«CAMBIARE LA LOGICA DEL SISTEMA»

François Houtart:

Belém, 29 gennaio 2009. Sono sul palco, uno accanto all’altro: Evo Morales, l’indio, presidente della Bolivia; Feando Lugo, il vescovo, presidente del Paraguay; Rafael Correa, l’economista, presidente dell’Ecuador; Hugo Chávez, il militare, presidente del Venezuela. All’inizio della conferenza, Chávez saluta con parole di stima ed affetto François Houtart, seduto in platea. Alla fine della giornata, il prete belga, classe 1925, membro del consiglio internazionale del Forum, sale sul palco ad abbracciare il presidente venezuelano. Magari qualcuno si sarà domandato, attonito e probabilmente inorridito: «Ma come fa quest’uomo di chiesa a stimare questo “dittatore”?». In attesa di trovare una risposta al mistero, scambiamo alcune battute con il professor Houtart, alias padre François, sempre sorridente e disponibile (1).

Padre Houtart, lei è uno dei fondatori del Forum. Come è cambiata in questi anni questa manifestazione?
«È cambiata nel senso che il Forum ha potuto costruire una coscienza collettiva, sempre più universale. È fondamentale continuare su questa strada: formare una coscienza universale. Soprattutto in questo periodo di crisi del capitalismo, che è una crisi senza lotta di classe. Il problema è come alimentare una lotta popolare e sociale per trasformare la logica del sistema».  

Lei è rappresentante personale di Miguel D’Escoto (2) nella Commissione dell’Onu, incaricata di studiare la crisi…
«Sono membro della Commissione delle Nazioni Unite diretta da Joseph Stiglitz. È chiaro, però, che questa Commissione propone una regolazione del sistema e non una sua trasformazione, un cambiamento».

Come sta avvenendo anche nel Forum di Davos, contemporaneo a questo…
«Non tutto il mondo è cosciente della necessità fondamentale di cambiare la logica del sistema capitalista. La crisi è finanziaria, energetica, alimentare, climatica, sociale. Questa è una crisi totale».

Forum di Belém e Forum di Davos. Anche lei riscontra una diversità di trattamento da parte dei media?
«Sì. I media folclorizzano il Forum sociale mondiale. Per loro soltanto il Forum di Davos è serio. Il fatto è che noi non abbiamo potere nei media».

I responsabili della crisi ora chiedono aiuto a quegli stessi stati nazionali che prima tenevano lontani come la peste. Non è una palese contraddizione?
«No! È la logica del sistema. Lo stato deve intervenire soltanto per salvare il capitalismo. Lo stato capitalista è al servizio del capitalismo. Pertanto, il problema è come costruire un altro stato che abbia una base popolare e obiettivi alternativi agli attuali. Le alternative esistono».

Lei è un prete. Come si sta comportando la chiesa davanti ai problemi che solleva la crisi. Sta facendo abbastanza?
«No, non sta facendo abbastanza! Le dichiarazioni ufficiali, quando ci sono, sono deboli e superficiali, molto superficiali. E comunque rimangono nel solco della regolarizzazione del sistema».

Questa speranza di un cambio può trasformarsi in realtà concreta e tangibile?
«È una speranza realista. Come arrivarvi? Occorre mobilizzare la coscienza collettiva, altrimenti il sistema si riproducerà fino alla propria distruzione. Se si arriverà alla coscientizzazione, allora il cambio sarà possibile».

Ma quando? Domani o in tempi biblici?
«Ci sono tempi diversi. Un tempo immediato e un tempo più lontano. L’importante è mantenere la coerenza» (3).

di Paolo Moiola

(1) François Houtart è un ospite fisso di MC. Sue interviste sono state pubblicate nell’aprile 2002 (a cura di Paolo Moiola) e nel luglio 2006 (a cura di Marco Bello).
(2) Miguel D’Escoto, nicaraguense, prete, sandinista, è presidente dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite dal settembre 2008.
(3) Il 31 ottobre 2008, Francois Houtart aveva presentato una relazione sulla crisi – «Le monde a besoin d’alternatives et pas seulement de régulations» – davanti all’Assemblea generale delle Nazioni Unite.

Paolo Moiola




Terra, terra delle mie brame

l’Amazzonia, la terra e il protagonismo degli ultimi

A Belém, per una volta, gli ultimi (alcuni tra gli ultimi) sono diventati protagonisti: i popoli indigeni e i Sem terra. Diversi, ma entrambi legati ad un unico destino: la terra. I primi per difendere i propri territori ancestrali dalle mire dei molteplici usurpatori; i secondi per riuscire (finalmente) ad avere un pezzo di terra con cui vivere. Intanto, nel paese degli immensi latifondi e delle incredibili ingiustizie, il «Forum per la riforma agraria» sostiene una campagna scandalosamente rivoluzionaria: limitare la proprietà privata della terra.  

Nel campus dell’Università agraria di Belém c’era una delle tende – «tende tematiche» sono state chiamate – più frequentate: la «Tenda dos povos indigenas», la tenda dei popoli indigeni.
Al Forum sono arrivati i rappresentanti di 120 etnie indigene, in maggioranza dell’Amazzonia. Si aggiravano in piccoli gruppi per le strade del campus. Si lasciavano fotografare volentieri, perché non erano una mera attrazione (antropologica, turistica, estetica), ma protagonisti, alla pari degli altri partecipanti. E, alla pari degli altri, anche loro fotografavano e filmavano.  
In America Latina vivono circa 44 milioni di indigeni, rappresentando il 10 per cento della popolazione totale della regione. In Amazzonia, un territorio di oltre 6 milioni di chilometri quadrati diviso tra 9 paesi (Brasile, Bolivia, Colombia, Ecuador, Perù, Venezuela, Suriname, Guyana francese e Guyana), le terre indigene rappresentano circa il 27 per cento del totale.
Per gli indigeni, il Forum sociale è stata l’occasione per parlare del loro modo di vedere il mondo (cosmovisione), dei loro problemi e dei diritti negati. Ma anche l’occasione per parlare dell’Amazzonia, il più importante ecosistema del mondo (per la foresta vergine, la biodiversità, l’acqua dolce), la cui sopravvivenza è in grave pericolo. Secondo gli esperti, negli ultimi 40 anni  è stato distrutto il 17 per cento delle foreste amazzoniche e un altro 17 per cento è molto degradato (1).

ABelém erano presenti sia i rappresentanti dei popoli indigeni che quelli dei Sem terra. Che cosa accomuna questi soggetti, altrimenti tanto diversi? Un comune destino: la terra. I primi – soprattutto i popoli dell’Amazzonia –  si trovano a lottare per la difesa delle proprie terre ancestrali dall’occupazione da parte di usurpatori (tagliatori di alberi, allevatori, coltivatori di riso o soia, minatori, ma anche multinazionali dell’agrobusiness e della farmaceutica) e per il loro riconoscimento giuridico (demarcazione e titolazione legale); i secondi, invece, lottano per avere un pezzo di terra con cui vivere.
In Brasile, paese ricchissimo di risorse agricole, domina il latifondo: il 2,8% dei proprietari terrieri possiede il 56,7% delle terre coltivabili. Questo si traduce in un modello di agricoltura capitalista, fondata sulla monocoltura e sull’esportazione, un modello incapace di soddisfare le esigenze alimentari di tutta la popolazione brasiliana, oltre che foriero di pesanti conseguenze sul piano sociale.
Per questo il Forum nazionale per la riforma agraria e la giustizia nel campo (Forum nacional pela reforma agraria e justiça no campo, Fnra), che raggruppa 48 organizzazioni, ha promosso una campagna per limitare la proprietà privata della terra.
Perché – si legge nel sito – è illegittima e ingiusta «la concentrazione di immense aree nelle mani di poche persone e gruppi, quando la maggioranza della popolazione si trova esclusa» (2). Dal punto di vista pratico, i promotori propongono l’introduzione nella Costituzione federale di un comma (articolo 186, comma V) in cui alla proprietà privata della terra si stabilisca un limite di 35 «moduli fiscali» (3). L’emendamento costituzionale inciderebbe solamente su poco più di 50 mila proprietari di terra, ma produrrebbe conseguenze rilevanti. Si creerebbe infatti una disponibilità di oltre 200 milioni di ettari di terra per le famiglie accampate, senza spendere risorse pubbliche per l’indennizzo dei proprietari.

Anche la chiesa cattolica brasiliana partecipa attivamente alla Campagna con alcune sue organizzazioni: il Consiglio indigenista missionario (Conselho indigenista missionario, Cimi), la Commissione pastorale della terra (Comissão pastoral da terra, Cpt) e la Caritas brasiliana. Dom Tomas Balduino, vescovo emerito di Goiás, consigliere della Cpt e figura storica delle lotte per la terra in Brasile, non è tenero con il governo del presidente Lula, perché si è allineato sulle posizioni dell’agrobusiness, che è contrario agli interessi dei Sem terra e degli indigeni.
Il religioso cattolico non usa eufemismi per spiegare il dramma del latifondo: «Alla base vi è il vecchio e nefasto concetto della proprietà come un diritto assoluto. Così esso è insegnato dogmaticamente nella maggior parte delle scuole di diritto e, purtroppo, risiede nella testa di un gran numero di giudici».

Nella «Campagna per la limitazione alla proprietà della terra» si parla di lavoratori rurali senza terra e di comunità tradizionali (ovvero afrodiscendenti di schiavi liberati (4), popolazioni rivierasche e popoli indigeni propriamente detti). L’«unità nella diversità» è stata richiesta anche nelle dichiarazioni finali dei popoli indigeni (5), redatte dopo la conclusione del Forum di Belém. Un auspicio che, però, non trova ancora concretizzazione nella realtà.
«È – spiega l’antropologa Silvia Zaccaria – un nostro vizio mettere insieme lotte sociali come sono quelle dei Sem terra e lotte culturali-cosmologiche (nel senso di diversi modi di vedere il mondo) com’è per i popoli indigeni. La verità è che tra Sem terra e popoli indigeni manca un progetto strategico e politico condiviso. Per il momento, unire le due realtà è più una speranza e un desiderio della chiesa cattolica che una effettiva realtà». 
Un problema non da poco, considerando la consistenza degli avversari e della sfida. Perché la storia insegna che i potenti hanno sempre saputo approfittare delle divisioni tra poveri, scatenando conflitti in cui, alla fine, ad uscire vincitori sono sempre i soliti.

Di Paolo Moiola  

(1) Si legga il rapporto 2009 dell’United Nations Enviroment Programme (Unep/Pnuma) dal titolo: «GeoAmazzonia». Il rapporto è scaricabile gratuitamente dal sito: www.unep.org.
(2) Il sito della «Campagna per il limite alla proprietà della terra»: www.limitedapropriedadedaterra.org.br.
(3) Il «modulo fiscale» è una misura di riferimento stabilita dall’Istituto nazionale di colonizzazione e riforma agraria (Incra), che definisce l’area minima sufficiente per fornire il sostentamento a una famiglia di lavoratori e lavoratrici rurali. Esso varia da regione a regione ed è definito per ogni municipio a partire da vari parametri, come per esempio la situazione geografica, la qualità del suolo e le condizioni di accesso al territorio.
(4) Il termine brasiliano è: «quilombolas».
(5) Le dichiarazioni sono leggibili sul sito della Coiab («Coordenação das Organizações Indígenas da Amazônia Brasileira»), il Coordinamento delle organizzazioni indigene dell’Amazzonia brasiliana (www.coiab.com.br) e su quello della Coica («Coordinadora de las Organizaciones Indígenas de la Cuenca Amazónica»), il Coordinamento delle Organizzazioni indigene della conca amazzonica (www.coica.org.ec).

Paolo Moiola




Un mondo altro, diverso, nuovo: da «possibile» a «necessario»

B come Bélem

A Belém, nell’Amazzonia brasiliana, si è tenuta la nona edizione del «Forum sociale mondiale». Ora che il mondo attraversa una crisi epocale, per gli «altermondisti», un tempo ridicolizzati (soprattutto dai media e dai politici), è il momento delle rivincite. Ma anche di sfide. Impegnative.

In meno di un decennio è diventato l’incontro per antonomasia dei movimenti sociali del mondo. Per la sua nona edizione, il «Forum sociale mondiale» è tornato in Brasile, da dove nel 2001 era partito. All’epoca, la città ospitante fu Porto Alegre, nello stato di Rio Grande do Sul. Quest’anno invece il Forum si è spostato a Belém, nel nord-est del paese latinoamericano.  
Volendo trovare una frase che descriva la capitale del Pará, potremmo dire che a Belém non mancano né l’acqua né i manghi. Gli alberi di mango sono ovunque, anche lungo le vie del centro, tanto che frequentemente i grossi frutti cadono sulle auto e sui passanti. Quanto all’acqua, il clima equatoriale porta abbondanti piogge quotidiane quasi tutto l’anno. Ma soprattutto Belém è inserita in un sistema fluviale unico e maestoso. La città è bagnata dal Rio Guamá e si affaccia sulla Baia do Guajará. A sua volta, l’intera zona è parte della vastissima area occupata dalle foci del Rio delle Amazzoni (Rio Amazonas), il più grande fiume del mondo.
Data la sua posizione geografica, Belém è la porta d’entrata per l’Amazzonia, considerata il principale ecosistema del pianeta, ma anche il più minacciato. Proprio l’Amazzonia e i suoi popoli indigeni sono stati tra  i principali protagonisti di questa edizione del Forum, svoltasi in coincidenza con una crisi – finanziaria ed economica, ma anche ambientale, energetica, alimentare e sociale -, che sta scompaginando il mondo e quelli che, soltanto fino a ieri, erano considerati i suoi capisaldi ideologici: il libero mercato e la globalizzazione.

Ufpa o Ufra? Non è uno scioglilingua o un gioco di parole, ma la sigla delle due università di Belém, che hanno ospitato il nono Forum sociale mondiale:  Ufpa sta per «Universidade Federal do Pará», Ufra per «Universidade Federal Rural da Amazonia». Le due università sono strutturate come campus, sono cioè cittadelle autonome, con strutture ad hoc, grandi spazi, negozi, proprie strade intee e addirittura due porticcioli, da cui in 15-20 minuti si può passare dall’una all’altra con barche che solcano il Rio Guamá.
«Vai alla Ufpa o alla Ufra?», è stata dunque una frase d’obbligo nelle giornate del Forum, perché gli eventi – convegni, seminari, dibattiti, laboratori, feste – erano distribuiti sui due campus universitari, molto estesi e distanti qualche chilometro l’uno dall’altro, costringendo pertanto i partecipanti a scegliere in anticipo dove andare.

È vero che i numeri non sempre sono significativi, ma qualche indicazione la danno. A Belém sono arrivate 133.000 persone, provenienti da 142 paesi. Sono giunti i rappresentanti di 5.808 organizzazioni, delle quali 4.193 dell’America Latina, 489 dell’Africa, 491 dell’Europa, 334 dell’America Centrale, 155 dell’America del Nord e 27 dall’Oceania. Per questo variegato pubblico sono stati organizzati ben 2.600 laboratori e seminari (probabilmente troppi, è stato da più parti osservato).
Insomma, numeri importanti che hanno fatto scrivere ad Alejandro Kirk dell’Agenzia Ips: «Screditato tante volte dai mezzi di comunicazione come un carnevale di sinistra fatto di sogni, sesso e marijuana, politicamente impotente, il Forum pare essere vivo e combattivo».

Le due cittadine universitarie che hanno ospitato il Forum sono cresciute al confine con Terra Firme, un quartiere di 100.000 abitanti, povero e con problemi di violenza. Per il Forum il bairro (barrio, in spagnolo) è stato ripulito, le strade principali riparate, l’acqua fatta arrivare nelle case, la polizia triplicata. Contraddizioni del Brasile, metafora delle contraddizioni del pianeta, dove più mondi, molto anzi troppo diversi tra loro (a dispetto della tanto reclamizzata globalizzazione), convivono con sempre maggiore precarietà. Il mondo dei ricchi, il nostro mondo, per difendere il proprio (indifendibile) stile di vita e modello di sviluppo, ha alzato barriere (fisiche, legislative, mediatiche), che però non resistono alle spinte estee, sempre più forti. Oggi il crollo della filosofia neoliberista e del sistema da questa costruito ha messo a nudo tutte quelle contraddizioni – economiche, sociali, ambientali, politiche – che fin dalla loro nascita, nel 2001, i Forum sociali avevano evidenziato, spingendo e lavorando per la costruzione di qualcosa di diverso sotto lo slogan «un altro mondo è possibile», tanto deriso dai media mondiali.
Ebbene, ora quel mondo altro, diverso, nuovo più che possibile è diventato necessario. Sul come arrivarvi la discussione è aperta. Il Forum di Belém, come tutti i forum che lo hanno preceduto, ha dato il suo contributo. Con la differenza che questa volta, forse, le indicazioni provenienti dai movimenti della società civile e dai popoli indigeni saranno ascoltate più che negli anni passati. Forse.   

Di Paolo Moiola    

Gli obiettivi del Forum

DIECI PASSI VERSO IL «BUEN VIVIR»

         Questi sono gli obiettivi attorno ai quali si sono sviluppati gli incontri, i dibattiti e i laboratori del «Forum sociale mondiale» di Belém:

1. «Per la costruzione di un mondo di pace, giustizia, etica e rispetto verso le spiritualità diverse; per un mondo libero da armi, specialmente quelle nucleari.
2. Per la liberazione del mondo dal dominio del capitalismo, delle multinazionali, della dominazione imperialista, patriarcale, coloniale e neocoloniale e dei sistemi diseguali di commercio, attraverso la cancellazione del debito estero dei paesi più sfavoriti.

3. Per l’accesso universale e sostenibile ai beni comuni dell’umanità e della natura; per la salvaguardia del nostro pianeta e delle sue risorse, con speciale riguardo per l’acqua, i boschi e le risorse energetiche rinnovabili.

4. Per la democratizzazione e l’indipendenza della conoscenza, della cultura e della comunicazione; per la creazione di un sistema comune di conoscenza e abilità attraverso lo smantellamento dei diritti di proprietà intellettuale.
5. Per la dignità, diversità e garanzia della eguaglianza di genere, razza, etnia, generazione, orientamento sessuale e per la eliminazione di tutte le forme di discriminazione e di casta (discriminazione basata sulla discendenza).
6. Per la garanzia dei diritti economici, sociali, umani, culturali ed ambientali, specialmente dei diritti all’alimentazione, alla salute, all’istruzione, alla casa, ad un impiego e un lavoro degni, alla comunicazione, alla sicurezza alimentare e alla sovranità.
7. Per la costruzione di un ordine mondiale la sovranità, l’autodeterminazione e i diritti dei popoli, includendo le minoranze e gli immigrati.
8. Per la costruzione di un’economia democratica, di emancipazione, sostenibile e solidale, centrata sui popoli e basata su un commercio giusto ed etico.
9. Per la costruzione e l’ampliamento delle strutture e delle istituzioni politiche, economiche e democratiche a livello locale, nazionale e globale, con la partecipazione del popolo alle decisioni e il controllo degli affari pubblici e delle risorse pubbliche.
10.Per la difesa dell’ambiente (l’Amazzonia e tutti gli altri ecosistemi) come fonte di vita del pianeta terra e per le popolazioni ancestrali del mondo (indigeni, afrodiscendenti, tribali e fluviali), che esigono i loro propri territori, idiomi, culture ed identità, giustizia ambientale, spiritualità e diritto alla vita».

A leggere questi obiettivi, certamente si può evidenziare che si tratta di un elenco molto generico, a volte ripetitivo e superficiale, spesso utopico. Ma è innegabile che, al tempo stesso, esso contenga molte verità incontestabili. Da queste alternative e da queste proposte potrà svilupparsi quel «buen vivir» per tutte e tutti che, alla fine, è il grande augurio del «Forum social mundial» di Belém.

Pa.Mo.


Cronistornira del Forum sociale mondiale

Le 9 volte del Forum:

– primo Forum:
25-30 gennaio 2001, a Porto Alegre (Brasile)
– secondo Forum:
31 gennaio-5 febbraio 2002, a Porto Alegre (Brasile)
– terzo Forum:
23-28 gennaio 2003, a Porto Alegre (Brasile)
– quarto Forum:
16-21 gennaio 2004, a Mumbai (India)
– quinto Forum:
26-31 gennaio 2005, a Porto Alegre (Brasile)
– sesto / settimo Forum:
gennaio 2006, a Caracas (Venezuela) e Bamako (Mali)
– ottavo Forum:
gennaio 2007, a Nairobi (Kenya)
– nono Forum:
27 gennaio -1 febbraio 2009, a Belém (Pará, Brasile)

Paolo Moiola




Cana (3) Un vangelo, tanti autori

Il racconto delle nozze di Cana (3)

Il racconto delle nozze di Cana è un momento centrale del quarto vangelo perché annuncia, anticipandola, «l’ora della glorificazione» di Gesù, cuore della teologia di Giovanni. Il racconto si colloca nella tradizione profetica, perché Gesù moltiplica il vino, come Elia moltiplicò la farina e l’olio per la vedova di Sarepta (1Re 17,7-16) e come Eliseo moltiplicò l’olio per una vedova (2Re 4,1-7) e i pani per il popolo (2Re 4,42-44).
Scopo di questa rubrica biblica è aiutare i lettori a leggere la parola di Dio in modo più approfondito, anche se in un linguaggio semplice, che tenga conto dei risultati della scienza esegetica, senza scadere nel tecnicismo, è importante che prima percorriamo le stesse tappe, attraverso le quali il vangelo si è formato fino a raggiungere il testo che oggi abbiamo in mano, e in secondo luogo cerchiamo di individuare la figura dell’autore, che ci aiuterà a capire il motivo e la finalità del racconto delle nozze di Cana, il «primo dei segni» che Gesù fece all’inizio della sua carriera di rabbi, riportato solo nel quarto vangelo.
Per il vangelo di Giovanni, come persinottici, l’identificazione dell’autore o degli autori è sempre un problema aperto, anche se ormai, alla luce di studi complessi, si possono tirare se non tutte, almeno alcune conclusioni definitive. Oggi la critica biblica attribuisce con sufficiente certezza la redazione finale dei rispettivi scritti a Marco e Luca; la questione si complica un po’ per Matteo e Giovanni, due opere particolari, che hanno visto un processo formativo complicato, che è impossibile solo sfiorare nello spazio di un articolo divulgativo. Prima però è necessaria una parentesi che apriamo e chiudiamo con la nota.
Imparare a pensare come gli antichi
Quando parliamo dell’«autore» di un libro, oggi siamo spinti a immaginare una persona seduta alla scrivania intenta a comporre a mano, o al computer, una storia «ordinata», organizzata sulle fonti con puntiglioso riferimento alle date, ai luoghi e alle persone. Oggi si dispongono anche delle video registrazioni che fanno vedere «quel momento» passato come se fosse contemporaneo: si possono ascoltare le parole e pure «vedere» la persona che parla, anche se morta.
Dobbiamo dimenticare tutto questo, quando prendiamo in mano un vangelo o un libro antico; al contrario dobbiamo cercare di documentarci sui metodi di trasmissione delle opere. Per noi è difficile immaginare che, al tempo dei vangeli, solo pochissime persone sapevano leggere e scrivere e che non esisteva la stampa, né la carta come la possediamo oggi. Nei tempi antichi i testi scritti erano pochi e per di più su materiale fragile e costoso come il coccio, papiro, pelli di capra, ecc.
I vangeli canonici, compreso quello di Giovanni, nella loro stesura definitiva non sono opera di un solo autore, ma sono il risultato di un lungo processo e anche di molte mani di persone di generazioni diverse. È evidente che nello spazio di un articolo non possiamo dare conto di tutte le ipotesi e di tutti gli studi che sono sterminati, ma possiamo garantire di offrire una sintesi onesta e corretta dei risultati condivisi dalla quasi totalità degli studiosi.
Per dare una risposta alla domanda «chi è l’autore del quarto vangelo?», bisogna procedere per gradi e percorrere i singoli momenti con attenzione, ripercorrendo brevemente le diverse tappe.

Nota
Il problema della ricerca biblica sui vangeli si è complicata da quando, nel 2007, la Rizzoli ha pubblicato il primo volume di una riflessione biblico-teologica di papa Benedetto xvi dal titolo «Gesù di Nazaret». Il papa ripassa i momenti salienti della vita di Gesù attraverso i vangeli, collocandosi sul binario tranquillo della tradizione e facendo alcune riserve su alcuni metodi di esegesi. È importante dire una parola su questo libro, che sta generando molti problemi nella chiesa, anche a livello di studio e di ricerca.
Fin dalla sua comparsa il libro è diventato un «testo di riferimento» per la catechesi nelle parrocchie e la predicazione dei preti, che si sentono tranquilli dal punto di vista dell’ortodossia, in forza dell’assunto «se lo dice il papa!», nonostante il papa stesso abbia scritto che il «libro non è in alcun modo un atto magisteriale, ma unicamente espressione della mia ricerca personale del “volto del Signore” (Sal 27,8). Perciò ognuno è libero di contraddirmi» (p. 20).
Ci troviamo di fronte a una confusione enorme: il papa dice che il suo è un libro «qualsiasi», che può essere criticato come qualsiasi altro libro; dall’altra parte molti fedeli e operatori pastorali lo prendono come «testo sicuro», anche in contrapposizione ad altri libri di persone più competenti del papa, che non è esegeta o teologo biblico. Il fatto che in Italia nessun biblista o teologo abbia recensito criticamente il testo del papa, la dice lunga sul condizionamento che esso sta producendo. Sarebbe opportuno che si ritornasse al vecchio codice (1917) che per queste ragioni vietava ai papi di scrivere libri opinabili: i papi, infatti, devono parlare per magistero.
A quanto mi risulta solo il cardinale Carlo Maria Martini, biblista di fama internazionale e già direttore del Pontificio istituto biblico, ne ha parlato in una conferenza a Parigi, dichiarando con molta schiettezza che dal punto di vista esegetico, il libro è pieno di inesattezze e anche errori e che comunque non vi si trova il Gesù dei vangeli, ma il Gesù che piace al papa, che «non è esegeta, ma teologo… non ha fatto studi di prima mano per esempio sul testo critico del Nuovo Testamento». Secondo Martini, c’è un problema fin dalla copertina, dove sono abbinati il nome di Joseph Ratzinger e quello, a caratteri cubitali, di Benedetto xvi che sovrasta l’altro: «È il libro di un professore tedesco e di un cristiano convinto, oppure è il libro di un Papa, con il conseguente rilievo del suo magistero?» (Sede dell’Unesco a Parigi, 23 maggio 2007; cf testo integrale su Il Corriere della Sera 24-5-2007). Lo stesso concetto egli ribadisce in una recensione su La Civiltà Cattolica (C. M. Martini “Gesù di Nazaret” di Joseph Ratzinger – Benedetto xvi in La Civiltà Cattolica, quaderno 3768, II [2007] 533-537).
Per quanto ci riguarda, il libro del papa si pone anche la questione dell’autore del quarto vangelo e quindi sul suo valore storico. Egli rifiuta alcune interpretazioni (Rudolf Bultmann), ne condivide parzialmente altre (Martin Hengel), non ne prende in considerazione molte altre, ma giunge a una «sua» conclusione: «Lo stato attuale della ricerca ci consente perfettamente di vedere in Giovanni, il figlio di Zebedeo, il testimone che risponde con solennità della propria testimonianza oculare identificandosi anche come il vero autore del Vangelo» (p. 252).
Accogliendo l’invito del papa stesso a una critica serena, rilevo, per quanto mi concee, che questa è l’opinione di Joseph Ratzinger, ma non è affatto una certezza nel campo degli studi, anzi è una tesi ormai superata. Nella nostra ricerca non terremo conto del «Gesù di Nazaret» secondo il credente Ratzinger, perché appartiene più al versante della meditazione spirituale edificante che della esegesi biblica. Con ogni dovuto rispetto. (Fine Nota)

Prima tappa: da Gesù agli apostoli
a) Gesù vive in Palestina tra il 6/7 a.C. e il 30 d.C. per un totale di circa 36 anni, di cui gli ultimi tre o due pubblici, perché li impiega predicando come un rabbino itinerante dentro e fuori la Palestina. Egli non lascia scritto nulla, anzi l’unica volta in cui abbiamo testimonianza che scrisse qualcosa, scrisse sulla polvere per terra, durante il processo alla donna adultera (Gv 8,8).
b) Dopo la morte di Gesù e la sua risurrezione, gli apostoli, superata la paura e lo smarrimento, si mettono a «predicare» in pubblico per convincere che Gesù di Nazaret è il messia atteso da Israele (cf At 2,1-47). La prima predicazione degli apostoli si rivolge agli ebrei e il contenuto di essa è solo e quasi esclusivamente il «mistero pasquale», cioè la passione, morte, risurrezione, ascensione (glorificazione) di Gesù e il dono dello Spirito Santo. Gli apostoli non si preoccupano di scrivere.
c) Qui si colloca la prima tappa della «tradizione/trasmissione» del vangelo: la tradizione orale che si tramanda da persona a persona, da generazione a generazione. Chi parla descrive quello che crede e la propria esperienza con la passione di chi vuole convincere gli ascoltatori, non con la freddezza dello studioso a tavolino.
Anche l’apostolo Giovanni ha cominciato a predicare in Palestina, da dove con ogni probabilità si è trasferito in Asia Minore, nell’attuale Turchia, con epicentro Efeso, dove c’era un gruppo di giudeo-cristiani che viveva all’interno di una comunità di origine greca. Qui infatti aveva operato l’apostolo Paolo circa 30 anni prima, dimorando per quasi tre anni a Efeso (dal 53/54 al 56/57).
In questo contesto «plurale», l’apostolo Giovanni è l’iniziatore, il primo anello di partenza della tradizione giovannea, che lentamente si andrà formando sul suo insegnamento e sulla sua predicazione. È probabile che a Efeso, dopo la distruzione di Gerusalemme e l’espulsione dei giudei (70 d. C.) si costituisca un’autentica «scuola giovannea», che riflette e sviluppa la predicazione che fa riferimento all’apostolo Giovanni, che è così l’iniziatore di una corrente o scuola, ma non l’autore materiale del vangelo come oggi lo possediamo.

Seconda tappa:
dagli apostoli alla vita della comunità
La comunità è una realtà viva, che si struttura attorno alla fede in Cristo: essa celebra la liturgia, testimonia con la vita, subisce persecuzioni e naturalmente raccoglie testimonianze su Gesù o liste parziali di miracoli, insegnamenti, parabole per scopi immediati come la liturgia o la catechesi. Nel vangelo di Giovanni, per esempio, si trovano solo sette miracoli (già il numero sette è emblematico, perché simbolico), che l’autore preferisce chiamare «segni», per riportarsi a un livello più profondo che non sia quello esteriore del miracolistico eclatante. Tutti questi «sette segni» sono costruiti in modo diverso da quelli narrati nei vangeli sinottici. Ecco di seguito l’elenco:
1. le nozze di Cana (Gv 2,1-11);
2. guarigione del figlio del funzionario romano (Gv 4,46-54);
3. guarigione del paralitico alla piscina di Betesda (Gv 5,1-18);
4. moltiplicazione dei pani (Gv 6,1-14);
5. guarigione del cieco nato (9,1-41);
6. risurrezione di Lazzaro (11,1-42);
7. pesca miracolosa (Gv 21,1-14).
Tutti questi «segni» hanno lo stesso schema: sono dialogati, c’è sempre un’azione, un crescendo che si sviluppa a volte in discorso lungo e articolato come nella moltiplicazione dei pani, un intermezzo e infine una lenta risoluzione verso la conclusione positiva. È evidente anche al lettore più sprovveduto che non ci troviamo più di fronte al «fatto storico» nudo e crudo, come possiamo intenderlo noi oggi.
Bisogna capire che le prime comunità cristiane hanno avuto una vita travagliata anche sul piano della fede e non hanno capito chi fosse Gesù da subito, ma hanno elaborato lentamente una «cristologia» che ha fatto fatica a prendere piede, in mezzo a eresie, rifiuti, contrapposizione di gruppi, di idee che spesso culminavano in reciproche scomuniche o esclusioni. Dai testi possiamo rilevare, e gli studi lo confermano, che la comunità che fa capo all’apostolo Giovanni, è una comunità divisa, frantumata, lacerata da divisioni, come lo sono anche quelle di Paolo (v. 1Gv 2,18-27; 4,1-6; 2Gv 7-11; 3Gv 9-11; per Paolo: 1Cor 1,10-16). Non bisogna lasciarsi ingannare da quanto scrive Luca: «Tutti i credenti stavano insieme e avevano ogni cosa in comune» (At 2,44), perché non rispecchia la realtà primitiva, ma idealizza ciò che dovrebbe essere la comunità.
Negli ultimi decenni del sec. I d.C. (80-90) le comunità sono abbastanza strutturate e hanno una vita propria e sviluppano un livello di riflessione avanzata, dove ormai  il dato storico è, se non abbandonato, per lo meno superato. Ciò è logico anche perché non c’è più il contesto originario, che all’evangelista non interessa più. Con ogni probabilità, indipendentemente dal contesto storico e geografico originario, tutti questi «segni» sono stati raggruppati in una raccolta «pronto uso» per la catechesi o per la liturgia.
In Giovanni, per esempio, a differenza dei sinottici che riportano decine di parabole (basta pensare a Matteo che sul tema del «Regno di Dio» ne riporta sette e tutte raggruppate nel capitolo 13), ne troviamo solo due che non si trovano negli altri vangeli: la parabola del «Pastore bello» (Gv 10,1-16) e quella della vite e i tralci (Gv 15,1-8): tutte e due queste parabole sono legate alla formula di auto rivelazione divina «Io-Sono», di cui parleremo in altra rubrica. A questo secondo livello della trasmissione, si cominciano, dunque, a possedere scritti parziali, omogenei e indipendenti per uso personale o comunitario, senza ancora un progetto organico.

Terza tappa: la 1a edizione scritta del vangelo
La terza tappa del lungo cammino formativo del vangelo è quella che gli studiosi, unanimemente, chiamano la tappa della prima edizione del vangelo scritto. Fino ad ora ci siamo trovati di fronte a figure singole o collettive anonime, che identifichiamo genericamente con il termine «comunità», non avendo altri riferimenti precisi. Da questo momento, da quando cioè il vangelo appare nella prima stesura scritta si può parlare di un singolo autore, cioè dell’evangelista che comunemente indichiamo con un nome: «Vangelo secondo Giovanni».
Tra gli studiosi c’è unanimità su questo punto: nella comunità giovannea vi erano due persone con lo stesso nome: uno è l’apostolo Giovanni che possiamo definire la «fonte» da cui ha origine il fiume della tradizione orale; e l’altro è Giovanni l’evangelista, presbitero dell’Asia Minore, figura eminente di teologo, a cui risale la prima edizione del vangelo scritto che è all’origine del vangelo attuale. L’esistenza di due persone con lo stesso nome ha creato una grande confusione d’identità, come testimonia anche lo storico antico sant’Eusebio (Storia ecclesiastica 2,31,3; 3,39,6) che parla dell’esistenza a Efeso di due tombe diverse per due Giovanni distinti.

Quarta tappa: la 2a edizione scritta del vangelo
La quarta tappa della trasmissione del vangelo di Giovanni è la pubblicazione della seconda edizione di un nucleo di scritti, più ampia e più organica della prima con aggiunte che riflettono situazioni nuove di epoche più recenti. Sembra, per esempio, che nella comunità giovannea vi fossero problemi ad accettare la figura di Pietro come autorità: il quarto vangelo, infatti, presenta la fede del discepolo prediletto sempre come superiore a quella di Pietro (cf Gv 13,23; 20,4.8; 21,7). Anche san Paolo ha conflitti spesso feroci con Pietro (cf Gal 2,11-14).
All’interno di questa dialettica, in epoca posteriore una mano diversa dalla prima aggiunse il capitolo 21, dove a Pietro si attribuisce la funzione di «pastore» che non ha riscontro in tutto il vangelo precedente (cf Gv 21,5-7).
Un altro esempio si trova nel racconto del cieco nato (Gv 9): l’evangelista annota che i genitori prendono le distanze dal figlio guarito «perché avevano paura dei giudei» (Gv 9,22), annotazione che non fa alcun problema, ma ciò che segue immediatamente sì, perché l’evangelista aggiunge una spiegazione di natura storica: «Infatti, i giudei avevano già stabilito che, se uno lo avesse riconosciuto come Cristo, venisse espulso dalla sinagoga» (Gv 9,22-23). Questa notizia non può che essere di molti anni dopo, posteriore al 90 d.C., quando i giudei espulsero definitivamente i cristiani dalla sinagoga. Un autore diverso dall’evangelista ha aggiunto queste parole, proiettando al tempo di Gesù una situazione drammatica del suo tempo.
La tensione tra giudei e cristiani alla fine del sec. I era tale che gli ebrei composero una apposita «maledizione» (in ebr. birkat hamminìm – benedizione [contro] gli eretici) aggiunta alla preghiera ufficiale, detta delle «diciotto benedizioni» per stanare i giudei che erano diventati cristiani e che erano considerati eretici.

Quinta tappa: la 3a edizione scritta del vangelo

L’ultima tappa della trasmissione del testo del vangelo di Giovanni corrisponde alla terza edizione scritta del vangelo come testimonia un papiro datato intorno al 120-130, trovato in Egitto vicino al Cairo in una casa privata (papiro Rylands, scoperto nel 1896) che riporta due piccoli brani della passione: Gv 18,31-33 e 37-38). Questo piccolo papiro è di somma importanza perché ci dice che all’inizio del sec. II il vangelo di Giovanni come lo abbiamo oggi circolava anche in Egitto, fuori della Palestina, lontano da Efeso, segno che il testo era ormai definito e utilizzato; ne consegue che il testo definitivo, cioè la terza edizione scritta, deve collocarsi come data probabile negli ultimi due decenni del sec. I.
Nel frattempo anche gli altri tre vangeli si sono affermati, sedimentati nella tradizione e nella liturgia, viaggiando insieme, ma sviluppando quattro prospettive degli stessi eventi, quattro angoli di visuale per uno stesso progetto: la fede nel Signore Gesù. Intoo al 150 d.C. i quattro libretti che camminavano separati, furono messi insieme, cuciti in un solo volume e da quel momento la comunità dei credenti, fino a noi, hanno tra le mani un solo libro con cinque volumi: i quattro vangeli canonici e gli Atti degli Apostoli.
Fin qui la storia complessa, che abbiamo semplificato oltre ogni umana tolleranza, per dire che il vangelo di Giovanni non si può attribuire alla mano di un solo autore, ma alla vita, alla testimonianza, alla liturgia e alla fede di una comunità, dove vivevano alcune personalità di spicco, autorevoli e degni di stima che ci hanno tramandato non la vita di Gesù, che è impossibile scrivere, ma solo quei fatti sufficienti «per la nostra salvezza» (Dei Verbum, 11; cf Gv 20,30-31; 21,24-25).

Chi è l’autore del quarto vangelo?
Alla luce di quanto abbiamo detto, dobbiamo superare la nostra convinzione che autore e scrittore siano la stessa persona. Per quanto ci riguarda possiamo dire:
1. L’apostolo Giovanni, il figlio di Zebedeo, è l’autore del quarto vangelo come l’antenato sta al pronipote. Egli è autore perché la sua predicazione e testimonianza stanno all’origine della tradizione giovannea; prima in Palestina e poi in Turchia, a Efeso; qui altri hanno ripreso contenuti e testimonianza di Giovanni e l’hanno sviluppata, integrando, arricchendo e incarnandolo.
2. L’apostolo Giovanni non è autore come possiamo intenderlo noi oggi, perché non ha confezionato alcun libro e non vi ha messo il sigillo del copyright. La sua testimonianza di e su Gesù si è diluita nel tempo, diventando vita di una comunità, che non ha mai pensato di tramandarci un testo da museo, ma l’annuncio giornioso che Gesù è il Messia, il Figlio di Dio (cf Mc 1,1). Di lui, come autore nel senso che abbiamo spiegato, parlano sette testimonianze al di fuori del NT (Ireneo di Lione, Papia di Geràpoli, il Canone muratoriano, il Prologo monarchiano, Clemente Alessandrino e tutti sono databili tra il II e III secolo).
3. Il quarto vangelo in cinque testi parla di un «discepolo che Gesù amava» (Gv 13,23; 19,26; 20,2; 21,7.20) e in altri due di un «altro» discepolo non meglio identificato (Gv 1,35-40 e 18,15). Probabilmente si tratta di due persone diverse. Il primo appellativo potrebbe essere dato dallo scrittore del vangelo che ricordando il suo maestro, l’apostolo Giovanni, ne parla anche con affetto, mettendo in evidenza la sua familiarità particolare con il Signore. Nello stesso tempo «il discepolo che Gesù amava» può anche estendersi a tutti coloro che entrano in contatto con Gesù nella fede e lo accolgono come Figlio di Dio, per cui partecipano alla vita d’amore del Signore come i lettori che siamo noi. Le due interpretazioni si integrano a vicenda.
4. Avviandoci alla conclusione, possiamo dire che la «voce» che ha dato origine al vangelo, attraverso la predicazione, è quella di Giovanni l’apostolo; una voce così forte e potente che si estese presto in tutto l’Oriente dove, in Turchia, trovò un discepolo che la raccolse e la volle divulgare ancora di più, fissandola per iscritto perché molti altri ne potessero usufruire.
5. Egli non si limitò a riportare la «voce», ma insieme ad essa raccolse la sua eco, aggiunse testimonianze che integrò con altre fonti dando corpo al testo come è arrivato fino a noi. Questo evangelista scrittore non è palestinese, ma con ogni probabilità un greco che aveva assorbito la cultura multietnica di Efeso, si era imbevuto anche di un «sapere» giudaico, vivendo all’interno di una comunità mista fino al punto da fare del giudaismo lo sfondo culturale e ambientale del suo vangelo, come cercheremo di mettere in rilievo studiando il racconto delle nozze di Cana.
6. Questo vangelo è indirizzato sia ai cristiani provenienti dal giudaismo, sia a quelli che provengono dall’ellenismo, ai quali l’autore presenta un vangelo che educa alla maturità della fede. Chi ha incontrato Gesù per la prima volta come un catecumeno (vangelo di Marco), ed è poi diventato un discepolo di Gesù (vangelo di Luca), divenendo anche un catechista (vangelo di Matteo), ora può bere alla fonte spirituale e contemplativa del quarto vangelo. Senza fretta perché in Gv ogni parola ha un significato ovvio e uno nascosto, che bisogna cercare, ruminare, centellinare e assaporare, lasciando alla Parola, attraverso le singole parole, la possibilità di depositarsi nell’intelligenza e nel cuore, per diventare alimento e bevanda di vita: «Io-Sono il pane della vita; Io-Sono la vite, voi i tralci» (Gv15,5).  (continua – 3)

Di Paolo Farinella

Paolo Farinella




Pace sì, ma a modo nostro

Alla scoperta di … paesi, storie, persone: Mozambico (4.a puntata)

Si può essere missionario e guerrigliero? Qualcuno lo ha fatto. E oggi continua a mettersi al servizio dello sviluppo del suo paese. Nella formazione e nella politica. Incontro ravvicinato con un missionario sui generis.

Padre Filipe José Couto, missionario della Consolata, classe 1939. Dopo studi in Italia è stato un allievo modello all’università di Münster, in Germania, dove ha ottenuto il dottorato in teologia. Rientrato in Mozambico, nonostante ottime possibilità di carriera accademica in Europa, è costretto ad andare in esilio in Tanzania, dove entra in contatto con il Frelimo (Fronte di liberazione del Mozambico), in lotta per liberare il paese dal Portogallo.
Dopo l’indipendenza Couto riprende gli studi e ottiene un secondo dottorato, in scienze sociali, e poi insegna in Tanzania e a Londra, filosofia, teologia e logica matematica.
Nel 1996 è nominato rettore della neonata Università Cattolica del Mozambico, fondata da un altro padre della Consolata, Francesco Ponsi, ma di proprietà dei vescovi.
Dal 2007 è magnifico rettore dell’Università Eduardo Mondlane, l’istituzione universitaria più importante del paese. Filipe Couto conosce tutti i dirigenti del partito al governo, il Frelimo, e molti ministri erano dei giovani «tirati su» da lui durante la guerra di liberazione.
Vestito trasandato, capelli scompigliati, ha negli occhi un guizzo geniale. Eteo provocatore, sembra sempre duellare con il suo interlocutore: «Fate pure le domande, tanto Missioni Consolata è da anni che non pubblica le cose che dico io».

Padre Couto, come ha deciso di fare la lotta armata?
Penso che la gente esageri sulla mia storia. Non capita che si decida da un momento all’altro di andare a fare la lotta per la liberazione. Esistono delle circostanze in cui uno deve trovare la via per salvare la pelle. Nel mio caso, agli inizi degli anni ’70, se eri nel Nord del Mozambico, dovevi uscire e andare in esilio. Il fatto di scappare e arrivare dove c’era il nucleo del Frelimo, di aver vissuto con loro, ha portato a un certo percorso.
Quando sono uscito dal paese ero missionario della Consolata. In Tanzania ero con i rifugiati, mi sono trovato con altri confratelli, con i quali ho avuto contatti e solidarietà. Non c’è un taglio netto tra il fatto di essere missionario ed essere uno che è andato con i rifugiati e poi ha raggiunto il Frelimo, ha lavorato con esso e vi continua a lavorare in certe cose necessarie per lo sviluppo del paese. Sono state decisioni molto pragmatiche.

Perché lasciò il Mozambico?
Io non credo di aver avuto idee politiche molto chiare, ma c’era qualcosa di fondamentale. Io sono mozambicano, se c’è una proposta per un governo di persone del nostro paese, allora opto per quel governo. Ma eravamo colonia portoghese. In quel tempo, dire queste cose o insegnarle agli altri, anche solo parlarne, diventava scomodo. Arriva un momento in cui tanti con le tue stesse idee stanno scappando. Erano passati due anni dalla mia laurea in Germania. Cominciavo a fare il lavoro nelle parrocchie.

Ci racconti i primi anni nel Frelimo, lei prete in un movimento di rivoluzionari marxisti.
Quando sono entrato, era già stato ucciso Eduardo Mondlane (fondatore del movimento nel 1962, e ucciso nel ’69, ndr). C’era dentro il partito un’aria di purificazione e di determinazione della linea. Eduardo aveva fatto il Fronte radunando tutti. Era arrivato il momento di decidere come lottare per l’indipendenza e con quali obiettivi.
Primo. Era chiaro che si sarebbe dichiarata l’indipendenza solo se fossimo stati in grado di occupare, con il sistema della guerriglia, tutto il Mozambico. Secondo: che tutti potessero dire o giustificare che la guerra con le armi era una delle maniere fondamentali per arrivare alla liberazione.
Terzo. Chiunque si unisse, pur avendo studiato fuori (Germania, Italia, Usa o paesi comunisti) doveva avere un principio: il Mozambico è unico e dobbiamo risolvere i problemi del paese secondo le necessità e il contesto dello stesso.
Quando sono arrivato ho notato che c’era un certo sospetto. Il padre cattolico e il pastore protestante erano entrati in conflitto con gli altri ed erano usciti. Allora decisi ancora per la via pragmatica: mi occupai di questioni sociali, umanitarie, educazione, agricoltura. Ma mai di religione. I miei compagni della Consolata conoscevano questa scelta.

Come è cambiato l’attivismo politico dei giovani, oggi rispetto agli anni della lotta per l’indipendenza?
Durante la guerriglia non era un tempo di analisi, né di discussione, era un momento di emergenza. I capi, il comitato politico-militare, il comitato centrale, i nuclei, decidevano e si eseguiva.
I bambini che erano nelle nostre scuole, nelle zone liberate, dovevano imparare. I giovani di 18 anni dovevano lavorare nel campo, o fare il servizio militare, oppure li mandavamo a studiare (come l’attuale ministro della Difesa). Facevano le cose che dicevamo loro di fare. Era un’epoca di sintesi e decisione e non di analisi.
I giovani di adesso cominciano a entrare in un clima di discussione. Occorre lasciarli parlare, avere le proprie idee. Non è facile. Bisogna avere molta attenzione. Credo che sia una nuova epoca in cui dobbiamo educare i giovani alla libertà, alla critica e autocritica, alla solidarietà, ecc. Di queste cose parlavamo poco. Per noi era importante come organizzarci nel caso di bombardamento aereo, dove nascondere i bambini, dove scappare. È un’epoca diversa.

Gli studenti universitari di oggi sono interessati alla politica?
All’epoca la politica era semplice. Dicevamo ai giovani: state combattendo contro il colonialismo portoghese, contro lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo. Adesso invece il messaggio è piuttosto: il paese è grande, ci sono diverse opportunità, c’è molto da imparare, abbiamo bisogno di medici, ingegneri, veterinari, piloti, ecc. Poi spieghiamo loro che se imparano, le opportunità sono grandi, ma allo stesso tempo le responsabilità anche maggiori. Inoltre il mondo è aperto: se vogliono possono andare all’estero a studiare. Poi se pensano di tornare vedremo cosa si può fare.
Quello che è politica nel senso di difesa, sicurezza, è meno sentito. Il giovane non fa più attenzione, c’è un altro clima.

Qual è la qualità degli allievi delle università mozambicane?
Seguendo la mentalità europea, per avere qualità devi avere un formatore con pochi allievi. Noi invece diciamo se hai solo 10 allievi non ne trovi 2 buoni, ma se ne hai 100, forse ne trovi 3. Quindi l’università deve fare il possibile per far entrare tutti e poi selezionare chi hai dentro.
Con la quantità potrai avere una buona élite. Ma come fai a formare tanti con poche risorse? Facciamo il primo ciclo di tre anni, il secondo di due e il terzo di tre. Durante il primo vediamo i migliori e decidiamo su chi vale la pena investire. Ma valutiamo anche quelli che non sono eccellenti. Alcuni sono meno buoni ma hanno altre capacità.
La qualità è quello che la società pretende: abbiamo quella internazionale e quella nazionale, ovvero di gente che lavora qui. Dobbiamo avere le due, la qualità intellettuale che va all’estero e quella che rimane qui da noi.

Il paese ha raggiunto una pace stabile dopo quasi 30 anni di guerra civile. È un esempio a livello africano. Come è stato possibile?

Io ho un’opinione diversa dalla comunità di Sant’Egidio (uno degli attori della mediazione, ndr.). La gente pensa che il Mozambico sia un caso speciale, e che l’incontro di Roma (cfr. MC gennaio 2009), con i mediatori sia stato decisivo per la pace. Afonso Dhlacama (capo della Renamo, formazione guerrigliera contro il governo dopo l’indipendenza fino al 1992, ora partito politico, ndr.) ha firmato, così la guerra è finita. I soldati sul campo hanno obbedito.
Si dice che la comunità di Sant’Egidio, qualche vescovo, qualche missionario hanno fatto la pace.
È successo che a un dato momento, dopo la guerra coloniale e la partenza dei portoghesi, la popolazione ha visto che le cose non andavano tanto meglio. Hanno iniziato a pensare: quelli che sono a Maputo, Samora Machel (primo presidente del paese, ndr.), Filipe Couto, stanno diventando grassi mentre noi abbiamo fame. Quindi in molti hanno raggiunto l’opposizione.
Noi, d’altronde quando siamo arrivati al potere, avevamo un’idea un po’ romantica della realtà. Abbiamo visto a Maputo gente senza lavoro, ubriachi, prostitute. Noi volevamo fare una società pulita. Abbiamo preso tutta questa gente e l’abbiamo mandata nella provincia meno popolata, che per caso è dove sono nato, il Niassa. Pensavamo: stanno con la natura, facciamo dei campi e faremo l’uomo nuovo. Voleva essere un’operazione di produzione, ma è stata un fiasco. Sono andati laggiù, non avevano coperte, né da mangiare, né un posto in cui vivere. Pensavamo che avrebbero improvvisato, come avevamo fatto noi durante la guerra. La gente diceva: qui non abbiamo niente, voi siete peggiori dei portoghesi, allora andiamo con l’opposizione.
La Renamo nasce all’estero, ma nel paese dicono alla gente: vi daremo vita migliore di Samora, Chissano, Couto che sono comunisti.
Ma in quel tentativo anche loro non hanno dato molto. Hanno mangiato tutti gli animali del Gorongosa (famoso parco naturale, ndr.), facendo scomparire elefanti e bufali. A un dato momento hanno capito che non è con il fucile che si va avanti, bisogna ricomporre la situazione.
All’origine della Renamo ci sono quei portoghesi che sono rimasti nel paese e sono andati in Rhodesia, al tempo di Jan Smith o nel Sudafrica dell’apartheid. Ma da soli non avrebbero avuto grande successo se noi non avessimo sbagliato la nostra maniera di agire con le persone. Abbiamo imparato più tardi.
Il guaio nostro, della Frelimo, è che impariamo sbagliando, però poi correggere non è facile.
Credo che la pace sia arrivata perché abbiamo tutti imparato che sparando è peggio, non sparando si può fare qualcosa di più. L’esercito governativo e i guerriglieri, a un dato momento convivevano. Anche in Sudafrica, Mandela era uscito di prigione. Lo Zimbabwe era diventato indipendente. C’era una congiuntura favorevole, la cosa si doveva risolvere in modo pacifico.

Il Mozambico ha una crescita economica del Pil intorno al 7% annuo, ma le condizioni sociali restano pessime, soprattutto in ambito rurale. Come si spiega questa incoerenza?
Chi ha detto che l’economia sta crescendo? La Banca mondiale e gli altri dicono che lo Zimbabwe non cresce, il Mozambico invece sì. Perché? Se vai in Zimbabwe oggi, troverai strade migliori, nei villaggi bambini che vanno a scuola, meglio vestiti che da noi. Di notte puoi passeggiare dove vuoi. Si dice che i sindacalisti sono tutti in prigione. Perché non si dice che il re dello Swaziland mette la gente in prigione?
La questione di dire che l’economia qui cresce, dipende molto da chi lo dice.
È vero che nelle città si vive bene: belle macchine, benzina, si può comprare quello che si vuole…, ma questo è artificiale, perché il paese è diventato il bambino più bello del Fmi, della Bm. Mentre lo Zimbabwe è diventato la pecora nera.
In Zimbabwe, le università, le statali di Harare, di Bulawayo, la privata, sono le migliori dell’Africa sub equatoriale. Hanno i migliori professori e sfoano i migliori studenti. In Botswana buona parte dei docenti sono zimbabweani. Hanno 90 mila studenti e ne laureano ogni anno 11 mila.
Lo Zimbabwe ha meno Aids che qui, anche se ha avuto meno aiuto. Ha esportato carne alla Ue, da qui niente. Tutto questo con 10 anni di boicottaggio. È vero l’agricoltura è andata sotto, è andata agli zimbabweani. Solo il 40% dei campi sono sfruttati.

Secondo lei si tratta di una pace stabile?
Quando una persona impara a camminare? Quando prova, cade e poi ci riprova. Qui da noi basta che io gridi un po’ vengono con il latte: divento un bambinone che non cresce. Non credo che il mio paese sia in buone condizioni. Pace sì, se vuol dire che non spariamo.
Ma la situazione può esplodere, da una cosa da niente. Non c’è stabilità, secondo me.
Dov’è l’esercito? Non lo abbiamo. È stato smobilitato. Siamo andati da un estremo all’altro. Prima c’era un esercito guerrigliero. Se un giorno allo Swaziland venisse voglia di entrare in Maputo, può farlo, perché siamo pacifici!
Noi, a chiunque venga, diciamo sempre di sì. Non siamo i padroni di casa. Nello Zimbabwe, se vuoi fare qualcosa, non ci riesci, perché c’è un esercito. Dobbiamo andare piano a giudicare. Sono contento che non si spari, che ci sia libertà religiosa, ma sono molto preoccupato. Noi stiamo ricevendo solo, non esportiamo…

E la lotta alla corruzione?
Si dice che c’è corruzione, che la giustizia ha fatto arrestare il ministro dell’Inteo, ma ci si domanda fino a che punto faremo questa lotta veramente. Riusciremo a farcela? Stiamo dicendo che la corruzione deve essere combattuta, ma non stiamo riflettendo su come è iniziata.
Eravamo un unico partito. Ci hanno detto: dovete avere il multipartitismo, entrare nel Fmi, nella Bm, attuare il liberalismo economico. Verranno le Ong e loro vi detteranno quello che dovete fare. Noi avevamo i nostri salari, relativamente bassi. Le Ong hanno iniziato a pagare salari spropositati.
Finito il progetto, noi non siamo stati capaci di dare queste cifre.
Inoltre: quando entra 100 con le Ong, quanto rimane in Mozambico e quanto ritorna con le Ong?
La corruzione dipende da noi, in parte, ma anche dalle Ong, Bm e Fmi.
Se si confronta un ospedale dove c’è una Ong con uno statale, come efficienza è meglio il primo. Ma i soldi da dove vengono?
Il paese è pieno di esempi come questo e fino a che non riusciamo a regolamentare, non saremo i padroni di casa. Ci vorrà molto tempo.
Joaquim Chissano (presidente dal 1986 al 2005, ndr) era un buon diplomatico. Ha fatto in modo che la gente parlasse bene con il mondo esterno. Dobbiamo andare dietro le quinte e vedere la realtà. Non è quello che molto spesso si pensa.
Adesso abbiamo Armando Guebuza: non è diplomatico, non stava sempre all’estero. Fu ministro dell’Inteo, poi ha iniziato a fare affari. È pragmatico. Vedremo cosa succede.

Cosa possono fare i mozambicani per avere uno sviluppo endogeno?
C’è un movimento politico positivo che dice: recuperiamo l’autostima, iniziamo a fare un servizio militare obbligatorio organizzato. Facciamo in modo che la gioventù faccia sport nelle scuole, nei distretti. Che siano poli di sviluppo. Rimettiamo un po’ di lavoro a scuole. Si è tolto tutto, dicendo che non si possono far lavorare i bambini, ovvero non posso insegnare loro a scopare la casa, questo è il concetto nuovo di libertà che è entrato dopo il trattato di pace.
Ci stiamo ricostituendo, ma può darsi che a molta gente non piaccia.
Molti preferiscono che siamo quei bambini che chiedono alla mamma il cioccolato o le mammelle per succhiare. Sono pochi che vogliono vedere un Mozambico emancipato.
Nel giorno in cui il Mozambico comincerà a dire a voce alta le cose che vogliamo fare, come riorganizzare il ministero della Difesa e quello dello sport, allora inizieremo a essere bambini cattivi.

Il governo del Mozambico conta otto ministri donne, tra cui la premier, che diventano 13 con i viceministri. Come siete arrivati a questo?
Forse ho dei pregiudizi: io ho sette sorelle e solo due fratelli. Quindi sono più solidale con i miei cognati che con le mie sorelle, perché credo che da noi ci sia una dittatura delle donne (risata)!
Scherzi a parte è un buon risultato. Durante la guerriglia contro il Portogallo i soldati che catturavamo erano tutti uomini. Da noi, invece, le donne facevano il servizio militare e c’era un distaccamento femminile per il combattimento. Abbiamo iniziato a parlare di emancipazione della donna alla nostra maniera. Questo è il frutto.
Era perché quelle hanno preso anche il fucile. Non sto dicendo se è un bene o un male, dico che questo ha fatto in modo che si parlasse di emancipazione.
Oltre al primo ministro, già ministro delle finanze, abbiamo la ministra della funzione pubblica, che controlla tutti i ministeri. Alla difesa, non avrei paura a mettere una donna, ne abbiamo alcune che andrebbero bene. 

di Marco Bello

Marco Bello




Nella terra dei lemuri

La «grande isola rossa», panorama storico (prima parte)

Un paese del tutto originale il Madagascar, sia per l’origine geologica, eccezionale biodiversità, unicità di specie animali, come i lemuri, primati progenitori delle scimmie, sia per le caratteristiche etniche dei suoi abitanti. L’isolamento millenario ha fatto sì che un cocktail di razze formasse un popolo unico e originale, con tratti fisici, lingua, cultura e storia che hanno seguito una strada propria, rispetto agli altri popoli continentali.

Il Madagascar è stato per molto tempo un’isola quasi sconosciuta. Separatasi dall’Africa a causa della deriva dei continenti, raggiunse l’attuale posizione al largo delle coste del  Mozambico pressappoco 100 milioni di anni or sono. Intoo a questo stesso periodo la metà orientale dell’isola si divise nuovamente, spostandosi verso nord-est per formare quella che oggi è l’India.
Vasto due volte l’Italia, il Madagascar è la quarta isola più grande della terra, dopo Groenlandia, Nuova Guinea e Boeo in Indonesia. Le terre dei suoi altipiani centrali sono formate da terreni argillosi di colore rosso. Per questo motivo il Madagascar è stato soprannominato «la grande isola rossa».

VENUTI DALL’ORIENTE
Le prime e più antiche tribù che popolarono il Madagascar provenivano dall’Oriente. Naturalmente le loro origini sono avvolte nel mistero. Se ne parla solo nelle leggende. La maggior parte degli attuali malgasci, invece, è giunta nell’isola in tempi relativamente recenti, non più di duemila anni or sono, proveniente da Indonesia e Malaysia.
Non si conoscono le modalità di tale migrazione, ma la teoria più accreditata, fondata su elementi antropologici ed etnografici, suppone che le popolazioni indonesiane abbiano colonizzato l’isola con un’unica massiccia migrazione e che nel corso di tale migrazione abbiano effettuato tappe intermedie lungo le coste dell’Oceano Indiano.
Prova di tale teoria, oltre alla lingua malgascia, che conserva alcune caratteristiche del sanscrito, è la diffusione delle imbarcazioni a vela di tipo indonesiano lungo le rive settentrionali dell’Oceano Indiano; imbarcazioni adatte alla navigazione sotto costa. Si suppone che i malgasci abbiano costeggiato l’India, Arabia e Africa orientale, favorendo così rapporti commerciali e incontri culturali e linguistici, come nel caso del sanscrito, la lingua dell’India arcaica.
Arrivati sull’isola, le tribù malgasce, suddivise in una serie di regni minori, vi introdussero la coltivazione di prodotti tipici del sud-est asiatico, come il riso. Ancora oggi i terrazzamenti agricoli, occupati dalle risaie, assomigliano di più al tipico paesaggio dei paesi orientali che non a quello del vicino continente africano. Mangiare il riso tre volte al giorno è cosa normale per un malgascio e la crescita di una piantina di riso è descritta con gli stessi termini usati per la gravidanza e parto della donna.
Il riso viene normalmente accompagnato da uno stufato di carne di zebù, di pollo o di anatra e da verdure con l’aggiunta di spezie o radici ricche di amido, come la manioca. L’alternativa al riso è una ciotola di tagliolini fritti con verdure o carne, oppure la sostanziosa «zuppa cinese» con tagliolini, pesce, pollo e verdure: due piatti che, insieme al riso, indicano le origini asiatiche dei malgasci.
Nel corso degli anni lo stile di vita asiatica si è alquanto attenuato in seguito ai contatti con i mercanti arabi e africani che solcavano i mari con il loro carico di seta, spezie e schiavi. La regione che ha assimilato maggiormente la cultura e i costumi africani è quella del Madagascar occidentale, separata dall’Africa dal canale di Mozambico. La regione più cosmopolita dell’isola è invece quella settentrionale. Comprende discendenti di marinai arabi, mercanti indiani e schiavi africani, oltre a una consistente comunità di francesi (ora anche di italiani) e all’etnia locale degli antakàrana.
situazione femminile
Il fatto che, nella lingua malgascia, all’origine delle parole non ci sia né maschile né femminile (vedi riquadro) potrebbe aver condizionato anche i rapporti tra uomo e donna. Quella malgascia è una società piuttosto emancipata, specialmente in ambito femminile: la donna è la forza dinamica della società e occupa nella sfera domestica la posizione predominante.
Il matrimonio è in Madagascar un’istituzione non troppo rigida: divorzi e separazioni sono frequenti. I figli vengono considerati lo scopo principale del matrimonio e nessuna donna vorrebbe restae priva, anche se non sposata e giovanissima. Sono ritenuti garanzia di felicità e sicurezza e le giovani madri non hanno paura di allevarli anche da sole. Lo fanno con coraggio e amore.
I rapporti tra uomo e donna sono comunque sempre accompagnati da cortesia reciproca e da riservatezza. Sollevare problemi personali è considerato una mancanza di tatto, anche con le persone più care. Allo stesso modo si evitano domande e argomenti indiscreti.
Naturalmente la situazione della donna varia a seconda della classe sociale cui appartiene. Nelle famiglie ricche, o con un buon reddito, la sua posizione è abbastanza simile a quella della donna occidentale. I compiti sono più o meno divisi in egual misura tra marito e moglie.  Nelle famiglie povere, che vivono di agricoltura o di pesca, la donna è invece costretta a sacrificarsi per il bene della numerosa famiglia. Pulizia della casa, bucato, vendita o compera dei prodotti del campo o dell’artigianato domestico le appartengono. In questo non mancano di abilità e di creatività.
Ma anche tale situazione è destinata a cambiare. L’alta scolarizzazione femminile sta trasformando la società malgascia. Le decisioni più importanti sono ancora prese dagli uomini, ma ormai esistono donne-ministro, deputate e senatrici. Esse sono numerose specialmente nelle piccole aziende, nel commercio, nell’amministrazione pubblica e nella magistratura. Del resto già da molto tempo le donne avevano diritto a partecipare alle Fokonolona, le assemblee comunitarie e i luoghi delle pubbliche decisioni.
Re e regine
Al contrario di quanto avvenne per molto tempo in Europa o in altre parti del mondo, dove la storia enumera molti re e poche regine, in Madagascar il rapporto fu rovesciato, almeno per un certo periodo. Della dinastia dei Merina, l’etnia degli altipiani centrali che unificò i regni tribali malgasci, regnarono tre re e quattro regine.
A partire infatti dal Settecento fino al 1895, quando i francesi occuparono l’isola e mandarono in esilio l’ultima regina, al re Andrianampoinimerina (1787-1810) successe il figlio Radama I (1810-1828), che continuò la politica unificatrice del padre e aprì l’isola all’Occidente.
Alla sua morte salì sul trono la vedova Ranavalona I (1828-1861). Nei suoi 33 anni di regno lottò con decisione contro ogni tentativo d’invasione europea dell’isola, al fine di preservare e proteggere l’ordine tradizionale della società malgascia e i costumi degli antenati.
Alla sua morte, nel 1861, divenne re il figlio, Radama II (1861-1863), il quale inaugurò una politica totalmente differente da quella della madre: aprì l’isola ai commercianti europei e ai missionari protestanti e cattolici. Ma provvedimenti contro determinati privilegi e un grave contrasto con il primo ministro Raharo ne segnarono la fine: dopo appena due anni di regno, il re fu assassinato da una congiura di palazzo, strangolato con una corda di seta, perché lo spargimento di sangue reale era considerato fady (tabù).
La vedova Rabodo, diventata regina con il nome di Rasoherina I (1863-1868), lasciò l’amministrazione del regno nelle mani del primo ministro Rainilaiarivony, il quale goveò l’isola anche sotto Ranavalona II (1868-1883), che egli sposò, e sotto Ranavalona III (1883-1895), l’ultima regina, esiliata dai francesi ad Algeri e morta nel 1917.
Ancora oggi re e regine, che avviarono la modeizzazione dello stato e della società malgascia e furono riconosciuti anche dalle potenze occidentali, sono considerati sacri dal popolo malgascio, insieme ai loro palazzi e alle loro tombe, e come tali ritenuti simbolo di unità nazionale.

COLONIA FRANCESE
Nel 1883 navi da guerra francesi attaccarono il Madagascar, occupandone i principali porti e costringendo il governo a firmare un trattato che dichiarava l’isola protettorato francese. La regina Ranavalona III si rifiutò di abdicare. I francesi allora le dichiararono guerra e circondarono la capitale Antananarivo. L’esercito malgascio, guidato da un ufficiale dell’artiglieria inglese, il maggiore John Graves, resistette nove mesi, ma alla fine dovette capitolare. Il 6 agosto 1896 il Madagascar fu ufficialmente dichiarato colonia francese.
Primo governatore dell’isola fu il generale Joseph Gallieni. Egli cercò di escludere dal potere l’aristocrazia merina, soppresse la lingua malgascia e dichiarò il francese lingua ufficiale. La schiavitù fu nominalmente abolita, ma venne sostituita da un sistema di tassazione altrettanto oppressivo e oneroso, che costringeva ai lavori forzati chiunque non fosse in grado di pagare.
Agli uomini fu imposta una corvée di 30 giorni di lavoro gratuito per la costruzione di strade, fabbriche e industrie alimentari e tessili. La terra venne espropriata a vantaggio di società e coloni stranieri, che svilupparono un’economia di esportazione di caffè, coltivato lungo i versanti collinari prospicienti l’Oceano Indiano, di vaniglia, diffusa in tutta la pianura costiera orientale, canna da zucchero, cotone, spezie, legname delle foreste tropicali, minerali e pietre preziose.
Con l’affermarsi del colonialismo l’isola fu anche dotata di infrastrutture modee: scuole, strade, ospedali, mezzi di comunicazione, come ferrovia, poste, auto e camion, indispensabili su un territorio vasto quasi due volte l’Italia, per di più tormentato da catene montuose scoscese anche se non altissime, da rocce calcaree erose e appuntite e da numerose foreste pluviali, dove vive una caratteristica fauna, come i lemuri, di cui esistono circa 50 specie, alcune delle quali dotate di una straordinaria abilità acrobatica.
Con l’affermarsi dell’istruzione crebbe e si consolidò una nuova élite malgascia e si affermarono alcuni movimenti nazionalisti. Nel 1913 i giovani malgasci fondarono una società segreta, denominata Vy Vato Sakelika (ferro, pietra, ramificazione). Nel 1920 il movimento anticolonialista trovò nella figura carismatica di un avvocato, Jean Ralaimongo, il suo capo. Dopo numerosi scioperi di protesta, nel 1930 venne fondato anche il sindacato. Subito dopo la seconda guerra mondiale in tutto il Madagascar si risvegliarono forti sentimenti nazionalisti, che culminarono nella ribellione del marzo 1947, guidata da Joseph Raseta e Joseph Ravoahangy, nel corso della quale persero la vita 80 mila malgasci.
L’indipendenza
Il Madagascar divenne indipendente nel 1960 e il capo del partito nazionalista, Philibert Tsiranana, fu eletto presidente. Durante il suo mandato i francesi continuarono a controllare il commercio e le istituzioni finanziarie, nonché le basi militari. I legami del governo con la Francia, uniti a un periodo di recessione economica, contribuirono a far crescere l’impopolarità di Tsiranana. La repressione brutale di una insurrezione nella parte meridionale dell’isola, la più povera, seguita da una rivolta antigovernativa nella capitale, costrinse Tsiranana a dimettersi (1972), cedendo il potere al comandante in capo del suo esercito, il generale Gabriel Ramantsoa, che fu a sua volta sostituito nel 1975 dal colonnello Richard Ratsimandrava, assassinato dopo appena una settimana di governo.
Finalmente arrivò al potere un altro militare, l’ammiraglio Didier Ratsiraka, ex ministro degli esteri, che cercò di attuare riforme radicali, politiche e sociali, improntate allo stile delle nazioni del blocco sovietico, in particolare della Cina comunista e della Corea del Nord. Arrivò perfino a proibire nelle scuole l’insegnamento delle lingue francese e inglese, per impedire qualsiasi contatto con l’Occidente, e sull’esempio di Mao Tsetung si dedicò alla stesura di un «libro rosso» delle teorie e della prassi di governo.
Alla fine dell’ottobre 1991 governo e opposizione firmarono un accordo per preparare il terreno alle elezioni e alla nascita di quella che fu definita la «terza repubblica». Nonostante ciò, Ratsiraka si rifiutò di lasciare le redini del potere. Il periodo che precedette la prima tornata di elezioni fu caratterizzato da disordini, che culminarono nel blocco della capitale e nel bombardamento di un ponte ferroviario che univa Antananarivo a Toamasina, il più importante porto del Madagascar.
Per settimane e settimane la capitale rimase senza benzina e la rete dei trasporti subì danni devastanti. Ancora oggi, come conseguenza di quel blocco, la ferrovia a scartamento ridotto non funziona. Il trasporto di derrate, benzina e container avviene su camion, lungo una strada di 350 e più chilometri, che collega la capitale al porto di Toamasina, tutta curve, salite e discese, vero cimitero di incidenti stradali e di camion in panne.
Alle elezioni del 1993 risultò eletto il professore Albert Zafy, candidato dell’opposizione, mettendo fine ai 17 anni di governo in puro stile comunista di Ratsiraka. Zafy cercò di far decollare l’economia del paese, ma, accusato di riciclaggio di denaro, rapporti con i narcotrafficanti e abuso di potere, fu costretto a dimettersi. Alle nuove elezioni presidenziali Ratsiraka, dopo aver trascorso 19 mesi in esilio in Francia, si ripresentò e tra lo sconcerto generale, compreso quello degli osservatori inteazionali, vinse le elezioni di stretta misura e nel febbraio del 1997 accettò l’incarico.

BRACCIO DI FERRO
Nel 2002, dopo essere stato al potere per quasi 27 anni, Ratsiraka fu spodestato dal magnate dello yogurt Marc Ravalomanana. Questi aveva iniziato la sua carriera imprenditoriale girando in bicicletta per le vie della città a commercializzare il suo prodotto fatto in casa.
Quando nel 1999 entrò in politica per diventare sindaco di Antananarivo, la sua azienda, la Tiko, era la più importante produttrice di latticini del paese. Candidatosi alle elezioni presidenziali del dicembre 2001, basò la sua campagna elettorale sulla promessa di un rapido sviluppo economico, grazie alle sue capacità imprenditoriali, che avrebbero dovuto richiamare gli investimenti stranieri, combattere la povertà e ripristinare le infrastrutture del paese, ridotte in pessime condizioni. Il neopresidente promise inoltre di estirpare la corruzione politica, dilagante sotto il governo di Ratsiraka.
La vittoria elettorale, se pur risicata, andò a Ravalomanana; ma Ratsiraka pretendeva di essere il vincitore e accusava l’avversario di brogli elettorali. Seguirono sei mesi di lotta per il potere. Ratsiraka alla fine dichiarò lo stato di emergenza, impose la legge marziale e proclamò Toamasina capitale. In questo modo, asserragliato con i suoi sostenitori a Toamasina, estremamente importante a motivo del suo porto, bloccò le vie di accesso alla capitale per impedire i rifoimenti di carburante e di  medicine.
Nell’aprile del 2002 l’Alta Corte Costituzionale del Madagascar dichiarò Ravalomanana legittimo vincitore. Ratsiraka continuò a non accettare la sconfitta e diede ordine ai suoi sostenitori di far saltare in aria i piloni della corrente elettrica, facendo così piombare nel buio la capitale.
Alla fine le Nazioni Unite riconobbero il governo di Ravalomanana. Ratsiraka fuggì in Francia, protetto dal presidente francese, nonostante che un tribunale malgascio lo avesse condannato a 10 anni di lavori forzati per appropriazione indebita di fondi pubblici.
Alle elezioni del 2006, Ravalomanana è stato rieletto per un secondo mandato presidenziale, grazie all’influenza della sua televisione più che ai benefici portati alla popolazione durante la sua presidenza. È vero che negli ultimi anni l’economia malgascia è decollata, grazie alla remissione del debito estero, alle privatizzazioni e investimenti stranieri attirati dalle inesplorate risorse del sottosuolo (nichel, cobalto, bauxite, petrolio); ma di tale crescita non hanno affatto beneficiato vasti strati della popolazione e il Madagascar continua a essere tra i paesi più poveri del mondo.
Le risorse statali sono state mobilitate a vantaggio delle imprese private, soprattutto della Tiko che, nata come industria casearia, è diventata la più grande impresa alimentare e ha esteso le sue ramificazioni nell’edilizia, nella finanza, nell’agricoltura, nella stampa e televisione. Un complesso di «affari» a scapito dei servizi pubblici e sociali. L’immobilità statale ha provocato lo scontento della popolazione e costretto alcune organizzazioni umanitarie non governative, tra cui i Medici senza frontiere,  ad abbandonare il paese.
Sul malcontento popolare, alimentato anche dalla crisi internazionale e conseguente aumento dei prezzi dei generi di prima necessità, ha soffiato il capo dell’opposizione politica, il sindaco di Antananarivo, Andry Rajoelina, 34 anni, soprannominato Tgv (treno superveloce) per il suo decisionismo.
Dalle tensioni si è passati allo scontro aperto nel mese di dicembre, quando il governo ha chiuso l’emittente televisiva del sindaco, Viva Tv, perché aveva diffuso un’intervista dell’ex presidente in esilio Didier Ratsiraka. Rajoelina ha chiamato il popolo a raccolta contro Ravalomanana, accusandolo di cattiva gestione del patrimonio pubblico.
Il 26 gennaio, rispondendo all’appello del sindaco, una grande folla si è riversata per le vie della capitale; ma la manifestazione è degenerata in saccheggi e devastazioni di negozi, supermercati, uffici pubblici; in tali disordini sono morte almeno 68 persone (oltre 100 secondo l’ambasciata americana), tra cui un bambino ucciso dalla polizia.
Si è innescata una reazione a catena: il sindaco ha continuato a chiamare in piazza i suoi sostenitori, fino a chiedere la destituzione del presidente e la formazione di un governo di transizione; Ravalomanana ha risposto inviando la sua guardia presidenziale contro i manifestanti e il 3 febbraio ha destituito il sindaco dalla sua carica.
Nonostante gli appelli delle istituzioni inteazionali, è continuato il braccio di ferro tra i due contendenti con proteste di piazza e repressioni, come quella del 7 febbraio, dove gli spari ad altezza d’uomo hanno causato altri 40 morti e 350 feriti.
A ristabilire «l’ordine» è intervenuto l’esercito: il 15 marzo, un centinaio di militari hanno assediato con i carri armati il palazzo presidenziale, chiedendo le dimissioni di Ravalomanana. Dopo un velleitario tentativo di resistenza, senza spargimento di sangue, il 17 marzo il presidente ha rassegnato il potere a un gruppo di alti ufficiali che, a loro volta lo hanno rimesso nelle mani di Rajoelina e la Corte Costituzionale lo ha subito riconosciuto nella nuova carica.
Il neo presidente si è affrettato ad assumere l’incarico e nel suo primo discorso, il 18 marzo, ha promesso di promuovere la riconciliazione, combattere la povertà e indire nuove elezioni entro 24 mesi. Se sono rose fioriranno… tra due anni. 

Di Giampietro Casiraghi


Giampiero Casiraghi




Coraggio e dignità

Tre storie esemplari di umana dignità

Una bambina con handicap, ma intelligentissima, una donna poliomielitica che mantiene i nipotini lasciati da sorelle e fratelli morti di Aids, un ex operaio della Fiat che accudisce la moglie paralitica: tre storie di vita, in cui si dimostra come gli africani sappiano gestire la propria esistenza con ammirevole coraggio e dignità.

L’abbraccio di Sofia

C onosco Sofia Mohamed tramite la mia vulcanica amica, suor Ida Luisa Costamagna. Dodici anni, ultima di cinque figli e orfana di padre, Sofia, come tanti altri, è stata vittima della polio da piccolissima e cammina trascinando il sedere e aiutandosi con le mani. Suor Ida è riuscita, tramite l’aiuto di un benefattore, a pagarle la retta alla Salvation Army di Dar es Salaam, una scuola e centro assistenza per ragazzi con malformazioni alle ossa, ma intelligenti e desiderosi di studiare.
Immersi nei colori di alberi e fiori africani in un momento, siamo avvolte da vivacissimi ragazzi in divisa intenti nelle loro attività. Osservandoli bene, noto che ognuno ha una malformazione. Sofia ci osserva da lontano, ha riconosciuto suor Ida, ma non conosce la persona che è con lei. Pole pole  (piano piano) si avvicina. Suor Ida la coccola, le chiede qualcosa, ma lei risponde a monosillabi. «È una ragazza difficile, parla poco; non ha avuto una vita semplice, ma è molto intelligente» mi dice.
Uno sguardo tagliente mi attraversa… ma è solo paura. Grandi sorrisi mi si avvicinano chiedendomi da dove vengo, come mi chiamo e iniziamo a scherzare. Mi raccontano la loro giornata, le lezioni, i giochi. Vengono da tutto il Tanzania. Suona la campana, è ora di entrare. Salutiamo Sofia, mi chino per baciarla e lei mi avvolge le braccia al collo come volesse aiutarsi a salire in braccio; la tiro su, l’abbraccio, l’accarezzo e l’accompagno in classe. Non parla. Non mi dice niente, ma mi saluta con un accenno di sorriso.

Chiedo a uno dei tanti assistenti se è possibile fare un giro della struttura. Tanti reparti, organizzati e ben tenuti si stringono l’uno accanto all’altro nell’ampia area dove i protagonisti sono i ragazzi e la natura.
Charles Rays, direttore didattico di questa scuola, mi accoglie nel suo ufficio davanti a un mappamondo che sembra aver girato per anni e anni tanto è consumato. «La nostra scuola è nata nel 1967, con il sostegno della Salvation Army inglese, che ha voluto creare in Tanzania una istituzione sul modello di quelle presenti in Gran Bretagna. Inizialmente era un centro di accoglienza per bambini con gravi problemi e malformazioni alle ossa. Nel 1970 si è deciso di costruire nello stesso spazio anche una scuola affinché i ragazzi, che intellettualmente non avevano problemi, potessero ricevere un’istruzione. Nel 1974 la scuola è passata sotto la direzione del governo, che ne ha omologato i programmi scolastici a quelli nazionali, preoccupandosi, inoltre, di foie i maestri che tuttora sono stipendiati dallo stato.
La scuola accoglie più di 200 ragazzi dai 7 ai 16 anni, provenienti da tutto il paese, senza distinzioni sociali, religiose, economiche o etniche. L’unico vincolo è che il loro handicap sia solo fisico e non mentale. Il governo contribuisce a pagare per le vacanze di gennaio e giugno, il viaggio a casa dei ragazzi e degli insegnanti. La Salvation Army, invece, provvede al cibo e vestiario, al personale che lavora nel centro e ad attività come la fisioterapia per i ragazzi».
Nel nutrito programma delle attività leggo che, tre volte alla settimana, l’Inteational School of Tanzania viene a prendere i ragazzi con appositi pulmini per offrire loro altre attività, come pittura, ricamo, nuoto, calcio, basket, pallavolo.
Il direttore mi spiega come sia organizzatissima la giornata. Io quasi mi sorprendo, pensando che sono ragazzi con handicap, mi sembra quasi una violenza. Vederli lì, in carrozzina, senza braccia o gambe, idrocefali… tutti impegnati, che con notevoli sforzi cercano di aiutarsi, di pulire: mi fa pensare. Ma immediatamente giustifico la loro cultura, l’autonomia, la responsabilità e certamente la maturità che loro sviluppano da piccolissimi, rispetto ai loro coetanei europei.
È comunissimo in Africa, veder una bimba di cinque anni che cammina con eleganza portando il fratellino di un anno avvolto in una kanga sulle spalle, con un equilibrio e una naturalezza che nemmeno io a ventisei anni dopo una serie di lezioni potrei mai avere.
«Sveglia alle 6.00, pulizia personale, nella quale ognuno aiuta chi ha più problemi, poi quella del cortile e degli spazi comuni e alle otto meno un quarto tutti in classe. Alle 8.00 arrivano i maestri e iniziano le lezioni. I più piccoli hanno lezione fino alle 12.00, i più grandi fino alle 14.00. Entrambi hanno un intervallo di mezz’ora per bere il tè e giocare. Poi alle 14.00, a tuo, si distribuiscono per il pranzo e per le attività estee» conclude Charles Rays.
Lo saluto facendogli i complimenti per l’organizzazione, la pulizia e la cura della scuola e dei ragazzi. E mi confida che hanno più di 150 richieste d’iscrizione l’anno, ma non possono prendere più di 25 ragazzi. La quota d’iscrizione è di 55 mila scellini il primo anno e 45 mila per gli anni successivi. E una volta finita la settima, che sarebbe la nostra quinta elementare, li indirizzano a due scuole secondarie.

S ono tornata in Tanzania prima di natale e uno dei tanti pensieri era Sofia. Sono andata a trovarla nella sua casa, in un villaggio alla periferia di Dar es Salaam, era nel periodo della vacanza.
Tra galline, pulcini e sabbia ho visto arrivare, trascinandosi con un’agilità pazzesca, Sofia, che mi è letteralmente saltata in braccio e non si è più staccata, accarezzandomi e cercando le mie coccole.
Seduta davanti ai suoi parenti, ci ha raccontato della scuola e attività; e che non vedeva l’ora di tornarci, perché lì a casa sua si annoiava. Avevo già rivisto Sofia prima di questa volta. Ero tornata più volte a salutarla, ma mai aveva parlato o avuto una reazione di felicità così, tanto da farmi balzare il cuore in gola. 


I sorrisi di Doto

Quando mi chiedono come sono i tanzaniani, cosa mi ha colpito tanto da scegliere di fare un «permesso di residenza» per tornare e ritornare in questo posto, il mio pensiero va subito a Doto. Doto è l’esempio della dignità, pacatezza e forza del popolo tanzano.
Un esserino di 50-60 cm; 46 anni, vittima della polio anche lei, ma bellissima. Passa le sue giornate su una stuoia sull’uscio della porta a fare le sue collanine, bracciali e rosari di perline, avvolta dai suoi tanti nipoti. La sorella gemella è morta già da tempo, lasciandole in eredità una squadra di bambini. E Doto, senza preoccuparsi della sua menomazione, ha pensato a un lavoro per mantenere la famiglia e mandare a scuola i nipoti. Ha imparato da sola, provando, sbagliando e riprovando a fare queste collanine e rosari, nonostante fosse musulmana e a ricamare all’uncinetto.
Quando suor Ida me ne ha parlato e mi ha fatto vedere quello che faceva, non riuscivo a immaginare la gravità della situazione, e la prima volta che l’ho vista, non riuscendo nemmeno a darle la mano bene, per via delle ossa menomate, non credevo che quelle dita affusolate avessero una tale forza.
Doto ha solo l’uso delle dita, ma non della mano; quindi, facendo forza con la mano contro il viso, muove le dita e infila con agilità le perline nei fili. È indescrivibile come riesce.
Ha voluto aprire un conto in banca, dove depositare il ricavato delle sue vendite, e ha investito i soldi comprando piccoli plot che affitta come duka (negozi).
Vive con la mamma anziana, i nipoti e il marito. Quando ci ha parlato del marito quasi avevamo gli occhi di fuori dalle orbite; ma lei immediatamente: «Perché non sono una donna io?». Il marito la prende, la sposta, la alza, la cura con un’attenzione estrema. E questo non può che essere amore. Quando parlano l’uno dell’altro hanno gli occhi che splendono come due adolescenti alla prima cotta.
All’inizio, venendo dalla realtà egoistica e falsa del nostro mondo che abbiamo inevitabilmente interiorizzato, non mi fidavo di lui: pensavo che volesse approfittarsi di quei pochi scellini, invece mi è bastato vederli insieme per capire che ero proprio fuori strada.
È il solito discorso: noi abbiamo tutto, ma non siamo mai contenti fino in fondo, raggiungiamo un traguardo e siamo già al prossimo perdendo di vista la vita vera. E finché non si sbatte davanti a quella che è la realtà quotidiana della vita concreta, semplice, africana, non lo si può capire.
Questo invidio anche dei missionari! Oltre alla loro fede profonda, che riesce ad aiutarli e sostenerli in tutto, vivono la giornata piena di emozioni e piccole cose che magari possono sembrare superficiali, poi diventano il senso della giornata. Un sorriso, una risata, uno sguardo, una condivisione di vita, una soda offerta da chi poi farà economia per settimane, ma te l’ha data con il cuore.
Questa è vita! Noi corriamo corriamo tra gente sempre più triste, tra sguardi truci, lamentele per i politici, per le bollette e quando si incontra un sorriso magari non si ha nemmeno il tempo di notarlo. 
In tanto tempo che conosco Doto mai l’ho vista triste o scoraggiata. L’ho vista malata, parlarmi dei tanti problemi; non hanno la luce in casa; lei è preoccupata, perché inizia a non vedere bene, ha due cataratte, il marito non ha un lavoro fisso, ma il suo sorriso non si spegne mai. È la cosa che arriva prima di tutto. Crede fermamente nel suo Allah, lo prega e lo ringrazia continuamente anche del niente che ha.
Non mi ha mai chiesto nulla. Anzi, quando le ho detto che volevo aiutarla, non ha mai pensato a se stessa, tipo una carrozzina nuova, gli occhiali da vista, ma piuttosto qualcosa che potesse essere d’aiuto per far lavorare il marito, per farlo realizzare, oppure delle stampelle per i genitori del marito, massacrati di botte da dei ladri, entrati in casa per rubare il ricavato della vendita di un campo. 

I tesori di Said
«K ulia, kulia» (a destra, destra) ci ripete Yoseph. Dopo una mezz’ora di strade sterrate: alberi, sabbia, salite, discese, buche e pantani, terminiamo il nostro rally nel bel mezzo di un panorama mozzafiato. Camminiamo per un po’ a piedi e arriviamo alla meta. Una casa ancora tutta da finire, ma lo scheletro in cemento e i mabati (lastre zincate) sul tetto sono sufficienti per viverci.
Due occhi vivaci, in un corpo esile ci accolgono con un «buon pomeriggio». È Daudi Said Ndera, sessantenne. Iniziamo a parlare e ci racconta che la moglie, più giovane di lui, è paralizzata dalla vita in giù da più di tre anni. Sono così lontani dalla strada asfaltata che anche portarla in ospedale è sempre stata un’impresa. Non possono permettersi un taxi che la porti all’ospedale.
Daudi ha una piccola shamba (campo) che li aiuta a vivere e mangiare. La moglie seduta sul pavimento sgrana una manciata di fagioli che accompagneranno l’ugali (polenta) e Daudi con il nipotino, che mi scruta attraverso le sue gambe, ci dice di conoscere l’Italia.
È meccanico specializzato e ha sempre lavorato nel settore fino a una decina di anni fa. Era un operaio della Fiat, che aveva una sua sede in Tanzania; e quando questa è stata chiusa, lui si è ritrovato disoccupato, ma con una buona liquidazione da parte dell’azienda.
Sorpresa, gli chiedo di raccontarmi meglio e torna dopo qualche minuto con un passaporto, un attestato e un biglietto aereo Alitalia, Dar es Salaam-Torino andata e ritorno. Ha conservato tutto.
Nel 1975 la Incar Tanzania Ltd, pare di proprietà della Fiat, lo ha mandato nella sua sede di Torino per un corso di istruzione e specializzazione per la produzione di autovetture. Ha dovuto quindi fare il passaporto e dal 9 giugno al 21 luglio 1975 è stato a fare il suo corso a Torino, ovviamente viaggio, vitto e alloggio pagati dall’azienda.
Sfoglio le pagine di un passaporto tenuto con la cura e l’attenzione di un tesoro, dove gli unici timbri sono quelli di andata e ritorno del suo viaggio Tanzania-Italia. Ricorda tutto. Lo stupore di una Torino illuminatissima, i tram e gli italiani così gentili. I colleghi lo hanno accolto talmente bene che lo hanno portato a visitare anche Milano e Bologna. È venuto con una decina di altri operai tanzani.
Credo dovesse essere davvero capace come meccanico. Ha lavorato per una ventina di anni con la Fiat e non ci risparmia i dettagli. Gli brillano gli occhi quando parla del direttore e del capo-reparto, cosa che mi sembra alquanto strana, abituata agli attuali stati d’animo degli operai italiani. Purtroppo una decina di anni fa, la Fiat ha dovuto chiudere i battenti, ma ha liquidato bene tutti i suoi operai. E Daudi con la liquidazione ha comperato un bel pezzo di terra e ha costruito la sua casa che, rispetto alla media, è molto grande e in cemento.
Ne deduco, quindi, che la liquidazione sia stata davvero proporzionata ai suoi anni di lavoro. Non posso che essee orgogliosa da italiana, finalmente un’azienda che, seppure lavorava in una realtà estremamente povera e difficile, non se n’è approfittata, ma ha trattato i suoi operai alla stregua di quelli italiani… e questa è davvero una cosa rara in Tanzania e nell’Africa in generale. In Italia tutti conosciamo la Fiat e, seppure attualmente ha molti problemi così come i suoi operai, si è sempre distinta per l’eleganza e la serietà nel trattare gli operai.
Ora Daudi non ha un lavoro fisso perché costretto a seguire costantemente la moglie paralizzata. Vivono lontani dal villaggio, ai nostri occhi quasi in un posto turistico, a 20 km dal mare e in una zona dove ci sono solo lotti di terreno con villette di ricchi.
Il figlio l’anno scorso gli ha riportato un bimbo, nato da una storia con una ragazza che poi se n’è andata, lasciandogli il piccolo appena nato: un altro fagottino che non vuole mai lasciare le gambe del nonno.
Daudi sta cercando di vendere la casa, per mettere da parte un po’ di soldi che gli permettano di vivere tranquilli per qualche anno e far curare la moglie. «Quando ero giovane il mio sogno era costruire una grande casa, dove vivere con mia moglie e i miei figli. Ora, preferirei vivere in una casa di fango, ma vedere mia moglie felice e attiva come una volta, ci dice».
Mi riprende con delicatezza dalle mie mani i suoi tesori che continuerà a conservare e a far vedere orgoglioso e io non posso che salutarlo con un «Arrivederci!», promettendogli di tornare a trovarlo. 

Di Romina Remigio

Romina Remigio




Cari missionari

A proposito di…«Nozze di Cana»

Caro Direttore,
sono un anziano sacerdote salesiano, faccio parte della Elledici, ho pubblicato e pubblico libri e articoli. Leggo con gioia ogni mese la vostra rivista Missioni Consolata e mi congratulo con voi. Ma ho una piccola osservazione da fare, e spero la accetti con carità.
L’articolo di Paolo Farinella sulle nozze di Cana mi ha lasciato perplesso. Egli lo include tra i midràsh, che definisce, nell’ultima riga del box, «racconti storici o leggendari edificanti…» (M.C. febbraio 2009, p.32).
È noto a tutti gli studiosi di bibbia che «Cana» e tutti i miracoli (segni) del vangelo di Giovanni sono considerati come allegorici da parte di illustri studiosi. Ma non è l’unica né la più sicura interpretazione. Benedetto xvi, in un recente intervento, ha detto che Giovanni è un testimone oculare, che riferisce fedelmente «ciò che ha visto». L’interpretazione di Farinella turberà chi sente e crede il papa.
Io credo sia opportuno (come facciamo nella nostra rivista Il mondo della bibbia) dare anche le interpretazioni più avanzate, ma darle come «possibili», non come uniche e normali, e affiancarle ad altre interpretazioni più in linea con la tradizione e con studi non meno seri di quelli che si prendono in considerazione per primi.
Se rilegge l’articolo del Farinella vedrà che c’è non solo un contenuto, ma anche un tono che turba un po’ chi non condivide le sue posizioni. E questo Farinella lo fa anche in altri articoli già pubblicati, a mio modestissimo parere.
Le domando scusa, e desidero tornare a esprimerle tutta la mia riconoscenza per il lavoro che fate per il Regno di Dio. Il Signore ci benedica.
Don Teresio Bosco
Torino

Ringrazio don Teresio della sua lettera che mi permette di chiarire. Ha ragione, io do spesso la sensazione di «sicurezza» nelle cose che scrivo e non mi attardo a «variazioni sul tema»; e il motivo sta nel fatto che sono sicuro delle cose che scrivo.
Il fatto che il papa nel suo libro Gesù di Nazaret identifica l’evangelista con l’apostolo (ne parla alle pp. 257-279, particolarmente 261) è la sua convinzione, abbandonata tra l’altro dalla maggior parte degli esegeti. Il papa stesso nel medesimo libro (p. 20) dice che tutti lo possono criticare perché il suo libro non ha valore magisteriale, ma è frutto della sua ricerca di studioso e si affida alla critica come qualsiasi altro studioso. Personalmente sono contrario al fatto che i papi scrivano libri, per evitare proprio l’intervento di don Teresio che attribuisce alle affermazioni del papa un valore «probativo» (magisteriale) che non hanno, anche su stessa richiesta del pontefice (anche il vecchio codice del 1917 lo proibiva).
Per quanto riguarda il fatto di dare come probabile affermazioni di studio e dare conto di tutte le posizioni, voglio solo dire che io scrivo su una rivista a larga diffusione e non strettamente scientifica. Se facessi una lezione di esegesi in un’aula di università, tranquillizzo don Teresio che chiederei conto agli studenti di tutte le posizioni ed esigerei un’analisi critica di ciascuna, con la scelta più vicina alla realtà (attraverso metodi che qui è lungo elencare).
Posso garantire che offro ai lettori il meglio degli studi: dietro ogni articolo c’è una ricerca che ormai data da oltre 30 anni. Sul midràsh mi riservo di intervenire a tempo e luogo e quindi chiedo un po’ di pazienza.
Paolo Farinella, prete
Genova

Ricordando padre Bertaina

Egregio Direttore,
volevo ricordare un grande missionario della Consolata che ho conosciuto nell’agosto del 2007, durante il viaggio in Kenya guidato da padre De Col.
Da sempre amo l’Africa e ancor più da quando, poco più che ventenne, ho cominciato a visitare i paesi di questo continente dai mille volti e dai mille contrasti, spesso meravigliosi, a volte angoscianti e tragici. Le mie visite non sono mai state superficiali o semplicemente turistiche, ma ho sempre privilegiato i viaggi che mi consentivano di approfondire tutti gli aspetti della vita di un paese, da quello paesaggistico, al culturale, al sociale, al religioso, non dimenticando il rapporto con le popolazioni locali che è, a mio avviso, una delle basi fondamentali per conoscere e capire un luogo.
Da nord a sud sono ormai più di 20 i paesi che ho visitato assieme a mia moglie Marika, anche lei innamorata dell’Africa, ma uno dei viaggi che più mi ha appassionato, coinvolto ed emozionato, è stato quello dell’estate 2007 in Kenya, organizzato dai missionari della Consolata di Torino. È stata una immersione totale nella realtà di questo grande paese, del quale tanto si è parlato e si parla per i problemi socio-politici, etnici ed economici che lo affliggono anche in tempi recentissimi.
Proprio a Nairobi, visitando una delle tante meravigliose opere realizzate dai missionari, ho conosciuto padre Giuseppe Bertaina, rettore del seminario e istituto filosofico nella capitale keniota. Ci spiegò con passione la sua attività di missionario in questo paese da oltre 57 anni e le realizzazioni in favore dei bambini, delle madri abbandonate, delle famiglie indigenti, degli ammalati di Aids e della convivenza tra le molte etnie.
Parlando con lui avevo avuto la certezza di una persona straordinaria e saggia con una grande passione condivisa per l’Africa, ma nello stesso tempo semplice e schiva; aveva 81 anni. E poche settimane fa la notizia del suo assassinio nella sede dell’amato istituto, mi ha colpito e addolorato. Quando si conosce e si apprezza una persona di questa levatura, non si può accettare che la sua esistenza venga cancellata da tanta inutile barbarie.
Certo, la perdita è grande per le missioni in Kenya, anche perché aveva detto, incontrando il nostro gruppo, che questi popoli non hanno bisogno di armi ma della «penna», cioè istruzione e cultura, e nello stesso tempo della religione; affermava infatti che non basta quella «tradizionale – naturale»; e questo è proprio quanto lui cercava di dare, e io alcuni risultati li ho visti, anche se, purtroppo, gli ultimi tragici eventi del 2007 e 2008 fanno pensare che ancora molta strada deve essere percorsa.
Addio padre Giuseppe, ti ricorderò assieme alla tua Africa.
Giancarlo De Blasio
via e-mail

Ringraziamo il signor De Blasio e i numerosi lettori che nei giorni passati ci hanno fatto pervenire, per posta e per telefono, i loro sentimenti di solidarietà, stima e ammirazione per il nostro carissimo confratello, padre Giuseppe Bertaina, scomparso così tragicamente. È certamente una grande perdita per il nostro Istituto e per il Kenya; tuttavia la fede ci assicura che dal cielo egli continua ad accompagnare la crescita del seme da lui gettato nel campo del Signore. E siamo anche certi che non mancherà di benedire quanti continuano a sostenere la sua opera.




DIMENTICANZE

Risale a neppure un mese fa la pubblicazione del quinto «Rapporto sulle crisi dimenticate», lo studio che con periodicità quasi annuale Medici Senza Frontiere (Msf) dedica ad emergenze, conflitti e catastrofi umanitarie che non trovano sufficiente copertura da parte dei nostri principali mezzi di comunicazione.
L’analisi di Msf segue non di molto l’uscita di un altro saggio, questa volta a cura della Caritas Italiana in collaborazione con Famiglia Cristiana e il Regno, dal titolo: «Nell’occhio del ciclone. Rapporto di ricerca su ambiente e povertà, emergenze e conflitti dimenticati». Passando in rassegna avvenimenti e situazioni di crisi del mondo contemporaneo, entrambi i contributi stigmatizzano la sistematicità con cui i nostri media più importanti «dimenticano» eventi, luoghi e volti se non rispondono a precisi criteri dettati dalle leggi del mercato o da interessi di parte. È una vecchia storia, ampiamente e periodicamente ripresa sulle pagine delle riviste ed agenzie missionarie, chiamate a svolgere sempre più spesso un servizio di «grillo parlante» a difesa dei senza voce di ogni tempo e di ogni angolo del mondo.
Il lungo dossier di questo mese, ad esempio, si occupa di un evento recente (il «Forum sociale mondiale» tenutosi a Belém, in Brasile, lo scorso mese di gennaio), di portata ed interesse mondiali, con un tema (l’ambiente) che riguarda la vita e il benessere di tutti, ma immediatamente caduto nell’oblio grazie ad una copertura mediatica a dir poco imbarazzante offerta dai principali media nazionali.
In quanto rivista missionaria sentiamo la responsabilità di insistere ad allargare orizzonti, gettare ponti e aprire finestre sul mondo, su tutto il mondo; soprattutto su quella fetta di globo che rimane invisibile e che pure crea storia, vivendo esperienze di pari dignità rispetto alle nostre. A volte, per individuare questi contesti nascosti e dimenticati non bisogna andare troppo distante. Basta svoltare l’angolo illuminato di una grossa arteria metropolitana e mettersi a camminare i vicoli bui che formano la topografia del lato vulnerabile delle nostre città, quei borghi che escono dall’anonimato soltanto quando diventano un «problema» sociale, un disagio, un urlo che implora sicurezza.
Sappiamo bene che qualcuno ambirebbe a che quelle finestre, che vorremmo aprire per dare ai nostri sguardi una diversa prospettiva, rimanessero chiuse. Oggi, in modo particolare, i tempi di crisi spingono con decisione a scelte egoistiche, protezionistiche ed esclusiviste, al punto che parlare di un mondo «altro» di cui farsi carico, facendo appello alla responsabilità delle nostre scelte di vita, diventa estremamente più difficile.
I «No» secchi espressi  a Bruxelles dai paesi più vecchi e più ricchi dell’Unione Europea alla richiesta di un piano di intervento in favore dei paesi dell’Est povero del nostro continente sono, mutatis mutandis, analoghi ai «No» di ogni tipo che con sempre maggiore frequenza si sentono sbattere sulla faccia i tanti poveri che riempiono le strade del pianeta. Di questi no, piccoli e grandi, sentiamo di dover parlare in ogni caso.

Di Ugo Pozzoli

Ugo Pozzoli




OSPITALITÀ BASE PER LA MISSIONE

Anno paolino

All’epoca di Paolo il viaggiare era diventato meno rischioso e più confortevole che in ogni altra epoca, grazie al sistema stradale e di trasporto marino organizzato dall’impero romano. Ma per viaggiare era importante poter contare sull’ospitalità di parenti o amici nelle varie regioni dell’impero. L’ospitalità non era solo una virtù sociale, ma anche un’istituzione, soprattutto tra gli ebrei e i cristiani.
L’ospitalità cristiana trova i suoi antecedenti nella tradizione dell’antichità. In un’epoca in cui non c’era un’organizzazione alberghiera vera e propria, il nomade poteva spostarsi solo facendo conto di essere accolto benevolmente dalla gente che incontrava nei suoi spostamenti. Anche per i greci e i romani il rispetto per l’ospite era importante.  
Nei vangeli Gesù è spesso presentato come ospite in casa di varie persone, quali il fariseo Simone (Lc 7,36-50), il pubblicano Levi (Mc 2,15-17), gli amici Marta, Maria e Lazzaro (Lc 10,38-42; Gv 12,1-3). Gran parte dell’insegnamento di Gesù e vari suoi miracoli avvengono in case ove Gesù è ospite. L’attività di Gesù si situa nel contesto della casa, ove si svolge la vita concreta di ogni giorno. Gesù è venuto a dare senso alla vita quotidiana, al rapporto feriale tra le persone. La buona notizia è «vangelo» per la casa, la famiglia.
Negli Atti degli Apostoli, il libro della missione, la prima persona a ospitare Paolo fu un certo Giuda di Damasco che abitava nella Via Diritta (At 9,11), un nome rimasto fino a oggi, in arabo, Darb al-Mustaqim. Preparando il viaggio a Damasco, Paolo aveva forse prenotato una stanza in questa casa (At 9,1-3) e Giuda fu probabilmente sorpreso, vedendo arrivare un Paolo diverso da quello che si aspettava, un uomo accecato e umiliato invece del fiero e violento persecutore.
Probabilmente dopo l’arrivo di Anania, che impose le mani su di lui e lo guarì della sua cecità (At 9,17), Paolo venne ospitato in casa di qualche famiglia cristiana di Damasco. In seguito, a Gerusalemme, Paolo fu ospite di Pietro: «Tre anni dopo andai a Gerusalemme per conoscere Pietro» (Gal 1,18). Ma è soprattutto nella seconda parte di Atti, nei viaggi missionari di Paolo, che incontriamo tutta una serie di persone che ospitano Paolo, rendendo così possibile i suoi spostamenti missionari.

A Filippi in Macedonia, Lidia, la prima donna europea a diventare cristiana, invita Paolo e Sila a casa sua, dicendo loro: «Se siete convinti che ho accolto sinceramente il Signore, siate miei ospiti». E li «costrinse» ad accettare. La casa di Lidia divenne così il centro della comunità cristiana di Filippi. Sarà a questa casa che Paolo e Sila ritoeranno a salutare la comunità dopo essere stati imprigionati e liberati (At 16,40). A Filippi Paolo e Sila furono anche ospiti, per breve tempo, del carceriere romano e della sua famiglia dopo che furono liberati (At 16,34).
A Tessalonica Paolo venne ospitato da un certo Giasone (At 17,5), la cui casa fu assaltata da un gruppo di fanatici giudei che volevano catturare Paolo, accusato di sovvertire il popolo. Non trovando Paolo, prendono Giasone e lo accusano davanti alle autorità cittadine di ospitare dei sobillatori dell’ordine pubblico.  
A Corinto Paolo trovò degli ospiti eccezionali nella coppia Priscilla e Aquila che lo accolsero non solo a casa, ma anche come partner nel loro laboratorio di fabbricatori di tende, poiché anche Paolo faceva lo stesso mestiere (At 18,3). Mentre era ospite a casa di questa coppia, Paolo sentì il Signore rivolgergli queste parole: «Non aver paura, continua a parlare e non tacere: io sono con te; nessuno potrà farti del male. In questa città molti abitanti appartengono già al mio popolo» (At 18,9-10).  
Viaggiando verso Gerusalemme, Paolo e i suoi compagni arrivano a Tiro (80 km dall’attuale Beirut in Libano); «visitammo i discepoli di quella città e rimanemmo con loro una settimana» (At 21,4), rafforzando l’affetto tra Paolo e questa comunità, come testimonia la scena di addio: «Tutta la comunità, comprese donne e bambini, ci accompagnò, finché arrivammo fuori città. Qui ci mettemmo in ginocchio sulla spiaggia a pregare. Poi ci salutammo a vicenda: noi salimmo sulla nave, ed essi ritornarono alle loro case» (At 21,5-6).
Giunti a Tolemaide, «andammo a salutare i cristiani della città, restando con loro un giorno» (At 21,7). Arrivato a Gerusalemme, Paolo fu condotto «da un certo Mnasone, presso il quale trovammo alloggio» (At 21,16).
Molto toccanti le soste di Paolo prigioniero nel viaggio verso Roma, per essere giudicato dal tribunale imperiale. Dopo il naufragio e il soggiorno di tre mesi sull’isola di Malta, il viaggio riprende in nave da Malta a Siracusa, Reggio, Pozzuoli. Qui Paolo e i suoi compagni trovarono alcuni cristiani «i quali ci invitarono a restare una settimana con loro» (At 28,14).

L’apostolo poteva contare sull’ospitalità dei suoi amici.  Scrivendo a Filemone dalla prigione e prevedendo di essere presto messo in libertà, Paolo «prenota» una stanza a casa sua: «Prepara un posto per me, perché spero che le vostre preghiere riescano a farmi tornare in mezzo a voi» (Filem 22).  
Scrivendo ai cristiani di Roma che non conosce, Paolo ha tanta fiducia sulla loro accoglienza e solidarietà che chiede loro non solo di ospitarlo, ma di aiutarlo a preparare il suo viaggio missionario per la Spagna ove spera di andare (Rom 15,23-24).
Stessa fiducia nutre verso i cristiani di Corinto: «Ora passerò dalla Macedonia e poi arriverò da voi. Probabilmente resterò da voi per un po’ di tempo, forse anche tutto l’inverno. Così potrete foirmi i mezzi per proseguire il mio viaggio, qualunque sia la meta» (1Cor 16,5-6; 2Cor 1,16). L’apostolo dà analoghe istruzioni a Tito: «Provvedi con cura al viaggio di Zena, l’avvocato, e di Apollo, fa in modo che non manchino di nulla» (Tit 3,13).
Il verbo greco usato in questi testi è «propempo», che significa «assistere per il viaggio», cioè, provvedere tutto ciò che è necessario per il viaggio: persone che accompagnino, denaro, lettere di raccomandazione, in modo che l’apostolo, ovunque vada, sia sostenuto dalla solidarietà dai fratelli e sorelle di fede.
Ancora una volta la missione appare come impresa comune della comunità cristiana, non impresa solitaria del missionario.

Di Mario Barbero

Mario Barbero