Turismo: diritto e rovescio

Reportage dalla costa di Mombasa

Da anni il Kenya ha investito sul turismo come settore economico trainante.
Il sottoprodotto è la diffusione della prostituzione. Diffuso anche lo sfruttamento dei minori. La legislazione del paese la condanna. Ma la corruzione la fa funzionare a meraviglia. Situazioni di estrema povertà, mancanza di lavoro e ricerca di guadagno facile, sono le principali cause.  Ma occorre eliminare il problema alla radice.

È  sabato notte a Mombasa, in uno dei club più trendy della città. Le bevande scorrono a fiumi, la musica è al massimo, e le coppie sono tutte appiccicate sulla pista da ballo o conversano e prendono qualcosa al bar. Alcune si sono abbracciate restando fuori dal club.
Ma non si tratta del classico tipo di giovani frequentatori di luoghi di divertimento: la stragrande maggioranza delle coppie di questo sabato notte, in realtà, è costituita da uomini bianchi maturi, per lo più turisti e uomini d’affari, e «calde» giovani donne di colore .
Alcuni uomini sono calvi, altri hanno i capelli bianchi. Il ballo è uno spettacolo molto divertente da vedere: sembra una danza tra nonni che provano a seguire il ritmo.
Le ragazze sono alte, snelle, scure con abbigliamento attillato e sorrisi a non finire.
Un uomo – sembra essere sulla sessantina – con la testa pelata, la pancia così grossa che trabocca dalla maglietta, e i pantaloni che gli arrivano all’ombelico si avvicina a una ragazza keniana, che pare abbia 20 anni. Lei è alta, magra, in abito nero e tacchi.
«Posso offrirti qualcosa da bere?» chiede l’uomo, con un marcato accento tedesco.
Dopo un po’ sembrano amici da una vita, chiacchierano, si baciano e … pochi minuti più tardi escono dal club, insieme.
Sono ragazze che lasciano la scuola o non ci sono mai state, a causa di storie di povertà o altre situazioni. Come l’arrivo di un bambino indesiderato, che ha per conseguenza che la ragazza venga cacciata dalla famiglia o scappi per evitare la vergogna. Questo accade soprattutto nei villaggi dove i valori morali sono ancora vigenti. Ma si tratta anche di ragazze e ragazzi alla ricerca di una ricchezza immediata e senza sudore.
Studi rivelano che negli ultimi anni, il numero di uomini e donne che viaggiano verso località estere per sesso è aumentato. Nel passato, le destinazioni più note per questo tipo di turismo sono stati i paesi asiatici, come Thailandia, Filippine, Indonesia, Corea del sud e Sri Lanka, ma anche: Cuba, Repubblica Dominicana, Brasile, Costarica, Europa dell’Est, e alcuni paesi africani, soprattutto Kenya, Sud Africa, Tunisia e Gambia.

Turismo in aumento?

Il turismo è una precisa scelta economica in Kenya perché non solo porta con sé molte possibilità di arricchimento culturale ma anche un guadagno economico enorme. Si è constatato che globalmente, gli arrivi del turismo internazionale in tutto il mondo sono in crescita: da 69 milioni di persone nel 1960 a 160 milioni di persone nel 1970, 625 milioni nel 1998 (dati Organizzazione mondiale del commercio, 1999). E questa tendenza include il turismo sessuale, sottoprodotto del turismo di massa. Anche in Kenya il settore è cresciuto enormemente e, allo stato attuale, si presenta come una delle principali e stabili attività economiche del paese.
La maggioranza dei turisti che visitano il Kenya sono provenienti da Gran Bretagna, Svizzera, Italia e Francia. Altri vengono da Nord America, Giappone, Australia, Nuova Zelanda o da altre nazioni europee come Spagna, Svezia e Norvegia.
Come per molti paesi in via di sviluppo, anche il Kenya è una nazione dove l’agricoltura ha un peso notevole sull’economia, contribuendo al 24% del Pil. Al tempo della sua indipendenza, nel 1963, il paese viveva dell’esportazione di prodotti agricoli (come tè e caffè) e allora il governo cercò subito di diversificare, introducendo un sistema di liberalizzazioni economiche per attirare investimenti dall’estero. Il riconoscimento dei limiti dell’industria agricola e manifatturiera fece sì che il governo si rivolgesse al turismo come attività principale. Il numero dei turisti e dei proventi del turismo sono aumentati fin dall’indipendenza, anche se sono state registrate delle fluttuazioni.
Tra il 1972 e il 1979, il numero dei visitatori del Kenya è salito del 132%, cosa che portò a un ulteriore investimento nel turismo, a tal punto che si sono creati posti di lavoro più rapidamente che in ogni altro settore. Sin dal 1987, il turismo è stato per il Kenya la fonte principale di entrate in valuta pregiata (Ufficio statistico statale, 2001) oltrepassando la tradizionale esportazione di caffè e tè. Il paese ha guadagnato 648 milioni di dollari dal turismo nel 2005, un aumento del 15% rispetto all’anno precedente, secondo il Kenya Tourism Board. Con un totale degli arrivi inteazionali di 1,7 milioni, 21,4% in più rispetto al 2004. Tale industria dà lavoro a circa 1,3 milioni di keniani, quasi 1,8% degli impiegati con salario fisso.
Inoltre, il turismo è anche connesso con altre industrie di tipo domestico ed è potenzialmente utile per generare sviluppo in certe aree neglette. Tale settore, inoltre, contribuisce in maniera sostanziosa al potenziamento di redditi governativi con tasse, tariffe di importo e licenze. Il turismo è perciò ufficialmente promosso in Kenya come la maggiore fonte di guadagno di moneta estera, di impiego e di sviluppo in genere. Il suo peso sull’economia nazionale ha una grande attinenza con le politiche per il settore. In questo contesto si inserisce il turismo sessuale.

Forme di sfruttamento

La prima e più comune forma della prostituzione è quella che coinvolge prostitute casuali, ragazze che si prostituiscono per bisogno di denaro. In questo caso il turismo sessuale ha anche forti ricadute sociali.
Vi è pure un’altra forma, dove le operatrici del sesso lavorano attraverso intermediari. Il turismo sessuale è illegale, le prostitute sono spesso costrette a usare luoghi di intrattenimento come club, bar o altri posti dove poter lavorare. Questo genere di prostituzione è una forma di schiavitù ed è rafforzata da altre persone come gli stessi parenti, ma anche attraverso rapimenti e adescamenti.
Esiste anche un mercato sessuale per turiste donne. Queste stanno venendo anche in Kenya per incontrare ragazzi da spiaggia locali. In questo caso le donne europee immaginano gli uomini di colore essere più forti e attivi a letto, se comparati agli uomini occidentali. Non è cosa strana vedere degli africani con donne europee sulla spiaggia o nei locali di Mombasa.
Questo mercato è anche possibile perché i poliziotti si lasciano corrompere facilmente per chiudere un occhio. Vi sono 412 hotel registrati sulla costa, la maggioranza dei quali si sono sviluppati in prossimità della spiaggia negli ultimi 25 anni. Molte delle attività turistiche sono concentrate nelle principali città costiere di Mombasa, Malindi, Lamu, Kilifi e Watamu. È in queste località che i visitatori indulgono nelle loro principali attività di bagni di sole, nuoto, escursioni organizzate nelle riserve e visite ai musei e ai villaggi circostanti.
L’espansione del turismo lungo la costa è stata anche incoraggiata dal miglioramento dell’aeroporto di Mombasa a livelli degli standard inteazionali. L’aeroporto riceve correntemente voli charter diretti dall’Europa.

A proposito di minori

Un’altra piaga è la prostituzione infantile. Questa sta crescendo rapidamente e coinvolge giovani minorenni, ragazzi e ragazze. A causa dell’Aids, inoltre, molti bambini orfani si stanno dando alla prostituzione.
Da uno studio condotto dall’Unicef e dal governo keniano nel 2006, si è rilevato che almeno 15.000 ragazze in quattro distretti sulla costa – Mombasa, Kilifi, Malindi e Kwale – sono state impegnate nel sesso occasionale e pagate in contanti. «Queste ragazze sono di età compresa tra 12 e 18 anni, e costituiscono il 30 per cento della popolazione totale delle giovani provenienti da questi distretti in questa fascia di età». Inoltre: «Da due a tre migliaia di ragazze e ragazzi sono coinvolti a tempo pieno nel commercio del sesso. Secondo l’Unicef, almeno il 45 per cento delle ragazze ha iniziato a vendersi per denaro, beni o favori a soli 12 o 13 anni. Più del 10 per cento di esse ha iniziato quando era di età inferiore a 12.
Lo studio dimostra che i keniani maschi sono i peggiori colpevoli di sfruttamento sessuale dei bambini, e costituiscono il 38 per cento dei clienti. I turisti italiani, tedeschi e svizzeri sono classificati come i clienti più comuni rispettivamente il 18, 14 e il 12 per cento. Sempre secondo l’Unicef: «Gli ugandesi e i tanzaniani sono al quinto e al sesto posto in questa classifica, mentre i britannici e i sauditi sono al settimo e ottavo posto». Sono menzionati nella relazione i rappresentanti di quasi tutte le nazionalità in visita in Kenya.
Moody Awori, vicepresidente dell’epoca dichiarò: «Per combattere lo sfruttamento dei bambini da parte dei turisti, si impone a tutti gli stranieri a denunciare il loro domicilio nel paese prima di essere ammessi. È necessario inoltre lavorare con gli altri governi per sollecitare la loro cooperazione nella promozione di un turismo responsabile».
Il rappresentante dell’Unicef in Kenya, Heimo Laakkonen, al momento della pubblicazione dello studio dichiarò : «Turisti e keniani che abusano dei bambini devono essere arrestati, giudicati e puniti».
Lo sfruttamento sessuale dei bambini è un reato ai sensi del Codice penale del Kenya, ma lo studio ha dimostrato un altissimo livello del sesso commerciale che coinvolge i bambini. Circa uno su 10 bambini coinvolti nei lavori di sesso è iniziato prima che questi raggiungano la pubertà, afferma la relazione. «Essa riflette un fallimento delle autorità di fornire protezione ai bambini e di perseguire i responsabili di questo commercio» aggiunge la relazione, che inoltre raccomanda a governo, società civile, industria turistica e settore privato di intervenire con urgenza per mettere fine a queste pratiche.

Cosa favorisce il fenomeno

Quando i turisti vanno all’estero, c’è la sicurezza dell’anonimato, la quale li libera dalle solite costrizioni che regolano il loro modo di comportarsi nei loro paesi. Il turismo permette alle persone di perdere la loro identità e dà loro la libertà di fuggire dalla realtà e vivere le fantasie. La maggior parte dei turisti si comportano diversamente quando sono in vacanza: spendono, si rilassano, bevono, mangiano di più e si permettono dei piaceri che non si permetterebbero a casa loro.
Un altro motivo è che i servizi sessuali sono meno costosi che nei loro paesi. I turisti possono permettersi uno stile di vita che non potrebbero mai avere.
Marco, un turista italiano, ci racconta di essere stato in Kenya per un mese, ma già dopo quattro giorni si vanta di aver avuto relazioni sessuali con cinque ragazze. La prima fu sulla spiaggia, dove aveva poi finto di non avere portato soldi con sé e perciò finì gratis. La seconda, sempre sulla spiaggia se la cavò con 100 scellini (poco più di un euro) perché le disse di avere poco denaro. Con le altre, dovette poi pagare 200 scellini.
Molti turisti, pensano che in Africa la vita sia rozza e sfrenata, liberale, senza tanti controlli. Questo può anche spiegare in parte il perché certe donne europee visitano il Kenya in cerca di sesso. Si stima che il 5 per cento lo faccia per questo motivo. Ai primi posti si trovano tedesche e svizzere.

Ho bisogno di soldi per me e per i miei figli

«Molte volte io non sento niente durante le relazioni sessuali. Ci sono casi in cui soffro. Se continuo, è perché ho bisogno di soldi per me e i miei figli. Ho imparato a fare i movimenti meccanicamente per soddisfare i miei clienti. Se lo fai bene tornano. Questo significa ancora soldi» ci racconta una giovane donna di Mombasa.
Per molte ragazze la ragione numero uno è la povertà. La prostituzione è vista come la sola soluzione possibile per assicurare la loro sopravvivenza e quelle delle famiglie.
Dai luoghi di origine vanno sulla costa, con la speranza di trovare un turista bianco che possa pagare di più, magari anche sposarle. Diverse ragazze coinvolte nella prostituzione vengono da famiglie divise, oppure sono cresciute in strada. La povertà crescente o il profitto che la prostituzione può dare, rendono l’etica sociale tradizionale e i codici di condotta sessuale praticamente insignificanti per molta gente, compresi i genitori delle prostitute.
Inoltre, le donne raggiungono un livello relativamente più basso di educazione e hanno meno possibilità degli uomini in fatto di educazione.
Questo capita perché i genitori danno priorità (anche se questo sta cambiando) all’educazione dei maschi, specialmente se non hanno mezzi per l’educazione di tutti i loro figli. Altri motivi che influiscono sulla minore educazione delle ragazze sono le gravidanze non volute, e il fatto che possono essere costrette dai genitori a dei matrimoni precoci per motivi economici.
Esiste anche una discriminazione nei riguardi delle donne per quanto riguarda il lavoro: per loro ci sono solo impieghi con paghe minime.
L’attrazione di un guadagno facile, le nuove norme sociali e la relativa mancanza di controllo da parte della famiglia o del villaggio, fa della prostituzione una forte alternativa di lavoro per molte giovani.

Quasi legale

La legge non solo dichiara la prostituzione illegale come tale, ma lo è anche il vivere dai guadagni ottenuti tramite essa. Il che vuol dire che solo mettersi in mostra, fare l’intermediario, possedere, dirigere o occupare un bordello è illegale. È importante notare però che solo le prostitute stesse hanno dovuto, in qualche caso soffrire, a causa di questa legge, ma non gli uomini che le controllano o i padroni di bordelli, che in molti casi sono persone di alto rango, che possono pagare per non essere denunciati.
Il turismo sessuale in Kenya ha anche ricevuto un riconoscimento semi ufficiale: la municipalità di Mombasa rilascia delle cards (tessere) a ragazze che lavorano nei bar anche a scopo di prostituzione, ma i media e il governo non hanno mai portato alla luce o impedito questo fatto, pur sapendo che esiste.
La soluzione del problema del turismo sessuale non sta nel criminalizzarlo oppure legalizzarlo, ma piuttosto nell’investigae le cause profonde e chiarie le radici. Le vittime di questo commercio hanno bisogno che si intervenga in un modo pratico, chiaro e sostenibile. Bisogna formulare una legge che elimini il turismo e il commercio sessuale in Kenya, e questa deve essere sostenuta da una serie di politiche e programmi socio economici.
Visto che la povertà è il principale motivo per cui le donne si danno a questa pratica, si deve dare a loro un maggior potere economico. Si può incoraggiarle a cominciare delle attività redditizie e aiutare le più giovani a tornare a scuola. Alle vittime si devono offrire programmi di riabilitazione a lungo tempo che includano cura, amore, servizi medici e legali, oltre consulenze e accompagnamento spirituale.
Agenzie governative, Ong, organizzazioni private, media e comunità cristiane devono essere coinvolti. I programmi turistici, inoltre, dovrebbero essere controllati regolarmente, seguendo e considerandone gli effetti.
Il bisogno fondamentale è quello di educare la società keniana a offrire uguali opportunità a uomini e donne. Il governo deve confrontare questo problema invece di negare l’esistenza del turismo sessuale nel paese. Associazioni di donne nel mondo, Kenya compreso, dovrebbero collegarsi per poter proteggere le donne da questo flagello. 

Di Nicholas Muthoka

Nicholas Muthoka




Social, What?

Eticamente: persona, economia, finanza

Negli anni Novanta si celebrarono i grandi summit dell’Onu. Poi la lotta
al terrorismo spazza via i pochi progressi per un sistema di regole.
Ma la società civile si organizza sempre più a livello planetario. E ogni anno fa sentire la propria voce.

Pochi lo ricordano, ma gli anni Novanta sono stati segnati dai grandi vertici dell’Onu sullo sviluppo: la prima, nel 1990, fu la conferenza sull’infanzia, seguita da quella sull’ambiente a Rio nel 1992, poi a Vienna, nel 1993, il summit sui diritti umani.
A metà del decennio si sono tenuti due eventi grandiosi per portata e partecipazione: il Social Summit di Copenaghen, che si è occupato di povertà, disoccupazione ed esclusione sociale, e la Conferenza su «Donne e sviluppo» di Pechino.
Poi, in successione, si sono celebrati il vertice sulla popolazione del Cairo, la conferenza Habitat di Istanbul e il summit sulla Sicurezza alimentare di Roma.
Finito il confronto tra le due superpotenze, che aveva paralizzato il mondo per oltre quarant’anni, l’Onu ha convocato i governi di tutti i paesi per riscrivere le regole della comunità planetaria.
Gli incontri erano animati da grandi speranze, dall’idea che si potesse finalmente eliminare la miseria, assicurare i diritti fondamentali e garantire la pace, grazie alla raggiunta democrazia e alle ingenti risorse liberate dalla fine della guerra fredda e dalla graduale ricomposizione dei conflitti locali, foraggiati dalle due superpotenze.
Lo sviluppo dei popoli era l’obiettivo condiviso dalla diplomazia mondiale.
Ne sono stati affrontati e discussi tutti gli aspetti, sono state sottoscritte importanti dichiarazioni e altrettanto importanti piani di azione. I capi di stato  e di governo hanno firmato impegni solenni.
Purtroppo, all’inizio del nuovo millennio, gli attentati alle Torri gemelle e il corso unilaterale americano hanno tragicamente interrotto il processo verso un sistema di regole globali e un assetto istituzionale mondiale: la guerra e la lotta al terrorismo hanno occupato completamente l’agenda politica internazionale.
I summit sono stati sospesi, i trattati bloccati, i vertici svuotati di presenza e di significato, le Nazioni Unite indebolite.
Ma la società civile non si è arresa.

Proprio durante i vertici degli anni Novanta si erano costituite le prime reti non governative globali che raccordavano le realtà sociali dei vari paesi del Nord e del Sud del mondo. Organizzazioni per lo sviluppo, i diritti umani, la tutela del patrimonio naturale, le minoranze si sono ritrovate ad affrontare gli stessi problemi e a condividere le stesse battaglie: la cancellazione del debito, la messa al bando delle mine, la difesa dell’acqua, la regolazione della finanza, il rifiuto della guerra…
Hanno dato vita ai «vertici sociali» di Seattle, Porto Alegre, Genova, Nairobi e, quest’anno, Belém; hanno promosso manifestazioni contemporaneamente in centinaia di capitali, hanno lanciato le stesse petizioni.
La società civile globale, a dispetto dei pochi mezzi, pur disconosciuta se non apertamente osteggiata dai governi, ha fatto sentire la propria voce.
Ha lanciato l’allarme sui costi sociali di una globalizzazione senza diritti, ha denunciato i rischi economici di una finanza sfrenata, ha interpellato le istituzioni inteazionali e nazionali, ha cercato di riportare nell’agenda politica il tema della povertà, dell’uguaglianza, delle pari opportunità, della protezione del patrimonio naturale.
Ha prodotto analisi e pubblicato documenti.

Il rapporto del Social Watch (www.socialwatch.org) è uno di questi. Ogni anno, dal 1996, misura i progressi o i regressi compiuti nel campo della lotta alla povertà e della parità di genere, a partire dagli impegni sottoscritti nei vertici mondiali. Il Social Watch segnala quali paesi retrocedono e quali avanzano verso gli Obiettivi del millennio, quali governi spendono bene le risorse e quali le dilapidano in armi o in progetti inutili.
Si compone di capitoli tematici sulle tendenze dell’anno, di capitoli sui singoli paesi, di grafici e tabelle. Utilizza indici innovativi come l’«Indice sulla parità di genere» o quello sulle «capacità di base».
L’originalità del Social Watch sta nel prodotto, ma anche nel fatto che ha saputo mettere in rete oltre 200 organizzazioni tra le più varie (associazioni, Ong, centri studi, sindacati) di ben 70 paesi: dall’Afghanistan alla Polonia, dall’Uruguay all’Italia.
Guardando alle analisi dai diversi paesi si rimane colpiti dalle similitudini: ovunque la società civile nutre gli stessi timori riguardo ai tagli alle spese sociali, alle speculazioni finanziarie, alla crescita del divario tra ricchi e poveri, alla privatizzazione di risorse vitali come l’acqua.
L’ultimo rapporto Social Watch pubblicato anche in italiano si intitola «Crisi globale, la risposta è ripartire dai diritti». Sembra uno slogan, ma può diventare un programma politico. Ecco perché il rapporto è stato presentato a Montecitorio lo scorso 19 febbraio alla presenza dei parlamentari di tutti i gruppi politici.

Di Sabina Siniscalchi

Sabina Siniscalchi




Rifondazione, 500 anni dopo

Gennaio 2009: approvata la nuova Costituzione boliviana

Una giornata storica per la Bolivia. Il presidente indigeno Morales festeggia con il popolo la Costituzione approvata con referendum. Sancito uno stato di 36 nazioni indigene di tipo socialista. L’acqua è dichiarata diritto umano. I benefici per i meno abbienti riconosciuti. Ma sono anche validati i referendum delle destre, che conferiscono più autonomia ai dipartimenti orientali. Luci e ombre della nuova Carta.

Da buon aymara, Evo Morales crede molto nelle simbologie: ecco perché sabato 7 febbraio il presidente della Bolivia ha voluto che le celebrazioni per l’approvazione della nuova Costituzione del paese, votata dal 61, 43% della popolazione attraverso un referendum il 25 gennaio scorso, si tenessero a El Alto.
El Alto è una distesa di baracche cresciuta senza ordine a 4.100 metri d’altitudine attorno alla città di La Paz, anzi, sopra a La Paz, che si trova in effetti in una conca. Abitata da quelli che hanno abbandonato l’altopiano per sfuggire alla povertà di campagne e miniere,  è  divenuta negli anni una vera e propria città satellite e la capitale della popolazione indigena aymara, che da sola rappresenta un terzo degli otto milioni di boliviani.
Furono proprio gli alteños – gli abitanti di El Alto – a insorgere e a essere di conseguenza massacrati, nel 2003, contro il governo dell’allora presidente dittatore Gonzalo Sanchez de Lozada, reo di avere svenduto a compagnie straniere il gas boliviano mentre la popolazione moriva di freddo. Sempre da qui arrivò l’appoggio civile – ma anche armato – in aiuto alla gente di Cochabamba, che nel 2000 combatteva nella «guerra dell’acqua» (cfr. MC giugno 2006) al grido di «El agua es nuestra, carajo!» (l’acqua è nostra) contro la multinazionale statunitense Bechtel che l’aveva privatizzata. Questo esteso ammasso di baracche è sempre stato simbolo dello sfruttamento della gente indigena boliviana. Ma anche della sua capacità di resistenza.

Costituzione «popolare»

Ecco perché proprio qui a El Alto, e davanti alla sua gente, il primo presidente indigeno della Bolivia ha voluto promulgare ufficialmente «di fronte al popolo, non come prima, fra quattro mura e solo davanti al Congresso (parlamento boliviano, ndr)» la nuova Costituzione politica dello stato (Cpe), la Costituzione boliviana numero 16, la prima approvata attraverso votazione popolare e frutto di un’Assemblea costituente, in 183 anni di storia repubblicana. 
Fin dall’alba del sabato – ma in molti si erano dati appuntamento il giorno prima, passando la notte all’addiaccio nonostante le temperature vicine allo zero – una fiumana di gente aveva cominciato a gremire la avenida 6 de Marzo, lo stradone centrale che taglia a metà la baraccopoli. Decine, poi centinaia di migliaia di donne, uomini, vecchi, contadini, provenienti da ogni pueblito (villaggio) dell’altipiano, erano arrivati con le wiphalas, le multicolori bandiere indigene, portando le insegne del partito al governo, il Movimiento al Socialismo (Mas), gli striscioni del proprio sindacato e delle organizzazioni di base d’appartenenza.
Più tardi si erano unite anche le delegazioni dall’Oriente boliviano, la parte del paese roccaforte dei partiti d’opposizione: quelli del Plan 3.000 de Santa Cruz – dove negli ultimi mesi del 2008 si sono duramente fronteggiate fazioni del campesinato (settore contadino) locale e paramilitari agli ordini delle destre.
Poi i contadini della regione di Chuquisaca, gli originari dell’etnia weenhayek del Chaco, i coltivatori di Tarija.  Tutti luoghi dove lo scontro etnico e culturale fra indigeni e criollos, i discendenti dai conquistadores spagnoli, sono stati feroci durante tutto il mandato di Evo Morales, cominciato nel gennaio del 2006.
E ancora i raccoglitori di foglie di coca del Tropico di Cochabamba – i cocaleros, di cui Evo Morales è tutt’ora presidente del sindacato – i minatori di Potosì e quelli delle miniere di stagno e argento di Oruro,
di dove il presidente è pure originario e dove da piccolo si manteneva facendo il pastore di lama.

«Missione compiuta»

Non appena i primi raggi di sole hanno cominciato a illuminare la distesa di tetti di latta e strade fangose di El Alto, le donne con le ceste e le carriole di panini, empanadas, salteñas e bibite varie, si erano contese i posti migliori. Altre schiere di venditori di bandierine e fotocopie del nuovo testo costituzionale si erano mescolati alla folla.
I vecchi già iniziavano a ch’alliare – benedire con dell’alcol – la giornata, mentre i rappresentanti istituzionali prendevano posto negli spalti d’ordinanza. Così in successione le autorità, gli invitati speciali – fra cui il premio Nobel per la pace, la guatemalteca leader indigena Rigoberta Menchù e il cancelliere venezuelano Nicolás Maduro – e gli ufficiali dell’esercito. Alle 11.57 il maestro di cerimonia annunciava l’arrivo del presidente Evo Morales e del suo vice, il sociologo ed ex guerrigliero Álvaro García Linera.
«Sorelle e fratelli di Bolivia, in questa giornata storica proclamo la nascita dello stato plurinazionale, unitario, sociale e del socialismo comunitario, a partire dalla nuova Costituzione. Missione compiuta per la rifondazione della nuova Bolivia unita! Ora possono uccidermi, possono cacciarmi dal palazzo!». Inizia a parlare così il presidente, con l’enfasi che gli è propria.
La folla nel frattempo ha raggiunto il milione di persone: un eterogeneo spaccato di tutte le categorie storicamente oppresse della Bolivia.
Morales lo sa bene, e prima di ogni altro discorso legge la sentenza con la quale, il 14 novembre 1781, le autorià coloniali avevano ordinato lo squartamento del leader indigeno Tupac Katari.
Come a significare che con la promulgazione della nuova Costituzione un cerchio si sta chiudendo, che la giornata in corso ha lo stesso spessore storico e la stessa portata di rivalsa identitaria per la popolazione boliviana. E più in là ancora, per tutte le popolazioni andine che una volta facevano il Qollasuyo, l’antico regno incaico. Come a dire che quel «Toerò e saremo milioni», detto da Tupac Katari prima di morire, oggi ha il sapore della profezia politica: «Eccoci qui, siamo milioni, siamo tornati», pare dire l’aymara Evo Morales, ex pastore di lama.

Trentasei nazioni indigene

La nuova Cpe consta di 411 articoli. Fa della Bolivia uno stato plurinazionale di stampo socialista, composto da 36 nazioni indigene, tante quante sono le etnie censite. Il ruolo dello stato è più forte e vengono riconosciuti benefici sociali ai settori indigeni e ai meno abbienti. I servizi basici, in primis l’acqua, sono dichiarati diritti umani. Le risorse naturali di «carattere strategico» – idrocarburi, minerali eccetera – potranno essere sfruttate solo sotto controllo statale, ma vengono fatte aperture alle partecipazioni di imprese statali straniere con contratti a prestazione di servizio.
La pianta della coca – sacra per gli indigeni, madre della cocaina per tutti gli altri – è definita patrimonio culturale. Le basi militari straniere sono bandite. La religione cattolica rimane quella ufficiale, ma viene equiparata all’animismo indigeno, che riceve pieno riconoscimento. Sanità e scuola saranno un diritto e non un privilegio.
A una prima lettura, la nuova Cpe parrebbe essere la conferma delle promesse fatte da Morales e dai suoi dalla campagna elettorale presidenziale in avanti, e il coronamento di un cammino verso l’autodeterminazione di un popolo, partito cinque secoli orsono con l’arrivo di Pizzarro e dei conquistadores, proseguito in tempi più recenti con le lotte in difesa dei beni comuni e delle proprie identità culturali.
Invece, severe critiche vengono proprio da quei movimenti sociali che hanno favorito l’ascesa di Morales: quelli che hanno combattuto per rifondare la Bolivia con battaglie civili e politiche che dalla «guerra dell’acqua» in avanti tentavano di tratteggiare un nuovo tipo di democrazia e di stato. E che si sono ritrovati isolati e depauperati da un governo monocolore. La nuova Costituzione si porta in seno il difficile cammino dell’Assemblea costituente, che per due anni non è riuscita ad avere la meglio sulle opposizioni, dando il fianco a lacerazioni politiche sempre più gravi.
L’Assemblea, che era stata uno dei punti cardine dell’elezione di Morales a presidente, doveva essere lo specchio delle forze rinnovatrici della società boliviana: di quei sindacati, movimenti sociali, contadini, indigeni, che dal ’99 in avanti avevano cacciato tre presidenti della repubblica a furor di popolo e avevano mostrato al mondo che un rinascimento indigeno latinoamericano stava prendendo forma e forza.
Ma quella novità importante nel panorama internazionale che era l’eterogeneità politica boliviana, non compariva nella sua struttura.
Il tema della plurinazionalità, ad esempio, è esplicativo. Assieme alla decentralizzazione, è la caratteristica distintiva di questa nuova  Costituzione. Vengono regolamentate quattro tipologie di autonomia – dipartimentale, regionale, municipale e indigena – tutte con il medesimo «rango e gerarchia».
Nel suo articolo 1, essa infatti dichiara che:  «La Bolivia si costituisce in uno stato unitario sociale di diritto plurinazionale comunitario, libero, indipendente, sovrano, democratico, interculturale, decentralizzato e con autonomie», e sottolinea come «la Bolivia si fondi sulla pluralità e il pluralismo politico, economico, giuridico, culturale e linguistico, dentro il processo integratore del paese».

Autonomie e risorse

Oltre alle 36 nazioni indigene dunque, la Cpe riconosce l’autonomia dipartimentale alle 9 regioni del paese. In quattro di queste – Beni, Pando, Tarija e Santa Cruz , che compongono la cosiddetta «Mezza Luna» per le ricchezze in termini di gas, petrolio, idrocarburi e agricoltura che possiedono – l’autonomia è già effettiva, grazie a una delle tante concessioni che il governo Morales ha dovuto fare alle forze politiche oppositrici.
Il referendum costituzionale del 25 gennaio era stato infatti fissato inizialmente il 4 maggio 2008. Ma i tumulti che infiammarono la Bolivia imposero uno slittamento della data.
Quel maggio, i partiti di destra assieme ai prefetti e ai comitati civici della Bolivia dell’est, capeggiati dall’imprenditore di origine croata Branko Marinkovich di Santa Cruz, avevano decretato la secessione dal governo centrale con una serie di referendum autonomici, giudicati allora illegali dalle autorità governative.
Con una scioccante campagna denigratoria, che opponeva l’orgoglio «camba» (sostanzialmente, orgoglio bianco) a quello indigeno, la crema politica della Mezza Luna, riunita in un sedicente Consiglio nazionale democratico (Conalde), aveva alimentato una spirale di violenza che aveva provocato decine di morti e umilianti episodi di razzismo contro contadini e indigeni, arrivando a sdoganare la creazione ufficiale di un esercito paramilitare nominato Union Juvenil Crucenista.
Lo stesso gruppo armato che l’11 settembre successivo avrebbe provocato la strage chiamata «El masacre de El Porvenir», trucidando 30 contadini inermi nella regione del Pando.
Ebbene, con un certo sconcerto, questa Cpe ha riconosciuto come validi proprio quei referendum che fanno delle regioni d’Oriente di fatto delle regioni autonome, mentre demanda al 2010 l’autonomia delle rimanenti 5 regioni, fra cui La Paz.
Un altro tema che evidenzia alcune contraddizioni, è quello degli Ogm. La legislazione precedente, quella ereditata dal neoliberalismo, aveva permesso che molti prodotti agricoli geneticamente modificati entrassero in Bolivia, fra cui la soia.
Nel testo costituzionale approvato a Oruro nel novembre del 2007 dall’Assemblea costituente, l’articolo 408 recitava:  «Si proibisce la produzione, importazione e commercializzazione dei transgenici». Dopo alcuni mesi di contrattazioni, l’articolo 409 della Cpe risulta essere:  «La produzione, importazione, commercializzazione dei transgenici sarà regolamentata per legge».
In effetti, i mesi che hanno preceduto il referendum di gennaio sono stati una specie di «mercato di articoli costituzionali» che sottendeva alla creazione di un equilibrio interno al paese. Oltre cento articoli sono stati modificati in corsa. Ma non è stato abbastanza.

Città e campagna

Il risultato del referendum infatti, non ha sfiorato i numeri stellari del referendum revocatorio del 10 agosto scorso, che aveva decretato un granitico consenso al governo Morales. E seppure certifichi che la maggioranza della popolazione sia a favore della Cpe, disegna per l’ennesima volta una Bolivia profondamente divisa.
Non solo fra altopiani e Oriente,  fra indigeni e blancoidi (meticci). Ma anche e soprattutto, fra città e campagna. Nelle zone rurali, il consenso alla Cpe ha raggiunto l’80%. Nelle città dell’est del paese, la retorica del «razzismo al contrario» che pregiudica i bianchi a favore degli indigeni, ha invece fatto presa sugli indecisi e sui mestizos.
Le destre, dal canto loro, non sono messe così bene: non hanno in questo momento un leader carismatico e sono in minoranza. Ma hanno vinto su un altro importante punto: il latifondo. Il referendum costituzionale era affiancato da quello che chiedeva alla popolazione di votare il limite massimo di ettari posseduti da ogni persona fra 10 o 5 mila ettari.
L’80,65% della Bolivia ha posto il tetto a 5 mila, dando così un segnale forte contro le oligarchie che ancora oggi nel paese posseggono distese impressionanti di territorio. Ma il referendum non è stato formulato in maniera retroattiva. Nessun esproprio dunque ai discendenti delle élitè europee che dal 17° secolo in avanti si erano spartiti la Bolivia a brandelli.
E neppure a quelle militari, che i vari dittatori si imbonivano regalando loro terre e campi con tanto di indigeni lavoranti annessi. Il referendum sul latifondo non darà origine a una riforma agraria redistributiva, eccezion fatta per la terra cosiddetta oziosa di proprietà pubblica.
Non andrà a toccare nemmeno i possedimenti del leader di ultradestra Branko Marinkovich. Per molti, in particolare per quelli che hanno partecipato alle grandi marce indigene per la terra, gridando «La terra per chi la lavora», questo è stato un tradimento.
In queste condizioni, è difficile pensare che la Cpe possa migliorare la governabilità del paese. Soprattutto quando in campo entra anche la crisi economica mondiale, che metterà a dura prova la tanto sbandierata nazionalizzazione delle risorse, fino a oggi più propagandistica che di fatto.
Evo Morales assicura che la promulgazione della nuova Costituzione è  «un passo verso la rifondazione della Bolivia. Verso la liberazione e la vera indipendenza del paese dopo 500 anni di ribellione contro il saccheggio e la sottomissione coloniale, dopo 180 anni di resistenza contro lo stato coloniale, dopo 20 anni di lotta permanente contro il modello neoliberale».
Molti lo aspettano al varco. Ma molti altri vogliono credere in lui e nel sogno che rappresenta.
Così il 7 febbraio 2008, mentre il Primer Mandatario riceveva felicitazioni e abbracci, e una fitta pioggia aveva cominciato a battere incessantemente, gli amautas, gli shamani andini, si erano portati sotto il palco e avevano acceso una mezza dozzina di bracieri sacri. Il fumo delle k’oa aveva riempito velocemente il cielo. La Pachamama veniva ringraziata. 

Di Francesca Caprini

Francesca Caprini




Luci e ombre sul delta del Gange

Viaggio nel paese più popoloso del mondo

Superficie meno della metà di quella dell’Italia e oltre 153 milioni di abitanti, il Bangladesh è afflitto da tanti problemi: spaventose inondazioni e inquinamento, corruzione e instabilità di governo, povertà e sfruttamento dei lavoratori: il 40% della popolazione vive con meno di un dollaro al giorno. All’economia del paese contribuiscono le rimesse di 5 milioni di emigrati. L’esodo continua anche verso l’India, che cerca con ogni mezzo di respingere chi vuole attraversare i confini.

Partiamo da Calcutta all’alba del 27 dicembre 2008. Sui marciapiedi uomini seminudi si stanno lavando, azionando le prese d’acqua pubbliche, altri sistemano banchi con le mercanzie. Usciti dalla città, villaggi e lembi di campagna si susseguono fino al confine col Bangladesh.
Lasciato l’edificio fatiscente della dogana indiana, ci troviamo in un paese che pare più ordinato e accogliente, anche se densamente popolato. Una fila di autobus ammaccati, ma dipinti a colori vivi, è ferma in attesa, sotto i giganteschi alberi di tamarindo che bordano la strada; gli autisti ci fissano stupiti.
Lungo il percorso che ci condurrà a Khulna incontriamo gruppi di manifestanti: tra due giorni ci saranno le elezioni, le prime dopo l’arresto di Begum Khaleda Zia nel gennaio del 2007 e il successivo governo di transizione militare. La gente inneggia al partito di Sheikh Hasina. 
«Nouka-nouka», «barca-barca» gridano i due principali opposti schieramenti, che hanno come simbolo la barca e il ramo di riso e fanno capo alle due donne che si sono alternate alla guida del paese negli ultimi anni. Khaleda Zia, vedova del generale Zia, ucciso nel 1981, guida il Bangladesh National Party, alleato dei partiti islamici; mentre Hasina è figlia del padre della patria, Muijbur Rahmanan, primo presidente del Bangladesh e fondatore della Awami league, massacrato durante il colpo di stato del 1975 (vedi riquadro).

Tutti al lavoro

Pare sia facile innamorarsi di questo paese. La gente è veramente speciale, gentile e accogliente. È il paese tra i più piccoli al mondo e il più densamente popolato; ma non si vedono sfaccendati in giro, tutti sono al lavoro, un lavoro molto duro perché privo di aiuti meccanici.
Le donne vestono sari colorati; rare quelle con il volto velato. Nelle campagne svolgono i lavori meno pesanti, contrariamente a quello che succede in India. Nelle città si impiegano nelle industrie di abbigliamento, lavorano anche di notte e sono sfruttate.
Molto numerose sono le foaci per mattoni, con le ciminiere e le lunghe file di mattoni fatti a mano, disposti a seccare. Non ci sono pietre in Bangladesh; il terreno è tutto fango, limo lasciato dai grandi fiumi himalaiani, il Gange e il Bramaputra che si uniscono in un enorme delta. Dopo la cottura, si rompono i mattoni per poi utilizzarli come pietre.
Il traffico nel paese è dato da carretti, rikshò e camion con grossi carichi, su cui sovente si arrampicano gruppi di passeggeri. Le prime auto le vedremo solo nella capitale o presso i posti di polizia e dell’esercito. Non riesco a essere indifferente alla fatica che traspare negli occhi allucinati di uomini costretti a trasportare enormi pesi su carretti tirati dalle biciclette. Uomini-cavallo, scalzi, magri, alcuni con la barba bianca, altri giovani, ma logori.
Il contrasto è forte nella capitale, dove questa situazione convive con lo sfarzo di certi edifici pubblici e il lusso dei centri commerciali. La vita intellettuale è vivace: leggo sui quotidiani che alcune donne straniere che si sono trovate a vivere qui per qualche anno, si sono poi attivate per portare aiuto e solidarietà, creando fondazioni per lo sviluppo sociale e culturale del paese che le ha ospitate.

Un missionario leggendario

I missionari cattolici sono presenti e molto attivi, nonostante questo sia un paese all’87% musulmano. Siamo andati a cercarne uno veramente speciale, nella sua missione presso Mongla, nella regione dei Sunderbans, nel delta del Gange.
Attraversiamo il fiume con un barcone, poi un rikshò ci conduce alla missione dove veniamo accolti da padre Marino Rigon, saveriano, originario di Vicenza. Il suo bel viso di ottantenne, incoiciato dalla barba bianca, è comparso ieri sulla prima pagina del  Daily Star di Dakha, in occasione del conferimento, da parte del governo, della cittadinanza onoraria. Si è voluto riconoscere così il prezioso lavoro svolto nel paese sin dal 1954.
La missione comprende la scuola per gli orfani, il laboratorio di cucito dove vengono accolte le ragazze più graziose, che sono più a rischio, il dispensario e la chiesa di San Paolo, trionfo di colore e testimonianza di tolleranza: padre Marino ci indica i simboli delle religioni presenti nel paese, che decorano le pareti e l’altare: la mezzaluna islamica, il fior di loto buddista e la croce cristiana. 
«Mi interessa quello che devo fare, non quello che ho fatto in questi 54 anni – risponde il missionario ai nostri complimenti -. Oggi la situazione è migliorata, ma i poveri restano sempre poveri, con i problemi di sempre».
Poi ricorda: «Nel ’71 ho cornoperato con i patrioti, per la liberazione del paese dal Pakistan. Una guerra cruenta, che fece più di un milione di morti. I pakistani bruciavano i villaggi, uccidevano e violentavano. Sono sceso sulla riva del fiume, sono andato incontro al comandante responsabile dei massacri e gli ho detto: voi non venite più qui a bruciare e uccidere la gente».
Domando come sono i rapporti con i musulmani. «Qui la gente prima è bengalese, poi islamica. Nel delta un tempo vi erano solo indù, poi sono arrivati i commercianti islamici. I fuori casta, che abitano al di là del fiume, si sono convertiti al cristianesimo. Sono poveri pescatori e io mi curo di loro. Li aiuto anche quando devono ricostruire le capanne spazzate via da un tifone».
Alla missione arrivano tutti i giorni le emergenze, come quella donna che ieri è arrivata, col seno che le scoppiava, perdeva sangue e il missionario l’ha fatta ricoverare.
«Stamattina, alla messa delle 6,45, la chiesa era vuota, fuori c’era nebbia fitta. Ho letto il capitolo 1° della Genesi, fondamentale: Dio creò l’uomo e la donna a sua immagine e somiglianza» spiega il padre, fermandosi un istante a meditare, e conclude: «Forse l’uomo vero è la coppia, uomo e donna insieme».
Poi aggiunge:  «Nelle mie omelie non manco di citare i bauls, i menestrelli bengalesi di una setta iniziatica che ha le radici nel tao. Fu un fratello della Holy Cross a farmi conoscere questi cantori dolcissimi, che parlano dei problemi dell’uomo, spirituali e terreni. Sono cantori senza grammatica, che credono nell’amore e cantano una vita semplice».
Vicini al sentire buddista, i bauls formano un gruppo eterogeneo che comprende indù e sufi islamici. Sono mistici, ma legati alle cose terrene e all’amore carnale. Si esprimono attraverso la musica e hanno influenzato tutta la cultura bengalese, in particolare del grande poeta nazionale Rabindranath Tagore. Padre Marino è stato il primo a tradurre le sue opere direttamente dal bengali in italiano. Anche stamattina egli ha terminato la messa con un verso del poeta.
I canti baul sono più di 2.000 e padre Marino ne ha già tradotti 350. Ha pure scritto «La voce del silenzio», un libro di cui riporto il seguente testo: «Marco compone il racconto della crocifissione mettendo in risalto che Cristo morente resta “solo”, sta in “silenzio”. “Solitudine e silenzio” sono l’unico grido di chi ”non ha voce”. Penso che “solitudine e silenzio” del mondo povero siano un grande castigo per coloro che danzano nella massa umana ricca che strilla dentro una musica stonata…
Molti mi domandano se sono stato in Terra Santa. Rispondo semplicemente che non sento il bisogno di andarvi. La verità è che la Terra Santa la ho qui, in questi villaggi di intoccabili; nel loro volto vedo gli sputi e gli schiaffi dati a Cristo; nelle loro vesti stracce vedo il manto regale, da burla di Gesù, sul loro capo vedo la corona di spine e nelle loro mani e nel loro petto vedo le ferite del Crocifisso».

Banca di Villaggio

I due funzionari sono arrivati ieri sera da Dakha, l’appuntamento è nella sede della banca Grameen, in un villaggio presso Bogra, dove sono convenute alcune donne per testimoniare l’efficacia del microcredito creato dal premio nobel per la pace 2006, Muhammed Yunus. Tutte indossano sari colorati e hanno il viso segnato dalla fatica. Due di loro sono anziane vedove senza figli, costrette a mendicare per vivere. Con il piccolo prestito ottenuto una di esse ha potuto comprare una capra e ora vende il latte.
Shahama ha iniziato con un debito di 2.000 taka e ora ne ha fatto uno di 80 mila. Ha costruito una casa dove abita con la famiglia e ne affitta una parte. Con il reddito paga il suo debito. Un’altra donna con il prestito si è comprata una mucca. Poi ne ha comprata un’altra e ora vende il latte a 30 taka il litro. Così riesce a mantenere la figlia all’università. 
Allamein è uno studente, sua madre ha fatto un debito per farlo studiare. Lui dovrà restituirlo un anno dopo aver trovato lavoro.
L’idea vincente è che tutti possono diventare imprenditori di se stessi, anche i poveri contadini di villaggi remoti, perché è la banca che li raggiunge, con i suoi funzionari.
La storia di Yunus è affascinante. Durante la terribile carestia che seguì la guerra di liberazione del ’71, egli era un giovane professore che si trovava a insegnare eleganti teorie economiche all’università di Chittagong, mentre i suoi concittadini morivano di fame. Rendendosi conto dell’inutilità del suo lavoro, volle impegnarsi subito e personalmente per aiutare i poveri a uscire dalla loro miseria.
Scoprì così che nel villaggio accanto al campus erano le donne a doversi indebitare con gli strozzini per poter affrontare le emergenze familiari. Costoro con un prestito di soli 25 centesimi di dollaro potevano avere l’esclusiva dei prodotti della vittima, al prezzo stabilito da loro.
Il primo studio lo fece in tale villaggio, dove 42 donne si erano indebitate per 27 dollari Usa. Se così poco denaro poteva cambiare la vita di tante persone, Yunus pensò di offrire la somma di tasca propria, poi cercò di mettere le donne in contatto con la banca del campus, che si rifiutò di prestare denaro a gente così povera.
Allora Yunus decise di dare personalmente la garanzia e si rese conto che i debiti venivano ripagati puntualmente. Nacque così la Grameen Bank (banca di villaggio), idea geniale che si è propagata in tutto il mondo. 
Durante il mio viaggio mi renderò conto che, comunque, la Grameen è diventata una banca come tutte le altre, elargisce borse di studio, possiede una rete telefonica e altre attività redditizie. La sede è in uno splendido edificio moderno, nella capitale, ma il tasso praticato alla povera gente del Bangladesh è comunque molto alto, raggiunge il 12%. Ho sentito di gente insolvente che ha perso la mucca,  sua unica proprietà e fonte di sostentamento. Oppure è stata costretta a fare altri debiti per pagare i precedenti. In alcuni villaggi, gli agenti della Grameen Bank sono considerati al pari di usurai.

HILL TRIBES

Ranglai Mo è stato eletto per tre volte capo della comunità indigena shnalok di Bandaraban, nella regione collinare di Chittagong, nel sud est del paese. Sofferente di cuore, fu arrestato due anni fa per detenzione di armi e sta scontando una pena di 17 anni incatenato, nel carcere di Chittagong. Cardiopatico, in questi giorni è stato necessario trasportarlo nell’ospedale di Dakha per sottoporlo a cure intensive presso l’unità coronarica, ma i medici hanno riscontrato anche i segni di ferite al dorso e al petto. Le catene complicano le cure e ora pare che un’organizzazione umanitaria si stia interessando al caso.
Le regioni sud orientali sono le terre alte del Bangladesh, che per il resto è pianura alluvionale percorsa da fiumi e non più alta di 10 metri sul livello del mare. Abitate da etnie buddiste, sono visitabili con permessi speciali e scorta armata. Al tempo degli inglesi esse godevano di statuto speciale e una certa autonomia, che fu abolita dai pakistani. Dal 1973 iniziarono le lotte dei tribali contro la politica del governo che consentiva ai bengalesi di espropriare le loro terre.
Sheikh Hasina firmò una pace nel ’97, restituendo ai gruppi etnici parte del territorio. Tuttavia più di 400 mila bengalesi si sono trasferiti nella zona di Rangamati, sul lago Kaptai, abitata dall’etnia chakma. Hanno costruito alberghi e strutture per ricevere i turisti che cercano il fresco delle colline e ora i tribali sono emarginati e continuano a subire soprusi, dopo che più di 100 mila hanno dovuto riparare in India.
Saremo sempre seguiti da una scorta, anche durante la navigazione sul lago, che dopo tanti anni non ha ancora un aspetto naturale. Ci arrampichiamo sulle rive polverose per visitare due poveri villaggi abitati da pescatori. Qualcuno veste ancora consunti abiti tribali, come questo signore scalzo e magro, che si siede accanto a me sotto un pergolato e mi fissa negli occhi, composto e sorridente.
Noto che il militare della nostra scorta si avvicina e lo tiene sotto osservazione col mitra spianato. «Siete italiani? – mi chiede, stupito, poi si presenta -. Mi chiamo Subal e sono buddista. Da ragazzo ho studiato in una missione cattolica, dove c’era un padre italiano, ma non ricordo il suo nome». Subal Chandra Chakma è stato maestro di villaggio per 36 anni; ora che ne ha più di sessanta è rimasto a vivere qui con uno dei tre figli, gli altri si sono trasferiti in città, a Rangamati. «Prima del ’58, quando hanno costruito la diga, la mia gente aveva bestiame e ricchi raccolti di riso. I nostri bei villaggi finirono coperti dalle acque e fummo costretti a spostarci sulle cime dei monti, dalle pendici ripide, dove è impossibile coltivare. Ho tentato di mettere alberi da frutta, inutilmente».
Subal continua a parlare, non teme il militare; vuole che noi sappiamo della sua situazione. «Gli inglesi ci avevano lasciato una certa autonomia, che ora reclamiamo invano, siamo discriminati e impoveriti. Persino con i pakistani stavamo meglio».
Gli alberi secolari, dal legname prezioso furono tutti abbattuti e portati via. Ora hanno piantato alberi del teak, ma l’impressione che si ha, percorrendo in lancia il lago Kaptai tra isolette spelacchiate, è di squallore.
«Le elezioni si sono svolte in modo esemplare – ci dicono durante la cena due danesi ospiti del nostro albergo -. Siamo stati inviati dall’Europa come osservatori in occasione delle elezioni. Quattro settimane che ci hanno fatto conoscere un paese sorprendente, la gente è veramente stupenda. Siamo felici del risultato, che vede sconfitti i partiti islamisti». 

Di Claudia Caramanti

La politica: Le due dame

La signora Begum Khaleda Zia, di 62 anni, è a capo del Bangladesh national party (Bnp) da quando suo marito fu ucciso nel 1981. Nel ’92 vinse le elezioni, ma nel ’96 le perse a favore dell’Awami league della Sheikh Hasina. Ritoò al potere nel 2001. Fu poi  arrestata con i due figli per corruzione e rilasciata dopo un anno di prigione. Il suo partito si basa su valori islamici ed è alleato con partiti islamici.

La Sheikh Hasina, due figli, marito fisico nucleare, ha 61 anni e guida il partito da quando suo padre Mujibur Rahman, fondatore e primo presidente del Bangladesh, fu ucciso con la sua famiglia durante il colpo di stato militare del 1975. La Awami league nacque per promuovere pari diritti alle due popolazioni nel 1948, un anno dopo la divisione del subcontinente.
Hasina ha abbandonato le idee socialiste del padre e si è aperta al mercato. Vinte le elezioni del ’96, superando la Zia, perse le successive nel 2001. Sopravvissuta all’attentato del 2004, in cui morirono 24 persone (attribuito a gruppi islamici), fu arrestata per corruzione nel luglio del 2007. Anche Hasina ha passato un anno in prigione. Nelle ultime elezioni, dicembre 2008, ha vinto in modo netto, sconfiggendo la rivale e i partiti islamisti suoi alleati.

Lo Jatiya party fu fondato nel 1985 dal generale Hossain Moham Ershad, che nel 1982 con un colpo di stato prese il potere dichiarando il paese islamico, permettendo il culto di altre religioni. Nel 1994 fu scalzato da una rivolta popolare guidata dalle due dame, Hasina e Khaleda Zia.
Ershad oggi ha 78 anni e ha perso le ultime elezioni.

Il Jamaat e Islami, è il partito islamico più forte, guidato da Matiur Rahman Nizami, 65 anni. Anche Nizami è stato in prigione, ma contava sul consenso delle masse impoverite.  Fu accusato di aver appoggiato il Pakistan durante la guerra di liberazione del 1971 e messo al bando. Nel 1991 il Bnp lo legalizzò e divenne suo alleato.
Dopo due anni di governo provvisorio militare, con queste elezioni si apre una speranza di democrazia.

Claudia Caramanti




Congo-Rwanda: guerra infinita

Chi è Laurent Nkunda, generale ribelle

I Grandi Laghi africani sono teatro di guerra da oltre 12 anni. Le ricchezze dell’Est della Repubblica Democratica del Congo attirano la cupidigia dei paesi vicini. Le connotazioni etniche diventano strumentali alla rapina delle risorse. Dopo l’ultima scintilla nel Nord Kivu forse qualcosa sta cambiando. Storia di un generale (tutsi) congolese, al servizio del Rwanda.

L’ultimo atto clamoroso della guerra infinita nella Repubblica Democratica del Congo è l’ingresso autorizzato dell’armata ruandese in Nord Kivu, regione orientale, teatro dei duri scontri degli ultimi mesi. Dopo anni di guerra e feroce inimicizia, all’improvviso i governi di Congo e Rwanda si sono accordati per condurre un’operazione militare congiunta contro le Forze democratiche per la liberazione del Rwanda (Fdlr), le milizie hutu ruandesi. Ma a sorpresa la prima «vittima» illustre del nuovo corso politico-militare è stato il generale ribelle Laurent Nkunda, che per anni ha seminato il panico nel Nord e nel Sud Kivu e che nei mesi scorsi ha tenuto in scacco Goma provocando migliaia di sfollati. Nkunda è stato arrestato in Rwanda il 22 gennaio scorso.
Da tempo si vociferava che Nkunda fosse la longa manus del presidente ruandese Paul Kagame, ma le prove inoppugnabili sono arrivate solo lo scorso dicembre, quando un gruppo di esperti nominato dalle Nazioni Unite ha pubblicato un rapporto che documenta per filo e per segno tutti i supporti ricevuti dai vari gruppi ribelli della zona, con tanto di email, fax, documenti bancari.
In più, allegata al rapporto, un’appendice i cui contenuti sono secretati «per proteggere l’integrità delle fonti» e di cui si può solo ipotizzare l’effetto esplosivo. Un terremoto. Ciò che non erano riusciti a fare i colloqui di pace e i vari tentativi delle diplomazie di mezzo mondo, lo ha ottenuto un rapporto dell’Onu. O, meglio, le sue conseguenze: Paesi Bassi e Svezia avevano subito sospeso le sovvenzioni al Rwanda e lo stesso minacciava di fare la Gran Bretagna.
Per un piccolo paese che per metà si regge sugli aiuti inteazionali, era troppo. Questa, forse, una delle spiegazioni dell’improvviso voltafaccia di Kagame nei confronti dell’(ex) pupillo Nkunda.

Arresto o mossa politica?

Subito dopo la sua cattura, circolano diverse ricostruzioni dei fatti. Già abbandonato da parte del suo esercito che si era messo con lo «scissionista» Bosco Ntaganda, Nkunda sarebbe stato preso di sorpresa e catturato in un tentativo di fuga sul territorio ruandese.
A distanza di tempo, i dubbi si addensano proprio su questo particolare: il generale ribelle è stato catturato non in Congo, ma dopo essere entrato in Rwanda. E da quel momento, non si sa bene dove sia e in che condizioni. Pare sia «agli arresti domiciliari» a Gisenyi (cittadina ruandese proprio al confine con Goma e il Congo) con l’impossibilità di comunicare con il resto del mondo. Da Kinshasa, continuano le richieste di estradizione per poterlo processare, ma la risposta è interlocutoria e sembra sempre più chiaro che non verrà dato seguito alla domanda. Il generale ribelle, inoltre, dichiara di avere nazionalità ruandese, ottenuta grazie al suo servizio nell’esercito di Kagame.
Nkunda, è bene ricordarlo, è sotto mandato d’arresto dell’alta corte militare congolese, mentre un dossier su di lui è in fase di istituzione al Tribunale penale internazionale (Tpi). 
Tuttavia, se anche ci fosse un’improvvisa accelerazione e arrivasse un mandato dall’Aja, Nkunda sarebbe al sicuro, dato che il Rwanda è tra i paesi che non riconoscono l’autorità del Tpi. È ancora difficile dire se la cattura del generale ribelle sia stata effettiva o solo un’abile mossa politica. Si vedrà. Ma i dubbi restano e sono legittimi: come immaginare che Kagame lasci processare chi conosce così tanti segreti?

Vita da ribelle

Protagonista da oltre un quindicennio di tutto ciò che accade nell’Est del Congo, Laurent Nkunda Batware nasce il 2 febbraio 1967 nel territorio di Rutshuru (a nord-est di Goma) da una facoltosa famiglia di allevatori tutsi (a volte erroneamente definiti banyamulenge: questi sono sì tutsi congolesi, ma solo quelli che vivono da generazioni nel Sud Kivu, sulle colline di Mulenge, da cui traggono il nome).
Giovane studioso, ottiene buoni risultati a scuola, ma si distingue anche per il carattere ribelle: non ha ancora 17 anni quando, al comando di un folto gruppo di collegiali, prende d’assalto un posto di polizia in cui è detenuto un loro professore.
Cresce sentendosi un cittadino di serie B, discriminato perché tutsi: questa sensazione si acutizza quando prosegue gli studi universitari a Kisangani, nella Provincia Orientale, dove la sua fisionomia (alto e magro) lo rende facile bersaglio di uno scherno che lui mal sopporta. Lascia l’università e riprende gli studi a Kigali, in Rwanda, dove di certo si sente più a suo agio.
Qui si iscrive all’università avventista di Mutende, ed essendo un fervente credente, si prepara a diventare pastore; ma i suoi insegnanti si oppongono a causa del suo carattere incontrollabile. Un altro smacco per lui. Quando il 1 ottobre 1990 Laurent Nkunda apprende del massacro di studenti e professori tutsi all’università di Mutende, lo shock lo convince a darsi alla causa della difesa dei tutsi.
Entra nel Fronte patriottico ruandese (Fpr) di Paul Kagame, poi nell’Armée Patriotique Rwandese (Apr), il braccio armato dell’Fpr. Viene mandato in Uganda per la formazione militare. Coinvolto in «operazioni speciali» si sposta spesso tra Uganda, Kivu e Rwanda. Nel 1994, durante la «liberazione» di Kigali, è sergente dell’Apr e membro del servizio informativo.
Ed è proprio dal genocidio ruandese che ha origine anche il dramma del Congo: una marea umana in fuga si riversa oltre confine, accampandosi a Goma. Tra loro, anche ex militari e i miliziani interahamwe, responsabili del genocidio e tutt’ora ricercati dal governo di Kigali. Nel giugno 1995, vengono uccisi 51 membri della famiglia di Nkunda.

La (prima) guerra del Congo

L’anno successivo Nkunda, nominato comandante, partecipa alla marcia su Kinshasa che provocherà la caduta del governo di Mobutu e la salita al potere di Laurent-Désiré Kabila. Nkunda non arriva fino a Kinshasa: la sua marcia si ferma a Kisangani, dove viene paradossalmente destinato ad occuparsi della sicurezza di un giovane ancora sconosciuto: Joseph Kabila.
Dopo la «liberazione» del Congo, tutti i combattenti confluiscono nel nuovo esercito nazionale, senza distinzione d’origine. Al loro comando, il generale James Kabarebe (ruandese), l’uomo a fianco del quale dodici anni più tardi, il 16 gennaio 2009, il «nuovo capo» dissidente del Congresso nazionale per la difesa del popolo (Cndp) Bosco Ntaganda annuncerà la fine della guerra con il governo di Kinshasa.
Ma torniamo al 1998: la luna di miele tra Kabila padre e Kagame è già finita. Scoppia la seconda guerra del Congo e comincia la caccia ai tutsi, che non risparmia neanche i militari. Nkunda si mette di sua iniziativa a capo di una brigata per liberare i compagni rimasti intrappolati a Kisangani.
Il 16 gennaio 2001, Laurent-Désiré Kabila viene ucciso e al suo posto diviene presidente Joseph Kabila. Nel frattempo, Nkunda diventa colonnello e viene messo a capo della 7a brigata delle Forze armate congolesi (Fac), parte dell’esercito congolese, ma in realtà alle dipendenze di Kigali. Nel 2002 reprime nel sangue un ammutinamento a Kisangani: è questo il primo episodio che gli attira accuse di crimini di guerra da parte delle Ong.
A fine 2002, gli accordi di Pretoria pongono ufficialmente fine alla guerra. Ma lui li snobba e rifiuta di prestare giuramento al nuovo governo. A metà 2003 crea l’associazione Synergie nationale, che ha anche un ramo armato, chiamato Anti-genocide team (squadra anti genocidio). L’anno successivo marcia su Bukavu, capoluogo del Sud Kivu, per aiutare il generale tutsi Mutebusi in rivolta contro Kabila. Bukavu è occupata e razziata per quattro giorni.

Tutti a caccia di Nkunda

Kinshasa destituisce Nkunda e lancia contro di lui un mandato d’arresto internazionale, mentre il Consiglio di sicurezza dell’Onu lo inserisce nella lista nera di chi è interdetto ai viaggi. Nel dicembre 2004 il governo congolese manda contro di lui la prima offensiva, denominata «operazione Bima», che si risolve in un cocente fallimento. Il 25 agosto 2005 Nkunda crea il Cndp, movimento strutturato, disciplinato, ardentemente seguace del leader, secondo la dottrina avventista che Nkunda stesso chiama justicisme chrétien, neologismo per indicare una sorta di giustizialismo cristiano. Nei territori a nord di Goma che il Cndp controlla, il movimento si autofinanzia con tasse imposte alla popolazione e tramite il controllo del posto di frontiera di Bunagana, esigendo imposte sulle merci in transito e di conseguenza controllando tutto il traffico (per lo più illecito) di minerali e risorse naturali.
Altre fonti di reddito sono l’appoggio finanziario inviato da chi sostiene la sua causa anche dall’estero, dai simpatizzanti in Europa, negli Usa e in Sudafrica. Tutto è documentato nel rapporto del gruppo di esperti Onu. Il resto è cronaca recente.

Futuro incerto

Tolto di mezzo Nkunda, le truppe ruandesi restano in Congo per proseguire il lavoro congiunto con le Fardc (l’esercito regolare della Rdc) per la cattura delle Fdlr, i combattenti hutu ruandesi rifugiati in Congo dopo il genocidio.
Il presidente Kabila continua a ripetere che l’operazione avrà termine presto e che i soldati di Kigali rientreranno a casa loro. Ma la popolazione non si fida. Il timore espresso da più parti è che la cattura delle Fdlr sia una scusa e che – essendo quasi impossibile catturarli tutti, specie quelli nascosti nella foresta – la missione finisca col venire prolungata ad libitum e risultare copertura della reale occupazione del Nord Kivu da parte del governo ruandese, affamato di terre e risorse. Scusa utilizzata dal governo di Kigali ormai da oltre 10 anni.
Ci si domanda, ad esempio, perché l’operazione militare sia concentrata nel Nord Kivu, quando il nucleo forte delle Fdlr si trova nel Sud Kivu. Alcuni con ottimismo (o con rassegnazione) dicono che forse questa è l’unica via per una reale pacificazione, o una normalizzazione della zona, che consenta alla popolazione almeno di vivere senza il terrore di guerre, stupri e saccheggi. Altri, meno ottimisti, temono che non sia altro che l’avvio di un’ennesima, cruenta fase della guerra infinita dei Grandi Laghi. 

Di Giusy Baioni

Giusy Baioni




A parte tutto: «grazie di esistere»

F come Forum: il Forum sociale mondiale è …

Abbiamo chiesto a quattro giornalisti, tutti stranieri, di scrivere la propria opinione sul Forum di Belém cui hanno partecipato in prima persona. Non mancano le critiche, ma tutti ne sottolineano l’utilità. E criticano l’indifferenza, la superficialità o la supponenza con cui i grandi media mondiali hanno guardato alla manifestazione.

Se la resistenza
al «pensiero unico» non è raccontata

La crisi mondiale e la resistenza dei popoli indigeni sono stati al centro dei dibattiti della nona edizione del Forum sociale mondiale (Fsm) in Belém nello stato del Parà, nell’Amazzonia brasiliana. Questa volta il Forum è avvenuto in un momento unico, dove la globalizzazione neoliberale, dominata dalla finanza libera da qualsiasi controllo pubblico, è in crisi e sta perdendo la sua egemonia. Allo stesso tempo, in Davos, il Forum economico mondiale riconosceva il fallimento e la miscredenza nei principali pilastri del sistema, dando così maggior fiducia al processo del Fsm iniziato nel 2001.
Un consenso sembrava attraversare la maggior parte delle discussioni in Belém: la crisi finanziaria globale deve essere pensata congiuntamente alle crisi energetica, climatica e alimentare. Le conseguenze del processo egemonico hanno generato una crisi di sostenibilità. È importante notare che, oltre le giornate di lotta e azioni globali, molte delle riflessioni realizzate nelle riunioni del Fsm sono trasformate in decisioni politiche. Nonostante i problemi nell’organizzazione, il bilancio finale è stato positivo. L’aspetto più importante è che, attualmente, l’Fsm continua ad essere una delle uniche proposte multisettoriali e inteazionali con un progetto alternativo emergente. In un mondo carente di iniziative, questo è un fatto straordinario. Rispetto alle prime edizioni, l’evento di Belém è stato segnato da una maggior radicalità nelle analisi e una maggior articolazione tra i movimenti. Vi è un consenso comune verso il fatto che la definizione di strategie di lotta sociale e politica, per il superamento della società del capitale, si fa più urgente. Non si tratta più di salvare il sistema, ma di risolvere i problemi dell’umanità cornordinando le forze per uscire da una grave situazione, o vi è la possibilità che non avremo futuro.
Una delle maggiori sfide ancora affrontate dal Forum è la sua comunicazione con il mondo.
Partecipare al Forum è una cosa. Ascoltare parlare del Forum da parte di altri e soprattutto dai grandi mezzi di comunicazione di massa è un’altra cosa. La contraddizione è il non riuscire a «comunicare» ciò che realmente succede nell’evento, proprio perché il Forum stesso è sorto come un’operazione di «controcomunicazione» di fronte al Forum economico. «Un altro mondo è possibile» e non solamente quello del pensiero unico di Davos. Nonostante la presenza di una grande quantità di giornalisti (4.500), l’Fsm è sempre meno «relazionato/descritto» dai grandi mezzi di comunicazione, che quando lo fanno, non raccontano ciò che dovrebbe essere raccontato, ma rimangono sull’aspetto folclorico che l’evento offre.
Per ora l’unica soluzione è valorizzare i media alternativi e la comunicazione che ogni partecipante fa nel suo circolo di appartenenza.


di Jaime Carlos Patias


Guardare oltre, guardare verso chi sta fuori

Mi guardo intorno, a Belém, e vedo una quantità straordinaria di progetti che fervono in tutto il mondo. Al Forum passano in tanti. Ci sono ideologie ormai sclerotizzate. Ci sono missionari cattolici che in Mozambico, Colombia o  Roraima fanno quello che lo Stato o il mercato o chi dovrebbe farlo non fa. Ci sono associazioni che partecipano attivamente nel definire la vita della propria città, della propria regione e perfino del proprio Paese. Ci sono città che praticano quella forma di democrazia e cittadinanza che è il «bilancio partecipativo». Ma tutto ciò non è argomento per riempire pagine di giornali. Sì, al Forum vi è anche folclore; sì, resiste anche un ideario/insieme di idee vecchio, logoro e consumato, ma ciò che mi sorprende è che questo evento, che coinvolge più di 130 mila persone, sia appena una nota di fondo nei telegiornali o una breve notizia nei giornali.
È vero anche che il Forum sociale mondiale è palco di contraddizioni. Dove si accumula immondizia, mentre si discute di un mondo più pulito. Dove ci sono automobili in eccesso, mentre si discute di un mondo più verde. E vi è la mancanza di portare le istanze del Forum fuori dai suoi territori: uscire dalla discussione per andare alla prassi politica, uscire dalla tenda per andare alla città. Oltrepassare i semplici slogan o la parola d’ordine facile è un compito più arduo di ciò che appare. Il Forum è cresciuto molto (133 mila partecipanti, più di cinque mila organizzazioni), ora è necessario crescere nel mondo. Guardare verso chi sta fuori, a lato, al margine. Capire che è necessario tradurre, negli intervalli tra i forum, la ricchezza dei sei giorni di dibattito.
Basta guardare al Forum sociale mondiale di Belém del Parà. La sua realizzazione è avvenuta in due campus universitari enormi, che obbligavano a camminare molto. Ma altro tipo di esercizio è stato mettere insieme alle università, i quartieri di Guamá e Terra Firme, che sono una immersione reale in questo Brasile di contrasti. Favelas immense e poveri al bordo delle strade avrebbero dovuto interpellare maggiormente coloro che hanno partecipato al Forum, per superare la frontiera che separava queste realtà.
«Un altro mondo è possibile», ricorda lo slogan del Forum…

di Miguel Marujo


L’Arca di Noè non è disponibile …

Davanti all’estesa superficie a specchio del fiume Guamá, si è sviluppato il nono Forum sociale mondiale. Il luogo è stato per se stesso un simbolo del proposito di un evento così singolare: «un altro mondo è possibile». La vastità delle acque, il verde e l’esuberanza delle foreste sono una novità impressionante e, allo stesso tempo, scioccante. La ricerca di un mondo senza miseria, senza sfruttamento, senza fame, senza violenza fisica, dove esista comunione, solidarietà, frateità, e rispetto dei diritti di tutte le persone senza distinzione, si scontra però con la più nera e gridante realtà della miseria, rispecchiata nelle favelas e nel commercio informale che pullula in questo paradiso terrestre.
L’Amazzonia è una enorme regione del pianeta, ricca di biodiversità dove, come qualcuno scrisse, «la vita scorre attraverso i fiumi, respira attraverso la foresta, canta attraverso gli uccelli, si dona attraverso i frutti, sogna, soffre e spera attraverso il cuore umano, parla e adora nelle diverse lingue dei popoli amazzonici». In Belém ci siamo sentiti parte del pianeta blu, più vicini gli uni agli altri. L’armonia della natura, ferita dall’uso e abuso senza regole e senza rispetto, penetra nella nostra pelle e denuncia la situazione privilegiata di pochi ottenuta al costo del sangue della maggioranza. Lo stato del Pará porta un carico di problemi drammatici – la deforestazione, l’inquinamento dei fiumi, la moltitudine dei poveri e degli sfruttati, dei Sem terra e altri -, ma la stessa sostenibilità del pianeta è pericolosamente posta a rischio. La minaccia è grande. Come ha allertato Leonardo Boff: «Oggi noi non abbiamo più l’Arca di Noè, che salva alcuni e lascia morire  quelli in eccesso. O noi salviamo tutti o moriamo tutti».
La presenza massiccia di forze di sicurezza nella città e nei locali del Forum non ha oscurato un clima caratterizzato dalla spensieratezza e da una contentezza facile e contagiosa. A Belém, si è respirata un’allegria spontanea e una comunicazione facile tra persone che rispecchiano l’incontro di razze e popoli, provenienti dai vari continenti. Si è formato un ambiente cosmopolita, in contrasto con il Forum di Nairobi, accentuatamente africano, sebbene ci fosse un’allegria e colore che nulla hanno da invidiare a Belém. Di entrambi questi eventi resta la sensazione che è necessario andare oltre la rotta del tanto agognato «altro mondo», che nel frattempo da «possibile» è passato ad essere «necessario e urgente».

di Elisio Assunção

Per la «differenza», contro l’«indifferenza»

La ragione di questo titolo deriva da una delle molte realtà che abbiamo sperimentato nel Forum sociale mondiale (Fsm) di Belém, cioè che è possibile una globalizzazione alternativa e che è possibile unire i movimenti sociali e le Organizzazioni non governative (Ong) per lottare per un mondo più giusto e solidale. È stato in questo contesto, che ho sentito e vissuto l’Fsm del 2009 come un’alternativa effettiva per affrontare le cause sociali, i problemi che preoccupano l’umanità in generale e i popoli che soffrono in particolare.
Il Forum è dunque uno spazio aperto di incontro per l’approfondimento, la riflessione, il dibattito democratico delle idee, per la formulazione di proposte, per il libero scambio di esperienze e per l’articolazione di azioni efficaci. È su queste basi che l’Fsm riunisce entità e movimenti della società civile, che si oppongano al neoliberismo e al dominio del mondo da  parte del capitale o di qualche forma di imperialismo. Ho verificato che un indefinito numero di movimenti sociali, popoli indigeni e Ong inteazionali sono impegnati nella costruzione di una società planetaria incentrata sull’essere umano. Tutti, a viva voce, hanno ricordato che non ha senso, oggi, vivere in un mondo con tanta disuguaglianza e indifferenza.
Dal Forum di Belém sono emerse, in vari pannelli di discussione, proposte che aiutano a dibattere su alternative per costruire una globalizzazione solidale. Ovvero una globalizzazione che, rispettando i diritti umani universali e l’ambiente, si appoggi su sistemi e istituzioni inteazionali democratiche al servizio della giustizia sociale, della uguaglianza e della sovranità dei popoli. Questo significa garantire a tutti gli abitanti del pianeta Terra l’applicazione dei diritti fondamentali, che cominciano con il diritto alla terra, a un tetto, alla salute, al lavoro e all’educazione. Per raggiungere questo obiettivo noi tutti dobbiamo lavorare anche per finanziare questi progetti.
Sono uscito da questo Fsm del 2009 con la speranza che ci sono elementi nuovi e ottimistici rispetto alle alternative. E perfino in termini di lotta, dato che, quello che era impensabile soltanto dieci anni fa, cioè unire in un unico spazio uomini e donne per discutere l’utopico, oggi è stato realizzato. In tutto il mondo abbiamo movimenti che, pur abbracciando il pianeta intero, hanno radici locali create attraverso le proprie lotte e propri sistemi di economia solidale. Partendo da questi soggetti locali stiamo costruendo un nuovo ordine internazionale, più flessibile, più ampio, nel quale i movimenti sociali e i movimenti di cittadini di tutto il pianeta abbiano l’opportunità di dimostrare all’Umanità che un altro mondo è possibile. Un mondo differente, ma contro l’indifferenza.

di Beardino Silva

J. Patias, M. Marujo, E. Assunçao, B. Silva




Sull’utilità delle prediche

Antonio Rovelli

A che servono i Forum sociali mondiali? Per esempio, che resta dopo le giornate di Belém? Soltanto parole, buoni propositi, sogni, come dicono i suoi detrattori? Oppure dal Forum si esce con la consapevolezza che nel mondo c’è una grande ricchezza di donne, uomini e idee da valorizzare?  

Belém. Antonio Rovelli, missionario della Consolata, fondatore della Scuola per l’alternativa, è venuto al Forum, dopo aver partecipato a quello di Nairobi, nel 2007.

Si dice che a Belém i protagonisti siano stati, in ordine casuale: la foresta amazzonica; gli abitanti delle Americhe, ovvero i popoli indigeni; i brasiliani, con i loro problemi e le loro speranze; i presidenti latinoamericani progressisti. Padre Antonio, è d’accordo con questa visione?
«Mi è piaciuta l’espressione di Americhe. Identicamente, io sono convinto che occorra parlare di Afriche. Dunque, qui a Belém abbiamo incontrato diverse Americhe, con proprie e specifiche ricchezze. Pensiamo ai popoli indigeni, ai movimenti sociali e a tutte quelle realtà. Quanto alla presenza di tutti quei presidenti (che si auto-definiscono progressisti), la scelta di venire a Belém è positiva. Ma fino a che punto scendono dal palco da cui parlano? Fino a che punto accettano di cambiare radicalmente anche le loro politiche economiche per far sì che i diritti degli indigeni e dei movimenti sociali siano rispettati? Questo secondo me è tutto da vedere. Per questo è bene che i movimenti sociali ed indigeni continuino a stare alle calcagna dei loro leaders, perché non si dimentichino delle promesse che hanno fatto loro».

Un esempio?
«Accenno soltanto al Brasile. Alla politica degli agro-combustibili che sta distruggendo la foresta e alla permanenza dei grandi latifondi a causa della mancanza di una politica agraria che tenga conto dei diritti dei Senza terra e dei popoli indigeni. Insomma, ci sono delle contraddizioni. Cioè occorre stare attenti che ciò che i presidenti scrivono con la mano, non venga cancellato con il gomito».

Evo Morales, presidente della Bolivia, ha parlato di chiesa, con evidente riferimento ai problemi avuti nel suo paese con la gerarchia cattolica. Come prete, qual è la sua opinione al riguardo?
«Prima di tutto dividerei la chiesa gerarchica, quella dei vescovi e delle conferenze episcopali, dalla chiesa delle comunità di base, di chi si fa orante della parola di Dio, ossia missionari, laici, preti, religiosi che camminano a fianco dei movimenti sociali e dei popoli indigeni. La chiesa gerarchica purtroppo sta dimenticando il cammino che è stato fatto da alcuni vescovi che si sono fatti portavoce delle istanze dei poveri (alcuni dei quali sono stati uccisi: come Oscar Romero in Salvador, Juan Girardi in Guatemala). E oggi mancano, a livello gerarchico, voci profetiche conosciute che fanno opinione.
Dunque, un’altra chiesa è auspicabile. E lo è sicuramente, per chi ascolta i poveri e per chi lavora in mezzo alla gente. D’altra parte, parlare in nome di o farsi voce di chi non ha voce, è giusto fino ad un certo punto. È bene che siano gli stessi soggetti a portare avanti le proprie istanze e lotte, facendo sentire la propria voce».

Da Nairobi a Belém. Portare il Forum in questa regione del Brasile è stata una scelta azzeccata?
«La scelta di Belém è stata strategica. Ed è strategico il luogo, l’Amazzonia, per il suo patrimonio umano, naturale e culturale. Qui troviamo un concentrato di ricchezza che il mondo può custodire o distruggere».

A Belém sono venuti i rappresentanti di centinaia di popoli indigeni. Come valuta questa presenza?
«Secondo me, è l’elemento qualificante di questo Forum».

Nel momento in cui gli indigeni vengono visti e trattati alla pari…
«Assolutamente. Non devono essere trasformati in oggetto per le nostre fotografie, da mostrare alla nostra gente quando si torna a casa. Un parallelo lo posso fare con i popoli nomadi del nord del Kenya. Quando arrivano i turisti, loro si mettono a danzare davanti alle macchine fotografiche…».

Dunque?
«È una ricchezza che deve essere compresa, valorizzata, con la quale bisogna camminare. Quello indigeno è per noi un mondo difficile da catalogare. Dobbiamo farci guidare da loro, che hanno una forza e un coraggio di lottare, che purtroppo sono venute a mancare nel nostro mondo. Ad esempio, per i popoli indigeni la terra è questione di vita o di morte. È parte integrante della loro esistenza. È come un vestito che portano addosso, è come l’aria che respirano».

La salvezza dell’Amazzonia deve passare esclusivamente attraverso i popoli che la abitano?
«Io sono stato molto colpito dalla diversità di questi popoli, dalla loro forza, persone che sono state picchiate, torturate… Il coraggio di queste persone dobbiamo condividerlo con gli altri. D’altra parte, io penso che da soli i popoli indigeni non potranno portare ad un cambiamento. Dovranno unirsi ad altri movimenti sociali, del mondo del lavoro, del mondo agricolo per diventare una forza propositiva che un giorno possa arrivare ad occupare i posti di potere. Così il mondo potrà essere diverso».

Peccato che la maggior parte dei media mondiali continui a descrivere il Forum come una manifestazione folcloristica…
«Mi ha tolto la parola di bocca. Per molti media importanti il Forum attira e incuriosisce soltanto se descritto come un fatto folcloristico».

E dunque?
«I problemi devono essere risolti a livello globale. Se il nostro mondo cosiddetto ricco non accoglie questo mondo che si sta affacciando timidamente, ma con forza, finiremo con il perdere tutti».

di Paolo Moiola

Vuoi ascoltare l’intervista?
Questo brano è parte di una lunga intervista trasmessa nell’ambito del programma radiofonico «Cartoline dall’Altra America», trasmesso da Radio Flash (www.radioflash.to) e curato da Paolo Moiola. L’intervista completa è disponibile sul sito
www.rivistamissioniconsolata.it.

Paolo Moiola




Intanto, a Davos, si elabora il lutto

M come media: c’è Forum e Forum

Negli stessi giorni di Belém, molti dei responsabili della crisi mondiale – speculatori, finanzieri, banchieri, magnati, amministratori delegati, politici ed economisti neoliberisti – si sono incontrati a Davos per parlare di economia, autornassolversi e chiedere aiuto agli stati nazionali. Nella città svizzera non si sono fatti vedere i rappresentanti degli Stati Uniti, primi responsabili del disastro. Ma come hanno raccontato i due eventi – Davos e Belém – i media italiani? Così…

Belém. Paulo Pereira Lima, giornalista e direttore di Viração (1), rivista brasiliana per i giovani, ha un atteggiamento molto didattico. I ragazzi, seduti in circolo, lo ascoltano con attenzione. Hanno tutti meno di 18 anni e provengono da quartieri disagiati di Belém. Indossano una maglietta con la scritta Curso de comunicacão popular (Corso di comunicazione popolare). «Per le giornate del Forum sono diventati giornalisti», spiega Paulo. Ogni giorno, nel tardo pomeriggio, c’è la riunione di questa redazione particolare per fare il punto sulla giornata e preparare quella seguente.
Già, i media. Ma come è stata fatta l’informazione nei giorni del Forum?
Che si dice del Forum in Italia?, chiedo al mio collega. «Poco o nulla. Ah, c’è stato un giornale gratuito, Metro, che l’altro giorno ha pubblicato in prima pagina una foto da Belém, ma poi l’articolo era costituito da poche righe, come d’altra parte consuetudine per questo tipo di media (2)». Vado in sala stampa per scrivere e mettere in rete il mio disappunto.
Così:«Belém, 29 gennaio 2009. Ieri, tutte le volte che ho fatto tappa nella sala stampa allestita nell’Università nazionale, ho cercato su internet qualche articolo che dicesse una parola o due sul Forum di Belém, contemporaneo a quello di Davos. Ebbene, sui siti on-line di Repubblica e Corriere, vale a dire i due primi quotidiani del nostro paese, non ho trovato nulla.
Sarò distratto o stanco per questo intercalare di sole e piogge torrenziali, ho pensato (invero con poca convinzione). Quello che invece i due quotidiani riportavano erano vari pezzi sul Forum economico della città svizzera. Un evento importante, ma certamente non più di quello di Belém, dove al posto di banchieri, politici e magnati ci sono indigeni, operai e studenti. Una bella compagnia di gente che pagherà la crisi prodotta dai famosi ospiti di Davos. Ma ecco la ciliegina sulla torta confezionata dai media nostrani.
Sul sito del Corriere ho letto un articolo su quella riunione, articolo firmato Danilo Taino (3). In esso si parlava di strapotere degli stati nazionali? Ma come?, mi sono chiesto tra me e me. Pensavo che la crisi fosse stata originata, sì dallo strapotere, ma del libero mercato.
Nello stesso articolo si parlava di egoismi nazionali. Egoismi nazionali? Pensavo che l’egoismo fosse quello dei capitalisti, dei finanzieri, dei banchieri, dei magnati, che hanno lucrato su tutto (compreso il nulla) per anni, infischiandosene del bene comune, della società, dell’ambiente, dello stato nazionale.
Meglio chiudere qui. L’umidità dell’Amazzonia mi gioca brutti scherzi. Sicuramente oggi leggerò qualcosa di diverso. O no?» (4).
No, la mia speranza risulta vana. Sui giornali italiani più importanti (per diffusione) non trovo nulla neppure nei giorni seguenti. In compenso, trovo altri articoli sul Forum di Davos, peraltro distrutto con intelligente ironia (ed un pizzico di sarcasmo) da Loretta Napoleoni: «Quest’anno il meeting dei superglobalizzati è stato molto più sobrio del solito, quasi fossero tutti in lutto».
«Quelli che dovrebbero spegnere il fuoco – scrive ancora l’economista italiana – non sono pompieri professionisti, ma sono gli stessi bambini che fino a poco tempo fa giocavano con i fiammiferi. Su entrambe le sponde dell’Atlantico i signori della deregulation, che ha messo in ginocchio il capitalismo moderno, presiedono le commissioni che dovrebbero affrontare la crisi» (5).

Insomma, riassumendo: i media nazionali non hanno parlato di Belém, ma hanno parlato di Davos, anche se non troppo, probabilmente perché il lutto (per il crollo dei miti: il libero mercato, l’impresa, la finanza creativa) non è stato ancora elaborato. Allora, per dare una spiegazione alle scelte giornalistiche, proviamo a pensare male (che forse ci avviciniamo alla verità).
I giornali più importanti appartengono ai grandi gruppi industriali e bancari (6). Ovvero a quei gruppi di potere che, direttamente o indirettamente, in misura maggiore o minore, sono corresponsabili della crisi e che da questa oggi vogliono uscire con l’aiuto degli stati nazionali (cioè dei cittadini-contribuenti), ma senza cambiare i paradigmi della globalizzazione neoliberista che stanno alla base del sistema e del suo fallimento. Proprio ciò che da sempre chiedono invece i Forum sociali mondiali. Come forse racconteranno i ragazzi del «Corso di comunicazione popolare», che a Belém hanno sperimentato cosa significa fare i giornalisti. Liberamente ed esibendo con orgoglio il proprio pass.

Di Paolo Moiola                                


(1) Vedi: www.revistaviracao.org.br.
(2) Quotidiano gratuito Metro, 28 gennaio 2009, pagg. 1-2.
(3) Vedi: Corriere della Sera, del 28 gennaio 2009.
4) Pubblicato sul sito: www.gennarocarotenuto.it
(5) Loretta Napoleoni, Davos, parole in libertà, settimanale Internazionale, 6 febbraio 2009; Loretta Napoleoni, Il falò del capitalismo, settimanale Internazionale, 20 febbraio 2009.
(6) Sulla proprietà dei media italiani, si legga l’ottimo dossier pubblicato sul mensile Altreconomia, febbraio 2009.

Paolo Moiola




LA FORZA DELL’ENTUSIASMO

Ignacio Ramonet

Belém, 29 gennaio 2009. Gioalista di fama mondiale, tra i fondatori del mensile internazionale Le Monde Diplomatique, amato-odiato per le sue idee progressiste, Ignacio Ramonet è stato fin dall’inizio un sostenitore del Forum social mundial. Lo avviciniamo a conclusione dell’incontro pubblico tra Evo Morales, Feando Lugo, Rafael Correa e Hugo Chávez.  

Inacio Ramonet, oggi si sono incontrati 4 presidenti latinoamericani diversi da tutti gli altri. Che significa?
«Questa è una data fondamentale nella storia del Forum. Qui comincia una nuova tappa. Fino ad oggi il Forum aveva avuto una certa reticenza verso la partecipazione dei dirigenti politici. Prima aveva partecipato solamente Chávez, però a lato della manifestazione. E Lula, nella stessa maniera. Oggi però, invitati dalle organizzazioni sociali, sono intervenuti quattro presidenti latinoamericani, che hanno risposto alle domande dei movimenti. Questo dialogo è molto importante, perché i presidenti hanno riconosciuto il debito intellettuale nei confronti del Forum. Hanno ammesso di aver appreso e di essere tornati nei loro paesi con le idee assorbite qui. Se il Forum non ha oggi l’importanza che aveva nel 2001, possiamo però dire che esso si prolunga quotidianamente in Venezuela, in Ecuador, in Bolivia, in Paraguay, in Brasile. In tutti questi paesi i movimenti sociali oggi sanno come relazionarsi con i governi che stanno trasformando le società».

In Europa, i media più importanti hanno parlato più di Davos che di Belém…
«In verità, io ho osservato che una parte della grande stampa europea (certamente non la stampa italiana, vedere articolo a lato, ndr) ha parlato più di Belém che di Davos. E ha detto due cose. In Belém esiste entusiasmo, dialogo e la convinzione che da qui possono nascere idee per affrontare la crisi. Inoltre, per la prima volta in Davos esiste un pessimismo che non era mai esistito prima. Senza contare che nella città svizzera sono andati soltanto due presidenti latinoamericani – il messicano Felipe Calderón e il colombiano Alvaro Uribe – contro i cinque che sono venuti a Belém. Comunque, a causa della crisi è normale che in Europa si parli di Davos. La differenza è che qui si stanno proponendo soluzioni, mentre nel Forum economico c’è la consapevolezza che qualcosa non ha funzionato nel proprio sistema.  
Altra osservazione: a Davos non è andato alcun rappresentante dell’aministrazione statunitense. Per la prima volta nella storia. Insomma, non è da Davos che usciranno soluzioni per questa crisi».  

di Paolo Moiola

(L’audio di questa intervista è disponibile sul sito)

Paolo Moiola




«Partendo dal piccolo, partendo da noi»

Antonio Feandes

Icoroasí (Belém). Portoghese, missionario della Consolata, Antonio Manuel de Jesus Feandes è il responsabile dell’istituto per l’America Latina. Ai Forum di Belém è riuscito a portare un folto gruppo di persone: missionari, missionarie, ma anche laici, giornalisti ed operatori televisivi.  

Padre Antonio, brevemente una sua opinione sui forum, che si sono svolti nella città amazzonica.
«Già il fatto che le persone si radunino per scambiarsi opinioni e per condividere esperienze, è una cosa molto positiva. Abbiamo bisogno di scambio. Anche le piccole esperienze sono grandi, perché fanno processo. In secondo luogo, è confortante il fatto di sapere che non siamo soli al mondo a voler costruire qualcosa di diverso, che non siamo gli unici matti che la pensano così. Il terzo punto che voglio sottolineare è che ci sono esperienze molto valide dal punto di vista ideologico, del pensiero e sociale da parte dei popoli indigeni. Nel piccolo, nella chiesa e in tutti gli ambiti si può costruire e si può cambiare».

Incontro, scambio di idee… tutto bene. Ma, dal punto di vista pratico, come piccole comunità indigene, movimenti alternativi, Ong possono intervenire per cambiare la direzione del mondo. Se questa direzione va cambiata.
«Certo, questa è una utopia. Ma sono cose in cui non dobbiamo mai smettere di credere. Considerando la mia esperienza, credo che nel piccolo è possibile cambiare. Io ho l’esperienza con il popolo indigeno e ho visto che si può cambiare, magari non dal punto di vista teologico, ma si può cambiare. Per riassumere, non si può aspettare che cambino le strutture…».

Per «piccolo» intende anche la singola persona?
«Sì, il singolo è al primo posto. Al secondo, ci sono le piccole comunità, dalla famiglia al condominio, dal sindacato agli organismi religiosi, dai partiti politici alle Ong. Tutti devono essere coinvolti, per fare una rete tra piccolo e grande negli spazi in cui una persona vive e lavora ogni giorno. Poi c’è l’ambito internazionale, importantissimo, per la costruzione di ambiti collettivi e alternativi. Questo per me è un terzo passo da fare. Però se non si fa il primo, tutti gli altri non hanno senso. La casa si comincia a costruire dalle fondamenta: la chiesa, le Ong sono il tetto visibile, ma le fondamenta cominciano dalla singola persona, cominciano da te».

Gli indios sono stati i grandi protagonisti di questo Forum svoltosi quasi in casa loro, considerando che Belém è una città amazzonica. Secondo lei, la loro presenza è stata qualificante o è mancato qualcosa?
«Io credo che manchi sempre qualcosa. Per esempio, una cosa che manca sempre agli indigeni è di vederli nella loro interezza. Noi li vediamo o dal punto di vista folclorico o nella lotta per la conquista della terra, dimenticando tutta la loro parte spirituale, la parte di organizzazione comunitaria, i loro legami. Gli indios non possono essere visti in aspetti frammentati. Anche nel forum non siamo riusciti a cogliere la loro ricchezza e complessità, evidenziando sempre singoli aspetti. Perdendo l’identità complessiva dell’indigeno, con la sua religiosità e spiritualità».

Lei ha lavorato per anni in Brasile. Come lo ha trovato?
«Ho trovato solo una parte del Brasile, Belém».

Obiezione giusta. Questo non è un paese, ma un continente. Però lei ha vissuto qui e può fare una comparazione con gli anni precedenti, quando alla guida non c’era un presidente come Lula.
«Dal punto di vista degli occhi, fa sempre bene guardare il Brasile: c’è la natura, c’è l’Amazzonia, ci sono le bellezze fisiche delle donne, c’è molto con cui appagare la vista. Ma, a parte questo giudizio estetico, a me è sembrato che il popolo brasiliano dal punto di vista politico non sia cresciuto. Il governo Lula non ha aiutato la gente. Credo che questo benessere apparente che sembra ci sia nel paese, non ha portato la gente a crescere».

La sua è una critica severa. Possiamo tradurre con «troppo assistenzialismo e patealismo»?
«Credo di sì. Penso che continua a vivere  con questo enorme problema. La coscienza politica delle comunità di base è svanita. Lo vedo in molte cose come, ad esempio, per quanto riguarda l’ecologia.
Una città come Belém doveva essere molto più pulita con tutta questa natura. In generale, c’è poca coscienza ecologica e gli stessi partiti politici hanno perso coscienza civile».

Lei è un uomo di chiesa. Come vede la sua istituzione ovvero, fuor di metafora, «un’altra chiesa è possibile»?
«Lo ha detto anche Evo Morales, no?».

Morales ha detto «possibile», ma anche «necessaria», avendo in mente la situazione della sua Bolivia, dove la chiesa ufficiale non lo ha mai appoggiato molto…
«La chiesa dovrebbe essere più vicina alla gente. Le nostre strutture di governo, oggi, non si avvicinano o non vogliono avvicinarsi ai problemi reali delle persone. Abbiamo delle belle teorie, ma nella pratica forse non ci crediamo o non abbiamo le possibilità, anche perché la struttura della chiesa è molto chiusa. Ad esempio, dovrebbero avere il loro spazio le donne, le donne indigene, il popolo della città, come quello della campagna. Questo vale non soltanto per i vertici, ma anche per la base della chiesa: non siamo abbastanza attenti alla realtà, alle sofferenze per andare in Vaticano a reclamare più attenzione per le diversità».

Guardare di più alle diversità quindi…
«Sì, quanto più la chiesa è diversa tanto più si avvicina alle persone».

In base a questa sua ultima risposta, un commento sul Forum teologico e della liberazione, che si è svolto prima del Forum sociale.
«Il Forum teologico e della liberazione è sempre uno spazio importante, perché ci apre al confronto. Però, manca sempre la teologia fatta dalle basi. Mancano le persone che fanno teologia. Manca il coinvolgimento di tutta la gente, della città e della campagna. Credo che dare spazio a queste realtà sia fondamentale. In un forum teologico c’è bisogno di ampliare gli spazi di rappresentanza».

Quindi, per riassumere: meno Boff e meno professori universitari e più gente comune?
«Boff certamente, ma anche teologie che si applicano quotidianamente tra la gente semplice, che è necessario ascoltare».

di Paolo Moiola

Paolo Moiola