Pace sì, ma a modo nostro
Alla scoperta di … paesi, storie, persone: Mozambico (4.a puntata)
Si può essere missionario e guerrigliero? Qualcuno lo ha fatto. E oggi continua a mettersi al servizio dello sviluppo del suo paese. Nella formazione e nella politica. Incontro ravvicinato con un missionario sui generis.
Padre Filipe José Couto, missionario della Consolata, classe 1939. Dopo studi in Italia è stato un allievo modello all’università di Münster, in Germania, dove ha ottenuto il dottorato in teologia. Rientrato in Mozambico, nonostante ottime possibilità di carriera accademica in Europa, è costretto ad andare in esilio in Tanzania, dove entra in contatto con il Frelimo (Fronte di liberazione del Mozambico), in lotta per liberare il paese dal Portogallo.
Dopo l’indipendenza Couto riprende gli studi e ottiene un secondo dottorato, in scienze sociali, e poi insegna in Tanzania e a Londra, filosofia, teologia e logica matematica.
Nel 1996 è nominato rettore della neonata Università Cattolica del Mozambico, fondata da un altro padre della Consolata, Francesco Ponsi, ma di proprietà dei vescovi.
Dal 2007 è magnifico rettore dell’Università Eduardo Mondlane, l’istituzione universitaria più importante del paese. Filipe Couto conosce tutti i dirigenti del partito al governo, il Frelimo, e molti ministri erano dei giovani «tirati su» da lui durante la guerra di liberazione.
Vestito trasandato, capelli scompigliati, ha negli occhi un guizzo geniale. Eteo provocatore, sembra sempre duellare con il suo interlocutore: «Fate pure le domande, tanto Missioni Consolata è da anni che non pubblica le cose che dico io».
Padre Couto, come ha deciso di fare la lotta armata?
Penso che la gente esageri sulla mia storia. Non capita che si decida da un momento all’altro di andare a fare la lotta per la liberazione. Esistono delle circostanze in cui uno deve trovare la via per salvare la pelle. Nel mio caso, agli inizi degli anni ’70, se eri nel Nord del Mozambico, dovevi uscire e andare in esilio. Il fatto di scappare e arrivare dove c’era il nucleo del Frelimo, di aver vissuto con loro, ha portato a un certo percorso.
Quando sono uscito dal paese ero missionario della Consolata. In Tanzania ero con i rifugiati, mi sono trovato con altri confratelli, con i quali ho avuto contatti e solidarietà. Non c’è un taglio netto tra il fatto di essere missionario ed essere uno che è andato con i rifugiati e poi ha raggiunto il Frelimo, ha lavorato con esso e vi continua a lavorare in certe cose necessarie per lo sviluppo del paese. Sono state decisioni molto pragmatiche.
Perché lasciò il Mozambico?
Io non credo di aver avuto idee politiche molto chiare, ma c’era qualcosa di fondamentale. Io sono mozambicano, se c’è una proposta per un governo di persone del nostro paese, allora opto per quel governo. Ma eravamo colonia portoghese. In quel tempo, dire queste cose o insegnarle agli altri, anche solo parlarne, diventava scomodo. Arriva un momento in cui tanti con le tue stesse idee stanno scappando. Erano passati due anni dalla mia laurea in Germania. Cominciavo a fare il lavoro nelle parrocchie.
Ci racconti i primi anni nel Frelimo, lei prete in un movimento di rivoluzionari marxisti.
Quando sono entrato, era già stato ucciso Eduardo Mondlane (fondatore del movimento nel 1962, e ucciso nel ’69, ndr). C’era dentro il partito un’aria di purificazione e di determinazione della linea. Eduardo aveva fatto il Fronte radunando tutti. Era arrivato il momento di decidere come lottare per l’indipendenza e con quali obiettivi.
Primo. Era chiaro che si sarebbe dichiarata l’indipendenza solo se fossimo stati in grado di occupare, con il sistema della guerriglia, tutto il Mozambico. Secondo: che tutti potessero dire o giustificare che la guerra con le armi era una delle maniere fondamentali per arrivare alla liberazione.
Terzo. Chiunque si unisse, pur avendo studiato fuori (Germania, Italia, Usa o paesi comunisti) doveva avere un principio: il Mozambico è unico e dobbiamo risolvere i problemi del paese secondo le necessità e il contesto dello stesso.
Quando sono arrivato ho notato che c’era un certo sospetto. Il padre cattolico e il pastore protestante erano entrati in conflitto con gli altri ed erano usciti. Allora decisi ancora per la via pragmatica: mi occupai di questioni sociali, umanitarie, educazione, agricoltura. Ma mai di religione. I miei compagni della Consolata conoscevano questa scelta.
Come è cambiato l’attivismo politico dei giovani, oggi rispetto agli anni della lotta per l’indipendenza?
Durante la guerriglia non era un tempo di analisi, né di discussione, era un momento di emergenza. I capi, il comitato politico-militare, il comitato centrale, i nuclei, decidevano e si eseguiva.
I bambini che erano nelle nostre scuole, nelle zone liberate, dovevano imparare. I giovani di 18 anni dovevano lavorare nel campo, o fare il servizio militare, oppure li mandavamo a studiare (come l’attuale ministro della Difesa). Facevano le cose che dicevamo loro di fare. Era un’epoca di sintesi e decisione e non di analisi.
I giovani di adesso cominciano a entrare in un clima di discussione. Occorre lasciarli parlare, avere le proprie idee. Non è facile. Bisogna avere molta attenzione. Credo che sia una nuova epoca in cui dobbiamo educare i giovani alla libertà, alla critica e autocritica, alla solidarietà, ecc. Di queste cose parlavamo poco. Per noi era importante come organizzarci nel caso di bombardamento aereo, dove nascondere i bambini, dove scappare. È un’epoca diversa.
Gli studenti universitari di oggi sono interessati alla politica?
All’epoca la politica era semplice. Dicevamo ai giovani: state combattendo contro il colonialismo portoghese, contro lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo. Adesso invece il messaggio è piuttosto: il paese è grande, ci sono diverse opportunità, c’è molto da imparare, abbiamo bisogno di medici, ingegneri, veterinari, piloti, ecc. Poi spieghiamo loro che se imparano, le opportunità sono grandi, ma allo stesso tempo le responsabilità anche maggiori. Inoltre il mondo è aperto: se vogliono possono andare all’estero a studiare. Poi se pensano di tornare vedremo cosa si può fare.
Quello che è politica nel senso di difesa, sicurezza, è meno sentito. Il giovane non fa più attenzione, c’è un altro clima.
Qual è la qualità degli allievi delle università mozambicane?
Seguendo la mentalità europea, per avere qualità devi avere un formatore con pochi allievi. Noi invece diciamo se hai solo 10 allievi non ne trovi 2 buoni, ma se ne hai 100, forse ne trovi 3. Quindi l’università deve fare il possibile per far entrare tutti e poi selezionare chi hai dentro.
Con la quantità potrai avere una buona élite. Ma come fai a formare tanti con poche risorse? Facciamo il primo ciclo di tre anni, il secondo di due e il terzo di tre. Durante il primo vediamo i migliori e decidiamo su chi vale la pena investire. Ma valutiamo anche quelli che non sono eccellenti. Alcuni sono meno buoni ma hanno altre capacità.
La qualità è quello che la società pretende: abbiamo quella internazionale e quella nazionale, ovvero di gente che lavora qui. Dobbiamo avere le due, la qualità intellettuale che va all’estero e quella che rimane qui da noi.
Il paese ha raggiunto una pace stabile dopo quasi 30 anni di guerra civile. È un esempio a livello africano. Come è stato possibile?
Io ho un’opinione diversa dalla comunità di Sant’Egidio (uno degli attori della mediazione, ndr.). La gente pensa che il Mozambico sia un caso speciale, e che l’incontro di Roma (cfr. MC gennaio 2009), con i mediatori sia stato decisivo per la pace. Afonso Dhlacama (capo della Renamo, formazione guerrigliera contro il governo dopo l’indipendenza fino al 1992, ora partito politico, ndr.) ha firmato, così la guerra è finita. I soldati sul campo hanno obbedito.
Si dice che la comunità di Sant’Egidio, qualche vescovo, qualche missionario hanno fatto la pace.
È successo che a un dato momento, dopo la guerra coloniale e la partenza dei portoghesi, la popolazione ha visto che le cose non andavano tanto meglio. Hanno iniziato a pensare: quelli che sono a Maputo, Samora Machel (primo presidente del paese, ndr.), Filipe Couto, stanno diventando grassi mentre noi abbiamo fame. Quindi in molti hanno raggiunto l’opposizione.
Noi, d’altronde quando siamo arrivati al potere, avevamo un’idea un po’ romantica della realtà. Abbiamo visto a Maputo gente senza lavoro, ubriachi, prostitute. Noi volevamo fare una società pulita. Abbiamo preso tutta questa gente e l’abbiamo mandata nella provincia meno popolata, che per caso è dove sono nato, il Niassa. Pensavamo: stanno con la natura, facciamo dei campi e faremo l’uomo nuovo. Voleva essere un’operazione di produzione, ma è stata un fiasco. Sono andati laggiù, non avevano coperte, né da mangiare, né un posto in cui vivere. Pensavamo che avrebbero improvvisato, come avevamo fatto noi durante la guerra. La gente diceva: qui non abbiamo niente, voi siete peggiori dei portoghesi, allora andiamo con l’opposizione.
La Renamo nasce all’estero, ma nel paese dicono alla gente: vi daremo vita migliore di Samora, Chissano, Couto che sono comunisti.
Ma in quel tentativo anche loro non hanno dato molto. Hanno mangiato tutti gli animali del Gorongosa (famoso parco naturale, ndr.), facendo scomparire elefanti e bufali. A un dato momento hanno capito che non è con il fucile che si va avanti, bisogna ricomporre la situazione.
All’origine della Renamo ci sono quei portoghesi che sono rimasti nel paese e sono andati in Rhodesia, al tempo di Jan Smith o nel Sudafrica dell’apartheid. Ma da soli non avrebbero avuto grande successo se noi non avessimo sbagliato la nostra maniera di agire con le persone. Abbiamo imparato più tardi.
Il guaio nostro, della Frelimo, è che impariamo sbagliando, però poi correggere non è facile.
Credo che la pace sia arrivata perché abbiamo tutti imparato che sparando è peggio, non sparando si può fare qualcosa di più. L’esercito governativo e i guerriglieri, a un dato momento convivevano. Anche in Sudafrica, Mandela era uscito di prigione. Lo Zimbabwe era diventato indipendente. C’era una congiuntura favorevole, la cosa si doveva risolvere in modo pacifico.
Il Mozambico ha una crescita economica del Pil intorno al 7% annuo, ma le condizioni sociali restano pessime, soprattutto in ambito rurale. Come si spiega questa incoerenza?
Chi ha detto che l’economia sta crescendo? La Banca mondiale e gli altri dicono che lo Zimbabwe non cresce, il Mozambico invece sì. Perché? Se vai in Zimbabwe oggi, troverai strade migliori, nei villaggi bambini che vanno a scuola, meglio vestiti che da noi. Di notte puoi passeggiare dove vuoi. Si dice che i sindacalisti sono tutti in prigione. Perché non si dice che il re dello Swaziland mette la gente in prigione?
La questione di dire che l’economia qui cresce, dipende molto da chi lo dice.
È vero che nelle città si vive bene: belle macchine, benzina, si può comprare quello che si vuole…, ma questo è artificiale, perché il paese è diventato il bambino più bello del Fmi, della Bm. Mentre lo Zimbabwe è diventato la pecora nera.
In Zimbabwe, le università, le statali di Harare, di Bulawayo, la privata, sono le migliori dell’Africa sub equatoriale. Hanno i migliori professori e sfoano i migliori studenti. In Botswana buona parte dei docenti sono zimbabweani. Hanno 90 mila studenti e ne laureano ogni anno 11 mila.
Lo Zimbabwe ha meno Aids che qui, anche se ha avuto meno aiuto. Ha esportato carne alla Ue, da qui niente. Tutto questo con 10 anni di boicottaggio. È vero l’agricoltura è andata sotto, è andata agli zimbabweani. Solo il 40% dei campi sono sfruttati.
Secondo lei si tratta di una pace stabile?
Quando una persona impara a camminare? Quando prova, cade e poi ci riprova. Qui da noi basta che io gridi un po’ vengono con il latte: divento un bambinone che non cresce. Non credo che il mio paese sia in buone condizioni. Pace sì, se vuol dire che non spariamo.
Ma la situazione può esplodere, da una cosa da niente. Non c’è stabilità, secondo me.
Dov’è l’esercito? Non lo abbiamo. È stato smobilitato. Siamo andati da un estremo all’altro. Prima c’era un esercito guerrigliero. Se un giorno allo Swaziland venisse voglia di entrare in Maputo, può farlo, perché siamo pacifici!
Noi, a chiunque venga, diciamo sempre di sì. Non siamo i padroni di casa. Nello Zimbabwe, se vuoi fare qualcosa, non ci riesci, perché c’è un esercito. Dobbiamo andare piano a giudicare. Sono contento che non si spari, che ci sia libertà religiosa, ma sono molto preoccupato. Noi stiamo ricevendo solo, non esportiamo…
E la lotta alla corruzione?
Si dice che c’è corruzione, che la giustizia ha fatto arrestare il ministro dell’Inteo, ma ci si domanda fino a che punto faremo questa lotta veramente. Riusciremo a farcela? Stiamo dicendo che la corruzione deve essere combattuta, ma non stiamo riflettendo su come è iniziata.
Eravamo un unico partito. Ci hanno detto: dovete avere il multipartitismo, entrare nel Fmi, nella Bm, attuare il liberalismo economico. Verranno le Ong e loro vi detteranno quello che dovete fare. Noi avevamo i nostri salari, relativamente bassi. Le Ong hanno iniziato a pagare salari spropositati.
Finito il progetto, noi non siamo stati capaci di dare queste cifre.
Inoltre: quando entra 100 con le Ong, quanto rimane in Mozambico e quanto ritorna con le Ong?
La corruzione dipende da noi, in parte, ma anche dalle Ong, Bm e Fmi.
Se si confronta un ospedale dove c’è una Ong con uno statale, come efficienza è meglio il primo. Ma i soldi da dove vengono?
Il paese è pieno di esempi come questo e fino a che non riusciamo a regolamentare, non saremo i padroni di casa. Ci vorrà molto tempo.
Joaquim Chissano (presidente dal 1986 al 2005, ndr) era un buon diplomatico. Ha fatto in modo che la gente parlasse bene con il mondo esterno. Dobbiamo andare dietro le quinte e vedere la realtà. Non è quello che molto spesso si pensa.
Adesso abbiamo Armando Guebuza: non è diplomatico, non stava sempre all’estero. Fu ministro dell’Inteo, poi ha iniziato a fare affari. È pragmatico. Vedremo cosa succede.
Cosa possono fare i mozambicani per avere uno sviluppo endogeno?
C’è un movimento politico positivo che dice: recuperiamo l’autostima, iniziamo a fare un servizio militare obbligatorio organizzato. Facciamo in modo che la gioventù faccia sport nelle scuole, nei distretti. Che siano poli di sviluppo. Rimettiamo un po’ di lavoro a scuole. Si è tolto tutto, dicendo che non si possono far lavorare i bambini, ovvero non posso insegnare loro a scopare la casa, questo è il concetto nuovo di libertà che è entrato dopo il trattato di pace.
Ci stiamo ricostituendo, ma può darsi che a molta gente non piaccia.
Molti preferiscono che siamo quei bambini che chiedono alla mamma il cioccolato o le mammelle per succhiare. Sono pochi che vogliono vedere un Mozambico emancipato.
Nel giorno in cui il Mozambico comincerà a dire a voce alta le cose che vogliamo fare, come riorganizzare il ministero della Difesa e quello dello sport, allora inizieremo a essere bambini cattivi.
Il governo del Mozambico conta otto ministri donne, tra cui la premier, che diventano 13 con i viceministri. Come siete arrivati a questo?
Forse ho dei pregiudizi: io ho sette sorelle e solo due fratelli. Quindi sono più solidale con i miei cognati che con le mie sorelle, perché credo che da noi ci sia una dittatura delle donne (risata)!
Scherzi a parte è un buon risultato. Durante la guerriglia contro il Portogallo i soldati che catturavamo erano tutti uomini. Da noi, invece, le donne facevano il servizio militare e c’era un distaccamento femminile per il combattimento. Abbiamo iniziato a parlare di emancipazione della donna alla nostra maniera. Questo è il frutto.
Era perché quelle hanno preso anche il fucile. Non sto dicendo se è un bene o un male, dico che questo ha fatto in modo che si parlasse di emancipazione.
Oltre al primo ministro, già ministro delle finanze, abbiamo la ministra della funzione pubblica, che controlla tutti i ministeri. Alla difesa, non avrei paura a mettere una donna, ne abbiamo alcune che andrebbero bene.
Marco Bello