Coraggio e dignità

Tre storie esemplari di umana dignità

Una bambina con handicap, ma intelligentissima, una donna poliomielitica che mantiene i nipotini lasciati da sorelle e fratelli morti di Aids, un ex operaio della Fiat che accudisce la moglie paralitica: tre storie di vita, in cui si dimostra come gli africani sappiano gestire la propria esistenza con ammirevole coraggio e dignità.

L’abbraccio di Sofia

C onosco Sofia Mohamed tramite la mia vulcanica amica, suor Ida Luisa Costamagna. Dodici anni, ultima di cinque figli e orfana di padre, Sofia, come tanti altri, è stata vittima della polio da piccolissima e cammina trascinando il sedere e aiutandosi con le mani. Suor Ida è riuscita, tramite l’aiuto di un benefattore, a pagarle la retta alla Salvation Army di Dar es Salaam, una scuola e centro assistenza per ragazzi con malformazioni alle ossa, ma intelligenti e desiderosi di studiare.
Immersi nei colori di alberi e fiori africani in un momento, siamo avvolte da vivacissimi ragazzi in divisa intenti nelle loro attività. Osservandoli bene, noto che ognuno ha una malformazione. Sofia ci osserva da lontano, ha riconosciuto suor Ida, ma non conosce la persona che è con lei. Pole pole  (piano piano) si avvicina. Suor Ida la coccola, le chiede qualcosa, ma lei risponde a monosillabi. «È una ragazza difficile, parla poco; non ha avuto una vita semplice, ma è molto intelligente» mi dice.
Uno sguardo tagliente mi attraversa… ma è solo paura. Grandi sorrisi mi si avvicinano chiedendomi da dove vengo, come mi chiamo e iniziamo a scherzare. Mi raccontano la loro giornata, le lezioni, i giochi. Vengono da tutto il Tanzania. Suona la campana, è ora di entrare. Salutiamo Sofia, mi chino per baciarla e lei mi avvolge le braccia al collo come volesse aiutarsi a salire in braccio; la tiro su, l’abbraccio, l’accarezzo e l’accompagno in classe. Non parla. Non mi dice niente, ma mi saluta con un accenno di sorriso.

Chiedo a uno dei tanti assistenti se è possibile fare un giro della struttura. Tanti reparti, organizzati e ben tenuti si stringono l’uno accanto all’altro nell’ampia area dove i protagonisti sono i ragazzi e la natura.
Charles Rays, direttore didattico di questa scuola, mi accoglie nel suo ufficio davanti a un mappamondo che sembra aver girato per anni e anni tanto è consumato. «La nostra scuola è nata nel 1967, con il sostegno della Salvation Army inglese, che ha voluto creare in Tanzania una istituzione sul modello di quelle presenti in Gran Bretagna. Inizialmente era un centro di accoglienza per bambini con gravi problemi e malformazioni alle ossa. Nel 1970 si è deciso di costruire nello stesso spazio anche una scuola affinché i ragazzi, che intellettualmente non avevano problemi, potessero ricevere un’istruzione. Nel 1974 la scuola è passata sotto la direzione del governo, che ne ha omologato i programmi scolastici a quelli nazionali, preoccupandosi, inoltre, di foie i maestri che tuttora sono stipendiati dallo stato.
La scuola accoglie più di 200 ragazzi dai 7 ai 16 anni, provenienti da tutto il paese, senza distinzioni sociali, religiose, economiche o etniche. L’unico vincolo è che il loro handicap sia solo fisico e non mentale. Il governo contribuisce a pagare per le vacanze di gennaio e giugno, il viaggio a casa dei ragazzi e degli insegnanti. La Salvation Army, invece, provvede al cibo e vestiario, al personale che lavora nel centro e ad attività come la fisioterapia per i ragazzi».
Nel nutrito programma delle attività leggo che, tre volte alla settimana, l’Inteational School of Tanzania viene a prendere i ragazzi con appositi pulmini per offrire loro altre attività, come pittura, ricamo, nuoto, calcio, basket, pallavolo.
Il direttore mi spiega come sia organizzatissima la giornata. Io quasi mi sorprendo, pensando che sono ragazzi con handicap, mi sembra quasi una violenza. Vederli lì, in carrozzina, senza braccia o gambe, idrocefali… tutti impegnati, che con notevoli sforzi cercano di aiutarsi, di pulire: mi fa pensare. Ma immediatamente giustifico la loro cultura, l’autonomia, la responsabilità e certamente la maturità che loro sviluppano da piccolissimi, rispetto ai loro coetanei europei.
È comunissimo in Africa, veder una bimba di cinque anni che cammina con eleganza portando il fratellino di un anno avvolto in una kanga sulle spalle, con un equilibrio e una naturalezza che nemmeno io a ventisei anni dopo una serie di lezioni potrei mai avere.
«Sveglia alle 6.00, pulizia personale, nella quale ognuno aiuta chi ha più problemi, poi quella del cortile e degli spazi comuni e alle otto meno un quarto tutti in classe. Alle 8.00 arrivano i maestri e iniziano le lezioni. I più piccoli hanno lezione fino alle 12.00, i più grandi fino alle 14.00. Entrambi hanno un intervallo di mezz’ora per bere il tè e giocare. Poi alle 14.00, a tuo, si distribuiscono per il pranzo e per le attività estee» conclude Charles Rays.
Lo saluto facendogli i complimenti per l’organizzazione, la pulizia e la cura della scuola e dei ragazzi. E mi confida che hanno più di 150 richieste d’iscrizione l’anno, ma non possono prendere più di 25 ragazzi. La quota d’iscrizione è di 55 mila scellini il primo anno e 45 mila per gli anni successivi. E una volta finita la settima, che sarebbe la nostra quinta elementare, li indirizzano a due scuole secondarie.

S ono tornata in Tanzania prima di natale e uno dei tanti pensieri era Sofia. Sono andata a trovarla nella sua casa, in un villaggio alla periferia di Dar es Salaam, era nel periodo della vacanza.
Tra galline, pulcini e sabbia ho visto arrivare, trascinandosi con un’agilità pazzesca, Sofia, che mi è letteralmente saltata in braccio e non si è più staccata, accarezzandomi e cercando le mie coccole.
Seduta davanti ai suoi parenti, ci ha raccontato della scuola e attività; e che non vedeva l’ora di tornarci, perché lì a casa sua si annoiava. Avevo già rivisto Sofia prima di questa volta. Ero tornata più volte a salutarla, ma mai aveva parlato o avuto una reazione di felicità così, tanto da farmi balzare il cuore in gola. 


I sorrisi di Doto

Quando mi chiedono come sono i tanzaniani, cosa mi ha colpito tanto da scegliere di fare un «permesso di residenza» per tornare e ritornare in questo posto, il mio pensiero va subito a Doto. Doto è l’esempio della dignità, pacatezza e forza del popolo tanzano.
Un esserino di 50-60 cm; 46 anni, vittima della polio anche lei, ma bellissima. Passa le sue giornate su una stuoia sull’uscio della porta a fare le sue collanine, bracciali e rosari di perline, avvolta dai suoi tanti nipoti. La sorella gemella è morta già da tempo, lasciandole in eredità una squadra di bambini. E Doto, senza preoccuparsi della sua menomazione, ha pensato a un lavoro per mantenere la famiglia e mandare a scuola i nipoti. Ha imparato da sola, provando, sbagliando e riprovando a fare queste collanine e rosari, nonostante fosse musulmana e a ricamare all’uncinetto.
Quando suor Ida me ne ha parlato e mi ha fatto vedere quello che faceva, non riuscivo a immaginare la gravità della situazione, e la prima volta che l’ho vista, non riuscendo nemmeno a darle la mano bene, per via delle ossa menomate, non credevo che quelle dita affusolate avessero una tale forza.
Doto ha solo l’uso delle dita, ma non della mano; quindi, facendo forza con la mano contro il viso, muove le dita e infila con agilità le perline nei fili. È indescrivibile come riesce.
Ha voluto aprire un conto in banca, dove depositare il ricavato delle sue vendite, e ha investito i soldi comprando piccoli plot che affitta come duka (negozi).
Vive con la mamma anziana, i nipoti e il marito. Quando ci ha parlato del marito quasi avevamo gli occhi di fuori dalle orbite; ma lei immediatamente: «Perché non sono una donna io?». Il marito la prende, la sposta, la alza, la cura con un’attenzione estrema. E questo non può che essere amore. Quando parlano l’uno dell’altro hanno gli occhi che splendono come due adolescenti alla prima cotta.
All’inizio, venendo dalla realtà egoistica e falsa del nostro mondo che abbiamo inevitabilmente interiorizzato, non mi fidavo di lui: pensavo che volesse approfittarsi di quei pochi scellini, invece mi è bastato vederli insieme per capire che ero proprio fuori strada.
È il solito discorso: noi abbiamo tutto, ma non siamo mai contenti fino in fondo, raggiungiamo un traguardo e siamo già al prossimo perdendo di vista la vita vera. E finché non si sbatte davanti a quella che è la realtà quotidiana della vita concreta, semplice, africana, non lo si può capire.
Questo invidio anche dei missionari! Oltre alla loro fede profonda, che riesce ad aiutarli e sostenerli in tutto, vivono la giornata piena di emozioni e piccole cose che magari possono sembrare superficiali, poi diventano il senso della giornata. Un sorriso, una risata, uno sguardo, una condivisione di vita, una soda offerta da chi poi farà economia per settimane, ma te l’ha data con il cuore.
Questa è vita! Noi corriamo corriamo tra gente sempre più triste, tra sguardi truci, lamentele per i politici, per le bollette e quando si incontra un sorriso magari non si ha nemmeno il tempo di notarlo. 
In tanto tempo che conosco Doto mai l’ho vista triste o scoraggiata. L’ho vista malata, parlarmi dei tanti problemi; non hanno la luce in casa; lei è preoccupata, perché inizia a non vedere bene, ha due cataratte, il marito non ha un lavoro fisso, ma il suo sorriso non si spegne mai. È la cosa che arriva prima di tutto. Crede fermamente nel suo Allah, lo prega e lo ringrazia continuamente anche del niente che ha.
Non mi ha mai chiesto nulla. Anzi, quando le ho detto che volevo aiutarla, non ha mai pensato a se stessa, tipo una carrozzina nuova, gli occhiali da vista, ma piuttosto qualcosa che potesse essere d’aiuto per far lavorare il marito, per farlo realizzare, oppure delle stampelle per i genitori del marito, massacrati di botte da dei ladri, entrati in casa per rubare il ricavato della vendita di un campo. 

I tesori di Said
«K ulia, kulia» (a destra, destra) ci ripete Yoseph. Dopo una mezz’ora di strade sterrate: alberi, sabbia, salite, discese, buche e pantani, terminiamo il nostro rally nel bel mezzo di un panorama mozzafiato. Camminiamo per un po’ a piedi e arriviamo alla meta. Una casa ancora tutta da finire, ma lo scheletro in cemento e i mabati (lastre zincate) sul tetto sono sufficienti per viverci.
Due occhi vivaci, in un corpo esile ci accolgono con un «buon pomeriggio». È Daudi Said Ndera, sessantenne. Iniziamo a parlare e ci racconta che la moglie, più giovane di lui, è paralizzata dalla vita in giù da più di tre anni. Sono così lontani dalla strada asfaltata che anche portarla in ospedale è sempre stata un’impresa. Non possono permettersi un taxi che la porti all’ospedale.
Daudi ha una piccola shamba (campo) che li aiuta a vivere e mangiare. La moglie seduta sul pavimento sgrana una manciata di fagioli che accompagneranno l’ugali (polenta) e Daudi con il nipotino, che mi scruta attraverso le sue gambe, ci dice di conoscere l’Italia.
È meccanico specializzato e ha sempre lavorato nel settore fino a una decina di anni fa. Era un operaio della Fiat, che aveva una sua sede in Tanzania; e quando questa è stata chiusa, lui si è ritrovato disoccupato, ma con una buona liquidazione da parte dell’azienda.
Sorpresa, gli chiedo di raccontarmi meglio e torna dopo qualche minuto con un passaporto, un attestato e un biglietto aereo Alitalia, Dar es Salaam-Torino andata e ritorno. Ha conservato tutto.
Nel 1975 la Incar Tanzania Ltd, pare di proprietà della Fiat, lo ha mandato nella sua sede di Torino per un corso di istruzione e specializzazione per la produzione di autovetture. Ha dovuto quindi fare il passaporto e dal 9 giugno al 21 luglio 1975 è stato a fare il suo corso a Torino, ovviamente viaggio, vitto e alloggio pagati dall’azienda.
Sfoglio le pagine di un passaporto tenuto con la cura e l’attenzione di un tesoro, dove gli unici timbri sono quelli di andata e ritorno del suo viaggio Tanzania-Italia. Ricorda tutto. Lo stupore di una Torino illuminatissima, i tram e gli italiani così gentili. I colleghi lo hanno accolto talmente bene che lo hanno portato a visitare anche Milano e Bologna. È venuto con una decina di altri operai tanzani.
Credo dovesse essere davvero capace come meccanico. Ha lavorato per una ventina di anni con la Fiat e non ci risparmia i dettagli. Gli brillano gli occhi quando parla del direttore e del capo-reparto, cosa che mi sembra alquanto strana, abituata agli attuali stati d’animo degli operai italiani. Purtroppo una decina di anni fa, la Fiat ha dovuto chiudere i battenti, ma ha liquidato bene tutti i suoi operai. E Daudi con la liquidazione ha comperato un bel pezzo di terra e ha costruito la sua casa che, rispetto alla media, è molto grande e in cemento.
Ne deduco, quindi, che la liquidazione sia stata davvero proporzionata ai suoi anni di lavoro. Non posso che essee orgogliosa da italiana, finalmente un’azienda che, seppure lavorava in una realtà estremamente povera e difficile, non se n’è approfittata, ma ha trattato i suoi operai alla stregua di quelli italiani… e questa è davvero una cosa rara in Tanzania e nell’Africa in generale. In Italia tutti conosciamo la Fiat e, seppure attualmente ha molti problemi così come i suoi operai, si è sempre distinta per l’eleganza e la serietà nel trattare gli operai.
Ora Daudi non ha un lavoro fisso perché costretto a seguire costantemente la moglie paralizzata. Vivono lontani dal villaggio, ai nostri occhi quasi in un posto turistico, a 20 km dal mare e in una zona dove ci sono solo lotti di terreno con villette di ricchi.
Il figlio l’anno scorso gli ha riportato un bimbo, nato da una storia con una ragazza che poi se n’è andata, lasciandogli il piccolo appena nato: un altro fagottino che non vuole mai lasciare le gambe del nonno.
Daudi sta cercando di vendere la casa, per mettere da parte un po’ di soldi che gli permettano di vivere tranquilli per qualche anno e far curare la moglie. «Quando ero giovane il mio sogno era costruire una grande casa, dove vivere con mia moglie e i miei figli. Ora, preferirei vivere in una casa di fango, ma vedere mia moglie felice e attiva come una volta, ci dice».
Mi riprende con delicatezza dalle mie mani i suoi tesori che continuerà a conservare e a far vedere orgoglioso e io non posso che salutarlo con un «Arrivederci!», promettendogli di tornare a trovarlo. 

Di Romina Remigio

Romina Remigio

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