Cana (2) Un fatto mille domande
Il racconto delle nozze di Cana (2)
Probabilmente qualche lettore è ansioso di sapere come va a finire il matrimonio di Cana senza sposa e con uno sposo puramente coreografico. Bisogna però rallentare la curiosità perché è necessario porre alcune premesse prima di entrare nel cuore del racconto e nella sua struttura.
Leggere un brano del vangelo non è leggere una favola che inizia e finisce senza particolari problemi. Troppo spesso abbiamo letto la Parola di Dio come raccontino, più vicino alle favole che al «mistero» dell’incontro con Dio. Questa rubrica ha lo scopo di avvicinare i lettori alla Parola di Dio in tutta la sua integrità, utilizzando gli strumenti dell’esegesi, spiegati in modo semplice e comprensibile, ma garantendo la serietà e la profondità. Un solo peccato dobbiamo temere riguardo alla bibbia: la superficialità che diventa inevitabilmente banalità.
Le nozze di Cana
come prospettiva di tutto il vangelo
Il racconto delle nozze di Cana si trova all’inizio del quarto vangelo, esattamente all’inizio del capitolo 2, e comprende i primi 11 versetti per un totale in greco di 185 parole, compresi articoli e particelle (209 parole se si considera anche il v. 12 come parte integrante del testo).
Posto all’inizio del vangelo, il racconto ha una certa importanza, perché potrebbe avere lo scopo d’introdurci in una prospettiva particolare come angolo di visuale di tutto quello che segue. In questo caso, si parlerebbe tecnicamente di «prolessi tematica», cioè di anticipazione (pro-lalèō – parlo/dico prima): le nozze di Cana sarebbero la chiave di lettura di tutto il vangelo.
Se non possediamo la chiave, non possiamo entrare e se non ci mettiamo dalla giusta prospettiva, rischiamo di vedere e leggere il resto del vangelo in modo annebbiato e confuso.
L’esegesi non è un’operazione da obitorio, che lavora su corpi morti, ma un incontro con le singole parole che sono «persone vive», che danzano di significato in significato, fino al cuore del senso ultimo che è (dovrebbe essere) il pensiero di Dio, che parla a noi attraverso le nostre parole.
L’esegesi è un cammino di domanda in domanda, spesso senza risposte, perché dietro una domanda si trova un’altra domanda. Nel cammino di fede, infatti, come in ogni percorso di ricerca, non sono importanti le risposte, ma le domande che aiutano a seguire la pista per allargare sempre più l’orizzonte in cui, nel nostro caso, si colloca la Parola di Dio.
Il racconto delle nozze di Cana è Parola di Dio per i credenti. Dio non parla mai a vuoto, ma a ogni sua «parola» corrisponde un «fatto»: Dio parla agendo e agisce parlando perché in lui parola e fatto sono la stessa cosa, fino al punto che Dio stesso diventa Lògos, cioè Discorso/Parola/Vangelo/Messaggio/Annuncio. Per questo motivo, ogni volta che si apre la bibbia, bisogna prepararsi: non ci accostiamo a un libro qualsiasi, ma entriamo nel «Santo dei Santi» del cuore di Dio.
Gli ebrei, prima di iniziare la preghiera, si preparano per almeno un’ora. Ci vuole un’ora di decantazione, un tempo congruo di ambientazione prima di cominciare a pregare. Nella preghiera i preliminari di preparazione sono più importanti dell’atto stesso della preghiera. Come nell’amore. Lo stesso criterio vale per la bibbia: non si deve mai improvvisare perché chi improvvisa o manipola la Parola di Dio a casaccio, è blasfemo.
Prepararsi a entrare nel significato profondo del racconto delle nozze di Cana, significa camminare in punta di piedi e percorrere lo spazio necessario che precede e che comprende una premessa come introduzione di metodo, di sentimento e di dati necessari per capire e vivere.
Tre contesti per un racconto
Il rispetto della Parola di Dio esige che ci lasciamo avvolgere da alcune premesse che hanno lo scopo di prepararci il terreno e l’ambiente che circonda il racconto. Ogni brano della scrittura, infatti, ogni racconto, ogni miracolo, ogni sentenza, ogni frase del vangelo (di tutti i vangeli) devono essere letti sempre all’interno di tre contesti.
Il primo contesto è quello «immediato», che esamina il brano che si legge in relazione a quanto lo precede e lo segue immediatamente. Questa operazione serve per verificare se il testo interessato è un brano a sé; se è la conclusione di qualcosa che precede oppure se è la premessa di quello che segue, o se invece è un raccordo tra ciò che precede e ciò che segue.
Il secondo contesto è quello «remoto», che riguarda l’intero libro da cui è tratto il brano interessato. A questo livello ci si chiese quale sia lo scopo del racconto nel «contesto» appunto del libro, oppure qual è l’obiettivo che l’autore si propone nel riportare quel fatto.
Nel caso in esame, ci domandiamo: il racconto delle nozze di Cana quale significato o scopo ha per l’autore considerando tutto l’insieme del quarto vangelo?
Il terzo contesto è quello che possiamo definire «globale», perché legge il fatto o il racconto in un contesto ancora più ampio che è la visione unitaria e d’insieme di tutta la scrittura. La bibbia non è una sfilza di eventi, fatti, insegnamenti messi uno accanto all’altro, quasi a casaccio, ma è la «visione d’insieme» del piano di Dio, del suo disegno di alleanza che, per noi cristiani, trova in Gesù Cristo la sua chiave di volta.
Ugo di San Vittore ci offre in modo chiaro questa prospettiva «globale»: «Tutta la divina scrittura è un libro unico, e questo libro unico è Cristo; infatti, tutta la divina scrittura parla di Cristo e in lui trova compimento» (Ugo di San Vittore, De Arca Noe, 2,8: PL 176,642; cf Ibid. 2,9: PL 176, 642-643).
A questo livello, la domanda è: nell’economia della storia della salvezza scritta nella bibbia, quale significato o quale posto occupa il racconto delle nozze di Cana? Se non ci poniamo questa domanda, sarà difficile capire che il racconto delle nozze di Cana non parla di matrimoni, ma è un midràsh della rivelazione al Sinai e della prima piaga che colpisce l’Egitto, l’acqua del Nilo trasformata in sangue (cf Es 19,1-25; 7,14-25).
La Bibbia non è un ricettario
Accanto al contesto l’altra grande domanda è capire l’ambiente dove il vangelo ha trovato forma definitiva. Il testo che abbiamo oggi del quarto vangelo (ciò vale anche per tutta la bibbia, sia Antico che Nuovo Testamento) è il testo del redattore finale, cioè il frutto dell’ultimo autore che lo ha fissato nella forma in cui noi oggi la leggiamo. Noi però sappiamo che esso è il frutto di un lungo processo di trasmissione prima orale, poi anche liturgica, quindi parzialmente scritta e infine il frutto maturo di un testo finale e conclusivo.
Uno dei lavori più impegnativi (e a volte anche più noiosi) è l’analisi critica o «critica testuale» di un testo, attraverso cui, confrontando i codici esistenti, si sceglie il testo tra tutte le varianti possibili e se ne offrono le ragioni mediante un criterio di valutazione ormai attestato nelle università e nei centri di studi biblici.
Come si vede, il vangelo non può essere letto come un ricettario di cucina, dove ognuno estrae o confeziona la ricetta che vuole e come vuole. La bibbia tutto sopporta tranne la superficialità e la banalità, che spesso si trovano abbondanti tra i credenti che abitualmente frequentano la chiesa. Essi ricevono una formazione morale quando va bene, liturgica se va un po’ meglio, ma quasi nessuno riceve a livello istituzionale una formazione biblica sistematica come caratteristica fondamentale della vita del credente. Questo compito è relegato a gruppi spontanei di appassionati che magari sulla loro strada hanno trovato la disponibilità di un biblista.
La catechesi oggi nella chiesa è in funzione della dottrina come è codificata nel Catechismo della chiesa cattolica (Ccc) che, di fatto, ha più rilevanza della bibbia che porta in seno la Parola di Dio. Poiché anche i preti non conoscono la bibbia, ma la leggono come possono, di norma la vita delle comunità ecclesiali ruota attorno all’ortodossia dei contenuti e delle formule che, una volta acquisite, danno maggiori sicurezze e tranquillità tra ciò che «si deve» credere e ciò che non si può credere.
La Parola di Dio per sua natura è interrogativa, cioè stimola al cammino, alla ricerca, allo studio e non si ferma mai sulle conclusioni, ma alimenta la fame e sete di ricerca, perché Dio non si esaurisce mai e una volta raggiunto, vuole essere cercato ancora, come insegna Sant’Agostino: «Signore mio Dio, mia unica speranza, esaudiscimi e fa’ sì che non cessi di cercarti per stanchezza, ma cerchi sempre il tuo volto con ardore. Dammi tu la forza di cercare, tu che hai fatto sì di essere trovato e mi hai dato la speranza di trovarti con una conoscenza sempre più perfetta» (Agostino, Trinità 15,28,51).
Una sola mensa per scrittura ed eucaristia
Lo stesso Ccc, citando la costituzione dogmatica del Vaticano II «Dei Verbum» (Dv), sulla Parola di Dio, espone la necessità che la scrittura sia alla portata di tutti: «È necessario che i fedeli abbiano largo accesso alla Sacra Scrittura» (Ccc 131; cf Dv 22) e ci invita espressamente «con forza» a conoscere le scritture che non sono altro che la Persona di Gesù, il Lògos incarnato: «La chiesa esorta con forza e insistenza tutti i fedeli (…) ad apprendere “la sublime scienza di Gesù Cristo” (Fil 3,8) con la frequente lettura delle divine scritture. “L’ignoranza delle scritture, infatti, è ignoranza di Cristo”» (cf Dv 25; San Girolamo, Commento di Isaia, Prologo; Ccl 73, 1 [Pl 24, 17]).
Il Concilio ecumenico Vaticano II va ancora oltre e pone sullo stesso piano la scrittura e l’eucaristia: «La chiesa ha sempre venerato le divine scritture come ha fatto per il Corpo stesso del Signore» (Dv 21); e il Ccc continua: «In ambedue le realtà tutta la vita cristiana trova il proprio nutrimento e la propria regola» (cf Ccc 141).
Ne deriva una serie di conseguenze non equivoche, di cui ne sottolineiamo due soltanto. La prima: la celebrazione dell’eucaristia assume la forma di una duplice mensa, sulla quale per primo ascoltiamo la Parola, quella stessa che diventerà Pane/Corpo. La seconda: nell’eucaristia facciamo due volte la comunione; la prima volta attraverso le orecchie, ascoltando la Parola che è il Lògos, cioè Gesù Cristo, il Signore; la seconda facciamo la comunione con la bocca, mangiando la Parola che «carne fu fatta» (Gv 1,14).
Per fare tutto questo sono necessari strumenti adeguati come la conoscenza delle lingue bibliche, l’ambiente vitale dove i testi si sono formati, sviluppati e dove infine sono stati scritti nella forma giunta fino a noi. Occorre conoscere la storia collaterale, la geografia dei luoghi e degli eventi, l’archeologia là dove può essere di aiuto.
Per quanto riguarda l’individuazione della località delle nozze, dal punto di vista dell’archeologia, per esempio, si parla di tre località bibliche col nome di «Cana». Quale delle tre è quella di cui parla il quarto vangelo? Escludiamo la località Qana, che si trova a km 12 a sud-est di Tiro, nel Libano, sulla costa del Mediterraneo e quindi fuori dei confini d’Israele; restano le altre due che si disputano la primogenitura.
I pellegrini che vanno in Terra Santa, non mancano, dopo Nazaret di fare una visita anche a Khirbet Kana (rovine di Cana), dove la tradizione francescana fa memoria delle nozze evangeliche fin dal medioevo. Già nel 570 ne parla l’anonimo Pellegrino di Piacenza, che visita il luogo e lo descrive nel suo diario. L’attuale chiesa è stata costruita dai francescani solo nel 1883 nel luogo dove sorgeva una moschea.
Con ogni probabilità, però, il luogo del racconto evangelico è Kafr Kenna (villaggio di Kenna), distante circa km 7 dalla Cana ufficiale. Le fonti letterarie oggi sono tutte propense per questo secondo sito, anche se i pellegrini continueranno a frequentare la Cana di sempre.
Chi ha scritto il «vangelo di Giovanni»?
Oltre al luogo, un altro problema gigante riguarda la questione dell’autore del quarto vangelo. Da secoli siamo abituati ad ascoltare «dal vangelo secondo Giovanni» e con questo nome s’intende «quel» Giovanni di cui si parla nello stesso vangelo e che viene identificato con il «discepolo che Gesù amava» (Gv 19,26; 20,2; 21,7.20) e che nell’ultima cena ha posto il suo capo sul petto di Gesù, in segno di familiarità e di predilezione (cf Gv 13,25).
Tutti parlano di «discepolo prediletto», testimone attendibile, perché spettatore oculare di fatti. Noi sappiamo che i vangeli non sono opere scritte a tavolino, in modo asettico, ma sono frutto di un lungo percorso comunitario, quasi mai opera di un singolo individuo. Essi, dopo lunga gestazione nell’uso liturgico e nella predicazione, hanno assunto la forma con cui sono giunti fino a noi.
È probabile che Giovanni, il discepolo della prima ora, abbia influenzato con la sua predicazione il clima entro il quale è nato e si è sviluppato il vangelo che poi la tradizione ha attribuito a lui. È quasi certo ormai che il «discepolo che Gesù amava» non sia l’apostolo Giovanni, ma un suo discepolo che è diventato una figura autorevole di primo piano nella comunità giovannea abitante a Efeso nell’Asia Minore, attuale Turchia.
A questo punto le domande inevitabili sono: chi è l’autore del quarto vangelo? Chi ha potuto lambire vertici simili a quelli descritti in questo libretto di appena dodicimila parole, di cui essenziali non più di due mila? È il problema dell’identità dell’autore dello scritto che è altrettanto «enigmatico» come il vangelo che ci propone, simile ai vangeli sinottici (Mc, Mt e Lc), ma anche completamente diverso da essi.
«Gli interrogativi che lo riguardano sono assai numerosi e alcuni di essi si possono formulare così: chi sarà all’origine della cosiddetta tradizione giovannea? In quali ambienti si è sviluppata? Quali tensioni intee ha dovuto affrontare? Ha forse subito influssi da altri settori del cristianesimo primitivo, quali san Paolo e i sinottici? Come è maturato il suo rapporto con il giudaismo, tenendo conto della cesura segnata dall’anno 70? E come si può delineare più in generale l’innegabile influenza dell’ampio contesto religioso-culturale del tempo?» (R. Penna, Il giovannismo).
Per lungo tempo il vangelo di Giovanni fu considerato così «spirituale» da non considerarlo affidabile dal punto di vista storico, o come dice lo stesso Penna: «In quanto prodotto del mondo ellenistico, lo si considerò talmente privo di valore storico e con pochi rapporti con la Palestina di Gesù di Nazaret» (R. Penna, Il giovannismo).
Il processo che vede la nascita e lo sviluppo del quarto vangelo è molto complesso e articolato e non si è ancora arrivati alla conclusione definitiva. Allo stato attuale, esistono alcune ipotesi, ragionevoli e probabili, fantasiose e inconsistenti. Con la prossima puntata, cominceremo a dipanare la questione dell’autore e della sua comunità, esaminando alcune ipotesi per scegliee una che a noi sembra la più consona.
Nella terza puntata faremo una presentazione succinta di tutto il quarto vangelo, facendone emergere l’unità e la dinamica strepitosa. Infine collocheremo il racconto delle nozze di Cana nel suo contesto prossimo e remoto per passare poi all’esegesi parola per parola, frase per frase per assaporae, con l’aiuto dello Spirito Santo, la profondità e la vertigine. (continua-2)
Paolo Farinella