DENTRO LE MURA
16 febbraio – festa del beato Giuseppe Allamano
L’impegno sociale di Giuseppe Allamano nella Torino del suo tempo rivela un impegno missionario a 360 gradi, fatto di curiosità, conoscenza della realtà, passione per l’umanità, tanta fede e un aspetto meno conosciuto del fondatore dei missionari e missionarie della Consolata.
Il beato Giuseppe Allamano trascorse quasi tutta la sua vita a Torino, spostandosi dai suoi abituali paraggi soltanto in poche circostanze. Eppure, ciò che lo caratterizza, tra i santi piemontesi dell’800 e ‘900, è soprattutto l’apertura alla missione della chiesa presso altri popoli, concretizzatasi attraverso la fondazione degli Istituti dei Missionari (1901) e delle Missionarie (1910) della Consolata. Una missione iniziata in Africa, dove l’Allamano intendeva continuare l’attività del grande vescovo missionario piemontese e frate cappuccino Guglielmo Massaia, e successivamente estesa anche all’America e più recentemente all’Asia.
Tale dimensione universale nasce dalla considerazione che l’Allamano ebbe della propria chiesa di Torino, ricca, come egli stesso ebbe modo di scrivere, di tante istituzioni caritative e di promozione sociale, ma priva di un’iniziativa esclusivamente rivolta al di fuori dei suoi confini territoriali. La realtà ecclesiale piemontese, infatti, a differenza di altre regioni dell’Italia era sprovvista di istituzioni missionarie specificatamente ad gentes. L’idea di fondo dell’Allamano era quella di dare un apporto concreto alla missione universale della chiesa, allargando nel contempo gli orizzonti delle diocesi del Piemonte, offrendo loro la possibilità di superare il provincialismo interessandosi alle sorti di popoli geograficamente lontani.
Lo spirito con cui l’Allamano persegue questo obiettivo riflette uno stile da lui già vissuto in ambito torinese, stile che nasce dall’attenzione con cui osservava la realtà che lo circondava.
I suoi contemporanei, infatti, lo ricordano come persona attenta alle situazioni ed emergenze, al nuovo da accogliere: «Teneva l’occhio e l’orecchio attenti e vigili a quanto accadeva al di fuori, immergendosi totalmente nella realtà che lo circondava e manifestando un’intuizione precisa dei bisogni del suo tempo». Tantomeno si accontentò del semplice rendersi conto dei problemi. Al «vedere» fece seguire l’intervento, perché, diceva, non basta lamentarsi solamente per le cose che non vanno, senza al contempo muovere un dito per cambiarle. A tal riguardo, si diede da fare per promuovere, incoraggiare, sostenere nuove forme, anche ardite, di presenza cristiana nel contesto cittadino.
Quello in cui l’Allamano visse fu un periodo marcato da un forte incremento dell’industrializzazione e dalla conseguente migrazione di molte persone dalle campagne alla città. Sono anche tempi in cui cominciano a emergere i problemi inerenti il mondo del lavoro, a quel tempo ancora carente di una legislazione appropriata che difendesse i diritti dei lavoratori. Al santuario della Consolata, di cui era rettore, fece confluire varie categorie di persone a cui impartire una formazione umana e cristiana, ma anche per dar loro sostegno e promuovere la difesa dei loro diritti sindacali, favorendo l’organizzazione di associazioni o cornoperative di lavoratori e lavoratrici, come quella delle tessitrici della fabbrica «Brass e Abrate»; delle operaie della Manifattura Tabacchi del quartiere di Regio Parco, dei tranvieri, delle erbivendole e delle sarte. Queste ultime, nella sola Torino erano circa 20 mila, spesso sottopagate, sottoposte a orari inumani, prive di qualunque assistenza sociale; per esse fu fondato il «Laboratorio della Consolata», di cui l’Allamano, per il sostegno dato, venne considerato confondatore. Tra I’altro incoraggiò pure le cornoperative contadine a meglio organizzarsi.
Determinante fu anche il suo intervento in favore della stampa. In questo campo sostenne e fondò egli stesso varie testate cattoliche compresa «La voce dell’operaio», giornale fondato dal Murialdo e divenuto poi con il tempo «La voce del popolo», attuale settimanale di informazione della diocesi di Torino. Insieme al suo collaboratore di una vita, il canonico Giacomo Camisassa, fondò la rivista «La Consolata», per informare sulle iniziative del santuario e, in seguito, sull’attività dei Missionari della Consolata che, dall’anno 1902, si trovavano in Kenya e iniziavano a far conoscere persone e culture da essi incontrate nella loro attività evangelizzatrice.
L’Allamano sostenne e incoraggiò l’impegno di quanti, laici ed ecclesiastici, si impegnavano con entusiasmo nell’azione sociale e, a causa di ciò, erano molte volte guardati con diffidenza. Nel Convitto Ecclesiastico, in cui i giovani sacerdoti terminavano la preparazione teologico-pastorale dopo l’ordinazione, promosse anche la formazione sociale dei preti, grazie all’istituzione di corsi di sociologia teorica e pratica. Queste lezioni, per disposizione dell’Allamano, divennero parte integrante della formazione impartita al Convitto.
Lo stesso atteggiamento di apertura verso il sociale sperimentato nella diocesi di Torino fu da lui suggerito ai missionari inviati in Kenya. Tale approccio divenne norma della loro azione pastorale, che aveva come componenti essenziali tanto l’annuncio del vangelo quanto l’impegno di «elevare» l’ambiente con la promozione umana, per migliorare le condizioni di vita attraverso la formazione delle persone, la promozione di servizi, la difesa dei diritti umani e la promozione della giustizia e della pace.
In sintesi: i suoi missionari, scriveva, dovevano impegnarsi per «fare felici» le persone («Ameranno una religione che, oltre le promesse dell’altra vita, li rende più felici su questa terra…»). Il vangelo è per la promozione integrale delle persone. Giuseppe Allamano l’aveva capito molto bene, tanto da fae un principio ispiratore della sua opera missionaria; ma era altresì convinto che per fare questo occorreva conoscere il contesto. Esortava, quindi, i suoi missionari a iniziare con l’osservazione della realtà, perlustrando la zona dove erano presenti per rendersi conto della situazione, delle idee, delle consuetudini, delle necessità della gente: «Osservate e annotate», era il suo imperativo.
Questo principio di fondo vale anche oggi se si vuole che l’azione missionaria abbia un impatto sulla realtà. Anche qui, in Italia, occorre stimolare un confronto con la città e i suoi ritmi, le sue opportunità e i suoi problemi. Interessarsi delle realtà odiee, dell’analisi congiunturale che crea fenomeni sociali ben precisi è in sintonia con lo stile dell’Allamano, che riflette il comportamento anche di altre ben note personalità di rilievo di Torino e del Piemonte, come Don Bosco per i giovani, il Cottolengo per i malati e handicappati, il Cafasso per gli spazzacamini, i carcerati e i condannati a morte, il Murialdo per gli operai, Faa di Bruno per la cultura, e così via.
I santi non sono persone lontane dalla realtà, fuori del mondo. Uno degli insegnamenti del Cafasso, fatto proprio anche dall’Allamano, era che «la politica dei preti è la salvezza delle anime», per ribadire che non si dovevano immischiare in lotte partitiche. Ma se la politica, nel suo significato più autentico, è interessamento concreto per la polis, cioè per la gente, i santi torinesi questa politica l’hanno fatta, a volte anche più efficacemente di coloro che se ne occupavano professionalmente stando al governo o nelle amministrazioni locali.
Da tale atteggiamento emerge anche un altro punto che vale la pena di sottolineare. Oggi come oggi, in questa realtà che si rivela in tutta la sua complessità, occorre approfondire la conoscenza di un mondo che sta radicalmente cambiando per meglio comprenderne la complessità e scrutare il futuro, senza paure, allarmismi, segregazioni.
Da questo confronto vengono pure impulsi e stimoli per migliorare o anche cambiare metodi tradizionali di azione, magari considerati irrinunciabili. Le indicazioni che verranno da studiosi, ricercatori e conoscitori delle attuali componenti antropologiche, sociologiche e di pensiero, aiutano a impostare comportamenti e attività corrispondenti alla situazione e alle necessità di oggi per infondere speranza e contribuire a una convivenza non solo pacifica tra le diverse componenti etniche, culturali, sociali e religiose ma anche arricchente.
Ciò stimolerà pure a ripensare e reinterpretare l’ispirazione dell’Allamano, per essere fedeli alle sue intuizioni e proposte, alla sua apertura all’universalità, senza disattendere le situazioni mondiali di impoverimento, fame, malattie, istruzione carente, senza dimenticare la dimensione locale ma, anzi, partendo da essa.
LE FRONTIERE ROVESCIATE DELLA
MISSIONE AD GENTES
La Torino in cui l’Allamano ha esercitato il suo ministero sacerdotale per più di mezzo secolo, era una città in forte evoluzione demografica, soggetta a mutamenti di carattere economico e sociale che ne avrebbero segnato in maniera profonda il volto che l’ha caratterizzata fino ai nostri giorni.
Era una città che lavorava e produceva, in preda alla grande espansione del settore industriale che avrà il suo picco all’inizio del XX secolo grazie a un microcosmo di piccole attività artigianali e industriali il cui sviluppo iniziava ad attrarre sempre più persone in città. Il processo di industrializzazione, infatti, andava di pari passo a un rapido e a volte incontrollato fenomeno di urbanizzazione, processo che era già iniziato dopo la metà del 19° secolo con la crisi della mezzadria e la prima grande migrazione verso Torino dell’epoca modea o contemporanea. La rapidità con cui si verificò l’espansione portò gravi conseguenze da un punto di vista urbanistico e sociale. La marea di gente che si riversò nella città cercando lavoro e migliori prospettive di vita iniziò ad ingrossare le fila dei tanti emarginati che ne riempirono i quartieri.
Il lavoro si trovava, ma sovente era lavoro sottopagato, illegale, con orari e tui massacranti tanto per gli uomini quanto, soprattutto nel settore tessile, per le donne. Inutile dire che lo sfruttamento minorile era prassi abituale. Questa fu la Torino di cui si presero cura i grandi santi sociali del XIX secolo: dal Cottolengo al Cafasso, da Don Bosco al Murialdo, ecc.
L’Allamano, pur sognando l’Africa e il mondo lontano ancora da evangelizzare, aveva però nel santuario della Consolata un osservatorio privilegiato che gli permetteva di penetrare nelle pieghe più recondite del disagio torinese grazie alle tante persone che incontrava nel suo ministero di consolazione, uomini e donne che esprimevano di fronte alla Vergine Maria tutta la loro fragilità, il bisogno di aiuto, la loro grande vulnerabilità.
Di lui e della sua attenzione alla realtà in funzione dell’attività pastorale, il sacerdote e sociologo biellese Don Alessandro Cantono ebbe a dire: «Teneva l’occhio e l’orecchio vigili e attenti a quanto accadeva al di fuori, aspirava a vedere il clero preparato alla vita, armato di tutte le armi che possono rendere proficuo e redditizio il suo santo ministero».
Oggi, poco più di un secolo dopo, il volto della migrazione ad intra presenta nuove sfide missionarie che non si esauriscono sul piano della promozione della giustizia e della pace, ma sfiorano terreni come quelli dell’interculturalità e del dialogo interreligioso. Curiosamente, quelle che ci ritroviamo in casa sono in molti casi persone provenienti dalle terre in cui l’Allamano e i suoi successori hanno inviato missionari. Non solo, ci sono situazioni oggi, qui a Torino, che sono molto più ad gentes di quelle che potremmo trovare in alcune nostre comunità in luoghi considerati tradizionalmente di missione.
Chiedersi che cosa l’Allamano farebbe di fronte a un contesto come il nostro sarebbe uno sterile esercizio di fantastoria. Rileggere però con attenzione il suo stile di approccio alla realtà sociale in cui si è prodigato sono sicuro che indicherebbe un cammino e spunti di iniziativa per arrivare a farci riconoscere anche qui in Italia per quello che si è: missionari.
Gottardo Pasqualetti