Suor Caterina e suor Maria Teresa raccontano…
Rapite il 20 novembre 2008 a El Wak (Kenya), tenute prigioniere in Somalia per 102 giorni, le due suore del Movimento contemplativo missionario Charles de Foucauld, Caterina Giraudo e Maria Teresa Olivero, una volta rilasciate, sono rimaste per alcuni giorni nella quiete della casa regionale dei missionari della Consolata a Nairobi. Una sera le ho «sequestrate» per fare una lunga chiacchierata sulla loro esperienza. E si sono arrese volentieri.
A raccontare la loro brutta avventura è soprattutto suor Caterina, Rinuccia per le sue sorelle, donna minuta di 67 anni, che parla in modo dolce e quieto, ma con una grande forza interiore, ed è persino capace di sorridere e scherzare nel ricordare momenti anche buffi della loro prigionia. È infermiera e si arrangia con la lingua somala, in cui è chiamata con il nome di Khatra.
Suor Maria Teresa, 60 anni, è la più forte delle due. Alta, con mani grandi e forti da figlia di contadini, Mariam, come è chiamata in lingua somala, non parla molto. Così si limita a spalleggiare Khatra, con una voce che invita alla cautela, conferma, corregge, aggiunge, chiarisce e mette in guardia quando la potenza evocatrice dei ricordi supera la prudenza, per non rivelare cose che sarebbe meglio non dire. Ma quanta profonda e delicata sensibilità si notano in quelle poche parole e in quella voce profonda!
Dal loro racconto non sapremo molto sul perché furono catturate, sui negoziati ed eventuale richiesta di riscatto, su come furono liberate. Notizie di stampa locale e internazionale hanno riferito che i sequestratori erano miliziani di Al Shabaab e che la loro detenzione fosse a Mogadiscio. Sui giornali sono apparse anche congetture su un pagamento di riscatto e su uno scambio di prigionieri. La verità è gelosamente custodita da chi ha fatto il suo dovere in silenzio. Da parte mia ho evitato deliberatamente l’argomento durante la nostra conversazione.
So solo che il 19 febbraio, alle 3 del pomeriggio, una festosa telefonata mi informava che le due suore erano state liberate e, arrivate a Nairobi, erano state portate subito all’ambasciata italiana, da dove avevano potuto mettersi in contatto con le loro consorelle e confratelli. Ma lasciamo la parola a suor Caterina.
La cattura
Era circa mezzanotte. Dormivamo tranquille, sentendoci al sicuro nelle nostre stanze, protette dalle mura del recinto e due portoni di ferro, quando d’improvviso fui svegliata dall’inconfondibile scricchiolio del portone del cortile interno. Mi alzai allarmata, chiamai suor Maria e corsi alla finestra del soggiorno in tempo per vedere le luci di molte torce che avanzavano verso le nostre stanze. Poi si udirono degli spari, mitragliavano la porta della stanza di suor Maria.
Corsi indietro e mi aggrappai alla vecchia sirena a mano (foitaci negli anni ‘70 da padre Giovanni Bonzanino!). Suonai l’allarme girando la manovella con tutte le mie forze per diversi minuti, finché sentii sparare anche contro la mia porta.
Mi resi conto che ero ancora in pigiama; mi vestii in fretta e mi nascosi dietro un armadio (mi viene da ridere pensando alla mia ingenuità!), mentre la porta stava crollando sotto la gragnola di proiettili. Entrò un giovane, si diresse verso il mio letto. Non c’ero. Guardò in giro, mi scorse, mi afferrò una mano, uno strattone e mi ritrovai in terra come un sacco di patate. Mi trascinò fuori senza complimenti e … senza scarpe.
Suor Maria era già fuori, con una torcia in mano. Prima che la sua porta fosse sfondata, aveva tentato di chiamare aiuto con il telefono mobile, ma nessuno aveva risposto.
Spintonate dai nostri sequestratori, arrivammo al portone esterno: un colpo di fucile mandò in frantumi il grosso lucchetto nel quale avevamo riposto tanta fiducia. Trascinate e strattonate, attraversammo a passo svelto l’intero villaggio di El Wak. Io gridavo aiuto con tutta la mia voce, mentre il mio sequestratore mi picchiava dietro la testa: «Silenzio! Silenzio!».
Poi caddi a terra lunga e distesa. Ero scalza. Era buio. Mi spingevano. Sentii sul collo la canna di una pistola, ma continuavo a gridare. In quel momento cominciai a sentire interiormente che non ci avrebbero ucciso. Volevano farci prigioniere. Cadde a terra anche suor Maria. La colpirono in testa con il calcio del fucile. Cominciò a sanguinare; per fortuna la ferita era superficiale.
Alcune automobili ci aspettavano. Mi gettarono di peso dentro una di esse senza complimenti: ero troppo esausta per reagire. Maria si sedette al mio fianco. Aspettammo un poco. Da quel momento cominciammo a pregare. Una preghiera continua. Si udì un’improvvisa scarica di armi da fuoco proveniente dalla città: il cuore ci batteva forte; qualcuno veniva a liberarci. Speranza vana. I nostri sequestratori si raggrupparono, balzarono nelle auto e si gettarono dritti nella boscaglia. Passammo vicino a El Uach, il villaggio somalo opposto a El Wak, e continuammo per oltre un’ora, finché ci fermammo e fummo trasferite in una comoda Range Rover dai vetri scuri.
Alcuni sequestratori si avvicinarono al finestrino; avevano telefonini cellulari. Uno ci mostrò una foto: «Lo conosci?». Era l’inconfondibile faccia di Bin Laden! «Sì» rispose suor Maria. Il cuore sembrava scoppiare: eravamo proprio in «buone» mani! «Siamo di Al Shabaab» dissero, poi domandarono: «Siete musulmane o pagane?». «Siamo persone che amano tutti nel nome di Dio» rispose suor Maria: una risposta ispirata da Dio! Da allora non ci fecero più simili domande.
Cinque giorni fuori pista
Viaggiammo tutta la notte, fino alle quattro del pomeriggio seguente, senza cibo né acqua. Avevo grande bisogno di zucchero o di sale per la mia pressione. Lo chiesi, ma fecero orecchie da mercante. Quando finalmente ci fermammo, il capo del gruppo disse: «Ora mangiamo pastò». Intendeva pastasciutta. Ci sedemmo al sole accanto all’auto; dopo un po’ ci portarono un grosso piatto di spaghetti, luccicanti di olio e qualcos’altro. Assaggiai. Era zucchero! Dopo 16 ore di viaggio e la pressione che continuava a scendere, anche gli spaghetti allo zucchero potevano andar bene.
Ma il vero problema era l’acqua. Quella disponibile l’avevano usata tutta per cuocere gli spaghetti. Rimanemmo senza bere fino la sera del giorno seguente, quando arrivammo a un villaggio e le auto si fermarono accanto alla moschea, da cui la gente era appena uscita. Qualcuno ci portò una tazza di tè: era meraviglioso; dopo 40 ore di viaggio quel tè aveva gusto di paradiso! Vedendo la gioia e gratitudine con cui lo avevamo bevuto, ce ne portarono un altro; poi un uomo arrivò con un piattino di riso e due cucchiai; un altro con un piattino di nyieri-nyieri, gustosa carne fritta nell’olio cucinata solo in speciali occasioni di festa. Fu poi la volta di una tanichetta d’acqua da 3 litri e una bustina di shampoo: così suor Maria poté lavarsi la ferita.
Fummo portate in un luogo nascosto, nell’alveo secco di un torrente, dove ci avevano preparato una stuoia su cui dormire, al chiaro di luna. Dato che ero scalza, il vice capo mi prestò le sue scarpe per raggiungere lo spiazzo. Faceva freddo e avevo niente per coprirmi, allora lo stesso corse al villaggio e toò con un grande lenzuolo. Cominciammo a dormire, un sonno agitato, mentre anche i sequestratori si coricarono in circolo attorno a noi, sempre stretti ai loro fucili e lancia razzi. Erano tutti ragazzi giovani, eccetto il capo.
Al mattino riprese il viaggio verso sud, su percorsi fuori pista. Dormimmo per qualche ora e di nuovo in viaggio, finché dovettero fermarsi per problemi meccanici. Per quasi tutto il giorno rimanemmo in quel posto isolato, senza cibo e senza acqua. Suor Maria ebbe un momento di panico. Dei tre litri restavano solo un paio di bicchieri d’acqua bianchiccia e fangosa: fu la molla che fece scattare le nostre paure: prigioniere, in mano a sconosciuti, per ragioni ignote, in terra deserta…
Riuscimmo, tuttavia, a riprendere il controllo di noi stesse. Arrivò il tramonto e la sete divenne più sopportabile. Per la prima volta riuscimmo a recitare un rosario per intero. Fino a quel momento avevamo pregato sempre, in continuazione, ma solo con brevi invocazioni, come «Signore, salvaci». Ci aiutava a restar calme.
Appena finito il rosario, fummo portate alle auto. La «nostra» Range Rover era pronta alla partenza. E proprio in quel momento arrivò il meccanico con una tanica da 20 litri d’acqua. Ognuno se ne prese una bottiglia, anche noi; ma il vice capo ci diede un extra, prese la nostra tanichetta, la riempì e ce la consegnò. Una gentilezza che apprezzammo molto.
Era già buio, ma il capo decise di lasciare il gruppo con le macchine rotte e proseguire da solo con la Range Rover, con dentro noi e altri due uomini. Guidò per 20 ore di seguito, giorno e notte. Eravamo arrivati così a sud, da perdere la direzione; dopo aver chiesto spiegazioni via cellulari, il capo fece salire un uomo che ci guidò verso una grande città, che immaginammo dovesse essere Mogadiscio.
la prigionia
Dopo 5 giorni di terribile viaggio, eravamo finalmente in una casa. La padrona sapeva del nostro arrivo. Ci diede un vestito nuovo ciascuna, acqua per bere e per lavarci e un materasso per dormire. Quella notte riuscimmo a riposare.
Il giorno seguente il capo stesso, con voce severa, ci ricordò che saremmo morte se le trattative fossero fallite. La minaccia ci lasciò di ghiaccio. Eppure ci sentivamo molto forti. Fin dall’inizio di quella dura prova avevamo fatto lo stesso proposito: affrontare con pace interiore qualsiasi cosa fosse capitata; così instaurammo un rapporto il più positivo possibile con i nostri rapitori. Per grazia di Dio, non abbiamo mai avuto sentimenti di rabbia, odio o avversione verso di loro.
Nella città, sebbene più volte trasferite da un posto all’altro, fummo tenute in stanze abbastanza larghe; avevamo due materassi e due cuscini e qualche vestito di ricambio; là ci fecero indossare il burka e coprire i capelli. Rimanevamo chiuse nella stanza tutto il giorno; ci era permesso di uscire solo per i bisogni fisiologici. Solo nelle ultime 4 settimane ci fu consentita un’ora all’aria aperta nel sole di mezzogiorno.
A parte ciò, ci trattavano sempre con rispetto e cortesia, provvedendoci cibo buono e abbondante. Un giorno uno di loro ci presentò un libro. «Lo conoscete? The Holy Bible!». Ci spiegò che avevano ucciso un soldato straniero e gli avevano trovato quella Bibbia in tasca; ora era lì per noi. Un regalo stupendo, che accettammo con immensa gioia.
La usammo molto, ma con prudenza, per non provocare discussioni su argomenti religiosi. Infatti avevamo qualche problema con uno dei giovani carcerieri alquanto zelante. Per cui, un giorno ne parlammo al vice-capo, che era sempre stato gentile con noi. Raccontammo come eravamo ammirate per il loro comportamento: tutti disciplinati, mai un litigio o parole irriguardose, non facevano uso di tabacco e alcolici né masticavano miraa (la droga così comune tra i somali!), sempre rispettosi nei nostri riguardi e verso le donne in generale. C’era solo quel giovane miliziano che ogni tanto ci metteva in imbarazzo. Da quel giorno il giovane ci lasciò in pace e ci trattò con gentilezza.
Per 40 giorni (nella nostra comunità siamo allenati ai 40 giorni! [Ndr. i 40 giorni di deserto e preghiera che caratterizzano la vita spirituale dei contemplativi missionari]) riuscimmo a conservare il morale discretamente alto. Certo, avevamo paura. Chi non ne avrebbe avuta in tale situazione, con uomini sempre armati di fucili e bombe, sempre pronti a vantarsi delle loro uccisioni? Ma resistevamo, e non abbiamo mai perso la nozione del tempo. Suor Maria aveva ancora il suo orologio; il mio si era rotto mentre mi trascinavano a El Wak. Eravamo anche riuscite a compilare un calendario di fortuna, con un pezzo di carta e un mozzicone di matita trovato sul davanzale di una finestra.
Avemmo un momento di grande apprensione il 23 dicembre, quando uno dei carcerieri ci disse che le trattative per il nostro rilascio erano ferme. Seduto nella nostra stanza, ci riferì la notizia in modo calmo e cortese, provando perfino a consolarci e condividendo il nostro dolore. Ma fu terribile. Ci sentivamo tradite, abbandonate, sole, impotenti, e ferite nel profondo dell’anima.
In tale stato d’ansietà celebrammo il natale; abbiamo pregato, letto i passi biblici della natività di Cristo; sentivamo Gesù profondamente presente, lì, prigioniero con noi. Ma fu un momento di grande oscurità, durato fino alla fine dell’anno. Poi cominciarono a trapelare notizie migliori.
la forza della preghiera
A darci coraggio era la preghiera. All’inizio eravamo persino incapaci di pregare insieme; pregavamo molto, ma ognuna per conto suo. Poi cominciammo a pregare insieme la sera; alla terza settimana ci eravamo già organizzate bene: lodi mattutine, vespri serali, 4-5 rosari durante la giornata e la partecipazione mentale alla messa, momento per momento, con comunione spirituale.
Per la recita dei salmi ci aiutavamo a vicenda ricordandoli a memoria. Naturalmente il primo che ci venne in mente fu: «Il Signore è il mio pastore». Lo sapevamo bene ed era proprio giusto per la nostra situazione. Poi il salmo 103, «Benedici il Signore, anima mia!». Il salmo 63 era sempre sulle nostre labbra: «O Dio, tu sei il mio Dio, all’aurora ti cerco». Riuscivamo a ricordae abbastanza bene circa 15; ne recitavamo sei-sette nella mattinata; gli altri alla sera, ripetendoli anche due volte. Pregavamo con molta calma: non avevamo altro da fare tutto il giorno.
Pregavamo sempre a bassa voce, per non attirare l’attenzione. Non osavamo cantare. Solo nelle ultime settimane trovammo il coraggio di intonare qualche canto, perché la nostra stanza era la più isolata, lontano dalle orecchie dei nostri custodi.
Per mantenerci occupate camminavamo su e giù per la piccola stanza, fino a stancarci. Andando avanti e indietro, recitavamo il rosario, tanti rosari. A ogni Ave Maria inserivamo qualche giaculatoria: «Gesù, io confido in te»; «Spirito Santo illuminaci, guidaci ogni istante della giornata»; «Madre nostra, Maria, aiutaci a ringraziare»… Un rosario poteva durare più di mezz’ora. Pregare in quel modo era un balsamo per noi. Ci ha aiutato tantissimo.
Nei vespri serali avevamo un’occasione per ringraziare con il Magnificat. Ringraziare! Era molto importante per noi. Forse dovuto all’insistenza e formazione instillateci dal fondatore della nostra comunità, il ringraziamento è sempre stato parte della nostra preghiera, anche in quei giorni difficili. Ogni giorno avevamo motivi per rendere grazie.
La Parola di Dio ci accompagnava tutto il giorno. Ripetevamo spesso passi o versetti più familiari della Parola di Dio. A volte usavamo la Bibbia che ci avevano dato. Alcuni versetti ci venivano facilmente in testa, come «venite a me voi che siete stanchi e oppressi…» e «ama i tuoi nemici e prega per coloro che ti perseguitano». Citazioni molto significative, che ci aiutavano a illuminare, rinnovare, correggere ogni giorno la nostra relazione con quelli che ci stavano vicino in quei momenti. Quando li sentivamo pregare, anche noi pregavamo per loro. Invocavamo lo Spirito Santo perché operasse in loro.
Eravamo convinte che lo Spirito fosse al lavoro, anche in quella difficile situazione. Non che fosse facile. Anzi! C’erano momenti di sconforto, come quando ci sentivamo abbandonate con la sensazione che Dio fosse lontano: «Perché non rispondi? Fai presto, aiutaci. Liberaci!». Eravamo tentate di perdere la speranza, di cadere nella più nera disperazione. Ma poi… «Se tu non fossi qui, Signore, cosa sarebbe di noi? Cosa potremmo mai fare?». Non era possibile dubitare. Sentivamo davvero che il Signore era lì con noi, prigioniero anche lui con noi!
Esperienza di Paradiso
È stata molto, molto dura… tante lacrime, non solo interiori. Molte ore insonni; l’angoscia che ti prendeva dentro; essere sveglia e sentire accanto la sorella piangere nel sonno… ti trafigge il cuore; e pensi: «Sto già soffrendo troppo! E se anche lei patisce tanto dolore, come faremo a sopravvivere?».
Tale esperienza ci faceva sentire più vicine al Cristo crocifisso. Un giorno ci siamo persino dette che dovevamo essere grate a Dio perché avevamo il privilegio di condividere la passione di Cristo. Tale pensiero non veniva da ragionamento, era piuttosto un’intuizione, ma ci fu di grande aiuto. La sofferenza di Gesù, il suo essere tradito, la sua debolezza, come agnello portato al macello… ci siamo sentite anche noi così: impotenti, spoglie, indifese, inermi di fronte a una realtà fuori del nostro controllo.
Eravamo certe che la nostra comunità, i parenti e tantissime persone erano con noi e ci stavano sostenendo con la preghiera. Ma in realtà eravamo sole, senza contatti, senza notizie, senza risposte alle nostre mute domande. Era un’esperienza di purificazione. Crescevamo nella fede giorno dopo giorno, ma era una fede nuda, oscura… proprio «come succhiare un chiodo», come usava dire il nostro fondatore. Ma era fede. Sapevamo che il Signore era lì con noi. Recitando il rosario, sperimentavamo la presenza della nostra Madre, lì, con noi. Era un continuo scorrere di grazia. Al tempo stesso era una croce, nella sua totalità, senza sconti.
Sentivamo entrambe che lo stare insieme era una benedizione. A un certo punto, percepimmo che stavamo vivendo un’esperienza di paradiso: mai nella vita ci eravamo sentite così legate da affetto, profonda comunicazione e solidarietà. Stavamo vivendo l’una per l’altra.
Non che fossimo senza problemi. In certi momenti eravamo così tese e stanche da non riuscire a sopportarci a vicenda. Brevi momenti dolorosi, ma lo capivamo; era normale. Si cercava di evitare parole inutili, pesanti… per non aggravare il già pesante fardello che dovevamo portare.
Abbiamo imparato a condividere tutto, persino le sofferenze più segrete. Come quando suor Maria mi vide piangere nel sonno: non aveva il coraggio di dirmelo, le sembrava troppo; ma poi decidemmo che anche quei momenti dovevano essere condivisi, perché una sofferenza così forte che per notti e notti non ti permette di dormire può essere lenita solo condividendola.
Il futuro
Due ore prima di salire sull’aereo ci fu detto che eravamo libere. Fu una gioia incredibile. E ora siamo qui e ringraziamo tutti coloro che ci hanno sostenuto con la loro preghiera e solidarietà, da tutti gli angoli del mondo.
Anche i nostri amici musulmani di El Wak e Mandera hanno pregato per noi dal primo giorno della nostra prigionia. Ora ci chiamano ogni giorno, chiedendoci di ritornare. Molti di loro non riescono neanche a parlare al telefono, si mettono a piangere. Hanno fatto tanto per noi, pregando ed insistendo con gli anziani per la nostra liberazione. I poveri, i malati, le madri, i vecchi… erano tutti dalla nostra parte. Ma i poveri non han potere né voce!
Toeremo? Preghiamo e speriamo, ma non sappiamo. Il nostro futuro è nelle mani di Dio!
Luigi Anataloni