Il racconto delle nozze di cana (4)
Il racconto delle nozze di Cana è un brano chiave di tutto il vangelo perché ci offre la prospettiva da cui l’autore ci obbliga a guardare alla vita di Gesù, alle sue parole e ai «segni» che compie. Se vogliamo capire quello che l’autore intende farci capire, dobbiamo cercare di entrare nella sua mentalità e nel suo cuore. Troppo spesso «usiamo» il vangelo come un «prontuario» superficiale o come lettura spirituale edificante, in base al principio che «tanto male non fa», perdendo così la carica esplosiva della potenza della Parola di Dio che in quelle pagine propone un «Patto di alleanza» e offre un progetto di vita che è «eversivo» per la logica del mondo.
Per questo non si può liquidare con due battute e, a costo di apparire esagerati, vogliamo insistere nel leggere il racconto di Cana non come racconto autonomo, ma «dentro» la visione globale del IV vangelo. È l’unico mo-do serio che abbiamo per non fare dire al vangelo quello che vogliamo noi. Il vangelo di Giovanni è come l’orizzonte: più uno s’innalza più l’orizzonte si allarga. Nessuno può imprigionare Dio in una formula o una tesi e allo stesso modo nessuno può contenere il volto di Gesù che il IV vangelo dipinge. Dobbiamo accontentarci di approssimazioni, sapendo che dopo avere fatto enormi sforzi per dividere, comprendere e definire, il IV vangelo resta un «mistero» nel vero senso della parola: un mondo che sfuggendo alla curiosità ne suscita altre e più profonde.
A tutto tondo
Non c’è che l’imbarazzo della scelta: ogni commentatore offre una soluzione o proposta, ma nessuna riesce ad esaurire in modo soddisfacente la pienezza che il IV vangelo porta in sé. Ogni proposta ha un aspetto interessante che si adatta al vangelo, ma senza esaurirlo: il vangelo di Giovanni sfugge a ogni definizione e divisione, perché ci costringe a seguire Gesù passo dopo passo, centellinando un’esperienza che conduce lentamente, ma progressivamente alla scoperta della sua personalità. Nessuno può afferrare il vangelo di Giovanni illudendosi di poterlo costringere entro categorie ristrette.
Ogni parola ha sempre un duplice significato: uno immediato che corrisponde al senso comune che ha nel vocabolario; l’altro, nascosto nel ventre della parola stessa perché aspetta che il lettore, come una levatrice, ne faccia venire alla luce il volto nascosto nella trama silenziosa del suo profondo, che può manifestarsi solo se il significato segreto può risuonare nel silenzio dell’ascolto.
Sul vangelo di Giovanni bisogna «stare» (Gv 8,31) con assiduità, coscienti di dedicargli non avanzi di tempo, ma di perdere il tempo migliore. Bisogna perdersi dentro le pagine, dentro le frasi e singole parole, assaporarle una dopo l’altra, sorseggiando e gustando il senso che si svela e che ci manifesta a noi stessi, perché solo immergendoci dentro la Parola noi scopriamo che lui conosce quello che c’è dentro ciascuno di noi (cf Gv 2,25).
L’autore del IV vangelo come un vero genio della narrativa non racconta una vita cronologica di Gesù, ma descrive dettagliatamente la prima (Gv 1,19-2,1) e l’ultima settimana (Gv 12,1) di vita pubblica. Nella mentalità orientale gli «estremi» (qui prima e ultima settimana) indicano la totalità dell’insieme che sta in mezzo, come «entrare e uscire; cielo e terra; sedere e camminare». L’autore sembra dire ai suoi lettori: è inutile che vi descriva tutta la vita di Gesù, vi basti conoscere la prima e l’ultima settimana per avere la chiave di senso della sua vita.
La prima settimana anticipa tutti i temi che verranno trattati nel resto del vangelo; mentre l’ultima settimana registra l’epilogo che si snoda come un dramma che non lascia respiro: lavanda dei piedi, discorsi di addio, tradimenti, processi, notte, ombre della notte, morte ignominiosa di sangue e violenza e croce, trasformata da supplizio di vergogna in trono della gloria dove sta assisa la maestà di Dio. All’interno dell’ultima settimana si trovano i capitoli 18 e 19 di Gv, che narrano la passione, morte e glorificazione con uno schema in 5 atti, più una premessa e una conclusione, per formare un dramma in 7 parti: il dramma di Dio, il dramma dell’uomo.
Prima settimana: ritorno al «principio»
La prima settimana della vita di Gesù, descritta dal IV vangelo, è un evidente richiamo alla settimana della creazione (Genesi cap. 1), di cui mantiene la struttura letteraria e la potenza dell’attacco con quell’«In principio» (Gen 1,1; Gv 1,1) che cattura testa e cuore: chiunque capisce che non si tratta di «inizio temporale», ma di un «fondamento» che riguarda la consistenza stessa dell’esistenza.
In Genesi i sei giorni della creazione sfociano nel «settimo», lo shabàt, il giorno riservato a Dio; nel IV vangelo, invece, l’enumerazione minuziosa, quasi contabile, dei sei giorni nei quali Gesù, come un nuovo creatore compie i «segni» che lo manifestano all’esterno, sfocia pacatamente nel racconto delle nozze di Cana che forma così un blocco con ciò che precede (e diventa anche la premessa di quanto segue, come vedremo).
Dopo il solenne «In principio» (Gv 1,1), infatti, per tre volte segue l’espressione «il giorno dopo» (Gv 1.29.35.43) che sommati fanno tre giorni. Il racconto delle nozze di Cana che segue immediatamente comincia con l’indicazione di tempo: «Il terzo giorno» (Gv 2,1), dando corpo così a una struttura di «sei giorni». Il giorno sesto è il giorno della creazione di Adam che ora diventa il giorno dell’uomo nuovo, che invita non solo Israele, ma l’umanità tutta all’alleanza con Dio, simboleggiata nel racconto di Cana dalle anfore di pietra che giacciono inerti per terra (Gv 2,6) e dal vino abbondante che annuncia l’era messianica già cominciata. Questo sesto giorno costituisce «il principio dei segni compiuti da Gesù» con cui «manifestò la sua gloria e i suoi discepoli cominciarono a credere in lui» (Gv 2,11). Con tale schema letterario temporale, entro i confini di una settimana, l’autore ci dice che Gesù è il «nuovo creatore» di una nuova umanità: il Regno di Dio.
Ultima settimana: il Servo pasquale
Se la prima settimana della vita pubblica di Gesù è la «settimana della creazione» che ritrova il suo senso nel Lògos incarnato, l’ultima settimana (Gv 12,1), quella che precede la morte, è dentro un contesto pasquale e l’insistenza con cui l’evangelista annota questa dimensione, è indice dell’importanza che egli stesso vi annette: «Era vicina la pasqua dei giudei» (Gv 11,55); «sei giorni prima della pasqua» (Gv 12,1); «durante la festa (di pasqua)» (Gv 12,20); «prima della festa di pasqua» (Gv 13,1).
Nell’ultima settimana ha luogo la lavanda dei piedi che per l’autore del IV vangelo è l’equivalente del racconto dell’istituzione dell’eucaristia (cf Gv 13,1-20; cf Mc 14,22-25; Mt 26,26-29; Lc 22,15-20; 1Cor 11,23-25). L’autore mette così il servizio sullo stesso piano dell’eucaristia, riconoscendovi pari dignità di sacramento: Pane/Vino e Parola e Servizio, che fa abbassare per amore, manifestano la vera natura di Dio e lo rendono visibile nella vita della chiesa. Anche i discorsi di addio (cf Gv 13,31-16,33) durante la cena pasquale avvengono nell’ultima settimana: in essi Gesù pone le condizioni e determina le cornordinate per il futuro. Chiudono l’ultima settimana: la preghiera sacerdotale di Gesù (Gv 17,1-26), cattura, processi, condanna, morte e risurrezione (Gv 18-20).
Le due settimane, poste una all’inizio della vita e l’altra alla fine, formano come due pietre miliari che servono da riferimento a chi vuole addentrarsi dentro la fitta vegetazione del vangelo di Giovanni. Esse costituiscono come due fari che illuminano la dimensione di «tutta» la vita di Gesù: egli è il nuovo creatore, ma è anche il redentore; è il Dio che chiama dal nulla tutte le cose, ma è anche il Dio che si annulla per essere fedele a se stesso; è onnipotente nella creazione ed è impotente nell’incarnazione; è il Lògos/Sapienza che modella tutte le cose ed è la carne fragile della mortalità umana; è l’eterno che regola il tempo ed è anche ritmato dal tempo che condiziona la sua vita; egli è «in principio presso Dio», ma viene anche «tra i suoi» che lo rifiutano; è la luce che illumina il mondo, ma sta anche nelle tenebre che cercano di sopraffarlo.
La prima settimana culmina nel racconto di Cana, l’ultima nell’«ora» della glorificazione: le due settimane si tengono insieme come l’arco di un ponte, perché Cana anticipa l’«ora della Gloria», mentre questa fa vedere, manifesta l’abbondanza messianica che sgorga dalla croce con la consegna dello Spirito Santo (Gv 19,30).
Povertà di parole, pienezza di parola
Dal punto di vista della narrazione, cioè come racconto che tramanda una «vicenda», il vangelo è simile a quelli sinottici (Marco, Matteo e Luca); dopo la presentazione di Giovanni Battista (Gv 1), anche il IV vangelo descrive prima l’attività di Gesù in Galilea e infine in Giudea, a Gerusalemme dove conclude con la sua morte e risurrezione. Esso si compone di circa 15.000 parole greche, di cui solo 1.100 sono parole diverse: un vocabolario povero, essenziale, se circa 13.900 parole si ripetono continuamente. Tale dato deve metterci in allarme, perché alla povertà del vocabolario materiale corrisponde un’immensa ricchezza concettuale e simbolica che travalica ogni singola parola per obbligarci a scendere nel pozzo profondo del significato nascosto.
Mai presumere di capire Giovanni: quando abbiamo creduto di averlo capito, egli è già pronto per portarci a un altro livello, a un senso più alto. La tradizione ne ha raffigurato l’autore con il simbolo dell’aquila, che rappresenta il quarto vivente dell’Apocalisse (Ap 4,7), e a buon diritto, perché il IV vangelo vola ad altezze vertiginose che solo chi è equipaggiato bene può sperare di raggiungere.
Le 15.000 parole di cui si compone il vangelo che canta il Lògos sono distribuite in 20 capitoli (il capitolo 21, l’intervista di Gesù a Pietro è un’aggiunta posteriore). Il modello narrativo ormai quasi da tutti accettato, divide questi 20 capitoli in due parti, abbastanza omogenee:
– 1a parte, cap. 1-12, detta Libro dei segni;
– 2a parte, cap. 13-20 (+21), Libro dell’ora o della gloria.
a) Il libro dei segni
La prima parte si chiama «libro dei segni» perché descrive l’attività pubblica di Gesù che compie alcuni gesti o «segni». Bisogna fare molta attenzione nell’uso delle parole, perché nel IV vangelo non ricorre mai la parola «miracolo, dýnamis, téras», abbondanza frequente nei sinottici. In Gv ricorre sempre e solo il termine «sēmèion, segno», che non ha nulla di eclatante o miracoloso, come lo intendiamo noi razionalisti occidentali, perché esso è soltanto un «indicatore»: un segno è qualcosa che rimanda a una realtà diversa. I «segni» che Gesù compie rimandano tutti al pozzo profondo della sua personalità.
I segni più importanti che l’evangelista registra per farci conoscere la persona Gesù sono i seguenti che formano anche uno schema di catechesi catecumenale:
– 1° segno di Cana (2,1-11): le nozze (progetto per Israele);
– segno dell’acqua (4,1-42): la samaritana (etica dell’incontro);
– 2° segno di Cana (4,46-54 ): figlio del centurione (progetto per il mondo);
– segno del liberatore (5,1-18): paralitico alla piscina (la persona è il valore assoluto);
– segno del pane (6,1-66): moltiplicazione pani (nuova manna);
– segno della luce (9,1-41): cieco nato (cammino della fede);
– segno del «pastore bello» (10,1-21): attrazione di Dio (metodo di Dio);
– segno della vita (11,1-44): risurrezione di Lazzaro (anticipo della morte di Gesù);
– segno dell’olio (12,1-11): unzione a Betània (anticipo della sepoltura).
Compito del vangelo è farci incontrare l’uomo Gesù per farcelo conoscere come Figlio di Dio e aiutarci a scoprirlo come Dio redentore, attraverso i «segni» che egli compie nella sua vita e che ci offre come indizi: per scoprire questi indizi, è necessaria la fede. È interessante notare come la parola «segno» solo nel vangelo di Giovanni ricorre 17 volte (Gv 2,11.18.23; 3.2; 4,48.54; 6,2. 14.26.30; 7,31; 9,16;10,41 11,47; 12,18.37; 20,30) e 7 volte nell’Apocalisse (Ap 12,1.3; 13,13.14; 15,1; 16,14; 19,20), mentre non si trova nelle lettere, per un totale complessivo nell’opera giovannea di 24 volte che è una percentuale sufficiente a farci capire l’importanza che l’autore vi annette.
b) Il libro dell’ora della gloria
La seconda parte è detta «libro dell’ora» o «libro della gloria», perché in Giovanni la «gloria» di Gesù si manifesta nell’«ora della morte». Attoo alla parola «ora», l’autore tesse tutto un reticolato teologico di straordinaria intensità. La parola ricorre in tutto il vangelo 19 volte, di cui 9 nella prima parte e 10 nella seconda, stabilendo così un equilibrio distributivo perfetto in tutto il vangelo. Ciò significa che la parola «ora» tesse la trama del testo.
Non si può capire il vangelo di Giovanni se non si comprende il significato di questa piccola parola «ora», che non indica un tempo, ma l’evento della salvezza che stravolge la logica e capovolge le priorità.
Il racconto delle nozze di Cana riporta l’espressione chiave: «Donna, … non è ancora giunta la mia ora» (Gv 2,4), che idealmente e realmente si ricollega con la preghiera finale di Gesù: «Padre, è venuta l’ora» (Gv 17,1). Il racconto di Cana apre e proietta lo sguardo del lettore sulla fine, passando dall’ora ancora assente all’ora finalmente giunta: l’ora della morte che coincide con l’ora della glorificazione del Figlio di Dio: «Padre, è venuta l’ora: glorifica il Figlio tuo perché il Figlio glorifichi te» (Gv 17,1). Pateità e figliolanza s’intersecano e si fondono nell’unica «gloria» che rispecchia nel Figlio il volto del Padre e nel Padre manifesta il volto del Figlio.
Il peso della «gloria»
La parola «gloria» non significa rendere onore a qualcuno con deferenza, riconoscendone l’autorità e anche la vanità esteriore che diventa vanagloria di individui inconsistenti. In ebraico il termine «Kabòd», tradotto in greco con «Dòxa», indica la natura stessa di Dio. Il termine infatti veniva usato come «Nome alternativo» di Dio.
Gli ebrei non pronunciano mai il nome YHWH e, infatti non sappiamo quale ne sia l’esatta pronuncia. Ancora oggi nella preghiera e leggendo la Scrittura, ogni volta che un ebreo con gli occhi incontra la parola «YHWH», con le labbra pronuncia un nome alternativo, come «Adonai, Signore», «Elion, Onnipotente», «Shem, Nome», «Maghèn, Scudo», «Maqòm, Luogo», «Shekinàh, Dimora-Presenza», oppure «Kabòd, Gloria». Il Targum usa anche il termine aramaico «Memràh, Parola».
«Gloria» in ebraico ha attinenza con l’idea di «peso» che indica il «valore» della persona: il riferimento è alla «consistenza», perché in Oriente ciò che è pesante ha più valore di ciò che è leggero. Un uomo grasso vale più di un magro, perché il suo «essere» è consistente, pesante, cioè solido e stabile. Da questo punto di vista, Dio è l’essere glorioso per eccellenza perché trabocca del peso dell’esistenza: ne è anzi il creatore. Dare gloria a qualcuno significa, quindi, riconoscee il valore, validità, consistenza e importanza.
I banchetti dei re orientali sono confezionati prevalentemente con vivande grasse, espressione della «pesantezza», cioè dell’importanza, della «gloria» (cf Gb 36,16; Is 26,6). Il racconto delle nozze di Cana termina infatti con una nota del redattore che esprime esattamente tale idea: «Questo, a Cana di Galilea, fu il principio dei segni compiuti da Gesù; egli manifestò la sua gloria (dòxa, kabòd) e i suoi discepoli cominciarono a credere in lui» (Gv 2,11).
Esegeti e commentatori sono d’accordo nel dare rilievo specifico a questa parola pregnante che racchiude in sé la sintesi teologica di tutto il vangelo, che già nel prologo si apre con questa parola ripetuta due volte nello stesso versetto (Gv 1,14 per 2 volte) e si chiude con l’annuncio della morte di Pietro che deve glorificare il Signore (Gv 21,19). Lo stesso termine si trova a metà esatta del vangelo, quando l’evangelista, di fronte alla incredulità dei giudei, cita il profeta Isaia «perché vide la sua gloria e parlò di Lui» (Gv 12,41; cf Is 6,1-4).
In tal modo la parola «gloria» segna le nozze di Cana, discrimina la fede dall’incredulità e trasforma la morte in testimonianza gloriosa. Ancora una volta troviamo la struttura orientale: inizio e fine per indicare che il termine «gloria» è la chiave di volta di tutto il vangelo: tecnicamente si dice che questi due testi all’inizio e alla fine, formano «una inclusione», quasi un abbraccio che comprende quello che c’è nel mezzo: tutta la vita di Gesù.
Se dovessimo sintetizzare il IV vangelo in una parola, sarebbe lecito presentarlo come vangelo «dell’ora della gloria». Qual è il contenuto, valore, peso dell’«ora» e della «gloria» lo vedremo facendo l’esegesi del racconto di Cana, parola per parola.
(continua 4)
Paolo Farinella