Si è concluso a Istanbul (Turchia), il 22 marzo scorso, il V Forum mondiale sull’acqua, una settimana di lavori a cui hanno preso parte quasi 30 mila congressisti, delegati da governi e istituzioni inteazionali. La speranza di molti era sintonizzata sulla possibilità che, finalmente, si potesse dare una risposta definitiva a uno dei problemi cruciali che investe oggi la comunità internazionale in materia del cosiddetto «oro blu», ovvero, poter definire una volta per tutte l’accesso all’acqua come un diritto fondamentale e inalienabile di ogni essere umano. Mi permetto di commentare una notizia ormai «di archivio» perché, a nome di una rivista che considera la difesa dell’ambiente e la salvaguardia del creato come parte della sua missione, considero grave il fatto che ciò non sia avvenuto.
Ogni essere umano ha diritto, senza discriminazione alcuna, di accedere a una quantità d’acqua potabile, di buona qualità, che sia facilmente raggiungibile dalla propria abitazione ed economicamente accessibile, per potee fare uso personale e domestico. Questo, in sintesi, potrebbe essere il contenuto del diritto invocato. Si tratta, umanamente parlando, di una pretesa scontata e universalmente condivisibile, che assumerebbe ben altra valenza se le venisse concesso lo status di diritto. Senz’acqua si muore, con poca acqua malsana non si va molto più in là. Purtroppo, invece, l’economico e il politico perdono sovente le tracce dell’umano.
Definendo l’acqua come un bisogno fondamentale dell’umanità, e non come un diritto, si è persa l’occasione di affermare che alla vita ci teniamo sul serio e non solo a parole. Chi difende un bisogno? Chi ne definisce l’oggettività? Chi stabilisce i criteri per cui qualcuno ha più bisogno di altri? Quanto posso o sono disposto a pagare per la soddisfazione di questo bisogno? Eccolo qui, in fin dei conti, il nocciolo del problema: il bisogno determina il prezzo di un bene. Affermare che l’acqua è un bisogno significa dire una verità talmente evidente e scontata di fronte alla quale istintivamente si è tentati di annuire, dimenticandosi che la posta in gioco è la privatizzazione selvaggia in atto di un bene che è di tutti.
Dire che l’acqua è un diritto avrebbe invece messo in chiaro che a tale bene ogni essere umano deve poter accedere senza obbligatoriamente versare un salato obolo alle multinazionali del settore. Non solo, avrebbe contribuito a promuovere altri diritti fondamentali, la cui affermazione verrebbe altrimenti penalizzata dalla mancanza di accesso a fonti di acqua. Alla faccia degli obbiettivi del millennio!
Rimando i lettori a un corposo dossier di Missioni Consolata pubblicato nel numero di giugno 2006, dal significativo titolo «Le mani sull’acqua», nonché ai contributi scientifici pubblicati nella rubrica Nostra madre terra (di Roberto Topino e Rosanna Novara). Sono il segno di un duraturo interesse di Missioni Consolata e della determinazione a continuare dalle nostre pagine la battaglia affinché l’acqua sia finalmente riconosciuta come bene sociale e diritto di tutti.
Ugo Pozzoli