Eticamente: persona, economia, finanza
Negli anni Novanta si celebrarono i grandi summit dell’Onu. Poi la lotta
al terrorismo spazza via i pochi progressi per un sistema di regole.
Ma la società civile si organizza sempre più a livello planetario. E ogni anno fa sentire la propria voce.
Pochi lo ricordano, ma gli anni Novanta sono stati segnati dai grandi vertici dell’Onu sullo sviluppo: la prima, nel 1990, fu la conferenza sull’infanzia, seguita da quella sull’ambiente a Rio nel 1992, poi a Vienna, nel 1993, il summit sui diritti umani.
A metà del decennio si sono tenuti due eventi grandiosi per portata e partecipazione: il Social Summit di Copenaghen, che si è occupato di povertà, disoccupazione ed esclusione sociale, e la Conferenza su «Donne e sviluppo» di Pechino.
Poi, in successione, si sono celebrati il vertice sulla popolazione del Cairo, la conferenza Habitat di Istanbul e il summit sulla Sicurezza alimentare di Roma.
Finito il confronto tra le due superpotenze, che aveva paralizzato il mondo per oltre quarant’anni, l’Onu ha convocato i governi di tutti i paesi per riscrivere le regole della comunità planetaria.
Gli incontri erano animati da grandi speranze, dall’idea che si potesse finalmente eliminare la miseria, assicurare i diritti fondamentali e garantire la pace, grazie alla raggiunta democrazia e alle ingenti risorse liberate dalla fine della guerra fredda e dalla graduale ricomposizione dei conflitti locali, foraggiati dalle due superpotenze.
Lo sviluppo dei popoli era l’obiettivo condiviso dalla diplomazia mondiale.
Ne sono stati affrontati e discussi tutti gli aspetti, sono state sottoscritte importanti dichiarazioni e altrettanto importanti piani di azione. I capi di stato e di governo hanno firmato impegni solenni.
Purtroppo, all’inizio del nuovo millennio, gli attentati alle Torri gemelle e il corso unilaterale americano hanno tragicamente interrotto il processo verso un sistema di regole globali e un assetto istituzionale mondiale: la guerra e la lotta al terrorismo hanno occupato completamente l’agenda politica internazionale.
I summit sono stati sospesi, i trattati bloccati, i vertici svuotati di presenza e di significato, le Nazioni Unite indebolite.
Ma la società civile non si è arresa.
Proprio durante i vertici degli anni Novanta si erano costituite le prime reti non governative globali che raccordavano le realtà sociali dei vari paesi del Nord e del Sud del mondo. Organizzazioni per lo sviluppo, i diritti umani, la tutela del patrimonio naturale, le minoranze si sono ritrovate ad affrontare gli stessi problemi e a condividere le stesse battaglie: la cancellazione del debito, la messa al bando delle mine, la difesa dell’acqua, la regolazione della finanza, il rifiuto della guerra…
Hanno dato vita ai «vertici sociali» di Seattle, Porto Alegre, Genova, Nairobi e, quest’anno, Belém; hanno promosso manifestazioni contemporaneamente in centinaia di capitali, hanno lanciato le stesse petizioni.
La società civile globale, a dispetto dei pochi mezzi, pur disconosciuta se non apertamente osteggiata dai governi, ha fatto sentire la propria voce.
Ha lanciato l’allarme sui costi sociali di una globalizzazione senza diritti, ha denunciato i rischi economici di una finanza sfrenata, ha interpellato le istituzioni inteazionali e nazionali, ha cercato di riportare nell’agenda politica il tema della povertà, dell’uguaglianza, delle pari opportunità, della protezione del patrimonio naturale.
Ha prodotto analisi e pubblicato documenti.
Il rapporto del Social Watch (www.socialwatch.org) è uno di questi. Ogni anno, dal 1996, misura i progressi o i regressi compiuti nel campo della lotta alla povertà e della parità di genere, a partire dagli impegni sottoscritti nei vertici mondiali. Il Social Watch segnala quali paesi retrocedono e quali avanzano verso gli Obiettivi del millennio, quali governi spendono bene le risorse e quali le dilapidano in armi o in progetti inutili.
Si compone di capitoli tematici sulle tendenze dell’anno, di capitoli sui singoli paesi, di grafici e tabelle. Utilizza indici innovativi come l’«Indice sulla parità di genere» o quello sulle «capacità di base».
L’originalità del Social Watch sta nel prodotto, ma anche nel fatto che ha saputo mettere in rete oltre 200 organizzazioni tra le più varie (associazioni, Ong, centri studi, sindacati) di ben 70 paesi: dall’Afghanistan alla Polonia, dall’Uruguay all’Italia.
Guardando alle analisi dai diversi paesi si rimane colpiti dalle similitudini: ovunque la società civile nutre gli stessi timori riguardo ai tagli alle spese sociali, alle speculazioni finanziarie, alla crescita del divario tra ricchi e poveri, alla privatizzazione di risorse vitali come l’acqua.
L’ultimo rapporto Social Watch pubblicato anche in italiano si intitola «Crisi globale, la risposta è ripartire dai diritti». Sembra uno slogan, ma può diventare un programma politico. Ecco perché il rapporto è stato presentato a Montecitorio lo scorso 19 febbraio alla presenza dei parlamentari di tutti i gruppi politici.
Sabina Siniscalchi