la parabola del «figliol prodigo» (24)
Concludiamo il nostro lungo cammino in compagnia dell’evangelista Luca, il quale da par suo ci ha fatto conoscere profondamente cinque personaggi: un padre sconfinato che non esita a dare la vita per i figli; il figlio minore, sognatore e irrequieto, ma senza una propria progettualità tanto da finire subito in fallimento; il figlio «anziano», apparentemente tutto dolce e obbediente, ma nel suo cuore è tragico senza possibilità di redenzione; la persona di Gesù, che non smentisce la sua natura di rivoluzionario delle convenzioni religiose e sociali del suo tempo; e infine noi stessi, noi lettori, che dopo questo viaggio «dentro» la parabola del cosiddetto «figliol prodigo», non possiamo rimanere gli stessi di quando abbiamo cominciato.
Punto di arrivo e di partenza: domande personali
La parabola del figlio prodigo, infatti, penetra nel midollo della nostra anima e ci scaifica fino all’osso come una spada tagliente (cf Eb 12,4). La lettura e il commento che abbiamo fatto ci obbligano a una presa di posizione personale nei confronti di Dio e dei nostri stili di vita. Le domande sono individuali. Chi è Dio «per me?». Il comportamento del padre che perdona senza chiedere in cambio nulla, un perdono gratuito, senza condizione mi scandalizza oppure mi rivela un «volto nuovo» di Dio che prima non immaginavo? Ritengo che il comportamento del padre sia «ingiusto» secondo i miei criteri della giustizia che spesso si avvicina fino a confondersi con la vendetta? A quale dei personaggi della parabola mi trovo più vicino? Per quali motivi? Ha senso la mia pratica religiosa, dopo avere vissuto questa parabola dal punto di vista del padre/Dio?
Tutte queste domande e molte altre ancora tracimano dentro di noi perché la parabola lucana è uno spartiacque tra il «dio-idolo», che a volte ci costruiamo per giocare a fare i religiosi, e il «Dio-Misericordia» che trancia la logica umana, esigendo da noi uno stile di vita divino, in forza del principio evangelico: «Siate perfetti come è perfetto il Padre vostro che è nei cieli» (Mt 5,48).
Il cristianesimo è tutto qui: non è una morale, né un sistema di pensiero, né un’organizzazione, né una religione, ma è solo una «imitazione» che si trasforma in simbiosi di vita e prospettiva con una Persona. Se non impariamo nei nostri rapporti, contatti, pensieri, parole, ideali, atteggiamenti, ad agire come Dio, la nostra religiosità è un francobollo da cui è evaporata la colla.
Ripercorriamo brevemente il cammino fatto con Luca e la sua parabola. Siamo partiti da alcune domande poste da un lettore: «Da dove Lc ha attinto questa parabola, non essendo apostolo? Come spunta questa meravigliosa “perla”, visto che è esclusiva di Lc e non compare negli altri evangelisti? L’ha pronunciata veramente Cristo?».
Le domande sono radicali e dimostrano la poca frequenza, oltre la lettura di prassi, con la complessità della formazione dei vangeli e del NT. Un dato è certo: i cattolici conoscono poco, pochissimo, quasi niente le sacre scritture, che dovrebbero essere il fondamento della loro fede. Essi, infatti, sono molto religiosi, ma scarseggiano di fede e di conoscenza. Officiano, senza amare.
Conoscere la scrittura e il suo cammino
Di fronte a tali presupposti abbiamo proposto una carrellata veloce sulla formazione dei vangeli, spiegando che i vangeli non sono nati per tramandare aneddoti su Gesù, ma sono stati «predicati» per fare conoscere Gesù ai propri contemporanei. Da questa predicazione orale, fatta da persone innamorate di Gesù, sono nati i primi scritti come elenchi di miracoli, di parabole, di detti o sentenze ad uso in genere dei catechisti e dei predicatori.
Questi documenti sparsi giravano per le chiese e cominciarono a essere abbinati come «Parola di Dio» alla lettura dell’AT nelle assemblee eucaristiche. A circa 30 anni dalla morte di Gesù, quando ormai Paolo aveva valicato i confini della Palestina e fondava chiese nell’attuale Turchia e in Grecia, l’evangelista Marco, per primo, inventa un genere letterario nuovo che chiama «vangelo», preso più tardi a modello da altri due progetti pensati da Matteo e da Luca. Nascono così i vangeli «sinottici» perché se si mettono in colonne affiancate Marco, Matteo e Luca, si possono leggere simultaneamente o, come si dice in gergo biblico, in «sinossi» che significa «con un colpo d’occhio».
Lo schema dei vangeli «sinottici» è semplice: a) predicazione di Giovanni Battista; b) predicazione e attività di Gesù, prima in Galilea e poi in Giudea/Gerusalemme; c) passione, morte e risurrezione di Gesù. A questo schema, in epoca successiva, Mt e Lc aggiungono i primi due capitoli dei rispettivi vangeli che si chiamano in blocco «vangeli dell’infanzia», perché trattano di Gesù Bambino, ma visto e descritto alla luce della pasqua già avvenuta.
L’evangelista Gv non segue questo schema, ma si pone su un piano più teologico, perché fa emergere una «cristologia» alta: Gesù infatti fa lunghi discorsi che sono inverosimili storicamente, mentre sono essenziali per il progetto di Gv che ci presenta Gesù, l’uomo di Nazaret, come il «Lògos» eterno incarnato nella storia.
Dopo questa premessa essenziale e didascalica, abbiamo parlato del capitolo 15 di Lc, che riporta tre parabole secondo le bibbie ordinarie, mentre abbiamo dimostrato che le parabole sono due, di cui la prima quella del pastore è ripetuta anche in versione femminile (la donna che perde e trova la moneta). Il capitolo 15 di Lc è uno spartiacque, il vertice di tutta la rivelazione del NT, dopo l’affermazione giovannea che «Il Lògos-carne/fragilità fu fatto» (Gv 1,14). Successivamente abbiamo presentato i protagonisti della parabola con una breve scheda storica dei pubblicani, scribi, farisei e sinedrio che fanno da sfondo e da pretesto alla parabola.
Luca 15: una nuova prospettiva
Infine, abbiamo avanzato l’ipotesi, che ci sta a cuore e di cui siamo convinti: il capitolo 15 di Luca, compresa quindi la parabola del figliol prodigo, non è una invenzione di Lc, ma è un «midràsh» del capitolo 31 di Geremia. Abbiamo spiegato che il midràsh è un modo giudaico di esegesi che si basa sul principio che la scrittura si spiega con la scrittura. Lc prende il testo del profeta Geremia che appartiene all’AT e lo commenta non con un altro testo dell’AT, ma con due parabole messe in bocca a Gesù, dicendoci così che la parola di Gesù è sullo stesso piano dell’AT: è Parola di Dio.
Gesù ha parlato ai suoi uditori di pecore, di monete e di figli: ne abbiamo molti esempi nei vangeli; ma nella forma espressa da Lc, l’intero capitolo è una costruzione per tradurre in forma cristiana il capitolo 31 di Geremia che parla di un pastore, di una donna e di due figli.
Il contesto di Geremia è «la nuova alleanza» (Ger 31,31) che è la chiave di comprensione di tutta la vita di Gesù. Egli porta la novità di un Dio che trasforma la vendetta in perdono, l’esclusione in inclusione, l’emarginazione in elezione, il peccato in grazia, il rifiuto in accoglienza. La novità riguarda anche la religione: dagli atti estei di culto pubblico o privato si passa all’adesione del cuore, all’etica dell’intenzione, alla purezza del cuore, al perdono senza condizione.
In MC (Luglio/agosto 2006) scrivemmo: «Lc 15 è dunque un midràsh di Ger 31 o, se si vuole, una omelia che commenta il testo profetico. La comunità cristiana delle origini prima e Lc successivamente hanno riletto il capitolo 31 del profeta Geremia con gli occhi fissi su Gesù, tanto che l’evangelista nel redigere il capitolo, ha mantenuto lo stesso ordine dei personaggi come si trovano nel profeta: un pastore, una donna, un padre con un figlio. Per potersi rendere pienamente conto di quanto profondo e attualizzante sia il rapporto tra Lc 15 e Ger 31, è necessario leggere il testo del profeta Geremia e quello di Lc in sinossi, cioè in modo speculare»: nello stesso numero mettemmo a disposizione dei lettori i due testi a confronto per vedee somiglianze e differenze.
Noi cattolici siamo abituati a leggere il vangelo e il NT in genere con la nostra mentalità occidentale latina, senza alcun riferimento, se non in forme marginali, all’ambiente vitale dove questi scritti sono nati, sono stati pensati e sono stati messi su pergamena.
Il giudaismo, ambiente vitale del vangelo
A questo scopo, abbiamo insistito molto nel dire che corriamo il rischio di non capire il 90% del vangelo se ci limitiamo a leggerlo con le nostre categorie culturali e non ci sforziamo di situarlo nel suo ambiente vitale, culturale e religioso del suo tempo. Gesù è un ebreo, Maria è un’ebrea, Giuseppe è un ebreo della stirpe di Davide, gli apostoli sono ebrei osservanti, i primi cristiani sono ebrei figli di Abramo: non possono non pensare e non esprimersi da ebrei. Essi conoscono non solo la scrittura ebraica, che è Toràh, i Profeti e gli Scritti (corrispondenti ai nostri Sapienziali), essi conoscono anche e specialmente la «bibbia orale», che è tramandata solo oralmente attraverso la predicazione e la sinagoga con i Targum e i Midràsh.
Affinché non andasse perduta, la maggior parte della predicazione orale fu messa per iscritto durante la diaspora tra il sec. II e il sec. VI d.C., ottenendo così i testi che conosciamo con il nome di Mishnàh, Talmud, Tosèphta, Ghemarà, che riportano i commenti alla scrittura di tutti i saggi d’Israele dal sec. III a.C. al sec. VI d.C. È un materiale immenso, certamente tardivo, ma che contiene materiale anche antico da valutare di volta in volta. Noi cattolici non conosciamo quasi nulla di tutto questo e spesso ci scandalizziamo, perché consideriamo il NT un frutto del tutto avulso dal mondo che lo ha generato e partorito. Finché non si ritoerà alla bibbia come libro fondamentale della nostra fede, basato nel contesto giudaico, il nostro cristianesimo sarà molto superficiale e anche falsato.
Abbiamo presentato la parabola, cercando di evidenziae il vocabolario peculiare, mettendo in risalto il comportamento del padre che riflette il modo di essere di Dio nei nostri confronti. S’è scoperto che il figlio maggiore è rappresentativo del mondo farisaico, che rigetta Gesù per difendere il proprio potere, e che il figlio minore ha tutte le caratteristiche dei pubblicani. Come questi, anche il minore non è giustificabile, ma nella logica della parabola non è determinante che egli chieda perdono, come spesso si legge nei commenti e negli usi liturgici di questa parabola, perché il cuore della pagina non è il figlio minore o maggiore, ma è l’accoglienza del padre/Dio, che previene i figli al di là dei loro meriti.
In sostanza abbiamo visto che il significato ultimo della parabola è la tenerezza di Dio, che si commuove fino alle viscere se vede un figliolo che si sta perdendo in «un paese lontano»: egli allora spinto dal suo viscerale amore senza fondo e senza confini, perde se stesso pur di guadagnare il figlio/figli. Alla fine abbiamo scoperto con amarezza che riesce nel caso del figlio minore, ma fallisce nel caso del figlio maggiore.
Lettura scientifica e insegnamento spirituale
Abbiamo impegnato 15 puntate per commentare i singoli versetti della parabola lucana, mettendo in evidenza anche aspetti psicologici, oltre che esegetici, pastorali e spirituali: il nostro commento infatti non voleva essere solo un rendiconto asettico delle questioni letterarie o testuali, ma un momento di valutazione anche della nostra vita alla luce della parola di Dio, più profondamente compresa. Lo studio della bibbia più è scientifico più diventa spirituale, perché dandoci il senso genuino del testo scritto, ci permette di entrare nel messaggio autentico della rivelazione.
All’interno del commento abbiamo imparato il significato del vitello grasso, il cui sacrificio ristabilisce i termini dell’alleanza qui tra figlio e padre e in termini più generali l’alleanza che in Gesù si stipula tra l’umanità e Dio, fermo restando il mestiere per eccellenza di Dio che è la misericordia. «I sandali, la tunica e l’anello» ci hanno svelato il senso nascosto nella tradizione giudaica di reintegro nell’eredità materiale, nella dignità personale e nell’identità filiale; siamo così arrivati a scoprire il capovolgimento delle situazioni di partenza: il figlio che ha chiesto la vita del padre per poterla sperperare nella dissolutezza e nell’impurità (paese lontano) ora si ritrova immerso in quella stessa vita che lo ha salvato dall’inferno della dannazione (porci) e dalla presunzione di se stesso.
La conversione interessata
Troppa retorica si è fatto attorno al figlio prodigo e alla sua conversione, tanto che è diventato un classico, durante la quaresima, imbastire una liturgia penitenziale dove lo si prende a modello di conversione e di pentimento. Il figlio minore invece è motivato dalla «necessità di sopravvivere» e la sua conversione, se c’è, avviene dopo, nel silenzio della parabola, quando il padre lo fa entrare nella sala del banchetto con la veste nuziale che gli cambia l’aspetto e quello che più conta il cuore. Ancora una volta è il padre il peo di ogni movimento.
Abbiamo anche ridimensionato drasticamente il figlio maggiore, verso il quale si è di solito più indulgenti, perché apparentemente non ha mai dato dispiaceri al padre, restando sempre in casa. Il commento ha evidenziato la natura perversa di questo figlio, simbolo del fariseismo e dell’opportunismo, del comportamento cioè di chi trama nell’acqua senza mai esporsi. Egli ha goduto, almeno crediamo di averlo bene chiarito, della partenza del figlio e già faceva i calcoli della «sua roba» alla morte del padre che aspettava con ansia. La sua vita è rovinata dal padre che accoglie il fratello e, come è stato assente per tutta la sua vita dalla vita del padre, così alla fine egli resta fuori del banchetto e non può indossare l’abito delle nozze. Egli che è rimasto sempre in casa, di fatto era partito da un pezzo ed era rimasto lontano, molto più lontano del paese dove è andato a gozzovigliare il fratello; il minore invece, andato fisicamente via da casa, è tornato perché nel suo cuore, anche a sua insaputa, era rimasto legato al padre di cui aveva inconsciamente nostalgia.
Gli ultimi precedono i primi
Abbiamo pure visto concretizzarsi la «legge» biblica del ribaltamento delle posizioni codificato nel Magnificat di Maria e la «legge della sostituzione» che percorre la bibbia dalle origini alla fine: l’ultimo prende il posto del primo e il secondogenito subentra nell’asse ereditario al primogenito. Strano e illogico, secondo i parametri umani, il Dio che è delineato nella parabola del figlio prodigo!
Egli è un Dio senza dignità e senza rispetto per se stesso, perché, travolgendo ogni costume sedimentato e ogni razionalità, si «mette a correre» per venire incontro a chi non ha più speranza, a chi è morto e bandito dalla società e dalla religione. Egli è un Dio senza pudore che abbandona il tempio, le chiese, conventi e monasteri, dove i figli sono al sicuro e corre per le strade del mondo a cercare la pecora smarrita, la moneta perduta e il figlio traviato. A buon diritto il lettore può dire: egli viene per me.
Un’attuazione pratica della parabola si ha nell’eucaristia, che è il commento sacramentale, o «midràsh sacramentale», della parabola della tenerezza del Padre che trasforma la vita del Figlio unigenito in parola, pane e vino perché i figli dispersi e smarriti possano rifocillarsi nell’ascolto, nel cuore e nel corpo per ritrovare il Volto di Dio, che in Gesù si manifesta e rivela a noi come Padre/Madre.
È questo il senso ultimo della parabola della pateità sconfinata che sa rigenerare, perché ama senza scopo e senza interesse. Se dovessimo sintetizzare il capitolo 15 di Lc in una parola, non avremmo dubbi perché c’è una sola parola, come ci suggerisce Paolo in 1Cor 13, e questa parola è «Agàpēē», il nome nuovo del Dio di Gesù Cristo: «Dio è Agàpēē» (Gv 1Gv 4,8) che tradotto alla lettera si può rendere con «Dio è Amore a perdere».
Paolo Farinella