessa cosa si potrebbe dire dei paraguayani, degli argentini e dei brasiliani del sud, in quanto tutti loro ne fanno uso abbondante, a volte eccessivo. Bevanda tipica delle tribù guaranì, non appena entrarono in contatto con gli europei, questi ne furono conquistati e, grazie all’azione dei gesuiti, trasformarono l’anonimo infuso di una sconosciuta etnia sudamericana in un rito suggestivo dai risvolti quasi liturgici.
Si può dire che in questi paesi il mate accompagna tutte le riunioni e gli appuntamenti che si tengono lungo la giornata, dal semplice incontro tra vicini di casa, alle riunioni studentesche o di lavoro, su su fino agli incontri di governo. Resta famosa una foto del «Che», che sorseggia tranquillamente il suo mate: da buon argentino non venne mai meno alla tradizione «matera» della sua gente e sia a Cuba come sugli altopiani della Bolivia, dove concluse tragicamente la sua vita, portava sempre con sé tutto il necessario per prepararsi un buon mate.
I brasiliani lo prendono utilizzando recipienti (porongo o chimarrão) molto capienti, mentre gli argentini lo gustano con variazioni aromatiche e a volte aggiungendo dello zucchero (mate dulce); i paraguayani, invece, a causa del clima subtropicale della loro terra, lo prendono freddo e lo chiamano «tereré».
Gli uruguayani, forse i più forti consumatori di mate, lo bevono amaro e caliente (mate amargo). Non è raro vedere gente nei parchi o più semplicemente seduti fuori casa, che conversando amabilmente si scambiano il recipiente contenente la bevanda che viene succhiata dalla stessa cannuccia (in spagnolo «bombilla») di metallo che ha dei piccoli fori all’estremità in cui è immersa nella yerba mate, onde evitare di succhiare le foglie sminuzzate e tostate della profumata bevanda.
Per molte famiglie povere, il mate aiuta ad attenuare i morsi della fame e consumato verso sera, con l’immancabile «torta frita» (una sorta di ciambella fatta con farina, acqua e sale, fritta nello strutto animale), si trasforma in una cena frugale che sfama intere famiglie.
Qualcuno ha detto che, se il Signore fosse nato in America Latina, certamente il mate avrebbe assunto una valenza sacramentale, tanto è il senso di condivisione della bevanda che viene bevuta sempre comunitariamente, quasi mai da soli. Anzi, proprio il «tomar mate juntos» (prender mate insieme) è una delle caratteristiche della convivialità creola e quello che agli stranieri può in un primo momento creare qualche imbarazzo, cioè bere tutti dalla stessa cannuccia, in realtà è un gesto di estrema familiarità, come darsi un bacio. Difficile esprimere a parole le sensazioni che si provano attraverso il senso del gusto, resta il fatto che il mate è il vero banco di prova del grado d’inculturazione raggiunta. Chi si trasferisce nei paesi del Cono Sur (per lavoro o per servizio pastorale) e fatica a condividere il mate con altri, avrà sempre qualche difficoltà nel capire mentalità e gusti della gente. Mentre coloro che, avendolo gustato e assaporato per anni, una volta rientrati nei luoghi di origine, avranno sempre bisogno di un sorso di mate per continuare a sognare quei tramonti del Rio de la Plata che solo avendo un thermos sotto il braccio, un porongo tra le mani e sorseggiando lentamente un «buen mate», si possono rivivere con immutata nostalgia.
Paolo Moiola