Migrazione spinta, migrazione attratta

Migranti dal mondo all’Italia

Milioni di persone nel mondo lasciano ogni anno la propria patria per migrare in altri paesi in cerca di un futuro migliore. L’Italia è tra i primi paesi di immigrazione nell’Unione europea e il fenomeno è destinato a crescere, anche perché a causa della crisi demografica cresce il bisogno di manodopera straniera in tutti i settori della nostra società. Un fenomeno necessario e positivo, quindi, ma deve essere accompagnato da politiche aperte e lungimiranti, che favoriscano l’integrazione, il passaggio da immigrati a cittadini. I «nuovi italiani» non sono numeri e statistiche, ma persone con storie di vita, portatori di nuovi valori culturali, che è  necessario conoscere, per la convivenza interculturale e la pace religiosa.

O ggi i migranti nel mondo sono arrivati a quota 200 milioni, pari a quasi il 3% dei 7 miliardi di esseri umani sulla terra, con un incremento annuale di 3 milioni di persone.
Di questi 200 milioni, nonostante il crescente numero di richiedenti asilo e sfollati denunciato annualmente dalle Nazioni Unite, la parte più consistente rimane costituita da lavoratori in cerca di un futuro migliore. Lavoratori immigrati che secondo l’Inteational labour organization arrivano a rappresentare nei paesi industrializzati circa il 12% dell’intera forza lavoro.
Migranti: produttori di ricchezza
La spinta ad abbandonare il proprio paese per cercare condizioni di vita migliori è dettata dal fatto che la ricchezza mondiale è sempre più concentrata nei Paesi a sviluppo avanzato (Psa) a scapito del resto del mondo. Sulla base di una serie di elaborazioni teoriche, si calcola che nel corso del 2007 nel mondo si siano prodotti 65.200 miliardi di dollari di ricchezza, una cifra che sarebbe in grado di assicurare a ogni abitante della terra un reddito annuo pari a 9.768 dollari.
In realtà la forte sperequazione nell’accesso alle risorse tra le diverse aree del mondo fa sì che appena il 13% della popolazione mondiale residente in America settentrionale e negli stati membri dell’Unione europea detenga la metà del Prodotto interno lordo (Pil) mondiale. Mentre Africa, America Latina e Asia, che rappresentano la metà della popolazione mondiale, raggiungano appena un quarto del Pil dell’intero pianeta terra.
Per contrastare la crescente povertà nel mondo, l’Onu, nel corso del 2000, ha lanciato gli Obiettivi del millennio. Si tratta di otto obiettivi finalizzati al contrasto della povertà estrema, delle malattie, dell’inquinamento ambientale e all’impegno nell’innalzamento della qualità della vita di ogni essere umano che abita il pianeta, che tutti i 191 stati membri si sono impegnati a raggiungere per l’anno 2015.
Ma oggi, a causa del rallentamento della crescita economica globale, il raggiungimento di tali obiettivi resta incerto. E non è un caso che il 2008 sia da ricordare per il fallimento dei negoziati presso l’Organizzazione mondiale del commercio (Wto) per la liberalizzazione del commercio dei prodotti alimentari, misura che avrebbe dovuto apportare concreti benefici in termini di competitività internazionale per le economie prevalentemente agricole dei paesi in via di sviluppo (Pvs).
I pochi dati economici globali presentati bastano a far capire quali sono i principali flussi delle immigrazioni nel mondo, che vedono milioni di persone abbandonare i propri paesi del Sud del mondo verso quelli del Nord. Storie di speranza, ma anche di fatiche e sofferenze, qualche volta di disperazione. E proprio per quanto riguarda «l’immigrazione disperata», quella che spesso finisce nelle mani di trafficanti di uomini senza scrupoli, il bilancio è impressionante: nei primi 7 mesi del 2008, tra coloro che hanno cercato di raggiungere Italia e Spagna via mare, si contano 399 morti accertati nel Canale di Sicilia e 188 sulla rotta verso le isole Canarie. Dal 1988 oltre 12.566 persone, per rimanere alle morti accertate, sono annegate nel tentativo di raggiungere l’Europa.
Il caso Italia
«Molti immigrati nel nostro paese trovano impiego nell’ambito dei servizi alla persona – spiega Tiziana Caponio, del Forum internazionale ed europeo di ricerche sull’immigrazione -, soprattutto agli anziani. Perché l’Italia si presenta con una grossa domanda di servizi di cura per anziani non autosufficienti in assenza di strutture residenziali adeguate. Abbiamo un sistema di welfare debole sul lato dei servizi, che viene compensato con il trasferimento dei redditi delle famiglie a badanti straniere».
Nel nostro paese l’équipe del Dossier Caritas/Migrantes stima che a fine 2007 fossero 4 milioni i cittadini stranieri presenti, che su una popolazione totale di 59.619.290 abitanti è uguale al 6,7% del totale, ben al di sopra della media europea. L’Italia infatti si colloca oggi tra i primi paesi di immigrazione dell’Unione europea, subito dopo Germania e Spagna, con un incremento annuo di immigrati di 350 mila unità. E se continuerà questo ritmo l’Italia è avviata a superare la presenza di 10 milioni di stranieri ben prima di metà del secolo, diventando il primo paese europeo per numero di immigrati insieme alla Spagna.
Uno scenario preoccupante?
Al contrario: se si calcola che nel nostro paese il saldo tra nascite e morti è ormai negativo da anni, per l’esiguo numero di nuovi nati e l’aumento esponenziale dei decessi; che l’età media è in continuo aumento e la popolazione attiva in costante diminuzione, il futuro non è pensabile senza gli immigrati che, essendo persone più giovani d’età, diventano indispensabili per abbassare l’età media della popolazione complessiva.
«L’immigrazione in Italia comincia nel ‘74 – spiega Francesco Ciafaloni, ricercatore dell’Ires Lucia Morosini di Torino -. Ma la vera immigrazione importante parte solo 4 anni fa, quando diventa evidente l’effetto della transizione demografica del nostro paese: il passaggio da natalità alta a bassa e da mortalità bassa ad alta».
A quel punto il sistema economico nazionale, non trovando più manodopera nel paese, ha avuto bisogno di importae dall’estero. «Questo aumento di immigrati – continua Francesco Ciafaloni – non è quindi dovuto al degrado del mondo, ma al fatto che il sistema produttivo italiano richiede forza lavoro. Mentre fino a 25 anni fa si parlava di immigrazione spinta, cioè persone arrivate in fuga da guerre e carestie, oggi si può parlare di immigrazione attratta dal lavoro».
Un fenomeno che presenta delle positività per il nostro paese, ma che allo stesso tempo necessita di essere governato e accompagnato da politiche ad hoc. «Si impone la necessità di una politica positiva – scrivono gli specialisti Guerino Di Tora, Vittorio Nozza e Piergiorgio Saviola nell’introduzione al XVIII Rapporto Dossier statistico 2008 immigrazione di Caritas/Migrantes – a favore della maggioranza degli immigrati, investendo in idee e risorse. […] L’ambito delle politiche di integrazione è il banco di prova della capacità della classe dirigente di un paese chiamato ad affrontare il tema delle migrazioni. La reiterazione di provvedimenti sicuritari o emergenziali non mostra la forza nell’affrontare il tema, ma la sua debolezza nell’impostare politiche lungimiranti e illuminate capaci di costruire percorsi di cittadinanza, che siano nello stesso tempo inclusivi e anche esigenti nei confronti delle persone immigrate».
Chi sono questi immigrati
«Sono badanti, muratori, agricoltori – spiega Francesco Ciafaloni -. Ma anche operai e infermieri. Perché se le cose che si possono trasportare, in periodo di globalizzazione e con i trasporti a basso costo, si fanno dove costa poco per portarle dove costano tanto, rimangono alcune cose che bisogna necessariamente fare qui. E infatti le cose che si fanno gli immigrati sono le cose che non si possono trasportare: case, strade, buchi per terra e servizi alla persona. O le infrastrutture per le Olimpiadi di Torino 2006, che, se non ci fosse stata la comunità rumena, non si sarebbe riusciti a fare».
Ma per andare oltre alla professione, se a livello statistico non mancano i dati sui «nuovi italiani» provenienti da paesi esteri, pochi sono gli studi in profondità, la raccolta delle cosiddette «storie di vita» delle famiglie immigrate, per capire chi sono, cosa pensano e quali prospettive hanno i nuovi abitanti della penisola.
Si tratta di una realtà in espansione e soggetta a molti cambiamenti. Dove ad esempio alcune famiglie, a causa dei bassi prezzi degli immobili e dell’alta qualità della vita, decidono di lasciare la città per trasferirsi in provincia. Andando a ripopolare quel «Mondo dei vinti», per citare Nuto Revelli, quelle zone «di confine» abitate da contadini e montanari. Nuovi abitanti impiegati in servizi alla persona, nella ristorazione, nell’edilizia ecc. Intere famiglie trasferite in piccoli comuni per costruirsi una nuova vita. Una nuova identità frutto della mediazione tra la loro cultura d’origine e quella del luogo eletto a nuova dimora.
Grazie a questo fenomeno in questi luoghi si vengono a creare reti lunghe tra piccoli comuni e regioni estese, fino alla creazione di consistenti comunità straniere, provenienti da paesi dell’Africa, dal Sud America, dai paesi dell’Est Europa o da paesi orientali.
«In genere gli immigrati arrivano nei grandi centri urbani – continua Ciafaloni – per poi spostarsi lentamente verso le periferie e creare delle catene migratorie minori. Nei piccoli comuni delle zone marginali, come nei comuni montani ad esempio, si possono creare nicchie che si sostituiscono allo svuotamento. Perché se c’è una nicchia ecologica, in cui si può vivere, lavorare e magari riattarsi una casa a poco prezzo, allora gli immigrati arrivano. Cosa capita poi in provincia con i nuovi arrivi è una cosa che bisogna andare a scoprire sul posto. Perché per cercare di indovinare il futuro bisogna tenere un occhio al mondo e andare a parlare con quelli che ci stanno».
E proprio al fine di conoscere meglio queste nuove realtà artefici, insieme alle comunità originarie, della trasformazione del tessuto socio-economico delle zone di provincia italiane, insieme al collega fotografo Davide Casali, abbiamo avviato un lavoro di raccolta testimonianze nel corso del 2008. Attraverso una serie di interviste in profondità, condotte con lo strumento sociologico dell’«intervista discorsiva guidata», si è raccolta la testimonianza di oltre 12 comunità straniere numericamente rilevanti residenti in altrettante zone di provincia italiane (alcune delle quali presentate di seguito). 

Di Maurizio Dematteis

Maurizio Dematteis




Viaggio nel più grande paese dei Balcani

Paese dai mille volti

Chiuso per decenni dietro il muro    del   comunismo,  il popolo rumeno  ha conservato il suo spirito e cultura, che neppure  l’ex dittatore Ceausescu è mai riuscito a distruggere. Varietà di etnie con relativa ricchezza di tradizioni ed arte, storia millenaria intrecciata di leggende e di misteri, gente ospitale  e operosa… la Romania è questo e altro ancora, un paese tutto da esplorare,  per vincere tanti pregiudizi nostrani.

La strada che dall’aeroporto conduce in centro è bloccata dal traffico: sta per iniziare un rally automobilistico intorno al Palazzo del Popolo, l’immensa costruzione voluta dal dittatore Ceausescu e costruita radendo al suolo interi quartieri storici, già danneggiati da un terremoto. Passiamo davanti alla nuova show room della Ferrari, che pare non riesca a soddisfare le richieste dei nuovi ricchi rumeni. Le auto di lusso, anche i suv, sono numerose in città e sovente alla guida vedo giovani donne.
Ho trovato una sistemazione nel cuore antico di Bucarest, chiuso al traffico per via dei radicali restauri in corso. Tra gli edifici di fascino del quartiere vi è un caravanserraglio del ‘600, che tuttora ospita viandanti e barboni. Ha un alto tetto spiovente, ricoperto da tegole di legno, e si affaccia sul santuario di sant’Antonio abate e su una zona archeologica. Una fila ininterrotta di pellegrini, tra cui molti giovani, attendono il loro tuo per presentare grazie e voti al santo. Con il cero in mano sostano in preghiera, toccando le icone, poi accendono altri ceri nelle celle dedicate ai vivi e ai morti, come si usa nelle chiese ortodosse.
Questo è un paese dalle molte anime e dalle tradizioni forti. L’unità tra le  regioni di diversa cultura, lingua e tradizioni, fu raggiunta solo dopo la prima guerra mondiale. Durante il nostro viaggio noteremo che in ogni villaggio o città, la piazza principale è dedicata all’Unità nazionale.

Transilvania
Brasov è una bella città, ma solo nel centro storico. La periferia industriale, con i tristi palazzi in stile sovietico, deve aver umiliato questa popolazione: ovunque in Romania si nota l’amore per la casa individuale, il colore e l’artigianato artistico.
Sighisoara è altrettanto suggestiva, ma molto più piccola e raccolta. Oggi è festa patronale e in piazza si esibiscono gruppi folkloristici. Qui incontro alcuni italiani, che mi danno informazioni per proseguire il viaggio. «Ci sono 27 mila imprese italiane che operano nel paese – mi dice Stefano, arrivato in Romania 15 anni fa con la sua azienda -. Ora però i soldi si fanno con l’immobiliare, ma non più a Bucarest, dove i prezzi sono troppo alti. Conviene comprare terreni nelle vicinanze delle città, sempre con un socio rumeno, la legge lo impone. Con l’aiuto dei politici i terreni diventano edificabili, si lottizza e si rivende con forti guadagni». Tutto il paese è in fermento, si costruisce, si restaura, e i lavori stradali rallentano il traffico nelle regioni più popolate e industriali.
Da Sighisoara ci inoltriamo nelle vallate sassoni, con le curiose chiese- fortezze, costruite nei secoli in cui il paese subiva invasioni e dotate di alloggi per la popolazione. I villaggi sono belli, ma alcuni sono in pieno degrado perché, dopo la caduta del comunismo, sono stati abbandonati dagli abitanti, emigrati in Germania, e occupati dagli zingari.
Questi sono numerosi in tutto il paese: oltre due milioni. Durante il regime comunista, che negava l’esistenza delle etnie, subirono un’assimilazione forzata, costretti a vivere nelle città, in quartieri loro riservati. Mentre i Rom sono tenacemente nomadi e li si vede viaggiare su carri foiti di tutto per vivere, in condizioni molto misere, i Lantar e i Gabor oramai sono stanziali, continuano la tradizione del canto in occasione di feste e della lavorazione del ferro. Molti si sono integrati ed esercitano varie professioni e alcuni si possono permettere abitazioni esagerate, lussuose.

BAIA MARE
Finalmente a Baia Mare, dopo aver attraversato in auto il paese fino all’estremo nord ovest. Questa è una città in lento rinnovamento, dopo anni di degrado ambientale dovuto alle industrie pesanti e miniere. Gli edifici antichi sono in via di restauro e rivelano un passato storico e artistico, umiliato nei lunghi anni del comunismo.
«Sono felice di incontrarvi»: Mariana, impiegata nella birreria in piazza dell’Unità, si avvicina sentendoci parlare italiano e, visibilmente commossa, ci offre una buona chorba e un bel piatto di patate. «Ho lavorato per cinque anni a Milano e mi trovavo bene, ma la bambina era rimasta a casa con mio marito. Quando sono tornata, lui aveva un’altra donna».
Mariana ha le lacrime agli occhi, ammette di essere in difficoltà perché è sola, ma vuole dare alla figlia una buona educazione. «Vivo in periferia, perché il centro è caro; mando la bambina a scuola privata – ci confida – ma la paga è molto bassa, la vita durissima».
In queste regioni del nord, che hanno conosciuto un forte esodo verso l’Europa, non avremo problemi a farci capire. I giovani conoscono l’italiano perché molti di essi sono stati in Italia per lavoro; passano le vacanze estive a lavorare, aiutando la famiglia nei campi e nella costruzione o restauro delle case, molto belle, decorate a vivaci colori.

Maramures
Anche qui, nel cuore d’ Europa, si può fare un viaggio nel tempo. La regione di Maramures mi ha dato l’emozione di vivere per qualche giorno in un paesaggio fiabesco, dove gli abitanti sono immersi in una dimensione agreste di sapore medievale: trasporto su carri trainati da cavalli, lavoro nei campi fatto a mano con attrezzi di legno, villaggi raccolti intorno a splendide chiese di legno dai campanili alti e sottili, tra pruni, viti e alberi carichi di frutta. L’interno è decorato da pitture o ricami appesi alle pareti; all’esterno sono le tombe con croci di latta dipinta.
La devozione di questa gente è profonda. La domenica mattina donne e uomini sono in raccoglimento in piedi o in ginocchio, durante lunghissime cerimonie. Alla fine, gli uomini passano al bar, con il loro curioso cappellino di paglia; le donne invece, il fazzoletto in testa, ampie camicie bianche inamidate con le maniche a sbuffo, spesse calze di lana, si siedono a chiacchierare sotto il portico di legno scuro, finemente intagliato. Pare che Ceausescu abbia subito il fascino del luogo e incoraggiato gli abitanti del Maramures a difendere le proprie tradizioni, contrariamente alla sua politica di assimilazione forzata delle diverse culture nel paese.
Le terre di questa regione del nord, isolate e protette da una serie di monti, un tempo facevano parte dell’ impero austro-ungarico. Ne parliamo con Giulio, il proprietario dell’edificio in cui alloggiamo nell’antica cittadina di Sighetu Marmatiei, detta Sighet, ai confini con l’Ucraina.
Con problemi di vista e deambulazione a causa di un grave incidente, Giulio ha una gran voglia di raccontarci la sua storia e lo fa in un buon italiano. I suoi genitori furono deportati in Polonia dai nazisti; ma anche durante il regime comunista la vita non era facile per gli ebrei.
«Avevamo case comode, oro e giornielli, ma venivamo vessati continuamente da funzionari del regime comunista, che volevano le nostre cose e ci requisivano le stanze per sistemare chi non aveva un’abitazione. Così un giorno decisi di raggiungere i miei parenti italiani. Prima mi recai in Svizzera, presso amici, poi presi una funivia e scesi dal versante italiano con gli sci. Da Venezia, dove tuttora vivono i parenti di mio padre, andai a Roma, ma avevo bisogno di un passaporto».
Giulio pare orgoglioso della sua vita avventurosa, che lo ha portato in giro per l’Europa, attraverso l’esperienza della legione straniera, aiutato da un medico ebreo. «Sono poi riuscito ad avere due passaporti» spiega; e quando gli chiedo di quale paese, mi dà una risposta vaga: «Oggi ne ho diversi, sono cittadino d’Europa».
Con la caduta del comunismo è ritornato a Sighetu Marmatiei per prendere possesso delle proprietà di famiglia, case e terreni confiscati dal regime. «Avete mai visto un ebreo lavorare?» mi chiede con ironia. Poi mi consiglia di visitare l’unica sinagoga rimasta aperta a Sighet, la cui popolazione, prima della seconda guerra mondiale, era composta per il 40% da ebrei.
Marcus è il capo della comunità israelitica. Busso alla porta del suo ufficio accanto alla vecchia sinagoga e lo trovo al lavoro. Non è ora di visita, ma l’accoglienza che ricevo è calorosa. Delle otto antiche sinagoghe di questa cittadina sul confine con l’Ucraina, ne sono rimaste solo 2 e questa è l’unica aperta. La visita, come sempre in questi luoghi, è commovente. Qui viveva una grossa comunità e qui nacque Eli Wiesel, premio Nobel, che fu deportato ma riuscì a salvarsi e raccontò dello sterminio nei campi di concentramento. Fu il primo a parlare di olocausto: 400 mila furono gli ebrei rumeni che persero la vita nei campi di concentramento; una cifra spaventosa.

MONTAGNE
Da Sighet a Borsa, una stazione turistica montana, con impianti per lo sci, ma che d’estate offre un aspetto desolato. Rallentati dai lavori in corso lungo la strada che permette di superare la catena di monti, raggiungiamo la Bucovina, regione affascinante per le tradizioni e l’arte delle chiese e monasteri ortodossi.  
In un villaggio vicino a Suceava, a pochi minuti di strada da alcuni dei più bei monasteri dipinti della regione, siamo accolti con calore da Ana e Joan nella loro casa, ingrandita negli anni mentre cresceva la famiglia: hanno infatti 11 figli, sei dei quali vivono e lavorano a Torino: Maria e Lidia sono le tate dei miei nipotini, poi c’è Dina, Ana, Nicolai e Petru. A casa sono rimasti i più piccoli, che frequentano ancora le scuole: Aspasia, Adriana, Viorica, Lenutsa e Stefan.
Mamma Ana ha preparato per noi le polpette di agnello, formaggio fresco, fatto con il latte della mucca, peperoni e succo di lampone. Siamo invitati a fermarci per la notte, ci sono tanti posti letto, le stanze sono luminose, oate da vasi di fiori: quando ci lasciamo Ana mi abbraccia e mi stringe forte. Non ha parole, ma sento da parte sua affetto e apprensione, per quelle sue figlie lontane.

DELTA
Dal nord alla regione del Delta, nel sud della Romania, attraverso la regione della Moldavia, facciamo sosta a Iasi, città famosa per le sue università. In pieno centro noto la chiesa cattolica, modea e di forma circolare; vi incontro il parroco, che mi mostra lo splendido mosaico che oa le pareti intee della chiesa e mi parla della sua attività, legata alla stampa cattolica in lingua rumena.
Il proseguo del viaggio offre un paesaggio monotono, con rari villaggi e campagna inaridita dalla siccità, finché raggiungiamo il Danubio e lo attraversiamo in traghetto per raggiungere il porto fluviale di Tulcea, la capitale del Delta. 
Quando al mattino ci presentiamo all’imbarco, il traghetto per Sulina, cittadina al confine estremo del delta, sul Mar Nero, è già partito. Non mi resta che chiedere un passaggio. Mi informo presso la capitaneria di porto e trovo un gruppo di preti ortodossi diretti proprio a Sulina, per celebrare la solennità di sant’Alessandro. Sono fortunata: Astarion, vescovo ortodosso di Tulcea, accetta di averci a bordo con lui.
Il comandante vede in questo gesto l’occasione per guadagnare soldi in nero, mi chiede una cospicua mancia, di nascosto dal prelato.
Il gruppo è formato da sei giovani parroci, che non parlano altra lingua che il rumeno, mentre il vescovo dopo le preghiere si intrattiene con noi, parlando del suo paese e dei rapporti con l’Italia e la chiesa cattolica. «Sono stato diverse volte in Italia, il vescovo di Cremona è mio caro amico». Poi chiarisce: «Sono un vescovo sinceramente ecumenico!».

LIPOVENI
Joan è un uomo aitante, bello nella sua divisa blu di marinaio della capitaneria di porto. Ci offre la sua barca, per fare un giro nei canali, ovviamente a pagamento. La guiderà il figlio, che si chiama come lui. Studente in odontorniatria nella lontana città di Arad, dove vivono i parenti della mamma, Joan jr vuole guadagnare qualcosa durante la stagione estiva. Ci porta in giro nei canali più remoti, ricoperti di ninfee fiorite e bordati da canneti. Ci spingiamo verso la costa del mare, dove vivono numerose colonie di pellicani. Lo spettacolo del volo di grandi stormi è ancora più bello verso il tramonto, quando ritorniamo a Sulina. 
La mattina seguente lasciamo il canale principale per raggiungere in lancia il cuore del delta, dove pare sia rimasta un’antica foresta di querce e arbusti. Sbarchiamo nei pressi di un villaggio e restiamo in vana attesa di un mezzo per spostarci lungo le polverose piste del delta, finché decido di incamminarmi a piedi tra le case di pescatori, che scopro essere Lipoveni, cioè, gli ortodossi fedeli agli antichi riti, perseguitati sin dal tempo dello zar Pietro il grande. Li avevo incontrati l’anno scorso in Alaska, dove sono noti come old believers (vecchi credenti) e ora li ritrovo qui, regione altrettanto remota.
È domenica. Le donne vestono come le contadine rumene, il fazzoletto sul capo; gli uomini hanno calzoni a sbuffo e tunica allacciata da un cordone, come i personaggi dell’opera Kovancina; i carri sono fermi per il riposo dei cavalli, la strada è lunga. Ma ecco un vecchio fuori strada, guidato da Claudio che, tutto allegro, ci fa salire sull’automezzo.
Dell’antica foresta rimane qualche vecchia quercia, corrosa e circondata da una boscaglia fatta di arbusti, interessanti perché endemici del delta. Infatti, un gruppetto di visitatori ci ha appena preceduto, guidato da un professore che ci dà conto delle varie specie botaniche e delle piante medicinali che ricoprono le alte dune di sabbia lungo le coste del Mar Nero. Oggi si tenta di proteggere parte della regione del Delta, pesantemente sfruttata in epoca comunista e ancora con problemi di inquinamento.

È stato un viaggio che mi ha emozionata e incantata. Un paese che mi incuriosiva, la Romania, per quello che si sente dai media, molto negativo, e per le esperienze, sempre positive, che ho avuto con i rumeni conosciuti a Torino. Qui trovo conferma della mia idea: sono in maggioranza persone educate, fiere e laboriose.
Purtroppo il viaggio termina con una brutta esperienza. Al momento di consegnare la vettura a nolo, in condizioni perfette, non mi viene restituita la cauzione. Chiedo di parlare col titolare dell’agenzia e scopro che è un italiano, calabrese. Allora mi  indigno, gli dico che mi vergogno per lui, che racconterò, scriverò di questo connazionale trasferito in Romania per insegnare i trucchi malavitosi a questa gente. E allora l’uomo cede e mi restituisce il denaro. 

Di Claudia Caramanti

Claudia Caramanti




Il cielo sulla terra

Inculturazione della liturgia in Asia

Padre Giorgio e suor Lucia hanno partecipato al «Convegno per la promozione della liturgia in Asia», tenuto in Sri Lanka, nel settembre 2008: è stata per loro un’esperienza arricchente; ma hanno pure portato il contributo di chiesa giovane e dinamica.

Parlare di cielo in Mongolia è qualcosa di più che un semplice discorrere del tempo. L’immensità del cielo che sovrasta gli spazi vuoti delle pianure dell’Asia centrale è un’allusione istintiva a ciò che ci trascende, agli spiriti, direbbe uno sciamano, a Dio, diciamo noi. Per noi della Mongolia ha assunto perciò un significato particolare partecipare al convegno organizzato dalla Congregazione per il culto divino e la disciplina dei sacramenti, intitolato: «Liturgia come un affacciarsi del Cielo sulla terra».
L’espressione è di Benedetto xvi, quando nell’esortazione apostolica post-sinodale Sacramentum Caritatis al n. 35 parla di «bellezza e liturgia», specificando che non si tratta di «mero estetismo», ma di una «modalità con cui la verità dell’amore di Dio in Cristo ci raggiunge, ci affascina e ci rapisce, facendoci uscire da noi stessi e attraendoci così verso la nostra vera vocazione: l’amore» (35).
La liturgia come partecipazione al mistero della rivelazione dell’amore di Dio e motore del dinamismo dell’evangelizzazione fa parte del nostro Dna di missionari della Consolata e siamo contenti di poter servire una chiesa nascente, come quella mongola, anche in questo campo.
In qualità di cornordinatore (padre Giorgio) e membro attivo (suor Lucia) della Commissione liturgica della Prefettura apostolica di Ulaanbaatar, siamo stati infatti inviati dal vescovo e iniziatore della missione a rappresentare la Mongolia al convegno che si è recentemente svolto in Sri Lanka. L’iniziativa portava il sottotitolo di «Convegno per la promozione della sacra liturgia in Asia» ed è stato un bellissimo momento di formazione e conoscenza reciproca, per delegati di 20 paesi asiatici, che si sono dati appuntamento alla periferia di Colombo nei giorni dal 16 al 21 settembre scorso per riflettere, insieme ai vertici della Congregazione per il culto divino, sulla situazione attuale della liturgia nel panorama asiatico.
L’idea di un convegno asiatico sulla liturgia s’inserisce in un generale orientamento della Congregazione per il culto divino e la disciplina dei sacramenti di animare a livello continentale le chiese locali su temi liturgici. Il primo di questi incontri si era tenuto in Ghana nel 2006, cui era seguita una consultazione dei vescovi asiatici sull’opportunità di un simile incontro nel contesto orientale; la positiva reazione alla proposta per l’Asia aveva convinto gli organizzatori a passare alla fase conclusiva con la settimana di Colombo.
La scelta dello Sri Lanka come paese ospitante si è rivelata vincente, non solo per la perfetta organizzazione e il grande spirito di accoglienza della popolazione, ma anche per un significato simbolico: qui infatti si compone in miniatura quel mosaico di culture e religioni che caratterizza tutta l’Asia e qui la chiesa è chiamata a testimoniare l’amore e la riconciliazione, in un contesto di grande sofferenza, per il protrarsi delle tensioni etniche tra tamil e cingalesi.
I lavori prevedevano sempre un momento formativo al mattino, con due relazioni accademiche da parte di esperti; quindi i lavori di gruppo, sulla base di domande e approfondimenti legati al tema affrontato. Ad accompagnare questo ritmo di riflessione e confronto le relazioni delle commissioni liturgiche nazionali, il tutto in un clima di preghiera, alimentato dalla liturgia delle ore, celebrata insieme e incentrato sull’eucaristia, presieduta a tuo dai numerosi vescovi e arcivescovi che hanno testimoniato il cammino delle rispettive chiese locali.
I temi analizzati vanno dall’inculturazione alla formazione liturgica, con ampio spazio a questioni come le traduzioni, il ruolo delle commissioni diocesane e nazionali e la collaborazione con la Congregazione.

Per noi della Mongolia è stato molto arricchente ascoltare gli esperti e partecipare alle discussioni nei gruppi, avendo accanto personaggi del calibro del cardinale Zen di Hong Kong, o provenienti da situazioni limite come padre Son Un della Cambogia, che ha raccontato la sua odissea di rifugiato ai tempi dei khmer rossi.
A noi che stiamo lavorando alla compilazione dei libri liturgici per la Mongolia, è stato soprattutto utile conoscere da vicino la dinamica che intercorre tra chiesa locale e Congregazione per il culto divino, nei suoi aspetti ecclesiologici e anche in quelli più pratici.
Preparare un testo per la liturgia è un lavoro di équipe molto esigente: innanzitutto la traduzione dalla editio typica (che è in latino) nella lingua corrente, con conseguente problema di competenza linguistica; poi la discussione della traduzione in sede locale e successivamente l’invio della bozza con le dovute spiegazioni e possibili adattamenti alla Congregazione, che prende in esame il testo (la cosiddetta recognitio) e lo restituisce con le eventuali precisazioni o correzioni per la pubblicazione finale.
Ad alcuni questo processo sembra un po’ forzato; ci si chiede: esistono davvero le condizioni reali per una valutazione competente di testi in tante lingue diverse? Durante il convegno è stato ampiamente mostrato che, oltre all’effettiva disposizione presso la Congregazione di esperti di alto livello, il significato di questa recognitio è piuttosto ecclesiologico: la liturgia celebrata anche nel più remoto villaggio esprime la fede della chiesa universale, e dunque è giusto che il relativo libro liturgico venga emanato dall’autorità suprema; in tal modo, pregando con quel testo la comunità locale saprà di essere in comunione piena con tutta la chiesa, che si identifica con quelle parole e quei gesti per vivere il mistero di Cristo.
La nostra presentazione della realtà mongola ha molto colpito i presenti, per l’originalità del contesto e la vivacità della fede vissuta. In una realtà così nuova è fondamentale partire col piede giusto, creando le condizioni necessarie per il lavoro sulle traduzioni dei testi liturgici. Un esempio molto apprezzato sono i lezionari che siamo riusciti a preparare in questi anni e il dizionario inglese-mongolo sulla terminologia cristiana, preparato dal missionario francese padre Pierre Palussiere.
Rappresentanti di chiese ormai fondate e stabili come quella dell’India hanno confessato di non avere ancora preparato un simile strumento di base, mentre noi che viviamo agli inizi della chiesa in Mongolia siamo già riusciti ad averlo!
Il card. Arinze, prefetto della Congregazione, al termine del rapporto, ci ha avvicinati per complimentarsi e augurare che la comunità credente da 5cento passi a 5mila e fino a 5milioni, persino più di quanti siano tutti gli abitanti della Mongolia!

Il convegno ha offerto la possibilità di riflettere sulla distintiva individualità della liturgia della chiesa, sedimentata in due millenni di storia, nel suo incontrarsi con le culture via via interessate nel processo di evangelizzazione; culture che godono di una natura organica che va conosciuta e rispettata e che non sopporterebbero facili appropriazioni indebite. Arte e musica sacra, così come gesti e posture sono l’espressione più evidente della fede incarnata e si sviluppano armoniosamente solo in un contesto di collaborazione reciproca tra pastori e fedeli, con l’aiuto di esperti e leaders, ma sempre in attento ascolto del sensus fidei del popolo di Dio.
L’Asia a questo riguardo conosce già molti successi che innalzano il cuore dei fedeli e li fanno sentire più partecipi dei misteri celebrati in sintonia con la propria sensibilità culturale; ma esistono anche esperienze meno felici che, pur nascendo spesso da genuino desiderio di inculturazione, finiscono talvolta col confondere, se non ferire la fede dei credenti.
I risultati di questo profondo scambio, ascolto reciproco e preghiera vissuti al Convegno sono condensati nel cosiddetto «Colombo statement», ossia la «Dichiarazione di Colombo», dove si legge tra l’altro un auspicio «che i valori asiatici di contemplazione, misticismo e silenzio possano trovare più forte espressione nella liturgia cristiana» (n. 6).  Il documento ricorda inoltre che «il senso del sacro sta al cuore dei valori culturali, ai quali tutti i popoli asiatici sono molto attaccati. Ci si aspetta che un’aura di santità circondi ogni elemento legato al culto» (n. 2).
Noi della Mongolia vorremmo che questo si verifichi a ogni eucaristia, così da sperimentare quella attrazione esercitata dalla liturgia, come confessano le persone che incontriamo e che spesso poi seguono l’ispirazione di continuare il cammino intraprendendo il catecumenato.
Proprio come avviene nella nostra cappella di Arvaiheer, dove ogni domenica celebriamo con persone per le quali tutto ciò che è cristiano è assolutamente nuovo; nella speranza che attraverso i divini misteri si aprano i cuori, perché si realizzi anche nel «Paese dell’eterno cielo blu» il miracolo del «Cielo che si affaccia sulla terra». 

Di Giorgio Marengo e Lucia Bartolomasi

Giorgio Marengo e Lucia Bartolomasi




DENTRO LE MURA

16 febbraio – festa del beato Giuseppe Allamano

L’impegno sociale di Giuseppe Allamano nella Torino del suo tempo rivela un impegno missionario a 360 gradi, fatto di curiosità, conoscenza della realtà, passione per l’umanità, tanta fede e un aspetto meno conosciuto del fondatore dei missionari e missionarie della Consolata.

Il beato Giuseppe Allamano trascorse quasi tutta la sua vita a Torino, spostandosi dai suoi abituali paraggi soltanto in poche circostanze. Eppure, ciò che lo caratterizza, tra i santi piemontesi dell’800 e ‘900, è soprattutto l’apertura alla missione della chiesa presso altri popoli, concretizzatasi attraverso la fondazione degli Istituti dei Missionari (1901) e delle Missionarie (1910) della Consolata. Una missione iniziata in Africa, dove l’Allamano intendeva continuare l’attività del grande vescovo missionario piemontese e frate cappuccino Guglielmo Massaia, e successivamente estesa anche all’America e più recentemente all’Asia.
Tale dimensione universale nasce dalla considerazione che l’Allamano ebbe della propria chiesa di Torino, ricca, come egli stesso ebbe modo di scrivere, di tante istituzioni caritative e di promozione sociale, ma priva di un’iniziativa esclusivamente rivolta al di fuori dei suoi confini territoriali. La realtà ecclesiale piemontese, infatti, a differenza di altre regioni dell’Italia era sprovvista di istituzioni missionarie specificatamente ad gentes. L’idea di fondo dell’Allamano era quella di dare un apporto concreto alla missione universale della chiesa, allargando nel contempo gli orizzonti delle diocesi del Piemonte, offrendo loro la possibilità di superare il provincialismo interessandosi alle sorti di popoli geograficamente lontani.
Lo spirito con cui l’Allamano persegue questo obiettivo riflette uno stile da lui già vissuto  in ambito torinese, stile che nasce dall’attenzione con cui osservava la realtà che lo circondava.
I suoi contemporanei, infatti, lo ricordano come persona attenta alle situazioni ed emergenze, al nuovo da accogliere: «Teneva l’occhio e l’orecchio attenti e vigili a quanto accadeva al di fuori, immergendosi totalmente nella realtà che lo circondava e manifestando un’intuizione precisa dei bisogni del suo tempo». Tantomeno si accontentò del semplice rendersi conto dei problemi. Al «vedere» fece seguire l’intervento, perché, diceva, non basta lamentarsi solamente per le cose che non vanno, senza al contempo muovere un dito per cambiarle. A tal riguardo, si diede da fare per promuovere, incoraggiare, sostenere nuove forme, anche ardite, di presenza cristiana nel contesto cittadino.

Quello in cui l’Allamano visse fu un periodo marcato da un forte incremento dell’industrializzazione e dalla conseguente migrazione di molte persone dalle campagne alla città. Sono anche tempi in cui cominciano a emergere i problemi inerenti il mondo del lavoro, a quel tempo ancora carente di una legislazione appropriata che difendesse i diritti dei lavoratori. Al santuario della Consolata, di cui era rettore, fece confluire varie categorie di persone a cui impartire una formazione umana e cristiana, ma anche per dar loro sostegno e promuovere la difesa dei loro diritti sindacali, favorendo l’organizzazione di associazioni o cornoperative di lavoratori e lavoratrici, come quella delle tessitrici della fabbrica «Brass e Abrate»; delle operaie della Manifattura Tabacchi del quartiere di Regio Parco, dei tranvieri, delle erbivendole e delle sarte. Queste ultime, nella sola Torino erano circa 20 mila, spesso sottopagate, sottoposte a orari inumani, prive di qualunque assistenza sociale; per esse fu fondato il «Laboratorio della Consolata», di cui l’Allamano, per il sostegno dato, venne considerato confondatore. Tra I’altro incoraggiò pure le cornoperative contadine a meglio organizzarsi.
Determinante fu anche il suo intervento in favore della stampa. In questo campo sostenne e fondò egli stesso varie testate cattoliche compresa «La voce dell’operaio», giornale fondato dal Murialdo e divenuto poi con il tempo «La voce del popolo», attuale settimanale di informazione della diocesi di Torino. Insieme al suo collaboratore di una vita, il canonico Giacomo Camisassa, fondò la rivista «La Consolata», per informare sulle iniziative del santuario e, in seguito, sull’attività dei Missionari della Consolata che, dall’anno 1902, si trovavano in Kenya e iniziavano a far conoscere persone e culture da essi incontrate nella loro attività evangelizzatrice.
L’Allamano sostenne e incoraggiò l’impegno di quanti, laici ed ecclesiastici, si impegnavano con entusiasmo nell’azione sociale e, a causa di ciò, erano molte volte guardati con diffidenza. Nel Convitto Ecclesiastico, in cui i giovani sacerdoti terminavano la preparazione teologico-pastorale dopo l’ordinazione, promosse anche la formazione sociale dei preti, grazie all’istituzione di corsi di sociologia teorica e pratica. Queste lezioni, per disposizione dell’Allamano, divennero parte integrante della formazione impartita al Convitto.

Lo stesso atteggiamento di apertura verso il sociale sperimentato nella diocesi di Torino fu da lui suggerito ai missionari inviati in Kenya.  Tale approccio divenne norma della loro azione pastorale, che aveva come componenti essenziali tanto l’annuncio del vangelo quanto l’impegno di «elevare» l’ambiente con la promozione umana, per migliorare le condizioni di vita attraverso la formazione delle persone, la promozione di servizi, la difesa dei diritti umani e la promozione della giustizia e della pace.
In sintesi: i suoi missionari, scriveva, dovevano impegnarsi per «fare felici» le persone («Ameranno una religione che, oltre le promesse dell’altra vita, li rende più felici su questa terra…»). Il vangelo è per la promozione integrale delle persone. Giuseppe Allamano l’aveva capito molto bene, tanto da fae un principio ispiratore della sua opera missionaria; ma era altresì convinto che per fare questo occorreva conoscere il contesto. Esortava, quindi, i suoi missionari a iniziare con l’osservazione della realtà, perlustrando la zona dove erano presenti per rendersi conto della situazione, delle idee, delle consuetudini, delle necessità della gente: «Osservate e annotate», era il suo imperativo.

Questo principio di fondo vale anche oggi se si vuole che l’azione missionaria abbia un impatto sulla realtà. Anche qui, in Italia, occorre  stimolare un confronto con la città e i suoi ritmi, le sue opportunità e i suoi problemi. Interessarsi delle realtà odiee, dell’analisi congiunturale che crea fenomeni sociali ben precisi è in sintonia con lo stile dell’Allamano, che riflette il comportamento anche di altre ben note personalità di rilievo di Torino e del Piemonte, come Don Bosco per i giovani, il Cottolengo per i malati e handicappati, il Cafasso per gli spazzacamini, i carcerati e i condannati a morte, il Murialdo per gli operai, Faa di Bruno per la cultura, e così via.
I santi non sono persone lontane dalla realtà, fuori del mondo. Uno degli insegnamenti del Cafasso, fatto proprio anche dall’Allamano, era che «la politica dei preti è la salvezza delle anime», per ribadire che non si dovevano immischiare in lotte partitiche. Ma se la politica, nel suo significato più autentico, è interessamento concreto per la polis, cioè per la gente, i santi torinesi questa politica l’hanno fatta, a volte anche più efficacemente di coloro che se ne occupavano professionalmente stando al governo o nelle amministrazioni locali.
Da tale atteggiamento emerge anche un altro punto che vale la pena di sottolineare. Oggi come oggi, in questa realtà che si rivela in tutta la sua complessità, occorre approfondire la conoscenza di un mondo che sta radicalmente cambiando per meglio comprenderne la complessità e scrutare il futuro, senza paure, allarmismi, segregazioni.
Da questo confronto vengono pure impulsi e stimoli per migliorare o anche cambiare metodi tradizionali di azione, magari considerati irrinunciabili. Le indicazioni che verranno da studiosi, ricercatori e conoscitori delle attuali componenti antropologiche, sociologiche e di pensiero, aiutano a impostare comportamenti e attività corrispondenti alla situazione e alle necessità di oggi per infondere speranza e contribuire a una convivenza non solo pacifica tra le diverse componenti etniche, culturali, sociali e religiose ma anche arricchente.
Ciò stimolerà pure a ripensare e reinterpretare l’ispirazione dell’Allamano, per essere fedeli alle sue intuizioni e proposte, alla sua apertura all’universalità, senza disattendere le situazioni mondiali di impoverimento, fame, malattie, istruzione carente, senza dimenticare la dimensione locale ma, anzi, partendo da essa. 

Di Gottardo Pasqualetti

LE FRONTIERE ROVESCIATE DELLA
MISSIONE AD GENTES

La Torino in cui l’Allamano ha esercitato il suo ministero sacerdotale per più di mezzo secolo, era una città in forte evoluzione demografica, soggetta a mutamenti di carattere economico e sociale che ne avrebbero segnato in maniera profonda il volto che l’ha caratterizzata fino ai nostri giorni.
Era una città che lavorava e produceva, in preda alla grande espansione del settore industriale che avrà il suo picco all’inizio del XX secolo grazie a un microcosmo di piccole attività artigianali e industriali il cui sviluppo iniziava ad attrarre sempre più persone in città. Il processo di industrializzazione, infatti, andava di pari passo a un rapido e a volte incontrollato fenomeno di urbanizzazione, processo che era già iniziato dopo la metà del 19° secolo con la crisi della mezzadria e la prima grande migrazione verso Torino dell’epoca modea o contemporanea. La rapidità con cui si verificò l’espansione portò gravi conseguenze da un punto di vista urbanistico e sociale. La marea di gente che si riversò nella città cercando lavoro e migliori prospettive di vita iniziò ad ingrossare le fila dei tanti emarginati che ne riempirono i quartieri.
Il lavoro si trovava, ma sovente era lavoro sottopagato, illegale, con orari e tui massacranti tanto per gli uomini quanto, soprattutto nel settore tessile, per le donne. Inutile dire che lo sfruttamento minorile era prassi abituale. Questa fu la Torino di cui si presero cura i grandi santi sociali del XIX secolo: dal Cottolengo al Cafasso, da Don Bosco al Murialdo, ecc.
L’Allamano, pur sognando l’Africa e il mondo lontano ancora da evangelizzare, aveva però nel santuario della Consolata un osservatorio privilegiato che gli permetteva di penetrare nelle pieghe più recondite del disagio torinese grazie alle tante persone che incontrava nel suo ministero di consolazione, uomini e donne che esprimevano di fronte alla Vergine Maria tutta la loro fragilità, il bisogno di aiuto, la loro grande vulnerabilità.
Di lui e della sua attenzione alla realtà in funzione dell’attività pastorale, il sacerdote e sociologo biellese Don Alessandro Cantono ebbe a dire: «Teneva l’occhio e l’orecchio vigili e attenti a quanto accadeva al di fuori, aspirava a vedere il clero preparato alla vita, armato di tutte le armi che possono rendere proficuo e redditizio il suo santo ministero».
Oggi, poco più di un secolo dopo, il volto della migrazione ad intra presenta nuove sfide missionarie che non si esauriscono sul piano della promozione della giustizia e della pace, ma sfiorano terreni come quelli dell’interculturalità e del dialogo interreligioso. Curiosamente, quelle che ci ritroviamo in casa sono in molti casi persone provenienti dalle terre in cui l’Allamano e i suoi successori hanno inviato missionari. Non solo, ci sono situazioni oggi, qui a Torino, che sono molto più ad gentes di quelle che potremmo trovare in alcune nostre comunità in luoghi considerati tradizionalmente di missione.
Chiedersi che cosa l’Allamano farebbe di fronte a un contesto come il nostro sarebbe uno sterile esercizio di fantastoria. Rileggere però con attenzione il suo stile di approccio alla realtà sociale in cui si è prodigato sono sicuro che indicherebbe un cammino e spunti di iniziativa per arrivare a farci riconoscere anche qui in Italia per quello che si è: missionari. 

di Ugo Pozzoli

Gottardo Pasqualetti




Cana (1) Un matrimonio senza sposi

Il racconto delle nozze di Cana (1)

D opo avere concluso la lettura e il commento della parabola del «figliol prodigo» di Lc 15 che ci ha accompagnato per oltre un anno, con questo numero iniziamo la presentazione e il commento del racconto delle «Nozze di Cana» riportato solo nel vangelo di Giovanni nei primi undici versetti del capitolo secondo.  

Immettere ed estrarre
Spesso il testo del racconto viene sfalsato perché letto fuori dal suo contesto originario che noi invece vogliamo recuperare e rispettare. Di solito il brano viene usato nei matrimoni perché, si dice, è il testo che fonda il matrimonio come sacramento a motivo della presenza di Gesù. Diciamo subito che questa lettura è superficiale e non rispecchia affatto il testo in sé, né l’intenzione dell’autore, il quale non intende esporre una riflessione articolata del matrimonio cristiano come si è sedimentato dal sec. x d.C. nella teologia della chiesa e nella cultura occidentale, per altro, ovviamente, inesistente al tempo di Giovanni.
Non ribadiremo mai abbastanza il pericolo che corriamo sempre di far dire alla Scrittura quello che è frutto della nostra mentalità e della nostra esperienza, invece di estrarre fuori il senso proprio dai testi come sono e letti nel loro naturale contesto, che è semitico, orientale, greco-ellenistico. Il primo modo di leggere la Scrittura, di norma basato solo sulle traduzioni che sono quasi tutte addomesticate, si chiama «eis-egèsi» perché «immette dentro» significati che il testo non ha; il secondo metodo invece è quello corretto e si chiama «ex-egèsi», perché studia il testo come è e «tira fuori» da esso, quanto più è possibile, il senso vicino alla mentalità e all’intenzione dell’autore.
Per questo lavoro è necessario trovare tempo, non avere fretta, ruminare le parole, assaporarle, quasi una centellinazione di un bicchiere di un vino d’annata fino a percepie il colore, la densità, la trasparenza, il retrogusto, la corposità, la vivacità: in una parola «la bellezza».
Viviamo in un tempo in cui le parole sono inflazionate (si parla di 90 milioni di sms al giorno solo in Italia) e mai come in questi tempi si è vista una carenza di comunicazione: abbondano e straripano le parole morte, manca il silenzio che dà corpo e vita al suono delle parole vitali. All’eccesso di parole corrisponde una deficienza di attenzione e di profondità: tutto scorre e rotola in superficie, pochi ormai si fermano a leggere in profondità. Dilaga la stupidità, che nasce dalla superficialità, e viene meno «l’intelligenza», cioè la capacità di «intus-lègere – di leggere dentro» gli avvenimenti, i fatti, le persone, i sentimenti, le emozioni, la preghiera, la liturgia, Dio.

Un modo nuovo per leggere la Storia
Entriamo subito nel cuore delle questioni, tanto per dare un saggio, mettendo in fila, anche in modo disordinato, le prospettive che il racconto racchiude per farcene un’idea e superare almeno il livello della superficialità sapendo che dobbiamo riprenderle tutte, fino ad esaminare il racconto parola per parola se vogliamo cogliee l’intensità e i riferimenti ai testi dell’AT di cui il racconto vuole essere un commento cristologico.
L’autore intende presentare la persona di Gesù e lo fa da ebreo che conosce l’AT, il Targum come ascoltato nella sinagoga e l’esegesi giudaica del «midràsh». Lo sposalizio di Cana è solo un espediente che permette di conoscere più profondamente la personalità di Gesù di Nazaret. Il racconto, infatti, è carico di una cristologia elevata: la posta in gioco non è un banale matrimonio, ma la risposta alla domanda cruciale che attraversa tutto il IV vangelo: «Chi è Gesù?».
L’autore del vangelo ci accompagna per mano e ci conduce in un viaggio di «conoscenza» dentro la storia ebraica, dentro il cuore stesso di Dio che si rivela e si manifesta nella stessa storia, la storia del suo popolo Israele, e lo fa da giudeo che ha creduto in Gesù e lo ha riconosciuto come Messia. Nel racconto di Cana vuole mettere in rilievo l’alleanza del Sinai che tutta la letteratura biblica presenta come uno sposalizio (cf p. es., Is 54,5; 62,5; Jer 2,2; 3,1; Ez 16,23; Os 1-3 e tutta l’allegoria del Cantico dei Cantici) per dirci che Gesù riprende il tema della nuzialità come dimensione della nuova alleanza nel suo sangue.

Un matrimonio senza la sposa
Rileviamo subito che nel racconto si parla di uno sposalizio, come ve ne saranno stati tanti al tempo di Gesù e come ve ne sono tanti anche ai nostri giorni. Tutti hanno lo stesso schema, gli stessi elementi, lo stesso andamento: festa, sposa al centro dell’attenzione, sposo nervoso, invitati, regali, organizzazione e infine banchetto con ubriacatura finale.
Nel racconto del quarto vangelo, però c’è qualcosa che non quadra. Anche il lettore più superficiale si accorge subito che manca la «sposa»: essa addirittura non è nemmeno nominata. Lo sposo poi è citato di passaggio e solo per rilevare la brutta figura che ha fatto nel non sapere prevedere il numero degli invitati e l’esito del banchetto. La stessa collocazione a «Cana» è problematica perché sono tre i villaggi con questo nome, di cui uno anche nel Libano meridionale, che si contendono le nozze: tre villaggi per una sposa assente. L’archeologia e specialmente lo studio delle fonti letterarie hanno dimostrato, ormai definitivamente che il villaggio delle nozze di Cana non è quello che usualmente i pellegrini visitano, ma un oscuro posto distante circa sette km, abbandonato e dimenticato.
L’intervento della madre di Gesù è centrale e non può essere solo la preoccupazione di una donna di buon senso che cerca di rimediare a una difficoltà. Per questo non era necessario scrivere un vangelo. La madre che chiede di porre rimedio alla brutta figura è fuori luogo, perché sia lei che il figlio sono invitati e non responsabili del banchetto. L’intervento di Maria viene spesso interpretato come una intercessione «matea» che si fa carico dei bisogni degli altri, dimostrando così come si possa manipolare un testo con la teologia mariana «di poi», immessa a piene mani nel vangelo che invece vuole dire tutt’altro.
Dietro la richiesta della madre ci deve essere un altro motivo logico, un motivo profondo che tenteremo di scoprire. Le giare di pietra sono un altro «enigma»: perché sei? perché «di pietra»? In Gv nulla è superfluo, perché tutto ha un senso preciso e puntuale. Se non lo comprendiamo, è per nostra ignoranza.

Una rilettura cristiana dell’Esodo
Cercheremo di dimostrare che il racconto delle nozze di Cana è un «midràsh» cristiano che ha lo scopo di svelarci una parte della complessa personalità di Gesù, riprendendo alcuni testi dell’AT che acquistano così il valore di eventi premonitori e anticipatori. Scopriremo così che i primi cristiani leggevano gli eventi nuovi riguardanti Gesù di Nazaret come «Scrittura» all’interno dell’altra grande «Scrittura» giudaica, che era la Toràh scritta (Pentateuco) e orale (Targum, Midràsh).
Due sono i fatti più importanti della storia biblica a cui il racconto delle nozze di Cana si riferisce: l’alleanza stipulata ai piedi del monte Sinai, descritta nel capitolo 19 dell’Esodo, e il «segno» della prima piaga (le acque del fiume Nilo trasformate in sangue) che colpì l’Egitto come è descritta in Esodo al capitolo quarto. In questo contesto si capisce la prospettiva di Giovanni.
Nei testi dell’AT si parla di confronto tra fede e incredulità, tra il faraone ostinato e Mosè il credente, allo stesso modo, a conclusione del racconto delle nozze di Cana, l’autore ci svela il suo obiettivo: l’intervento di Gesù che muta l’acqua in vino durante un banchetto nuziale «fu il principio dei segni compiuti da Gesù; egli manifestò la sua gloria e i suoi discepoli cominciarono a credere in lui» (Gv 2,11).
Questa conclusione è la chiave interpretativa di tutto il racconto e di tutto il vangelo: il rapporto tra incredulità e fede, tra accoglienza di Gesù e rifiuto della sua persona, il conflitto tra luce e tenebra, come si esprime lo stesso autore nel «prologo» (Gv 1,1-8). Dalla banalità di uno sposalizio a una prospettiva universale della vita.

Gesù e Mosè: la discriminante della fede
Per l’autore del quarto vangelo, Gesù si trova nella stessa situazione di Mosè appena dopo l’esperienza del roveto ardente (Es. 3), quando Dio ha intenzione di rimandarlo in Egitto a portare il suo messaggio al Faraone perché liberi il popolo d’Israele. Mosè oppone una difficoltà: «E se non mi credono e non ascoltano la mia voce?» (Es 4,1). Dio allora istruisce Mosè che in questo caso deve fare tre «segni» in un crescendo drammatico culminante nell’acqua del Nilo trasformata in sangue (Es 4,9), come nelle nozze di Cana l’acqua è trasformata in vino.
Un altro elemento importante è il tema del vino, perché in tutta la tradizione biblica e giudaica è simbolo della Toràh e anche dell’alleanza in prospettiva messianica, come testimoniano alcuni apocrifi dell’AT, di cui parleremo più avanti. Narrando il «fatto» di Cana, l’autore ci scaraventa di peso nel cuore stesso della storia della salvezza, che ha il suo fulcro e il suo epicentro nell’alleanza del Sinai a cui Israele è giunto dopo avere attraversato tutte le fasi dell’incredulità del faraone e della sua corte: fu un confronto titanico tra la non-fede e la fede, tra la lettura dei «segni» come accaduti nella storia e la cocciutaggine di volerli addomesticare a proprio vantaggio come fa il faraone, tra la libertà dei figli di Dio e la schiavitù dei figli degli uomini.
Le nozze di Cana ci svelano il volto autentico del Dio che Gesù è venuto a mostrarci: il volto di un Dio innamorato che non smette mai di innamorarsi.
Quanto detto finora ci sembra sufficiente a stuzzicare la curiosità su un brano del vangelo, le nozze di Cana, molto conosciuto, ma poco approfondito a livello popolare. La nostra intenzione è di fare un commento che tenga conto di tutte le ricerche bibliche più aggiornate, espresse in un linguaggio non specialistico, ma divulgativo: per questo motivo diamo in questo numero una bibliografia essenziale, per fare anche capire che dietro ogni puntata vi è la giorniosa fatica di un lavoro di ricerca e di confronto e dare anche lo spessore dell’impegno che testimonia l’importanza della Parola e la serietà con cui deve essere accostata e mangiata (cf Ez 2,8; 3.1). Solo così anche per noi essa sarà «dolce come il miele» (Ez 3,3).
Lo scopo nostro è divulgare la Parola di Dio, in obbedienza all’invito di donna Sapienza a quanti sono inesperti: «Venite mangiate il mio pane, bevete il vino che io ho preparato» (Pr 9,4-5).

Il quarto vangelo: una fittissima foresta
Prima però di cominciare la presentazione e il commento del brano che riporta il racconto delle nozze di Cana (Gv 2,1-11), è necessario dire qualcosa sul quarto vangelo e sul suo autore, così non navigheremo a vista, ma avremo una panoramica di riferimento, una coice che per necessità sarà essenziale, ma sufficiente a darci il quadro generale entro cui ci muoveremo.
Il quarto vangelo, attribuito dalla tradizione a un certo Giovanni, è come un bosco fittissimo, dove una volta entrati se non si conoscono bene i sentirneri, si rischia di girare a vuoto senza andare da nessuna parte o anche di andare nella direzione opposta: «Solo quando noi, dopo aver percorso a lungo un sentirnero, ci rendiamo conto che i nostri passi non portano da nessuna parte, oppure in una direzione che non è quella che vogliamo, cominciamo a maturare in noi la convinzione di dover fare a ritroso il cammino, per riguadagnare il punto da cui sia possibile ritrovare l’orientamento. Questa osservazione non si applica solo a coloro che attraversano un bosco o iniziano a scalare una montagna» (G. Ruggieri, Cr St 21 [2000] 1), ma anche a chi si avventura a entrare nella selva di sentirneri e percorsi, incastonati nel quarto vangelo come innumerevoli e fitti alberi di una immensa foresta. Per entrarvi bisogna essere dotati di una mappa minuziosa ed essere attenti a ogni minimo particolare, che, a volte, all’occhio dell’inesperto sembra futile o insignificante, mentre è la chiave per capire l’insieme.

Il iv vangelo: un enigma dietro l’altro
«Il Vangelo di Giovanni è una collezione di enigmi»  (G. Ravasi, Il Vangelo 5) e «ha un qualcosa di enigmatico, che non trova riscontro in nessun altro libro del Nuovo Testamento» (H. Strathmann, Il Vangelo 9). Enigma ed enigmatico sono un sostantivo e un aggettivo molto pertinenti a definire il quarto vangelo, per sintetizzae in una parola il fascino e le difficoltà di approccio. Mano a mano che ci si addentra al suo interno, più che le certezze aumentano gli interrogativi.
Un’altra espressione, ormai corrente «vangelo spirituale», espressione antica e divenuta ormai abituale. Di «vangelo spirituale», infatti, parla Eusebio di Cesarea (Storia Ecclesiastica, VI,14,7) che, a sua volta, riferisce la testimonianza di Clemente Alessandrino, morto verso il 200: «“…Da ultimo Giovanni, vedendo che negli altri vangeli era messo in luce l’aspetto umano della vita di Cristo, obbedendo all’invito dei discepoli e divinamente ispirato dallo Spirito Santo, compose un vangelo che è spirituale”. Questo riferisce Clemente» (cf anche G. Ravasi, Il Vangelo 5).
L’esegeta olandese H. van den Bussche e l’americano R. E. Brown pongono ambedue l’espressione addirittura come sottotitolo al rispettivo commento che porta lo stesso titolo: Giovanni. Commento al Vangelo spirituale (v. bibliografia).
Un’altra definizione è «vangelo del presbitero, quello che al cristiano maturo e contemplativo dà una visione unitaria dei vari misteri della salvezza» (C. M. Martini, L’itinerario 8). Ognuna di queste definizioni è vera, ma incompleta, perché nessuna di esse esaurisce la profondità e l’intensità del pensiero dell’autore espresso nelle parole del vangelo.
Ogni parola ha un significato diretto e immediato che è quello del vocabolario, ma dietro il senso ovvio ognuna di esse nasconde un significato misterioso o «significato secondo» che bisogna cercare e scoprire con pazienza, preghiera e passione.
Lo stesso evangelista ci invita a rimanere sulla sua Parola per essere suoi discepoli, conoscere la verità e diventare liberi (cf Gv 8,31). Rimanere sulla Parola significa essere saldi e radicati su di essa come la casa costruita sulla roccia (cf Mt 7,24-25) per penetrae l’anima e il cuore che solo con lo studio si può realizzare: la Parola di Dio è come un’innamorata che esige tempo e attenzione, riguardo e passione.

Attenti ai segni
Abbiamo già accennato che il versetto conclusivo del racconto delle nozze di Cana ci informa che ciò che accadde allo sposalizio fu «il principio dei segni» (Gv 1,11) e un lettore attento non può non restare stupito di fronte alla prima conclusione del vangelo dove leggiamo: «Gesù in presenza dei suoi discepoli fece molti altri segni che non sono stati scritti in questo libro. Ma questi sono stati scritti perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio e perché, credendo, abbiate la vita nel suo nome» (Gv 20,30-31).
Il vangelo prende l’avvio dal «principio dei segni» che è anche l’inizio della fede dei discepoli e si conclude con l’accenno ad alcuni «segni» finalizzati alla fede del lettore che così inizia a diventare discepolo che testimonia colui in cui crede.
Nel vangelo di Giovanni non bisogna mai fermarsi alle apparenze, perché esse sono sempre occasione per un trabocchetto, dove ci si impiglia facilmente. Per impedire di inciampare dal prossimo numero cominceremo con una presentazione sintetica del quarto vangelo e cercheremo di capire chi ne è l’autore.    (continua – 1)

Di Paolo Farinella

Paolo Farinella




Teologia Macua: Dio è donna

L’utopia di un grande missionario

In un villaggio del profondo Niassa un’équipe di religiosi e laici porta avanti una missione di frontiera. Italiani e africani, uomini e donne. Ma soprattutto incontro tra tradizione biblico-cristiana e teologia tradizionale macua. Come coniugare le diverse categorie? Come arricchirsi gli uni con gli altri nella propria fede? Lavorare per l’inclusione, contro l’esclusione. Farsi evangelizzare evangelizzando. Un laboratorio umano e spirituale che dura da 30 anni. Ma è sempre all’avanguardia.

Maúa (Niassa). Occorrono circa sei ore per arrivare a Maúa partendo da Lichinga, capitale del Niassa e unico aeroporto della vasta provincia nel Nord del Mozambico. Dopo 200 km di strada asfaltata se ne percorrono ancora oltre un centinaio di sterrata, di cui buona parte in una foresta vergine, incontaminata, interrotta ogni tanto da una montagna di roccia, come un sasso gigantesco e lucido che sorge dal nulla. Panorama spettacolare.
A Maúa non c’è la luce elettrica e non arrivano neppure le onde elettromagnetiche del telefono cellulare …
Qui un’équipe di missionari della Consolata ha fondato il «Centro de investigaçao macua-xirima» (centro culturale o di studio) allo scopo di entrare nel mondo xirima (o sirima) e stabilire con esso, uno «scambio di doni». L’etnia macua (pronuncia macùa) è la più numerosa in Mozambico (circa 47% della popolazione) ed è presente in quattro province: oltre il Niassa, Cabo Delgado, Nampula e Zambésia. Fa parte della famiglia bantu, ed è a sua volta divisa in vari sottogruppi linguistici, tra cui il xirima.
La casa dei religiosi e i locali del centro sono una struttura semplice, integrata con il resto delle costruzioni della cittadina.
Padre Giuseppe Frizzi* è in Mozambico dal 1975. È un biblista (laureato all’università di Münster, in Germania) che si è messo a fare l’antropologo. Ma è soprattutto un missionario, come lui stesso sostiene, che persegue la strada per fare il missionario nel modo che gli sembra più giusto nel contesto in cui si trova.
Quando si sta con lui si percepisce quel qualcosa che ti dice di essere al cospetto di un grande. Gigante anche in semplicità. Timido, quasi dimesso, difende con fermezza, ma senza alcuna arroganza, le sue idee. Convinzioni elaborate e maturate su una solida base: un lavoro di oltre 30 anni. Idee spesso osteggiate, dentro e fuori della chiesa. Con tutta probabilità perché sono molto avanzate rispetto al pensare comune.
Con lui lavorano suor Silveria Casiraghi, missionaria della Consolata inossidabile, il sempre allegro fratel Gerardo Secondino e il giovane patre venezuelano Leonel Toledo, insieme a un’équipe di laici macua.

Un metodo lungo  e partecipativo

«La lingua macua-xirima era una tradizione totalmente orale, la tramandavano gli anziani, la sera intorno al fuoco. Poi i missionari della Consolata hanno cominciato a scrivere qualcosa – racconta suor Silveria. – Quando padre Frizzi è arrivato ha ripreso in mano quanto era già stato fatto, poi ha iniziato a incaricare delle persone e, fuori, nelle grandi comunità, si sono formati dei gruppi».
«Ho iniziato a fare questo lavoro verso il 1980. A causa della guerriglia (sulla situazione politica cfr. MC gennaio 2009) non potevamo uscire, così gli animatori venivano a portarmi informazioni. Non solo relative alla pastorale ma anche alla cultura. Ero a Cuamba, fu un periodo di sei anni. Raccoglievo materiale tradizionale, canti religiosi. Abbiamo pubblicato un libro di 741 canti. Erano già presenti ma bisognava sistematizzarli in un contesto liturgico sacramentale». Così padre Frizzi ci racconta i primi anni del suo lavoro con i macua.
«Poi ho potuto frequentare i riti, soprattutto quelli terapeutici. Riti molto lunghi.
Un aspetto è la conoscenza dell’erbario, ma è il rito stesso che indica le medicine da trovare. Non c’è una cura prefabbricata. Nel rito, ammalato, famiglia, medico sono ispirati da fattori o sogni».
Nel 1987 Frizzi si trasferisce a Maúa e costituisce un gruppo di collaboratori: sono animatori e catechisti, che vivono nelle comunità. Partecipano a riti, si fanno raccontare proverbi. Scrivono tutto su dei quadeetti. Poi portano il materiale al centro, lo trascrivono nel computer. Incontriamo Ruffino che legge su un quaderno appunti in xirima, e Fausto che ascolta e scrive tutto su un computer portatile (alimentato con il solare), rigorosamente in xirima.
Poi improvvisano una traduzione grezza in portoghese. Il padre rivede tutti i testi nelle due lingue: «In seguito discutiamo, chiamiamo chi ha fatto il rito descritto per chiedere dettagli. Si fa una riflessione e si amplia il testo. C’è un dialogo intenso di équipe».
Dopo anni la metodologia si è raffinata. «In un mese ogni collaboratore porta un mezzo quaderno zeppo. È nata così la lingua scritta – continua suor Silveria -. Padre Frizzi ha già trovato la grammatica, l’ha perfezionata, l’ha completata. Siccome è una lingua bantu l’ha arricchita. I proverbi, le favole, la vera sapienza la raccoglie così, dalle persone stesse».
In questo modo ha tradotto l’intera bibbia, pubblicato il catechismo, libri di canti e di proverbi, scritto il dizionario completo. Nel 2008 nasce la sintesi del lavoro di questi anni: «Biosofia e biosfera Xirima». È un librone di 1.785 pagine, bilingue portoghese e macua.
Vuole essere la «visione sistematica della cultura xirima».  «Abbiamo voluto inserire il vocabolo nel suo contesto sia linguistico sia culturale. È il tentativo di presentare il mondo macua nella sua completezza: quello che amo chiamare il palazzo» continua padre Frizzi.

Un «edificio» complesso

I missionari e i laici macua hanno raccolto elementi della cultura in tutti questi anni, preparando i mattoni. Hanno poi cercato di sistematizzarli e completarli, costruendo dei muri. Ora si è arrivati all’edificio: la descrizione di una cultura complessa.
Come è stato possibile questo enorme lavoro?
«Uno degli ingredienti è la stabilità. Questa non è sinonimo di staticità, anche se può diventare comodità. Ma dà la possibilità di attingere, penetrare nel cuore di un popolo e quindi conoscere le radici. Essere ammessi in questo mondo non è facile, occorrono anni di amicizie. Vogliono sapere se tu entri per curiosare e poi sparlare o se c’è una empatia: tu vuoi entrare per partecipare, fare tua questa esperienza».
Tutto questo portando avanti anche la pastorale?
«La pastorale è sempre stata la base. Dà le fonti migliori e il materiale più autentico. Solo in seguito si può passare a una rielaborazione teoretica di un’esperienza. Non il contrario.
La pastorale concreta è sempre stata l’ispirazione. Dopo c’è la riflessione di équipe e si passa di nuovo alla pastorale come apertura, inculturazione, applicazione, suggerimenti … questo è il processo».
Come si arriva alla vera inculturazione?
«L’inculturazione è possibile se si ha il numero del cellulare di un popolo. Il punto di partenza è che Dio ha parlato a questa gente. La parola Muluko (Dio) non è importata, né dall’islam né dal cristianesimo. È la “casa dell’essere”,  indica un cammino storico che non è conosciuto. Dio ha camminato con questo popolo.
La messe è grande ma gli operai sono pochi. Se c’è la messe esiste un cammino già fatto. Il missionario più che seminare dovrebbe essere un mietitore: raccoglie o riassume coscientemente quello che Dio ha già operato con loro.
La visione teologica di Dio già nella storia prima dell’evangelizzazione, aiuta a entrare in un contesto culturale differente. Prima di tutto con rispetto: non seminare se è già stato seminato o non estirpare quello che già c’è e ha già un processo di maturità teologica storico-salvifica.
Il processo non è traumatico: se scopro la mateità di Dio in questo popolo (vedi oltre, ndr) non posso considerarla una deviazione o una perversione religiosa o teologica. Ma è un interrogativo potente alla mia fede impostata sul modello biblico-occidentale di tipo patriarcale. C’è un’alternativa di modelli che si possono coniugare insieme. Invece di escludersi come spesso avviene nella nostra società.
Inculturazione oltre a essere un interrogativo, è uno scambio di doni, ovvero la possibilità di allargare i propri orizzonti.
“Essere evangelizzati prima di evangelizzare”. Evangelizzati da quell’evangelio pre-evangelico. C’è già una presenza di Dio. Questa presenza è un imperativo categorico, che il missionario deve scoprire e rispettare, entrando così lui stesso in un processo di evangelizzazione che porta alla pienezza».
Padre Frizzi evangelizzato dal popolo macua.

Tutto parte dalla lingua

La lingua matea è la prima chiave di accesso a una cultura. Proprio per questo padre Frizzi e la sua équipe hanno basato tutto sul macua-xirima. E dopo tanti anni anche il governo del Mozambico ha capito che occorre valorizzare le lingue matee e nel 2004 ha fatto un passo importante introducendole nei primi tre anni di scuola primaria. Il 2008 è stato dichiarato «L’anno delle lingue matee».
A lato pratico vuol dire che c’è bisogno di insegnanti e operatori formati nelle diverse lingue presenti nel paese. L’Università cattolica del Mozambico, Facoltà di Educazione, a partire da quest’anno, introdurrà un corso di etnologia e antropologia in stretta collaborazione con il centro di investigazione di Maúa. E anche l’Università Eduardo Mondlane (la statale più grande del Mozambico) ha chiesto di collaborare.
Perché la lingua matea è così importante?
«Fino ad oggi a scuola c’è un trauma iniziale, dovuto alla lingua, alla cultura matea che si deve lasciare. Si esige un salto epocale a un bambino. La capacità creativa dei bambini è calata. Adesso governo, scuola e università chiedono materiale e appoggio da parte nostra. Non si tratta di rinchiudersi in un contesto etnico, ma valorizzare queste radici per poi lanciare il futuro adulto nel mondo.
Se il ragazzo entra nella scuola portando tutto il suo capitale culturale, domani i rami saranno autentici, i frutti non saranno rachitici se le radici sono salde.
Non capisco il boicottaggio di alcuni missionari o della chiesa che gridano a un ritorno al passato: si tratta di percepire la tradizione, valorizzarla e inserirla in un contesto nazionale.
Parlando solo portoghese si dimentica tutto il cammino che Dio ha fatto con questo popolo. Si suppone, con tutti i preconcetti e le conseguenze negative».
Questo vale per tutta l’Africa dove c’è una lingua franca, dei colonizzatori e una lingua matea.
«L’una non esclude l’altra, ma si implicano completandosi. La lingua franca necessita della lingua matea, delle sue radici, della sua località e individualità per vivere e sopravvivere, così pure la lingua matea necessita della franca per dilatare i suoi orizzonti culturali».

Il dio materno

La società macua, pur essendo bantu, è matriarcale e matrilineare. Il primo passo per entrare in contatto con essa è la conoscenza del mito delle origini, fondato sul monte Namuli, una montagna reale che si trova nel distretto Gurúé, in provincia di Zambésia.
«Il macua-xirima crede che tutto viene dal seno materno di Dio: Dio è la matriarca – genearca che dalle cavee del monte Namuli, ha generato tutto e tutti.  Tutto e tutti è là che devono ritornare. Non c’è in pratica un taglio ombelicale, ma un ciclo: tutto esce da Dio per poi ritornare al suo seno matriarcale» scrive padre Frizzi.
Adriano Saide, catechista e formatore al Centro culturale ci racconta: «Noi tutti macua siamo originati dal monte Namuli, è la nostra madre. Nella grotta al suo interno appaiono figure simboliche. Una figura di donna: vuol dire che è una madre e noi abbiamo fiducia in essa, perché è un’immagine che dà la vita: è quella che può avere un figlio e lo sa far crescere: per noi è uno spirito.
Il monte è sacro. Quando le persone muoiono, ritornano attraverso il monte Namuli».
Oltre a Muluko, il Dio matriarca, quale posto ha Gesù Cristo nella cultura macua-xirima?
«In una famiglia nascono figli, se si ammalano viene avvisato lo zio materno. È lui che decide tutto quello che concee i nipoti, figli della sorella. È una caratteristica di questa società matriarcale. Ecco che Gesù è “lo zio materno”,  atata, una figura fondamentale. Inoltre Gesù è mediatore: da lui passano tutte le tribolazioni dell’umanità. E Gesù le assume e le risolve.  “Yesu atatani namuku”, ovvero: Gesù mediatore e medico.
La Madonna è diventata puiyamuene, la matriarca. Entra immediatamente nel contesto culturale dei macua.
È proprio questa l’inculturazione: registrare un processo teologico emergente. Si favorisce la spontaneità di questa cultura, senza pensare che sia tutto negativo o creando barriere, ma dando al cristiano la possibilità di esprimersi spontaneamente nelle sue categorie. Da qui escono queste nuove sintesi teologiche. Possono anche essere soluzioni limitate, però accompagnare il processo e favorirlo, stimolarlo dovrebbe essere l’attività principale del missionario».

Riti di Iniziazione

Un rito fondamentale è quello dell’iniziazione, che esiste sia per le donne sia per gli uomini. Come è entrato il cristianesimo in questo?
«Un tempo era totalmente tradizionale. Poi essi stessi iniziarono a togliere qualche elemento che sembrava non più efficace nel contesto politico, sociale o cristiano.
Poi hanno creato una “commissione d’iniziazione” formata da catechisti e animatori, che hanno dato la responsabilità del viaggio (perché di viaggio si tratta) alla parrocchia. Il capo (regolo) è sempre presente e svolge il suo ruolo.
La parrocchia garantisce una forza morale per evitare gli abusi. La libertà liminare tipica dell’iniziazione c’è. Ma ci possono essere esagerazioni.
Lo scopo del viaggio iniziatico è allargare gli orizzonti, non solo promuovere il ragazzo o ragazza alla maturità matrimoniale, ma anche civile e inserirlo in un contesto allargato. Il Mozambico non è solo Maúa. C’è una settimana di formazione in cui si parla anche del nuovo contesto politico, della nazione, che va al di là dell’etnia macua. Lingua, salute, igiene, aids, lavoro e anche catechismo, liturgia, sono tutti temi affrontati».
Lei ha scritto che la società xirima non è sessista, e che non ha bisogno di scoprire il pianeta donna.
«Il centro è la donna, che ha in mano la vita. L’iniziazione è un’orchestrazione di questo tema: garantire vita e abbondanza di vita il più possibile.
L’uomo è il complemento di una società matriarcale: deve fecondare, lavorare, nutrire, vestire e soprattutto occuparsi della morte. Deve essere capace di seppellire: se c’è l’elemento negativo nella società deve garantire che la vitalità sia preservata.
Il rito iniziatico dei ragazzi finisce con un rito di morte: come seppellire i parenti, come togliere tutte le negatività perché la vitalità che detiene la donna sia feconda.
L’uomo è un’appendice al servizio della donna, ovvero della vita. Il ragazzo è preparato alla polarità morte, mentre le ragazze alla polarità vita».

«Mangiare insieme»

Il rito della makeya è il rito cardinale della religiosità e teologia xirima. Recita il dizionario realizzato dal Centro studi di Maúa.
«Nella famiglia ci può essere una tristezza, un sogno negativo. La mamma fa la makeya alla porta della casa oppure ai piedi dell’albero sacro.
Gettando a terra la farina si invoca Dio (materno) Muluku tramite gli antenati famigliari, che sono i mediatori. Nella teologia xirima Dio non è il sole che elimina tutte le stelle: è la luna (matriarcato, lunare, notturno). Questo significa che accetta la mediazione, convive con le stelle, non è solitario ma è solidale. Quindi entra in relazione con la comunità attraverso i morti. Se l’uomo vuole chiedere a Dio un favore o ringraziarlo, passa attraverso questa mediazione.
Non è un sacrificio, non si santifica, si tratta di creare un convito: una stuoia dove ci si siede e si mangia. Adorare, sacrificare: queste sono categorie bibliche o cristiane. Presso i macua no. La categoria principale è “mangiare insieme”,  è una comunione che si mangia insieme. Potrebbe essere una rivalutazione profonda dell’eucarestia. Loro la desiderano e la distribuiscono, anche se non hanno sacerdoti. Il castigo peggiore che si può fare a una comunità è sospendere la distribuzione la domenica.
C’è l’offerta in Gesù Cristo: la tradizione biblica si esprime così. La tradizione macua è invece:  “mangiare insieme”».
Allora qual è il dialogo tra le due? «Questo è il processo che si deve promuovere. È qui la nuova azione missionaria, non più un annuncio che prescinde, ma assumersi le categorie e coniugarle insieme».
Completato questo enorme lavoro sulla Biosofia e Biosfera, cosa assorbe adesso le sue energie?
«Dobbiamo essere attenti per vedere che sintesi, che teologia sta sorgendo.
Sto registrando i canti nuovi scritti in questi 20 anni. Ci danno una radiografia della teologia emergente, latente. Adesso ci sono molti canti alla Trinità, che prima non esistevano. Come spiegarla ai macua? Vediamo che proposte ci sono da parte loro. La mariologia l’ho già rielaborata. Superare un po’  la visione del semina verbi: non raccogliere solo i mattoni, ma anche la parete, o magari il suo contesto di costruzione finale. Che sintesi teologica cristiana si può dedurre da questa cultura, accompagnando quello che loro stanno vivendo? E io che fede posso realizzare insieme a loro arricchendomi della loro fede? Evangelizzati ed evangelizzandi da entrambe le parti. Come scambiarci i doni a livello di fedi? Quali i punti forti della teologia emergente e come inserirli dove c’è più debolezza da parte nostra? È un po’ un’utopia, ma sempre in questo atteggiamento di ascolto». 

Di Marco Bello

Cuore Macua

Un proverbio macua dice: «Nonostante il cammino sia tortuoso, se il cuore lo desidera, arriverà alla meta». È la sintesi efficace di una ricerca che abbiamo appena concluso a Maúa, uno studio antropologico e psicologico del processo di evangelizzazione inculturata tra i macua-xirima. Il cuore è il protagonista principale dello studio nel senso che ne è l’oggetto e il soggetto. Ne è l’oggetto perché lo studio si rivolge soprattutto alla componente affettiva, del pathos della persona e del popolo, cercando di comprendere come questa componente viene coinvolta nel processo di evangelizzazione. E ne è pure soggetto, perché il viaggio in cui ci siamo inoltrati col popolo xirima non consiste in una mera speculazione accademica, bensì in un’esperienza di vita che coinvolge non solo il pensare e il fare, ma anche e fondamentalmente l’intuire e il sentire.

Le cure tradizionali
I processi terapeutici macua-xirima costituiscono occasioni particolari di reimmersione nelle tematiche iniziatiche, pertanto di approfondimento e consolidamento delle istanze educative basilari. La costruzione dell’edificio rituale terapeutico si svolge ancora attorno al principio namulico (il mito delle origini, vedi articolo, ndr), cantato, danzato, detto, visualizzato, drammatizzato. Il mito viene così non solo raccontato ma soprattutto rivissuto nel rito. Calato e incarnato nella situazione attuale del malato e dell’ambiente che lo circonda, ne diviene chiave interpretativa, iniettandovi speranza. Il malato si sente partecipe di una storia più grande, di una rete di relazioni di influenza reciproca, che sostengono e illuminano il cammino individuale e comunitario salvandolo dall’anonimato e insieme inserendolo in una epopea comune che trascende il tempo, il luogo e le condizioni particolari senza svalutare gli elementi contingenti, anzi, conferendo loro un significato sacro.
Una caratteristica delle cure tradizionali xirima è di tener conto in ogni momento della molteplicità e dell’unità che caratterizzano l’esistenza umana: la terapia non riguarda un organo malato ma la persona tutta nelle sue componenti antropologiche, nel suo pensare, sentire e agire, nei suoi aspetti più consci e meno consci, nelle sue relazioni col mondo visibile e invisibile. Riguarda il gruppo di appartenenza, perché la malattia di un individuo non si risolve in un fatto privato, ma ha legami causali con la comunità. In questo senso, la terapia xirima è personale e allo stesso tempo sociale e cosmica; è medica e allo stesso tempo psicologica e religiosa; è cura e allo stesso tempo è educazione e preghiera. 

Il cuore
Per il xirima, il cuore (murima) non indica semplicemente un organo. Il murima è considerato il centro della personalità, sede dei desideri, degli affetti, delle decisioni. La tradizione xirima abbonda di testi sul murima considerato in questa accezione più ampia di coscienza individuale. I molti proverbi ci illuminano sull’importanza del murima nell’antropologia macua-xirima (vedi box).
Il xirima è consapevole che il cuore merita molta attenzione nei processi educativi: educare a pensare e ad agire non basta, perché «il pensiero non supera il cuore» ed è il cuore a «comandare», a «compiere il bene», a «contenere molte cose», a conferire alla persona la tenacia per arrivare là dove desidera, ad amare, oppure a cambiare direzione secondo i venti, a ritirarsi pieno di vergogna, a pietrificarsi in una avarizia che somiglia alla morte. Educare se stessi, allora, significa saper «ingannare» il proprio cuore, orientarlo, senza mai spegnee i desideri. Significa renderlo flessibile, duttile e capace di adattarsi, come quello di Dio che sa «cambiare colore» a guisa del camaleonte. Il cuore non si compra, non ha prezzo; il cuore buono viene paragonato poeticamente a una luna interiore, con tutta la carica simbolica, femminile e matea, che la luna riveste nel mondo xirima. A ragione, allora, la sapienza xirima incoraggia a guardare non tanto al volto (bello o meno) dell’altro, ma al suo cuore, a quella dimensione interiore che lo rende pienamente persona: in verità, la persona è il suo cuore.

L’ombra
La persona è costituita da tre componenti: corpo (erutthu), ombra (eruku) e spirito (munepa). Il corpo è assieme all’ombra, mentre la persona è viva. Quando la persona muore, la sua ombra è con il suo spirito. La componente dell’ombra si rivela come quell’elemento di unione tra corpo e spirito, quella dimensione intermedia, fluida, mobilissima della persona, capace di armonizzare le altre due componenti, integrandole e orientando le energie dell’essere alla missione che gli è stata affidata. In questo senso, l’eruku rappresenta la parte più forte ma anche più vulnerabile della persona. Un eruku positivo e vitale si traduce in una persona che fa e promuove il bene in sé e attorno a sé. Un eruku indebolito è alla radice di molti problemi personali, tra cui gli stati depressivi, e di molte difficoltà interpersonali. Di fatto, l’attività del terapeuta tradizionale macua è prevalentemente rivolta alla fortificazione e rivitalizzazione dell’eruku, così come l’attività dello stregone è rivolta alla mortificazione, all’indebolimento quando non addirittura alla sottrazione di questo elemento vitale.
L’eruku xirima entra facilmente in dialogo con ciò che da altre parti del mondo si chiamerebbe pathos, sfera emotiva, subconscio. Le porte della sapienza macua sembrano davvero aperte al dialogo con altre sapienze. L’esperienza macua è particolarmente recettiva alla questione dell’educazione olistica della persona e a un’educazione che abbia il dovuto riguardo alla componente del sentire. Si aprono delle piste di dialogo interdisciplinare sull’evangelizzazione.
L’attenzione alle «cose del cuore» è almeno tanto importante quanto l’attenzione alle «cose dello spirito» o a quelle della mente e del corpo. E questo vale per l’individuo come per la cultura.

Simona Brambilla
(missionaria della Consolata, dopo alcuni anni
di permanenza a Maúa ha scritto una tesi di dottorato in psicologia sull’argomento, di prossima pubblicazione)

Marco Bello




Cari missionari

Missionario troppo… nascosto

Cari missionari,
sono un vostro lettore e ricevo da diversi anni la vostra rivista e mi congratulo con voi per gli ottimi servizi, le rubriche ecc. Ma non vi scrivo per congratularmi con voi, perché non ne avete bisogno.
Nel 1997, il fratello di padre Giuseppe Richetti (morto in Kenya nel 1992 e sepolto a Nazareth, Nairobi) mi accompagnò, insieme ad altre persone, presso la vostra missione di Rumuruti, in Kenya, dove conobbi padre Mino Vaccari, che da alcuni anni aveva iniziato la costruzione di una chiesa ed altre opere; durante quel viaggio è nata l’idea di costruire un asilo, una scuola, il pozzo, le case per gli insegnanti ecc.
Con l’aiuto del comune di Fiorano Modenese e di tante altre brave persone del nostro comprensorio (Spezzano, Maranello ecc.) sono stati raccolti i fondi necessari per le costruzioni e anche per innumerevoli adozioni a distanza e ho visto, anno per anno (da allora sono andato a Rumuruti per 5 volte), che le opere sono state realizzate ed anche un numero considerevole di bambini sono stati aiutati.
Noi abbiamo dato i fondi e gli amici di Olgiate Molgora (Lecco) hanno contribuito con la mano d’opera e altri aiuti materiali, ma chi ha cornordinato tutto questo è stato padre Vaccari con i suoi collaboratori.
Anche se questo missionario non gradisce riconoscimenti o pubblicità, mi sembra doveroso ricordarlo nella vostra rivista per tutti i meriti che ha, magari con un piccolo articolo e qualche foto.
Non vi sto ad elencare tutti i pregi di questa persona perché certamente li conoscete meglio di me, ma sarebbe bello per tutte le persone della zona che ricevono la vostra rivista, leggere qualcosa sulla missione di Rumuruti e fare vedere l’articolo ad amici per convincerli ad aderire a nuove adozioni o a donazioni pro Rumuruti.
Non voglio certo dare consigli su come impostare il giornale, perché certamente avrete da far conoscere fatti e avvenimenti molto più importanti, ma, ripeto, sarebbe bello leggere qualcosa sulla missione di Rumuruti. Mi è gradito l’incontro per porgere a voi, ai vostri collaboratori e a tutti i padri della Consolata i miei più sentiti auguri di Buon Natale e felice e prospero anno nuovo.
Enrico Bigi
Formigine (MO)

Grazie, signor Bigi, per questa testimonianza sul nostro confratello padre Mino Vaccari e sulla sua attività apostolica a Rumuruti. Di Rumuruti abbiamo parlato in un articolo pubblicato sul numero di luglio-agosto scorso: il missionario è appena menzionato; siamo d’accordo che meriterebbe molto di più; che qualcuno raccontasse più a lungo la sua vita missionaria; ma di padre Vaccari, purtroppo, non abbiamo neppure una foto nel nostro archivio.

Siamo tutti  
sconcertati

Egregio Direttore,
ho letto con notevole sconcerto l’articolo «ai lettori» sulla rivista Missioni Consolata del mese di settembre u.s., che avalla il parere di Famiglia Cristiana riguardo alla catalogazione dei bambini rom. Bravo!
Si vede che all’estensore dell’articolo va bene che siano mandati a pulire i vetri ai semafori, in mezzo ai pericoli del traffico (e non solo…), a rubare nelle case per l’impossibilità della minore età. E a scippare per le strade! Che non vadano a scuola e che vengano disconosciuti dai loro cari genitori quando incappano nelle forze dell’ordine: evidentemente questi esemplari sistemi educativi li preparavano a un «ottimo» avvenire di delinquenza in cui pare li veda bene un certo peloso buonismo di marca PD, che purtroppo sta inquinando parte del mondo cattolico e certa sua stampa. Se le nostre riviste la vedono così, tanto vale che ci abboniamo al Manifesto o all’Unità che, almeno per le loro balzane idee, non vanno a scomodare la religione.
Far «prevalere la compassione sulla legge»? Ma il medico pietoso fa la piaga cancrenosa e, da modestissima pecorella del gregge, mi pare che nei vangeli si propongano chiaramente la compassione, l’amore del prossimo e l’educazione affettuosa, ma severa.
Il suddetto buonismo propugna per tanto l’integrazione, ma come si può fare senza l’educazione e la scuola? Con l’identificazione dei bambini, i genitori verranno finalmente costretti a riconoscere le loro responsabilità e, debitamente supportati, ad indirizzare meglio la vita dei loro figli.
Inoltre, la via indicata da Gesù Cristo per la carità e l’amore fra i popoli, non mostra alcun bisogno di affratellarsi con gli atei, eredi di Marx, Stalin e compagnia (a meno che non lo si faccia per sadismo o per occupare uno scanno in parlamento…) per fare del bene. Consideriamo poi l’inscindibilità tra diritti e doveri a cui tutti si devono attenere, immigrati o europei che siano.
Date a Cesare… Non so poi dove sia il «mondo ecclesiale rassegnato e atrofizzato dalla paura», in quanto bastano le esortazioni di Sua Santità e le attività svolte proprio dal mondo ecclesiale, che non è certo asserragliato in una torre ebuea di paura e isolamento, ma che anche non raramente, nel seguire la parola di Cristo, egisce per i fratelli bisognosi anche a rischio della propria vita. Qui non è il caso di stracciarsi le vesti invocando la libertà di stampa ma non si deve travisare la realtà insolentendo l’operato della chiesa e dei suoi ministri.
Distintamente.
Benedetta dott.sa Rossi
Bologna

Siamo anche noi sconcertati per questa reazione all’editoriale del settembre 2008. Non ci va affatto bene che i bambini rom non vadano a scuola e che siano spesso sfruttati in tante maniere. Ma non crediamo che prendendo le loro impronte digitali si risolva il problema; anzi, crediamo che tale schedatura sia una forma di discriminazione rispetto a tutti gli altri bambini d’Italia e del mondo. E in questo concordiamo solidali con Famiglia Cristiana.
La difesa degli ultimi, degli emarginati, degli sfruttati… non è «buonismo», ma è «la via indicata da Cristo»; forse anche Lui rimane sconcertato nel constatare che tale via è più battuta da certi «eredi di Marx…» che da tanti «atei devoti» che usano la religione per i propri interessi.

Errata corrige

Caro Direttore,
ho visto l’articolo sul femminicidio in Messico, in effetti è venuto bene. Unica piccola osservazione: quando si parla del film Bordertown, ispiratosi al femminicidio, è stato sostituito il nome di Antonio Banderas (come avevo scritto io) con Martin Sheen… Ma Banderas era giusto, soprattutto perché dico che il giornalista da lui impersonato muore, non Sheen che fa il direttore del giornale. È veramente una pignoleria, ma mi sentivo di scrivertelo per chiarezza.
Daniele Biella
Milano

È vero. Nella storia narrata in Bordertown, a morire per la verità non è l’editore del Chicago Sentinel, impersonato da Martin Sheen, ma il capo-redazione del giornale locale El Sol de Juarez, impersonato da Antonio Banderas. Chi ha corretto l’articolo è stato tratto in inganno dalla locandina, in cui è messo in evidenza l’attore Sheen, invece di Banderas. Ce ne scusiamo con l’autore dell’articolo e con i nostri lettori. 

Collaboratore premiato

I l Centro Santa Maria alla Rotonda della Fondazione don Gnocchi di Inverigo (Como) ha organizzato il Concorso letterario «Scrivere d’altro», seconda edizione, sulle tematiche relative alla figura e all’opera di don Carlo Gnocchi nel 51° anniversario della morte.
Il Concorso era riservato a quanti, giornalisti, operatori culturali, o semplici estimatori, abbiano inteso richiamare la figura e l’opera del compianto sacerdote venerabile servo di Dio don Carlo Gnocchi. Sono pervenuti alla segreteria del Concorso 52 elaborati tra professionisti e dilettanti. La giuria era formata da 10 membri provenienti dalle istituzioni civili e religiose, dal giornalismo, dall’imprenditoria, e ha proceduto in due moduli separati con votazione a maggioranza alla designazione dei vincitori delle due sezioni: la 1a sezione riservata a giornalisti, pubblicisti e quanti praticano la comunicazione come attività professionale; la 2a sezione è invece stata riservata solo a scrittori dilettanti.
Il vincitore della 1a sezione è risultato Eesto Bodini con l’articolo «Il dolore degli innocenti», già pubblicato su Missioni Consolata nel dicembre 2006 – Torino. La giuria ha attribuito il premio con la motivazione che recita testualmente: «L’articolo illustra con esemplare completezza il progetto di ricostruzione umana di don Carlo Gnocchi. È un ottimo contributo alla conoscenza della sua figura, elaborato in forma coesa e convincente».

P ersonalmente, come segretario del Concorso letterario e come operatore della Fondazione don Gnocchi, desidero esprimere il mio apprezzamento a Eesto Bodini per la rigorosità scientifica con la quale ha esposto il profilo della figura di don Carlo, sotto tutte le sfaccettature che hanno accompagnato ed esaltato le sue azioni verso i più piccoli e i più bisognosi, alla ricerca di quel riscatto dalle brutalità della guerra vissute nella campagna di Russia e con l’obiettivo di ricostruire la dignità della persona.
Non voglio dilungarmi nel parlare di Eesto Bodini come comunicatore sociale nel campo della medicina, di cui altri possono parlare diffusamente per conoscenza più diretta, desidero invece sottolineare l’aspetto più profondo e determinante sulla sua attività giornalistica, centrato proprio dal suo attaccamento alla figura di don Gnocchi.
Le vicende della sua infanzia lo hanno forgiato ad affrontare gli stessi temi della sofferenza e del suo senso nella vita quotidiana degli uomini. Don Carlo ha dato una risposta di fede che animava il fuoco delle sue iniziative di carità, per noi, e sicuramente per Eesto, il dolore e il suo significato, tema centrale della vita e dell’opera educativa di don Carlo, hanno segnato e accompagnato le vicende personali e professionali del vivere quotidiano.
Tutto questo per me traspare e si evince dai numerosi articoli e interventi di Eesto Bodini, tesi alla diffusione dei valori che la figura di don Carlo Gnocchi ha lasciato in eredità a tutti.
Silvio Colagrande
(direttore Fond. don Carlo Gnocchi di Inverigo, CO)

Tutta la redazione di Missioni Consolata si felicita con il signor Eesto Bodini e lo ringrazia per la sua preziosa e apprezzata collaborazione.




Attentti al gorilla

Non sarà che davvero «il troppo stroppia»? Che senso ha la moda, promossa dalle grandi istituzioni inteazionali e ormai consolidata, di istituire quantità incredibili di giornate di sensibilizzazione, se non addirittura intere annate dedicate a tale e talaltro problema?
La domanda nasce dalla contemplazione di un qualsiasi calendario che riporti in bell’ordine tutte le varie iniziative volte a puntare i riflettori sull’uno o l’altro aspetto del nostro vivere insieme e del nostro ambiente. Viene ormai difficile pensare che il disperdere energia in così tanti obiettivi diversi possa sortire alcun effetto. Gioate mondiali, continentali, nazionali indette dalle organizzazioni più svariate si intersecano con programmi annuali, quinquennali, decennali, in un’orgia di date, eventi, incontri sui temi più svariati. Alcune giornate si sdoppiano e si moltiplicano nel tentativo di rispettare le esigenze di calendario di ognuno. Vista la difficoltà di orientarsi in tale babele, dato per scontato che ad un eccesso di offerta sempre segue un senso di stanchezza da parte di chi fruisce, viene da chiedersi a cosa serve proclamare l’istituzione di una giornata o di un anno dedicati ad un certo tema.

L’Onu, nel disperato quanto sterile tentativo di promuovere il conseguimento dei pretenziosi otto obiettivi del Millennio è una delle organizzazioni più provvida di iniziative. Il 2009 è stato proclamato dalle Nazioni Unite, anno internazionale della riconciliazione, dell’astronomia, dello studio dei diritti umani (in realtà si tratta di un biennio che racchiude interamente le celebrazioni per il 60° anniversario della Dichiarazione del ‘48) e delle fibre naturali. A dirla tutta il 2009 è pure l’anno internazionale del gorilla. Dove sono le priorità? Che benefici portano le pie esortazioni del Palazzo di vetro? Come si possono verificare i risultati di tali indizioni? Non sarà che l’intenzione di dedicare un anno a tutto non si risolva in un niente di fatto?
A queste forme di impegno ormai non credo più. L’anno scorso è girato in rete un testo molto bello del teologo e attivista brasiliano Frei Betto: «Felice anno nuovo, rendi nuovo il tuo anno». Se non si lavora sulla persona a poco serve sensibilizzare le istituzioni; è sufficiente leggere il tono generalista del testo di proclamazione dell’anno internazionale della riconciliazione e confrontae i buoni propositi con la sterilità dei risultati di fronte a quelli che sono i nostri normali contesti di conflitto, iniziando da quelli familiari. L’anno veramente importante è quello marcato dal desiderio personale di conseguire, responsabilmente, un piccolo obiettivo che ci consenta di migliorare le nostre relazioni con l’ambiente e con gli esseri che ci circondano, umani e non. Per coloro che credono la cosa assumerà, ovviamente, anche connotazioni religiose; per chi non crede si colorerà di un senso di profondo rispetto per ciò che ci circonda. Sono convinto che di simili piccole risoluzioni potrebbero essere contenti – e persino avvalersene per quest’anno e gli anni a seguire –   anche i gorilla.

Di Ugo Pozzoli

Ugo Pozzoli




Il missionario viaggiatore

Anno paolino

Paolo di Tarso è il grande missionario viaggiatore. Si calcola che abbia percorso più di 15.000 km per le strade dell’impero romano, che aveva reso più sicuri i viaggi per mare e sviluppato una fitta rete stradale che collegava Roma alle regioni più lontane dell’impero: i missionari cristiani poterono così portare il nome di Gesù nelle varie regioni dell’impero.
La seconda parte degli Atti degli Apostoli si concentra soprattutto sull’attività missionaria di Paolo, rappresentata sotto forma di tre viaggi missionari, più un quarto come prigioniero da Cesarea a Roma. Ognuno di tali viaggi è caratterizzato da un discorso chiave di Paolo riguardante vari aspetti della missione: predicazione ai giudei nella sinagoga di Antiochia di Pisidia (Atti 13,16-41); predicazione ai pagani nell’Areopago di Atene (17,22-31) e addio ai presbiteri di Efeso a Mileto, vero testamento pastorale dell’apostolo (20,17-38).

Il primo viaggio (Atti 13,1-14,28) inizia ad Antiochia di Siria, ove era nata una vivace comunità cristiana tra i pagani greci: questa comunità invia in missione il cipriota Baaba e Paolo (13,1-3). Salpati da Seleucia sulla costa siriana, attraversano l’isola di Cipro e giungono alle coste meridionali dell’Anatolia, oggi Turchia; toccarono le città di Attalìa, Perge, Antiochia di Pisidia, Iconio, Listra e Derbe e ritornarono al punto di partenza.
All’inizio del viaggio il nome di Baaba viene sempre prima di Saulo; poi sembra sia questi a prendere il comando della spedizione: da 13,9 il nome Saulo viene sostituito con quello di Paolo, quasi che, all’incontro col mondo pagano, egli preferisca usare il nome romano, Paulus, invece di quello ebraico, Saulo.
La strategia è sempre quella di rivolgersi prima agli ebrei, mostrando come Gesù adempie le profezie messianiche: il discorso nella sinagoga di Pisidia è il modello di tale evangelizzazione. Poi, anche a causa della scarsa risposta degli ebrei, Paolo e Baaba si rivolgono sempre più ai pagani e sono stupiti dalla loro risposta positiva al loro annuncio. Rientrati ad Antiochia essi condividono con la comunità la loro esperienza (Atti 14,27).

Il secondo viaggio missionario (Atti 15,36-18,22) inizia con la separazione tra Paolo e Baaba. Baaba e Marco ripartono per Cipro; Paolo, con il nuovo compagno Sila, attraversa Siria e Cilicia e raggiunge Listra, dove accoglie con sé Timoteo, che avrà un ruolo molto importante nelle missioni di Paolo. Percorsa l’Anatolia centrale, essi raggiungono la città di Troade, sulla costa settentrionale del Mar Egeo. «E qui si ebbe di nuovo un avvenimento importante: in sogno vide un macedone dall’altra parte del mare, cioè in Europa, che diceva, “Vieni e aiutaci!”. Era l’Europa futura che chiedeva l’aiuto e la luce del vangelo» (Benedetto xvi). Sulla spinta di questa visione entra in Europa: sbarcato a Neapoli, arriva a Filippi, ove fonda una bella comunità, la prima in Europa, seguita poi da quella fondata a Tessalonica.
Il centro del viaggio è il discorso all’Areopago di Atene (Atti 17,22-34). «In questa capitale dell’antica cultura greca predicò, prima nell’Agorà e poi nell’Areopago, ai pagani e ai greci. E il discorso dell’Areopago, riferito negli Atti degli Apostoli, è modello di come tradurre il vangelo in cultura greca, di come far capire ai greci che questo Dio dei cristiani, degli ebrei, non era un Dio straniero alla loro cultura, ma il Dio sconosciuto aspettato da loro, la vera risposta alle più profonde domande della loro cultura» (Benedetto xvi).
Poi da Atene arriva a Corinto; i coniugi Priscilla e Aquila lo accolgono in casa loro e condividono con lui il loro lavoro di fabbricatori di tende: con questa coppia Paolo dà vita alla comunità cristiana di Corinto. Dopo 18 mesi, Paolo lascia Corinto, insieme a Aquila e Priscilla, e arriva a Efeso, dove lascia la coppia, mentre egli raggiunge Cesarea Marittima e sale a Gerusalemme, per tornare poi ad Antiochia sull’Oronte (Atti 18,18-22).

Il terzo viaggio missionario (Attti 18,23-21,16) inizia come sempre da Antiochia. Paolo punta dritto su Efeso, capitale della provincia d’Asia; vi soggioa per due anni, fondando comunità cristiane nella regione circostante, finché deve fuggire, per una sommossa popolare provocata dagli argentieri locali, che vedevano diminuire le loro entrate per la riduzione del culto di Artemide (il tempio a lei dedicato a Efeso, l’Artemysion, era una delle sette meraviglie del mondo antico). Attraversata Grecia e Macedonia, Paolo giunge a Mileto, convoca gli anziani della chiesa di Efeso e rivolge loro un discorso, chiamato «testamento pastorale di Paolo» (Atti 20,17-38), perché presenta una ricca sintesi della sua vita missionaria, modello per ogni pastore.  
Ripartito da Mileto, Paolo fa vela verso Tiro, raggiunse Cesarea Marittima e sale ancora una volta a Gerusalemme. Qui è arrestato per un malinteso: alcuni giudei di origine greca, introdotti da Paolo nell’area del tempio riservata agli Israeliti, erano stati presi per pagani: la prevista condanna a morte gli è risparmiata per l’intervento del tribuno romano di guardia all’area del tempio (cfr At 21,27-36). Paolo viene incarcerato e, come cittadino romano, si appella a Cesare per non essere giudicato dai giudei.
Nel viaggio verso Roma (Atti 27-28), sotto custodia militare, Paolo approda a Malta, dopo un drammatico naufragio (27,1-44); quindi raggiunge Siracusa, Reggio Calabria e Pozzuoli. I cristiani romani gli vanno incontro fino al Foro di Appio (ca. 70 km a sud di Roma) e altri fino alle Tre Tavee (ca. 40 km). A Roma incontra i delegati della comunità ebraica, a cui confida che è per «la speranza d’Israele» che portava le sue catene (cfr At 28,20).
Con l’arrivo di Paolo nella capitale dell’impero, l’autore di Atti vede compiersi la profezia di Gesù «mi sarete testimoni fino all’estremità della terra» (1,8) e non soddisfa la nostra legittima curiosità di conoscere il seguito della vita e martirio di Paolo.
Negli Atti ci è presentato il ritratto di un viaggiatore instancabile, che percorre terra e mare sempre con la stessa finalità: portare a tutti l’annuncio di Colui che ha sconvolto la sua vita. Per amore di Gesù affronta difficoltà inimmaginabili, come dirà in un testo memorabile: «Cinque volte dai giudei ho ricevuto i 39 colpi, tre volte sono stato battuto con verghe, una volta sono stato lapidato, tre volte ho fatto naufragio, un giorno e una notte in balia delle onde. Viaggi innumerevoli, pericoli di fiumi, di briganti, dai miei connazionali, dai pagani, nelle città, nel deserto, sul mare, da parte di falsi fratelli, fatiche e travaglio, veglie senza numero, fame e sete, freddo e nudità» (2 Cor 11,24-27).

di Mario Barbero

Mario Barbero