Nuovi carburanti: sono davvero bio?
I biocarburanti troveranno spazio nel nostro futuro. Ma cosa sono esattamente? Di prima e di seconda generazione. Aiutano davvero l’ambiente riducendo le emissioni? Molti paesi del Sud vi stanno investendo, dedicando centinaia di migliaia di ettari di terra coltivabile. Come si collega questo alla crisi alimentare? I nostri esperti cercano di rispondere.
Bruxelles, dicembre 2008, raggiunta l’intesa tra Consiglio, Parlamento e Commissione europei sulle energie rinnovabili, secondo la quale i 27 Stati Membri dell’UE sono obbligati ad attingere ad energie alternative nella misura del 20% del totale dei loro consumi, entro il 2020.
In particolare, entro tale data si dovrà portare al 10% la quota di biocarburanti usati per i trasporti; inoltre essi dovranno garantire un risparmio di emissioni di gas serra almeno del 35%, rispetto ai combustibili fossili.
Tra i biocarburanti, importanti saranno quelli di seconda generazione, cioè quelli ricavati da rifiuti, da residui della lavorazione del legno, da biomassa cellulosica non alimentare e da coltivazioni alternative a quelle di prodotti alimentari, come ad esempio quelle di alghe o di jatropha curcas, una pianta a semi oleaginosi non commestibili, o di panicum virgatum, una pianta erbacea a crescita rapida.
Tali biocarburanti saranno contati il doppio per il raggiungimento dell’obiettivo del 10%.
Negli Stati Uniti, nell’agosto 2005, il Congresso ha emanato una legge, secondo la quale si dovrà giungere ad una produzione annuale di etanolo di oltre 28 miliardi di litri entro il 2012 (nel 2005 essa è stata di circa 15 miliardi di litri). Il governo americano ha inoltre concesso all’etanolo uno sconto fiscale di 0,13 dollari al litro.
La Cina, dal canto suo, punta a coprire con la produzione di etanolo il 5% della domanda intea di carburanti, entro il 2010, mentre attualmente tale produzione è di un milione di tonnellate, cioè il 2% dei consumi totali.
In Brasile, dove peraltro l’etanolo è usato come combustibile già dagli anni ’20 del secolo scorso, nel 2008 la sua vendita è aumentata del 45%, rispetto all’anno precedente, superando per la prima volta la vendita della benzina, che costa circa il doppio dell’etanolo (quest’ultimo costa 0,5 euro al litro). Oltre all’etanolo, il Brasile è un grande produttore di biodiesel, tratto dalla soia e, grazie a questi due prodotti, questo paese si sta proponendo come uno dei maggiori produttori ed esportatori di biocarburanti.
Biocarburanti?
Nuovo business
Intanto sempre nuovi paesi si affacciano sul fronte dell’agrobusiness dei biocarburanti, come Colombia, Cile, Perù, Argentina, Guatemala, Uruguay in America Latina. Tant’è che il quotidiano El Mercurio de Chile il 21 febbraio 2007 parlava del Sudamerica come dell’ «Arabia dell’etanolo».
Nel Sudest asiatico invece sono sempre più estese le piantagioni di palma da olio per produrre biodiesel, soprattutto in Indonesia e Malesia, mentre la Cambogia avvia colture sperimentali di jatropha. Inoltre le banche e le corporation giapponesi hanno stabilito una solida cooperazione con l’azienda energetica brasiliana Petrobras.
Non potevano poi mancare investimenti da milioni di euro, da parte di società occidentali interessate alla produzione di biofuel nell’Africa sub-sahariana (vedi box), in particolare in Namibia, Mozambico, Zambia, Malawi, Tanzania.
Quali sono i motivi, che hanno portato a questa folle corsa ai biocarburanti? Sicuramente sono molteplici. Tra i principali c’è la necessità di ridurre l’emissione di gas serra, anidride carbonica in particolare, per contrastare l’innalzamento della temperatura terrestre e le alterazioni climatiche.
Non meno importante è la volontà da parte dei paesi sopra citati di diventare, almeno in parte, indipendenti dai paesi dell’Opec (Organizzazione dei paesi esportatori di petrolio), cioè Arabia Saudita, Algeria, Angola, Iran, Emirati Arabi Uniti, Ecuador, Indonesia, Iraq, Kuwait, Libia, Nigeria, Qatar e Venezuela.
Inoltre i biocarburanti, poiché prodotti da vegetali, vengono considerati fonti rinnovabili. Sicuramente essi vengono visti come un mezzo per rilanciare l’economia dei paesi produttori.
Del resto, il fatto che sia nato un accordo, denominato Biofrac (Biofuels Research Advisory Council) tra Adm, Cargill e Bunge (multinazionali di prodotti e servizi agroalimentari), Monsanto, Singenta, Bayer e Dupont (alimentari, farmaci e genetica), British Petroleum, Total e Shell (multinazionali petrolifere) e Peugeot, Renault, Citroen, Volkswagen e Saab (produttrici di automobili) è indicativo di quanto debba essere grande l’affare dei biocarburanti. Si tratta di uno schieramento industriale senza precedenti, per finanziare le ricerche su biotecnologia e combustibili.
A propOsito di generazioni
Ma, in particolare, cosa sono i biocarburanti? Sono anche detti biofuel, in inglese. Essi dovrebbero essere carburanti biosostenibili, poiché non emettono in atmosfera dell’anidride carbonica fossile, cioè quella contenuta nel petrolio o nel carbone, ma solo quella utilizzata dalle piante, per la loro crescita, cioè in pratica quella catturata comunque dall’atmosfera.
È necessario fare, innanzitutto, una distinzione tra biocarburanti di prima e di seconda generazione. A questi ultimi abbiamo già accennato precedentemente e va detto che, allo stato attuale, sono ancora in una fase sperimentale di produzione. Sono stati ottenuti risultati molto incoraggianti con la jatropha curcas, una pianta, che riesce a crescere in terreni aridi (quindi inutilizzabili per l’agricoltura), senza bisogno d’irrigazione (vedi box).
Questo fatto è molto importante, perché con tale pianta si potrebbero ottenere buone quantità di biocarburanti, da terreni altrimenti improduttivi. In Ghana, ad esempio, si potrebbero utilizzare i terreni di quelle, che stanno per diventare ex miniere, in quanto sono in scadenza le concessioni governative e soprattutto si stanno esaurendo molti filoni di minerali pregiati. Come conseguenza, si calcola che circa 50.000 lavoratori delle miniere si troveranno presto disoccupati. Una loro conversione in coltivatori di jatropha potrebbe rappresentare quindi una soluzione.
La stessa cosa vale per altri Paesi, come il Burkina Faso, il Mozambico, il Togo e la Costa d’Avorio, dove tale pianta è endemica.
Biocarburanti di seconda generazione sono stati ottenuti sperimentalmente dai fondi del caffè, dai ricercatori dell’Università del Nevada a Reno, i quali hanno pubblicato i risultati della loro ricerca sul Joual of Agricultural and Food Chemistry, organo della American Chemical Society’s. Secondo questo studio, dai fondi di caffè è possibile ricavare olio e, successivamente, biocombustibile a basso costo più stabile di quelli tradizionali. Inoltre i rifiuti solidi della conversione possono ancora essere lavorati, per ottenere etanolo, oppure essere utilizzati come fertilizzanti.
Per quanto riguarda i profitti, che tale processo potrebbe generare, la stima è di circa 8 milioni di dollari annui solo negli Usa.
In Germania, invece, è stato realizzato a Freiberg, in Sassonia, il primo impianto, che ricava biodiesel dal legno di scarto, mentre in Spagna i ricercatori delle Università di Jaén e di Granada sono riusciti a ricavare etanolo di buona qualità dai noccioli delle olive, che in questo paese rappresentano uno scarto di circa 4 tonnellate derivante dalla produzione annuale dell’olio di oliva.
Una ricerca effettuata nella Montana State University ha portato alla scoperta che un fungo, il gliocladium roseum, tipico della Patagonia cilena, è in grado di produrre un combustibile simile al diesel, a partire dai residui vegetali (cioè dalla cellulosa), in particolare quelli di eucryphia, albero tipico del Cile.
Buoni risultati sono stati ottenuti anche dalla coltivazione di alghe, che crescono in acque reflue o marine e, per prosperare, hanno solo bisogno di luce solare e di biossido di carbonio. Negli Usa esistono già una dozzina di impianti, che ricavano sia etanolo che olio dalle alghe, sebbene in fase ancora sperimentale. In opportune condizioni, le alghe sono capaci di raddoppiare la loro massa nel giro di poche ore, quindi, con coltivazioni di questo tipo, il raccolto sarebbe continuo. È stato stimato che mentre un ettaro di mais produce annualmente circa 2.500 litri di etanolo e uno di soia circa 560 litri di biodiesel, un ettaro di alghe potrebbe arrivare a produrre, in condizioni ottimali, fino a 45.000 litri di biocarburante all’anno (National Geographic, ottobre 2007).
Da tortilla a biodiesel
Attualmente, tuttavia, i biocarburanti più diffusi al mondo sono quelli di prima generazione, cioè quelli ricavati da prodotti agricoli altrimenti utilizzati a scopo alimentare, come i cereali (mais in particolare), gli oli di semi di soia, di girasole, di colza, l’olio di palma.
Si tratta di biocombustibili alternativi al gasolio, al gas metano, al Gpl e al carbone. Possono, inoltre, essere usati come additivi di alcuni combustibili tradizionali, cioè benzina e gasolio per autotrazione.
In particolare si tratta di biodiesel, di bioetanolo, di Etbe (etil-tertio-butil-eteree) di Mtbe (metil-tertio-butil-etere). Il biodiesel viene ricavato da olio di semi di colza, girasole, soia e dall’olio di palma mediante un processo di trasformazione detto
«transesterificazione». Si ottengono così un liquido fluido, con viscosità simile al diesel e, come sottoprodotto, la glicerina, utilizzata come materiale grezzo nell’industria chimica.
I principali vantaggi del biodiesel, rispetto al diesel tradizionale sono rappresentati da un alto numero di cetani (maggiore potere antidetonante dei biodiesel), da una maggiore capacità lubrificante, dall’assenza di emissioni di zolfo (quindi della formazione dell’inquinante anidride solforosa), dall’alta percentuale di ossigeno (quindi maggiore stabilità di combustione, minore produzione di Pm10 e di residui organici volatili o Voc). Per quanto riguarda l’anidride carbonica o CO2, secondo i produttori tedeschi di biodiesel, per ogni litro di questo carburante sono emessi 2,2 Kg di CO2, contro i 3,2 Kg del diesel da petrolio.
Il bioetanolo è attualmente il biocombustibile più usato al mondo e Stati Uniti e Brasile ne sono i maggiori produttori mondiali.
La produzione totale europea di bioetanolo si è attestata, nel 2007, a 1,77 miliardi di litri, con un aumento del 13%, rispetto all’anno precedente. Le più alte produzioni si sono avute in Francia (578 milioni), Germania (394 milioni) e Spagna (348 milioni). Il numero totale dei Paesi europei produttori di bioetanolo è salito a 13. Il consumo europeo di questo biocarburante, sempre nel 2007, è stato di circa 2,7 miliardi di litri, con l’importazione di circa 1 miliardo di litri, cioè il 37% del consumo totale annuo. Il bioetanolo è stato importato principalmente dal Brasile e utilizzato soprattutto in Svezia, Regno Unito, Olanda e in minore misura in Danimarca e Germania.
Questo combustibile viene ottenuto dallo zucchero ricavato dalle coltivazioni di mais o di altri cereali (tra cui il riso), canna da zucchero e barbabietola. Mediante lieviti, lo zucchero viene trasformato in alcol e anidride carbonica, con un processo di fermentazione, dopo di che questo prodotto intermedio viene distillato, riscaldandolo e facendolo condensare separatamente. Il riscaldamento viene ottenuto mediante gas naturale oppure elettricità (prodotta con consumo di carbone). Per quanto riguarda il bilancio energetico dell’etanolo, c’è una bella differenza tra quello prodotto a partire dal mais (come quello statunitense) e quello prodotto a partire dalla canna da zucchero (come quello brasiliano).
Dando indicativamente il valore 1 all’energia da combustibili fossili utilizzata per produrre l’etanolo (input), l’energia sviluppata dall’etanolo da mais è di 1,3 (output), mentre quella dell’etanolo da canna da zucchero è di 8. Questo perché il mais contiene amido, che deve essere successivamente trasformato in zucchero, mentre i fusti di canna sono costituiti al 20% da zucchero, che inizia a fermentare appena tagliata la pianta. La canna, inoltre produce da 5.700 a 7.600 litri di etanolo per ettaro, cioè più del doppio del mais.
Per quanto riguarda invece il confronto tra l’energia sviluppata dall’etanolo, rispetto a quella sviluppata dalla benzina, la resa del primo è solo del 67% circa di quella della seconda, poiché quest’ultima sviluppa 5.275.000 chilojoule al barile, contro i 3.545.000 dell’etanolo. Quindi per percorrere la stessa distanza occorre più etanolo, rispetto alla super senza piombo.
Nei nostri veicoli, l’etanolo può essere aggiunto alla benzina in quantità di non oltre il 5%, mentre in Brasile e negli Usa circolano già parecchie vetture con motore «Totalflex», che può essere alimentato con ogni tipo di miscela o con etanolo puro.
L’Etbe e il Mtbe sono additivi, che vengono miscelati alla benzina senza piombo in percentuale fino al 15%. Il primo viene prodotto dall’etanolo e il secondo dal metanolo (il suo uso è stato sospeso, in quanto potenzialmente cancerogeno e inquinante delle falde acquifere, a seguito delle dispersioni nella rete di distribuzione della benzina negli Usa).
Carburanti ecosostenibili?
I produttori di biocarburanti di prima generazione, per promuovere i loro prodotti, sono acerrimi sostenitori della loro ecosostenibilità. Secondo loro, infatti, l’uso dei biocombustibili comporterebbe una drastica diminuzione della emissione di gas serra. Ma è proprio così? Vediamo innanzitutto quali sono le differenze di emissioni per produzione e uso.
L’etanolo genera il 22% di gas serra in meno della benzina, se proviene dal mais, il 56%, se origina dalla canna da zucchero e il 91%, se prodotto dalla cellulosa (quest’ultimo è però un biocarburante di seconda generazione).
Il biodiesel produce il 68% di gas serra in meno del diesel tradizionale. Questi dati sono dell’Us Department of Energy, dell’Us Environmental Protection Agency, Renewable Fuels Association, Energy Future Coalition e Worldwatch Institute.
Secondo questi dati, tutto bene dunque. In realtà le cose non stanno proprio così, se si considerano anche altri fattori, che possono influenzare il totale delle emissioni. Per quanto riguarda la produzione di etanolo da mais, va considerata l’emissione di gas serra per la produzione e l’uso dell’enorme quantitativo di fertilizzanti usati nei campi. Uno studio condotto dal vincitore del premio Nobel per la chimica Paul Crutzen ha dimostrato che l’innalzamento dell’ossido nitroso N2O, causato dai fertilizzanti impiegati per le colture energetiche, annullerebbe i benefici ambientali derivanti dall’uso dei biocarburanti.
Bisogna considerare che l’ossido di diazoto (o nitroso) ha un effetto serra di circa 296 volte quello dell’anidride carbonica. Nel computo vanno aggiunti i carburanti fossili usati dalle mietitrebbie e il gas naturale usato per la distillazione.
L’etanolo da canna da zucchero presenta un altro tipo di inconveniente e cioè la pratica illegale, ma alquanto diffusa, di incendiare i campi prima del taglio delle canne. Questo viene fatto per eliminare il fogliame in eccesso, facilitare il taglio e uccidere i serpenti, che potrebbero trovarsi nelle piantagioni. Ma libera un’enorme quantità di fuliggine nell’aria, nonché metano e di protossido di azoto.
Il biodiesel invece viene ricavato da piantagioni di palma da olio o di soia, che sempre più spesso vanno a invadere tratti di foresta amazzonica, o le foreste pluviali del Sudest asiatico (palma da olio in Indonesia e Malesia). Dal punto di vista delle emissioni di CO2, questo fatto è gravissimo, perché le piantagioni non sono assolutamente in grado di fissare lo stesso quantitativo di questo gas delle foreste originarie. Inoltre le foreste pluviali del Sudest asiatico crescono nelle torbiere, cioè terreni, che sequestrano circa un terzo in più, rispetto alle piantagioni, del carbonio presente in atmosfera, unitamente alla vegetazione. Poiché anche in queste zone è diffusa la pratica di incendiare i terreni, in questo caso prima di piantare le palme, a scopo fertilizzante, il quantitativo di anidride carbonica rilasciato nell’aria è enorme. Quindi già solo per queste considerazioni, i biocarburanti di prima generazione sono tutt’altro che ecosostenibili.
Dalla pancia al serbatornio
Ci sono però altri e più gravi aspetti, che fanno bocciare l’uso di questi prodotti. Basta citare la scomparsa della biodiversità, che comportano le enormi monocolture o l’uso sempre più spregiudicato di Ogm (organismi geneticamente modificati) e di pesticidi. Ma l’aspetto più sinistro è sicuramente dato dalla competizione tra le colture energetiche e quelle alimentari. In pratica la trasformazione in biocarburanti dei prodotti agricoli sottrae cibo alle popolazioni e questo fatto ha sicuramente contribuito all’innalzamento dei prezzi dei cereali e degli altri prodotti vegetali, come la soia, nell’ultimo anno, con gravissime ripercussioni soprattutto a carico delle popolazioni più povere.
Ad esempio in Messico ci sono già state manifestazioni di piazza per l’aumento dei prezzi delle tortillas, alimento base della nazione, fatto con il mais. In Africa numerose società occidentali investono nella produzione agro-energetica soprattutto in Namibia, Mozambico, Zambia, Malawi e Tanzania (vedi box). Se consideriamo che un paese come la Tanzania è uno dei più poveri dell’Africa subsahariana e l’agricoltura incide sul 60% del suo Pil e impiega l’80% della forza lavoro, ci rendiamo conto di cosa significhi destinare i terreni alla produzione di biocarburanti, anziché di cibo.
Anche se, allo stato attuale, il totale delle terre utilizzate per i biocarburanti è solo dello 0,63%, cifra però in costante aumento. Se, da una parte, potrebbero essere creati, in questo modo, nuovi posti di lavoro, dall’altra la produzione di biofuels potrebbe mettere in pericolo l’approvvigionamento di cibo e di acqua per queste popolazioni. A proposito di acqua, la produzione dei biocarburanti può arrivare a consumare fino a 20 volte il quantitativo di acqua necessaria per produrre la stessa quantità di benzina, come dimostra uno studio del Consiglio nazionale di ricerca americano.
Italia: indietro come sempre
Come si pone l’Italia nei confronti dei biocarburanti? Considerando che l’Europa, nel 2003, si era posta l’obiettivo di sostituire nel 2005 e nel 2010 rispettivamente il 2% ed il 5,75% dei combustibili per autotrazione con biocarburanti, si può dire che l’Italia è ancora piuttosto lontana da questi obiettivi.
Nel 2005 essa aveva raggiunto una media di incorporazione di biocarburanti dello 0,46%. Poiché entro il 2020, secondo l’Unione europea, la percentuale di biocarburanti dovrà essere del 10%, l’Italia dovrà consumare oltre 4 milioni di Tep (tonnellate equivalenti petrolio) di biofuels, di cui 0,6 milioni saranno prodotti sul territorio nazionale, impiegando, con le tecnologie attuali, dai 600 agli 800 mila ettari di terreni seminativi, mentre il resto sarà necessariamente importato.
Negli ultimi dodici mesi la produzione italiana di biocarburanti, sul nostro suolo, è aumentata del 35-40%, ovviamente a scapito della produzione ad uso alimentare. Nel frattempo, negli ultimi anni, l’Italia è diventata il terzo importatore mondiale di olio di palma dal Sudest asiatico, specialmente dall’Indonesia, Malesia e Papua Nuova Guinea. Nel nostro Paese, l’olio di palma viene utilizzato per produzioni agro-alimentari e di biocarburanti nonché per l’alimentazione di centrali elettriche. Nel 2007, solo da gennaio a ottobre, l’Italia aveva importato 395.869 tonnellate di olio di palma (fonte Greenpeace).
Considerando che un ettaro di terreno ricavato dalla torbiera produce circa 3,75 tonnellate di olio di palma, ciò significa che solo nel 2007 il nostro paese ha contribuito a sfruttare più di 105.500 ettari di foresta pluviale. Calcolando che un ettaro di torbiera degradata e bruciata emette circa 100 tonnellate di CO2 all’anno, grazie alle nostre importazioni dall’Asia, sono state rilasciate in atmosfera più di 10.500 tonnellate di anidride carbonica in un anno.
Senza considerare le emissioni delle petroliere, che hanno trasportato l’olio a casa nostra e quelle delle raffinerie, che lo hanno lavorato. Nello stesso anno, la San Marco Petroli di Porto Marghera ha ottenuto il permesso di sfruttare 80.000 ettari di foresta amazzonica in Brasile, sempre per le piantagioni di palma da olio.
Per non parlare dello sfruttamento dei contadini locali, i quali ricevono un pezzo di terra, comprano i semi e si ritrovano, come unico acquirente, la stessa San Marco Petroli, che decide il prezzo del prodotto, sulla base del mercato internazionale.
Le due velocità
Come sempre, il mondo va a due velocità. Da una parte c’è il Nord del mondo, con le sue esigenze energetiche per alimentare legioni di auto sempre più voraci (è già stata corsa persino la prima «500 miglia» di Indianapolis interamente a bioetanolo), aerei low cost e non (la Boeing ha già effettuato il primo volo di un 747, alimentato a biocarburante e ha annunciato che fra tre anni i suoi vettori voleranno con i biofuels), centrali elettriche, treni superveloci e – come potevano mancare ?– aerei e navi militari (Usa e Gran Bretagna), che sono macchine di morte, ma con i biofuels diventano rispettose dell’ambiente.
Dall’altra parte c’è il Sud del mondo, sempre più sfruttato e affamato, per permettere al Nord di correre.
Certamente i biocombustibili possono rappresentare una fonte di energia rinnovabile e anche un’opportunità di sviluppo per le aree disagiate, ma non lo sono certamente quelli di prima generazione, attualmente in uso. Solo i biocarburanti di seconda generazione, ricavati da piante, che crescono in terreni aridi e che non competono per il cibo, oppure da sostanze di scarto, da cui l’importanza di differenziare i rifiuti e di non incenerirli, possono essere vantaggiosi.
Da parte nostra, visto che, per ora, è più probabile che ci ritroviamo nel serbatornio dei biocarburanti di prima generazione, che di seconda, possiamo cercare di porre un freno a questo agrobusiness, limitando al massimo l’uso dell’auto, evitando i treni superveloci e ricorrendo all’aereo solo per reale necessità.
La situazione degli stati dell’Africa subsahariana, in cui le multinazionali occidentali stanno attivamente operando, per la produzione dei biocarburanti è bene rappresentata da quanto avviene in Tanzania. In questo Paese, finora sono stati destinati alla produzione di biocarburanti circa 600.000 ettari di terreno coltivabile. Le multinazionali operanti in Tanzania provengono da Germania, Paesi Bassi, Regno Unito, Svezia, Usa, Giappone e Canada. La più importante di queste società è la tedesca Prokon, che sfrutta 200.000 ettari, con piantagioni di jatropha curcas. L’inglese Sun Biofuels, operante anche in Etiopia e in Mozambico, ha ottenuto la concessione gratuita di 9.000 ettari di terreno per 99 anni, in cambio dell’investimento di 20 milioni di dollari in infrastrutture per il paese.
Anche la svedese Sekab sfrutta 9.000 ettari di terreno, con piantagioni di canna da zucchero, per produrre etanolo e assieme alla Sun Biofuels sta cercando di arrivare a 50.000 ettari di terreno. La società Bio-Shape dei Paesi Bassi gestisce diverse migliaia di ettari per la produzione di etanolo e di biodiesel presso le città di Mabiji, Migeregere, Nainokwe, Liwiti e Kiwawa.
La destinazione dei terreni a un uso diverso da quello per la produzione di cibo ha sicuramente dei pesanti costi sociali e ambientali, che pagano le popolazioni locali. La stessa Banca Mondiale ha rilevato un rapporto di causa-effetto diretto tra la produzione di biocarburanti e l’aumento dei prezzi dei beni alimentari. Dal 2004 ad oggi i prezzi sono cresciuti complessivamente dell’83% ed, in particolare, del 181% per il grano. All’inizio del 2008, la Banca Mondiale ha pubblicato un documento dal titolo «Rising Food Prices: Policy Options and World Bank Response» (Crescita dei prezzi del cibo: opzioni politiche risposta della Banca Mondiale, ndr), che sostiene che l’aumento dei prezzi degli alimentari è dovuto per il 75% proprio al cambiamento di destinazione dei terreni coltivabili, a favore dei biocarburanti.
Intanto la African Biodiversity Network e Action Aid Ghana hanno denunciato la perdita di biodiversità, la deforestazione e lo scoppio di tumulti, derivanti dalla competizione per la terra e per l’acqua sia in Etiopia, sia in Ghana. In Etiopia, infatti, il governo ha messo a disposizione 24 milioni di ettari per la produzione dei biocarburanti (contro 12,28 milioni di ettari destinati agli alimenti), mentre in Ghana 2.600 ettari di foreste sono stati disboscati e la Bio Fuel Africa, associata alla Bio Fuel Norway (Norvegia) ha già iniziato a sfruttare 38.000 ettari. Intanto in Sudafrica, dove la De Beers, la maggiore multinazionale dei diamanti, ha ottenuto per prima la licenza dal governo a commercializzare biofuels, dopo essersi convertita a questo settore, l’obiettivo è quello di coprire, con questi carburanti, il 75% del fabbisogno nazionale, entro il 2013. La Nigeria ed il Kenya si stanno muovendo nella stessa direzione. Quasi sempre le concessioni governative, per le coltivazioni destinate ai biocarburanti, vengono date alle multinazionali senza la valutazione dell’impatto ambientale.
È una delle 170 varietà della jatropha, una pianta appartenente alla famiglia delle Euforbiacee, la stessa della manioca, e si presenta come un arbusto, che può raggiungere i 5 metri di altezza. È originaria dei Caraibi e venne importata in Asia e in Africa dai commercianti portoghesi, che la usarono come recinzione, cioè come una siepe. Dai suoi semi non commestibili si ricava un olio, che opportunamente filtrato può essere usato come biodiesel e ha una resa per ettaro quattro volte superiore, rispetto alla soia e dieci volte, rispetto al mais.
Questa pianta ha una vita media di circa 50 anni, può crescere in terreni aridi e sopravvivere a due anni di siccità. Essa inoltre riesce a fertilizzare il terreno, combattendo così la desertificazione. Una piantagione di jatropha, dopo due anni, può produrre 8.000 chili di semi per ettaro, che possono fornire 2.200 litri di olio e 5.000 chili di fertilizzante.
Roberto Topino e Rosanna Novara