Cana (1) Un matrimonio senza sposi

Il racconto delle nozze di Cana (1)

D opo avere concluso la lettura e il commento della parabola del «figliol prodigo» di Lc 15 che ci ha accompagnato per oltre un anno, con questo numero iniziamo la presentazione e il commento del racconto delle «Nozze di Cana» riportato solo nel vangelo di Giovanni nei primi undici versetti del capitolo secondo.  

Immettere ed estrarre
Spesso il testo del racconto viene sfalsato perché letto fuori dal suo contesto originario che noi invece vogliamo recuperare e rispettare. Di solito il brano viene usato nei matrimoni perché, si dice, è il testo che fonda il matrimonio come sacramento a motivo della presenza di Gesù. Diciamo subito che questa lettura è superficiale e non rispecchia affatto il testo in sé, né l’intenzione dell’autore, il quale non intende esporre una riflessione articolata del matrimonio cristiano come si è sedimentato dal sec. x d.C. nella teologia della chiesa e nella cultura occidentale, per altro, ovviamente, inesistente al tempo di Giovanni.
Non ribadiremo mai abbastanza il pericolo che corriamo sempre di far dire alla Scrittura quello che è frutto della nostra mentalità e della nostra esperienza, invece di estrarre fuori il senso proprio dai testi come sono e letti nel loro naturale contesto, che è semitico, orientale, greco-ellenistico. Il primo modo di leggere la Scrittura, di norma basato solo sulle traduzioni che sono quasi tutte addomesticate, si chiama «eis-egèsi» perché «immette dentro» significati che il testo non ha; il secondo metodo invece è quello corretto e si chiama «ex-egèsi», perché studia il testo come è e «tira fuori» da esso, quanto più è possibile, il senso vicino alla mentalità e all’intenzione dell’autore.
Per questo lavoro è necessario trovare tempo, non avere fretta, ruminare le parole, assaporarle, quasi una centellinazione di un bicchiere di un vino d’annata fino a percepie il colore, la densità, la trasparenza, il retrogusto, la corposità, la vivacità: in una parola «la bellezza».
Viviamo in un tempo in cui le parole sono inflazionate (si parla di 90 milioni di sms al giorno solo in Italia) e mai come in questi tempi si è vista una carenza di comunicazione: abbondano e straripano le parole morte, manca il silenzio che dà corpo e vita al suono delle parole vitali. All’eccesso di parole corrisponde una deficienza di attenzione e di profondità: tutto scorre e rotola in superficie, pochi ormai si fermano a leggere in profondità. Dilaga la stupidità, che nasce dalla superficialità, e viene meno «l’intelligenza», cioè la capacità di «intus-lègere – di leggere dentro» gli avvenimenti, i fatti, le persone, i sentimenti, le emozioni, la preghiera, la liturgia, Dio.

Un modo nuovo per leggere la Storia
Entriamo subito nel cuore delle questioni, tanto per dare un saggio, mettendo in fila, anche in modo disordinato, le prospettive che il racconto racchiude per farcene un’idea e superare almeno il livello della superficialità sapendo che dobbiamo riprenderle tutte, fino ad esaminare il racconto parola per parola se vogliamo cogliee l’intensità e i riferimenti ai testi dell’AT di cui il racconto vuole essere un commento cristologico.
L’autore intende presentare la persona di Gesù e lo fa da ebreo che conosce l’AT, il Targum come ascoltato nella sinagoga e l’esegesi giudaica del «midràsh». Lo sposalizio di Cana è solo un espediente che permette di conoscere più profondamente la personalità di Gesù di Nazaret. Il racconto, infatti, è carico di una cristologia elevata: la posta in gioco non è un banale matrimonio, ma la risposta alla domanda cruciale che attraversa tutto il IV vangelo: «Chi è Gesù?».
L’autore del vangelo ci accompagna per mano e ci conduce in un viaggio di «conoscenza» dentro la storia ebraica, dentro il cuore stesso di Dio che si rivela e si manifesta nella stessa storia, la storia del suo popolo Israele, e lo fa da giudeo che ha creduto in Gesù e lo ha riconosciuto come Messia. Nel racconto di Cana vuole mettere in rilievo l’alleanza del Sinai che tutta la letteratura biblica presenta come uno sposalizio (cf p. es., Is 54,5; 62,5; Jer 2,2; 3,1; Ez 16,23; Os 1-3 e tutta l’allegoria del Cantico dei Cantici) per dirci che Gesù riprende il tema della nuzialità come dimensione della nuova alleanza nel suo sangue.

Un matrimonio senza la sposa
Rileviamo subito che nel racconto si parla di uno sposalizio, come ve ne saranno stati tanti al tempo di Gesù e come ve ne sono tanti anche ai nostri giorni. Tutti hanno lo stesso schema, gli stessi elementi, lo stesso andamento: festa, sposa al centro dell’attenzione, sposo nervoso, invitati, regali, organizzazione e infine banchetto con ubriacatura finale.
Nel racconto del quarto vangelo, però c’è qualcosa che non quadra. Anche il lettore più superficiale si accorge subito che manca la «sposa»: essa addirittura non è nemmeno nominata. Lo sposo poi è citato di passaggio e solo per rilevare la brutta figura che ha fatto nel non sapere prevedere il numero degli invitati e l’esito del banchetto. La stessa collocazione a «Cana» è problematica perché sono tre i villaggi con questo nome, di cui uno anche nel Libano meridionale, che si contendono le nozze: tre villaggi per una sposa assente. L’archeologia e specialmente lo studio delle fonti letterarie hanno dimostrato, ormai definitivamente che il villaggio delle nozze di Cana non è quello che usualmente i pellegrini visitano, ma un oscuro posto distante circa sette km, abbandonato e dimenticato.
L’intervento della madre di Gesù è centrale e non può essere solo la preoccupazione di una donna di buon senso che cerca di rimediare a una difficoltà. Per questo non era necessario scrivere un vangelo. La madre che chiede di porre rimedio alla brutta figura è fuori luogo, perché sia lei che il figlio sono invitati e non responsabili del banchetto. L’intervento di Maria viene spesso interpretato come una intercessione «matea» che si fa carico dei bisogni degli altri, dimostrando così come si possa manipolare un testo con la teologia mariana «di poi», immessa a piene mani nel vangelo che invece vuole dire tutt’altro.
Dietro la richiesta della madre ci deve essere un altro motivo logico, un motivo profondo che tenteremo di scoprire. Le giare di pietra sono un altro «enigma»: perché sei? perché «di pietra»? In Gv nulla è superfluo, perché tutto ha un senso preciso e puntuale. Se non lo comprendiamo, è per nostra ignoranza.

Una rilettura cristiana dell’Esodo
Cercheremo di dimostrare che il racconto delle nozze di Cana è un «midràsh» cristiano che ha lo scopo di svelarci una parte della complessa personalità di Gesù, riprendendo alcuni testi dell’AT che acquistano così il valore di eventi premonitori e anticipatori. Scopriremo così che i primi cristiani leggevano gli eventi nuovi riguardanti Gesù di Nazaret come «Scrittura» all’interno dell’altra grande «Scrittura» giudaica, che era la Toràh scritta (Pentateuco) e orale (Targum, Midràsh).
Due sono i fatti più importanti della storia biblica a cui il racconto delle nozze di Cana si riferisce: l’alleanza stipulata ai piedi del monte Sinai, descritta nel capitolo 19 dell’Esodo, e il «segno» della prima piaga (le acque del fiume Nilo trasformate in sangue) che colpì l’Egitto come è descritta in Esodo al capitolo quarto. In questo contesto si capisce la prospettiva di Giovanni.
Nei testi dell’AT si parla di confronto tra fede e incredulità, tra il faraone ostinato e Mosè il credente, allo stesso modo, a conclusione del racconto delle nozze di Cana, l’autore ci svela il suo obiettivo: l’intervento di Gesù che muta l’acqua in vino durante un banchetto nuziale «fu il principio dei segni compiuti da Gesù; egli manifestò la sua gloria e i suoi discepoli cominciarono a credere in lui» (Gv 2,11).
Questa conclusione è la chiave interpretativa di tutto il racconto e di tutto il vangelo: il rapporto tra incredulità e fede, tra accoglienza di Gesù e rifiuto della sua persona, il conflitto tra luce e tenebra, come si esprime lo stesso autore nel «prologo» (Gv 1,1-8). Dalla banalità di uno sposalizio a una prospettiva universale della vita.

Gesù e Mosè: la discriminante della fede
Per l’autore del quarto vangelo, Gesù si trova nella stessa situazione di Mosè appena dopo l’esperienza del roveto ardente (Es. 3), quando Dio ha intenzione di rimandarlo in Egitto a portare il suo messaggio al Faraone perché liberi il popolo d’Israele. Mosè oppone una difficoltà: «E se non mi credono e non ascoltano la mia voce?» (Es 4,1). Dio allora istruisce Mosè che in questo caso deve fare tre «segni» in un crescendo drammatico culminante nell’acqua del Nilo trasformata in sangue (Es 4,9), come nelle nozze di Cana l’acqua è trasformata in vino.
Un altro elemento importante è il tema del vino, perché in tutta la tradizione biblica e giudaica è simbolo della Toràh e anche dell’alleanza in prospettiva messianica, come testimoniano alcuni apocrifi dell’AT, di cui parleremo più avanti. Narrando il «fatto» di Cana, l’autore ci scaraventa di peso nel cuore stesso della storia della salvezza, che ha il suo fulcro e il suo epicentro nell’alleanza del Sinai a cui Israele è giunto dopo avere attraversato tutte le fasi dell’incredulità del faraone e della sua corte: fu un confronto titanico tra la non-fede e la fede, tra la lettura dei «segni» come accaduti nella storia e la cocciutaggine di volerli addomesticare a proprio vantaggio come fa il faraone, tra la libertà dei figli di Dio e la schiavitù dei figli degli uomini.
Le nozze di Cana ci svelano il volto autentico del Dio che Gesù è venuto a mostrarci: il volto di un Dio innamorato che non smette mai di innamorarsi.
Quanto detto finora ci sembra sufficiente a stuzzicare la curiosità su un brano del vangelo, le nozze di Cana, molto conosciuto, ma poco approfondito a livello popolare. La nostra intenzione è di fare un commento che tenga conto di tutte le ricerche bibliche più aggiornate, espresse in un linguaggio non specialistico, ma divulgativo: per questo motivo diamo in questo numero una bibliografia essenziale, per fare anche capire che dietro ogni puntata vi è la giorniosa fatica di un lavoro di ricerca e di confronto e dare anche lo spessore dell’impegno che testimonia l’importanza della Parola e la serietà con cui deve essere accostata e mangiata (cf Ez 2,8; 3.1). Solo così anche per noi essa sarà «dolce come il miele» (Ez 3,3).
Lo scopo nostro è divulgare la Parola di Dio, in obbedienza all’invito di donna Sapienza a quanti sono inesperti: «Venite mangiate il mio pane, bevete il vino che io ho preparato» (Pr 9,4-5).

Il quarto vangelo: una fittissima foresta
Prima però di cominciare la presentazione e il commento del brano che riporta il racconto delle nozze di Cana (Gv 2,1-11), è necessario dire qualcosa sul quarto vangelo e sul suo autore, così non navigheremo a vista, ma avremo una panoramica di riferimento, una coice che per necessità sarà essenziale, ma sufficiente a darci il quadro generale entro cui ci muoveremo.
Il quarto vangelo, attribuito dalla tradizione a un certo Giovanni, è come un bosco fittissimo, dove una volta entrati se non si conoscono bene i sentirneri, si rischia di girare a vuoto senza andare da nessuna parte o anche di andare nella direzione opposta: «Solo quando noi, dopo aver percorso a lungo un sentirnero, ci rendiamo conto che i nostri passi non portano da nessuna parte, oppure in una direzione che non è quella che vogliamo, cominciamo a maturare in noi la convinzione di dover fare a ritroso il cammino, per riguadagnare il punto da cui sia possibile ritrovare l’orientamento. Questa osservazione non si applica solo a coloro che attraversano un bosco o iniziano a scalare una montagna» (G. Ruggieri, Cr St 21 [2000] 1), ma anche a chi si avventura a entrare nella selva di sentirneri e percorsi, incastonati nel quarto vangelo come innumerevoli e fitti alberi di una immensa foresta. Per entrarvi bisogna essere dotati di una mappa minuziosa ed essere attenti a ogni minimo particolare, che, a volte, all’occhio dell’inesperto sembra futile o insignificante, mentre è la chiave per capire l’insieme.

Il iv vangelo: un enigma dietro l’altro
«Il Vangelo di Giovanni è una collezione di enigmi»  (G. Ravasi, Il Vangelo 5) e «ha un qualcosa di enigmatico, che non trova riscontro in nessun altro libro del Nuovo Testamento» (H. Strathmann, Il Vangelo 9). Enigma ed enigmatico sono un sostantivo e un aggettivo molto pertinenti a definire il quarto vangelo, per sintetizzae in una parola il fascino e le difficoltà di approccio. Mano a mano che ci si addentra al suo interno, più che le certezze aumentano gli interrogativi.
Un’altra espressione, ormai corrente «vangelo spirituale», espressione antica e divenuta ormai abituale. Di «vangelo spirituale», infatti, parla Eusebio di Cesarea (Storia Ecclesiastica, VI,14,7) che, a sua volta, riferisce la testimonianza di Clemente Alessandrino, morto verso il 200: «“…Da ultimo Giovanni, vedendo che negli altri vangeli era messo in luce l’aspetto umano della vita di Cristo, obbedendo all’invito dei discepoli e divinamente ispirato dallo Spirito Santo, compose un vangelo che è spirituale”. Questo riferisce Clemente» (cf anche G. Ravasi, Il Vangelo 5).
L’esegeta olandese H. van den Bussche e l’americano R. E. Brown pongono ambedue l’espressione addirittura come sottotitolo al rispettivo commento che porta lo stesso titolo: Giovanni. Commento al Vangelo spirituale (v. bibliografia).
Un’altra definizione è «vangelo del presbitero, quello che al cristiano maturo e contemplativo dà una visione unitaria dei vari misteri della salvezza» (C. M. Martini, L’itinerario 8). Ognuna di queste definizioni è vera, ma incompleta, perché nessuna di esse esaurisce la profondità e l’intensità del pensiero dell’autore espresso nelle parole del vangelo.
Ogni parola ha un significato diretto e immediato che è quello del vocabolario, ma dietro il senso ovvio ognuna di esse nasconde un significato misterioso o «significato secondo» che bisogna cercare e scoprire con pazienza, preghiera e passione.
Lo stesso evangelista ci invita a rimanere sulla sua Parola per essere suoi discepoli, conoscere la verità e diventare liberi (cf Gv 8,31). Rimanere sulla Parola significa essere saldi e radicati su di essa come la casa costruita sulla roccia (cf Mt 7,24-25) per penetrae l’anima e il cuore che solo con lo studio si può realizzare: la Parola di Dio è come un’innamorata che esige tempo e attenzione, riguardo e passione.

Attenti ai segni
Abbiamo già accennato che il versetto conclusivo del racconto delle nozze di Cana ci informa che ciò che accadde allo sposalizio fu «il principio dei segni» (Gv 1,11) e un lettore attento non può non restare stupito di fronte alla prima conclusione del vangelo dove leggiamo: «Gesù in presenza dei suoi discepoli fece molti altri segni che non sono stati scritti in questo libro. Ma questi sono stati scritti perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio e perché, credendo, abbiate la vita nel suo nome» (Gv 20,30-31).
Il vangelo prende l’avvio dal «principio dei segni» che è anche l’inizio della fede dei discepoli e si conclude con l’accenno ad alcuni «segni» finalizzati alla fede del lettore che così inizia a diventare discepolo che testimonia colui in cui crede.
Nel vangelo di Giovanni non bisogna mai fermarsi alle apparenze, perché esse sono sempre occasione per un trabocchetto, dove ci si impiglia facilmente. Per impedire di inciampare dal prossimo numero cominceremo con una presentazione sintetica del quarto vangelo e cercheremo di capire chi ne è l’autore.    (continua – 1)

Di Paolo Farinella

Paolo Farinella

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